Il 9 dicembre 2013 si è tenuto, presso il Campus Universitario Luigi Einaudi di Torino, un incontro di studi organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, sul tema “Il dolo del giudice, l’impugnazione della decisione corrotta ed il risarcimento del danno. Analisi della sentenza della Corte di Cassazione n. 21255/2013 sul caso Fininvest vs Cir”.
Il convegno è stato introdotto dalla relazione di Alberto Ronco, il quale, dopo aver riepilogato le tappe più significative della vicenda, ha offerto alcuni spunti di riflessione. Il caso è noto: circa venticinque anni fa venne siglato un accordo tra la famiglia Formenton e la società Cir per la spartizione del Gruppo Mondadori, accordo secondo il quale l’uno si impegnava a trasferire una parte delle azioni Amef direttamente all’altra. In violazione del patto, però, la famiglia Formenton cedette le predette azioni alla Fininvest S.p.A. Cir decise dunque di avviare il procedimento arbitrale, così come previsto dal contratto, chiedendo sia il riconoscimento dell’esistenza dell’obbligazione della famiglia Formenton che una pronuncia costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c., onde ottenere il trasferimento coattivo delle azioni. Parallelamente, le parti iniziarono a condurre una serie di trattative transattive, al termine delle quali – e poco prima della pronuncia del lodo – Fininvest riconobbe di essere tenuta a versare a Cir 400 miliardi di lire.
Il 20 giugno 1990 il collegio arbitrale – composto da Rescigno, Irti e Pratis – riconobbe le ragioni della Cir, riconoscendo l’obbligazione assunta dalla famiglia Formenton. Poiché però non si era ancora consumato il termine per adempiere, non adottò la pronuncia costitutiva richiesta.
La Fininvest S.p.A. decise di impugnare il lodo, deducendone la nullità. Contemporaneamente, ebbe inizio anche la vicenda corruttiva, all’esito della quale il giudice relatore della Corte d’Appello di Roma, V. Metta, ottenne fondi neri. Ed infatti nel gennaio del 1991la Corte d’Appello annullò il lodo per contrarietà all’ordine pubblico, dichiarando nullo l’accordo del 1988. Tale sentenza fu immediatamente impugnata da Cir, attraverso il ricorso in Cassazione. Contemporaneamente però, e sulla base della sentenza della Corte d’Appello, le parti, il 19 aprile 1991, raggiunsero un’altra transazione, ovviamente di contenuto opposto rispetto alla precedente: Cir infatti, ignara del fatto che la sentenza d’appello era frutto di un accordo corruttivo, si impegnò a versare a Fininvest una somma pari a 365 miliardi di lire.
Alcuni anni dopo, nel dicembre del 1999, le indagini dei PM di Milano che si erano concentrate su questo episodio corruttivo terminarono con la richiesta di rinvio a giudizio di diversi indagati, tra i quali Previti, Berlusconi e Metta, con l’imputazione di corruzione in atti giudiziari. Come è noto, saranno tutti condannati per tale reato, con l’eccezione di Berlusconi, il quale, grazie alla derubricazione in corruzione semplice ed al riconoscimento delle attenuanti generiche, sarà prosciolto per intervenuta prescrizione.
Venuta a conoscenza delle reali motivazioni che indussero Metta ad annullare il lodo, Cir decise di adire il Tribunale di Milano per ottenere il risarcimento dei danni, sulla base della considerazione secondo cui l’annullamento del lodo, frutto di corruzione, aveva pregiudicato la propria posizione negoziale nelle trattative per la transazione. Opzione accolta dai giudici di primo grado, che condannarono Fininvest a versare a Cir 750 milioni di euro; decisione confermata in punto di diritto dalla Corte d’Appello, che però ridusse l’entità del risarcimento a 540 milioni di euro. La sentenza fu impugnata da Fininvest, con ricorso del 3 novembre 2011, in Cassazione, la quale ha confermato, con sentenza depositata il 17 settembre 2013, la decisione di secondo grado, riducendo però ulteriormente il quantum del risarcimento, che risulta definitivamente stabilito in 494 milioni di euro.
Dopo aver delineato le tappe salienti della vicenda, Alberto Ronco ha tratteggiato alcuni temi processualcivilistici involti nel caso in esame. Innanzitutto egli ha sottolineato che, quando la sentenza è frutto del dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato, l’ordinamento prevede espressamente un’impugnazione ad hoc, ossia la revocazione; ebbene, nel caso in esame questo rimedio non è mai stato attivato dalla Cir, la quale, invece che chiedere l’annullamento la sentenza viziata della Corte d’Appello di Roma, ha deciso di intentare direttamente l’azione risarcitoria. Con la conseguenza che quella sentenza, certamente frutto di dolo, costituisce un giudicato. Considerato che l’art. 2043 c.c. richiede necessariamente l’ingiustizia, è possibile affermare che una sentenza che non è mai stata impugnata e che è cosa giudicata sia ingiusta? Il problema è in realtà in parte superato dal fatto che, in questo caso, dopo la sentenza ci fu una transazione, con la quale le parti hanno dato alla controversia una nuova definizione.
Il secondo nodo problematico affrontato da Ronco è in parte collegato al primo: nel momento in cui l’ordinamento prevede uno strumento giuridico il cui utilizzo può portare ad eliminare radicalmente un atto viziato, è ammissibile chiedere il risarcimento del danno senza sperimentare la via che, annullando l’atto, elimina alla radice ogni danno? Si tratta di un problema che involge il rapporto tra rimedio demolitorio e rimedio risarcitorio e l’effettività della tutela giudiziaria.
Ronco ha concluso sottolineando come, nonostante alcuni passi della sentenza della Corte siano criticabili, essa sia nel complesso una decisione apprezzabile, che pone al centro del proprio ragionamento il principio di effettività della tutela: nel momento in cui la revocazione avrebbe potuto portare al più al rescindente e non al rescissorio, si è preferito ammettere la possibilità di chiedere direttamente ciò per cui si aveva interesse ad agire, ossia il risarcimento del danno.
Sergio Chiarloni, prima di passare la parola alla seconda relatrice, ha fornito alcuni spunti di riflessione. Da un lato ha chiarito che l’azione di revocazione, dal suo punto di vita, sarebbe stata inammissibile, considerato che la sentenza era stata “superata” dalla transazione (la quale si sarebbe invece dovuta impugnare). Dall’altro lato ha posto l’interessante questione della cd. “prova di resistenza”: preso atto del dolo del giudice Metta, quale sarebbe la conseguenza della prova della correttezza degli altri due componenti del collegio? In altri termini, se si dimostrasse che questi hanno agito e deciso secondo coscienza, quella decisione può dirsi giusta? Ad opinione del professore la soluzione è negativa, non operando appunto il principio della resistenza.
A questo punto ha preso la parola l’ospite della giornata, Ilaria Pagni, il cui intervento ha preso le mosse dal ragionamento della Corte di Cassazione sul valore della transazione. Infatti, se essa si dovesse considerare come un fatto estintivo, tesi abbracciata da Cir, si potrebbe dire che è viziata e che dunque rivive la sentenza posta alla base della transazione stessa; al contrario, la Suprema Corte qualifica la transazione come fatto preclusivo, con la conseguenza che la sentenza non esiste più.
Sulla necessità di impugnare o meno la transazione si scontrano due tesi: la prima ritiene che sia necessario perché essa è frutto sia di un errore di diritto che di dolo (in questo caso non della parte ma del giudice); la seconda no, giustificando tale scelta attraverso l’adesione alla teoria dei vizi incompleti del contratto, secondo la quale l’azione risarcitoria è esperibile indipendentemente dall’impugnazione del contratto viziato.
In generale comunque, la Pagni ha sottolineato come la sentenza, pur non priva di ombre, sia in generale condivisibile, soprattutto nella parte in cui afferma il principio di effettività della tutela: la Corte infatti ritiene che dall’art. 24 della Costituzione, secondo un’interpretazione comunitariamente orientata, derivi il diritto ad un rimedio adeguato ed effettivo. Pertanto, data la presenza di due rimedi, la revoca della sentenza o l’impugnazione della transazione da un lato e la richiesta di risarcimento del danno dall’altro, il cittadino ha diritto di scegliere quello che meglio possa tutelare la propria posizione giuridica. La Cir ha così correttamente individuato la propria situazione soggettiva in un “indebolimento della posizione nelle trattative” e lamentato la presenza, da parte di Fininvest, di un dolo contra bonas mores, in quanto essa è stata posta in una condizione diversa e peggiore da quella in cui si sarebbe trovata se fosse stata scevra dal condizionamento della “sentenza Metta”. In questo modo la suprema Corte, aderendo alla teoria dei vizi incompleti del contratto innanzi richiamata, ha definitivamente affermato la non interferenza tra le regole del comportamento e quelle della validità: un contratto invalido, anche se non impugnato, può rilevare come comportamento illecito.
Nella seconda parte dell’incontro, è stato affrontato un tema altrettanto importante, ossia quello dell’efficacia causale della corruzione di un giudice di un collegio. Sul punto la Corte di Cassazione ha ragionato per presunzioni: in primis ha postulato che, se un giudice è corrotto, è plausibile che egli renda una sentenza diversa da quella che avrebbe reso in assenza dell’atto corruttivo; inoltre aggiunge che è presumibile che la corruzione di un membro del collegio – soprattutto se del relatore – influisca sulla decisione presa dagli altri due. A tal riguardo i relatori del convegno sono stati critici, sulla base delle seguenti considerazioni: da un lato è stato sottolineato come considerare gli altri due membri meri “convitati di pietra” avrebbe gettato non poche ombre sul principio della collegialità (Alberto Ronco e Sergio Chiarloni); dall’altro è stato giustamente evidenziato che la corruzione di un giudice inquina l’intero collegio non perché gli altri membri non agiscano secondo il libero arbitrio, ma perché l’imparzialità deve essere garantita con riferimento all’intero collegio, e non alla sua maggioranza, così che la corruzione di anche solo un membro lede il diritto costituzionale di essere giudicati da un giudice imparziale (Bruno Cavallone). Quest’ultima affermazione parrebbe confermata dal fatto che l’art. 395, n. 6, c.p.p. non aveva un analogo corrispondente nel codice di procedura penale del 1865, ma fu introdotto su indicazione del modello tedesco di codice di procedura penale, in cui si dispone espressamente che “quando un giudice è corrotto la sentenza può essere revocata”, essendo del tutto irrilevante se il giudice siamonocratico o collegiale.
A conclusione di questo breve resoconto dell’interessante convegno di studi, si può evidenziare come la giurisprudenza di legittimità abbia ormai adottato un’interpretazione così ampia dell’art. 2043 c.c. da avvicinarla alla categoria romanistica del quasi-delitto, con il conseguente riconoscimento di obbligazioni risarcitorie nascenti da atti illeciti non dolosi e con l’affermazione della più ampia tutela risarcitoria possibile.