Ci ha lasciato Sandro Margara.
Un maestro non lo racchiudi certo in poche righe di commiato, soprattutto se, quando vai a scriverle, ti accorgi di quanto bisogno ci sarebbe ancora di lui, del suo coraggio, della sua immaginazione. Per ricordarlo, dunque, ci affidiamo direttamente alle sue parole e alle sue riflessioni, condensate nel brano che qui sotto pubblichiamo.
Per molto tempo in Italia, a tutte le latitudini giudiziarie e in tutte le galere, dire “magistrato di sorveglianza” significava scandire il nome di Sandro Margara. Quel lavoro lo aveva plasmato lui, con la sua cultura, la sua passione umana e politica, la sua vicinanza istintiva agli uomini “caduti”, fossero condannati o internati. Lo aveva creato dal nulla, prima ancora che l’Ordinamento penitenziario venisse alla luce, iniziando a dare dignità alle funzioni previste dall’art. 144 del codice penale: “vigilanza sull’esecuzione delle pene”.
Di strada se ne doveva fare ancora molta per arrivare alla figura del magistrato di sorveglianza come la conosciamo oggi; ma quel percorso, certo insieme ad altri, è stato aperto e reso percorribile soprattutto da Sandro Margara. I suoi contributi e il suo modo di pensare e agire sono confluiti nell’Ordinamento penitenziario e poi nella legge Gozzini, di cui tra pochi mesi ricorrere il trentennale.
Da magistrato di sorveglianza, Presidente di Tribunale di sorveglianza, direttore generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e poi Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, Margara ha sempre avuto un pensiero fisso e un impegno costante: “rompere la logica del carcere che c’era” e “portare in primo piano il rapporto con chi era detenuto, interessarsi di lui, farsene carico”. Insomma, fare del magistrato di sorveglianza il “difensore” del condannato nei rapporti diseguali che egli vive con il potere.
Margara ha lavorato per realizzare e dare spessore a una funzione e ha letteralmente speso le energie di una vita per dimostrare che la toga del magistrato di sorveglianza è una toga capace di difendere la legge e, allo stesso tempo, di avvolgere l’uomo e il suo nucleo irrinunciabile di dignità.
Ci sarà tempo per ripercorrere la biografia dell’uomo e del magistrato, dare conto dei suoi contributi scientifici, parlare del rapporto di collaborazione e di affetto che lo legava a questa Rivista e, prima ancora, a Quale giustizia.
Ora, piuttosto, è il momento di soffermarsi su alcuni episodi che meglio possono contribuire a restituire un ricordo vivo.
Scegliamo tre fermoimmagine e iniziamo dal primo: il magistrato dentro il suo ufficio. Non ci si aspetti lo studioso dietro le carte e i codici (c’era anche quello, certo), le aule silenziose, il chierico nella torre eburnea. Dentro il suo ufficio, al contrario, entrava l’umanità viva e macchiata del mondo dell’esecuzione penale. Corridoi pieni di affidati, riunioni con i semiliberi, aule impegnate dai colloqui con i convocati. Contatto con la carne della pena, in ufficio come in carcere: questo era l’unico modo per concepire e svolgere il lavoro di magistrato di sorveglianza.
Il tempo passato in carcere è sicuramente l’altra dimensione appropriata per pensare a Sandro Margara. Lui stesso scriveva di una Memoria di trent’anni di galera, e dopo quell’articolo ne avrebbe fatti molti altri ancora. Ricordava spesso, a proposito del lavoro svolto in carcere, di un giornalino pubblicato nei primi anni Settanta negli istituti di Firenze, che lui e molti altri intellettuali fiorentini (da Balducci a Gozzini, da Michelucci a La Pira) avevano contribuito a far nascere. Significativo, di quel giornale, anche il titolo: Noi, gli altri. C’è tutto in quel titolo: il muro che separa e i ponti che uniscono; il carcere da superare, che tiene lontani “gli altri”, e il carcere da auspicare, che riconosce un “noi” dietro le sbarre.
Ultimo flash, ma non meno importante. Lasciato l’incarico di Direttore generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – sarebbe meglio dire costretto a lasciare, per distanze incolmabili con la politica – , Sandro Margara torna a Firenze e torna a fare quello che definiva il lavoro più bello: il “semplice” magistrato di sorveglianza nel Tribunale di cui era stato Presidente.
Si potrebbe chiudere qui: per dare a tutta la magistratura, non solo a quella di sorveglianza, l’idea di un futuro dal quale ripartire.
RIVISTA TRIMESTRALE N.2/2015
Quale giustizia? Repetita non iuvant: Ancora sulla pena e sul carcere
(di Sandro Margara)