1. I compiti funzionali astratti in contesto soggettivo plurale
Nel clima di devastazione e disorientamento che, anche un po’ maliziosamente, si sta riversando sulla magistratura, parrebbe davvero necessaria una riflessione laica e franca. Un vero spirito di autogoverno reclama la capacità che la magistratura sappia trovare momenti di autoanalisi critica.
Quando ci si interroghi, ad esempio, sul ruolo del pubblico ministero nell’ordinamento non è più sufficiente soffermarsi sulle sue prerogative e sui suoi doveri indicati nel codice di rito, perché affianco a una loro rappresentazione astratta si pone, in termini concretamente ben più rilevanti, la loro declinazione materiale.
Nelle norme (che pure si conformano ai principi espressi nella Costituzione) sono tracciati i compiti e le funzioni demandati al pubblico ministero, delineandosene le finalità dell’azione, che, semplificando, si risolvono in un pre-giudicare, non nel senso di seguire una tesi preconcetta, ma nel senso di “giudicare prima” con la medesima terzietà del giudice e dunque nel senso di compiere un necessario scrupoloso accertamento storico dei fatti.
Solo qualora tale accertamento porti a ritenere come altamente probabile l’attribuzione del fatto a un certo soggetto, nei confronti di quest’ultimo si formulerà un’imputazione, che sarà sottoposta alla verifica del giudice nel contraddittorio pieno delle parti.
Tale semplice osservazione serve, intanto, a introdurre un aspetto, molto spesso trascurato sulla effettiva complessa fisionomia della giustizia, che troppo semplicisticamente si riduce a una configurazione simbolica dei soggetti istituzionali, come il pubblico ministero e il giudice (talvolta limitando i riferimenti all’uno o all’altro); nella realtà processuale, invece, i protagonisti attivi sono molteplici.
Si dovrebbe parlare non di pubblico ministero e di giudice, ma di pubblici ministeri e di giudici, giacché plurale è la loro presenza sul terreno del processo, caratterizzato da fasi e gradi, in cui la funzione giudiziaria si scompone in diverse tipologie e professionalità.
I difensori costituiscono il fondamentale contraltare della dialettica processuale, consentendo la piena espressione del principio cardine attraverso il quale si svolge la formazione del giudizio, ossia il contraddittorio. Vi sono, poi, i dichiaranti, che a loro volta si distinguono in varie tipologie (testimoni, testimoni assistiti, indagati, indagati di reati connessi, imputati, testimoni c.d. esperti –tra i quali i curatori fallimentari-, testimoni persone offese, consulenti - del pubblico ministero, dell’imputato, della persona offesa - periti).
La personificazione simbolica della giustizia con la sua identificazione nel pubblico ministero o nel giudice risulta, perciò, assai approssimativa.
La molteplicità dei soggetti che appaiono sulla scena del processo consente anche di sdrammatizzare la funzione che ciascuno è chiamato a svolgere; ciascuno è un attore in un’opera ben più ampia.
Il risultato cui si perviene sarà, perciò, più o meno attendibile a seconda di come ciascun protagonista riesca a interpretare il proprio ruolo.
Le finalità che la legge attribuisce al giudice e quelle che la legge attribuisce al pubblico ministero sono peraltro in una certa misura sovrapponibili.
E’ lo stesso diritto positivo che fa divieto all’uno e all’altro di istanze preconcette; il che, se può sembrare ovvio per il giudice, lo deve essere anche per il pubblico ministero, il cui dovere non è di sostenere in giudizio una sua tesi personale, sganciata da seri elementi suscettibili di comporre un plausibile ragionamento probatorio, ma è, principalmente, di verificare il fatto che gli viene rappresentato, compiendo, nella più assoluta onestà intellettuale una serie di operazioni, che successivamente saranno necessariamente ripetute, attraverso una loro verifica, da parte del giudice:
- La qualificazione giuridica del fatto;
- L’accertamento delle responsabilità, ossia la difficile operazione di attribuzione di quel fatto a una determinata persona.
Nel nostro codice di rito la descrizione delle modalità operative attraverso le quali il pubblico ministero debba attendere a tali operazioni è contenuta in tre norme fondamentali:
- L’art. 326 del c.p.p., secondo il quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale;
- L’art. 347 c.p.p., secondo il quale acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria, senza ritardo, riferisce al pubblico ministero, per iscritto, gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora raccolti.
- L’art. 358 c.p. costituisce l’ubi consistam, l’autentico nucleo ontologico della codificazione delle funzioni del pubblico ministero: questi, infatti, compie ogni attività necessaria alle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini.
2. La declinazione materiale dei compiti funzionali
Rispetto alla versione formale dei principi espressi nella Costituzione e nei codici di rito si afferma, nella pratica quotidiana, una loro declinazione materiale, che, non sempre coerente alla prima, trova in questa costanti giustificazioni e protezioni generatrici di assiomi tautologici: il pm è, perciò, assolutamente indipendente e imparziale nello svolgimento dei suoi compiti perché tale è descritto dal suo statuto giuridico. Si trascura di considerare, tuttavia, il rischio che tale possa non essere nel suo concreto ed effettivo operare, pur agendo su di un piano assolutamente d’irrilevanza disciplinare e di osservanza della norma processuale.
Il primo ineluttabile dovere astratto che incombe sul pubblico ministero è nella lettura critica di denunce e comunicazioni di notizie di reato. E’ proprio in tale segmento iniziale del suo agire, in cui si colloca l’incipit dell’impegno investigativo, a doversi esprimere la laicità della sua posizione. Inutile è il richiamo alle norme che ne reclamano giustappunto il dovere scolpito nell’art. 358 c.p.p. di raccolta di elementi anche a favore della persona sottoposta alle indagini, giacché occorrerebbe riflettere in concreto in quale misura tale impegno sia possibile e, quando possibile, in quale misura risulti, con la dovuta lealtà alla funzione, effettivamente rispettato.
L’osservazione della realtà quotidiana consente di rilevare un’ampia casistica in cui la denuncia o la comunicazione di reato spesso si trasformano, invece, da ipotesi suscettibili di verifica in tesi da sostenere in funzione delle quali si ricercano le fonti di prova con un’inconsapevole trascuratezza di tutto quanto possa mostrare l’incontrario, come sovente accade nel mondo della giustizia, per sua natura caratterizzata da sfumature e distinguo, letture contrapposte, ambiguità di fonti.
In una certa misura può ritenersi difficile per chi indaghi andare oltre l’evidenza dell’ipotesi d’accusa, sia essa formulata in una denuncia di un privato o in una comunicazione di reato di polizia giudiziaria; il modello di approccio all’indagine, tuttavia, pur consustanziale alla funzione nella sua dimensione astratta, risulta di complicata applicazione nell’operatività effettiva.
L’estrema difficoltà di orientare l’atteggiamento investigativo reale secondo il contenuto della norma giuridica di rito non può, peraltro, costituire l’alibi della deviazione del comportamento dalla regola; deve, piuttosto, sollecitare un’approfondita riflessione, perché proprio in quella difficoltà può nascondersi la crisi di una modalità procedimentale che finisce con il concretizzare l’eterogenesi del fine garantista del modello processuale.
3. Gli effetti collaterali
E’, dunque, la declinazione materiale delle regole fondanti l’operato del pubblico ministero che rischia di determinare, il più delle volte e al di là di una diretta intenzione della persona fisica che si trova a interpretare il ruolo dell’”inquirente”, un potere generatore di squilibri non solo processuali, ma anche istituzionali ogni qual volta l’indagine sia orientata sulla pubblica amministrazione o involga ambiti politici, qualificati settori professionali e imprenditoriali. E’ sufficiente osservare quanto avviene nelle procure della Repubblica, per rendersi conto che la disfunzionalità non è certo nell’avvio delle indagini penali contro Tizio o Caio, politici o funzionari della pubblica amministrazione o imprenditori di grande notorietà. La criticità, ossia la reazione sociale, in qualche misura disturbata, dalla notitia criminis e dal suo doveroso accertamento, è in ciò che segue all’avvio delle indagini, alla sua interrelazione sia con la grave potenzialità intrusiva di alcuni strumenti investigativi sia, e soprattutto, con l’inevitabile formazione di un tempo sospeso. Proprio in quest’ultimo si collocano tutte quelle operazioni interlocutorie endoprocedimentali (ancor prima, cioè, di una definitiva iniziativa accusatoria vera e propria), espressioni ineluttabili del dovere di accertare i fatti, dovere incombente, come vero e proprio obbligo giuridico, sul titolare dell’esercizio dell’azione penale.
Ne deriva che il pubblico ministero finisce con l’apparire come il soggetto che, mentre accerta le responsabilità, ormai di fatto “condanna”, perché il poi della cognizione giurisdizionale finisce per assumere importanza minore nel rapporto temporale estremamente dilatato tra invasività dell’iniziativa investigativa e suo definitivo esito.
La difformità valutativa tra esercizio dell’azione e sua verifica finale in esito a pieno giudizio è ovviamente dipendente da molte variabili. E’, tuttavia, uno specifico fattore che merita attenzione: ossia la costante del giudicare (da parte del pm) prima, in assenza di contraddittorio e di effettiva capacità di lettura critica della denuncia. E’ proprio tale fattore a contribuire, come concausa preminente, alla difformità valutativa non solo tra azione penale e sua verifica in esito a giudizio, ma anche tra giudizi diversi che talvolta si contrappongono nei vari gradi processuali.
L’andamento altalenante dei giudizi pone in principalità il tema della qualità dell’accusa in termini oggettivi, a prescindere dalle differenti sfumature e distinguo che di quegli esiti incerti possono fornire una qualche giustificazione. Ciò che infatti colpisce la collettività, destinataria dei messaggi di prevenzione generale, è il rapporto tra quella precondanna inflitta di fatto in sede di indagini e l’opposto risultato in esito al giudizio.
E’ possibile che, almeno in qualche caso, tali effetti derivino dalla scelta di una indagine svolta in termini parziali e non perfettamente in linea con quanto prescrive l’art. 358 c.p.p.?
Il contenimento di tali effetti potrebbero ottenersi con una maggiore propensione alle ragioni dell’indagato nel corso dell’attività investigativa e con una più decisa apertura, magari con tempistiche anticipate, verso occasioni di contraddittorio?
La situazione è, all’evidenza, destinata a complicarsi quando il terreno d’indagini coinvolga altre istituzioni, la pubblica amministrazione, figure professionali apicali, protagonisti della politica attiva, giacché le disarmonie sopra rilevate inevitabilmente arrecano forti scossoni all’equilibrio tra i poteri dello Stato, alla tranquillità di enti pubblici, talvolta paralizzati nell’esercizio della loro discrezionalità.
Su questi, peraltro, agisce in misura determinante anche un tipo di informazione ideologicamente orientata, che parteggia per l’accusa oppure prende le difese dell’indagato. Quando l’indagine riguarda un politico, la stessa diventa occasione di facili strumentalizzazioni. Non è raro, poi, che a distanza di molto tempo dai fatti, quando ormai la reputazione dell’incolpato è stata messa a dura prova, un esito assolutorio non è quasi mai in grado di restituire carriere distrutte o equilibri politici irrimediabilmente pregiudicati.
Si tratta di effetti, peraltro, che, pure innescati dall’indagine, potrebbero diversamente trovare soluzioni meno estreme, qualora, per un verso, i corpi di appartenenza dei soggetti indagati sapessero conformarsi a regole deontologiche di reciproca correttezza e, per altro verso, l’informazione operasse in effettivo rispetto della continenza piuttosto che trasformarsi in giudice popolare anzitempo, infliggendo, in ordalia giustizialista, condanne verso l’uno o l’altro dei protagonisti.
4. Impegno investigativo e metodo organizzativo
Se, perciò, si volessero considerare tali aspetti problematici, meriterebbe verificare il tasso di sensibilità culturale dei pubblici ministeri verso la propria funzione.
Una comprensione approfondita di questa, infatti, è presidio preventivo ben più efficace sia delle minacce di sanzioni disciplinari e risarcitorie sia della separazione delle carriere. Le une e l’altra non agirebbero sul contenuto dell’art. 358 c.p.p. e non ne esalterebbero il significato più autenticamente garantista; le prime potrebbero, al più, rendere più timorosi i pubblici ministeri, portandoli a scelte rinunciatarie piuttosto che di doveroso accertamento dei fatti portati alla loro attenzione. La seconda (la separazione delle carriere) rischierebbe probabilmente di esaltare una lettura parziale della norma indicata, aggravando semmai gli effetti negativi del fenomeno rilevato, al quale, peraltro, l’ipotesi di separazione sembrerebbe più coerente. La constatazione della sussistenza del profilo disfunzionale segnalato rischia, d’altra parte, di confermare, quale probabile effetto di riforme parzialmente impeditive del passaggio di funzioni, il sopravvento di una separatezza che di fatto si è venuta a creare tra la cultura di tipo inquirente e quella di tipo giurisdizionale. Il più facile interscambio tra le funzioni di pubblico ministero e di giudice, consentito in passato, agevolava, invece, in una certa misura la formazione professionale in senso più garantista del pubblico ministero che provenisse da esperienze giudicanti.
Non è, di certo, facile proporre soluzioni efficaci. De iure condendo si potrebbe pensare a un rafforzamento del potere di verifica demandato al giudice dell’udienza preliminare e in fase a questa anticipata si potrebbe incentivare la richiesta di archiviazione ogni qual volta l’acquisizione delle fonti in sede d’indagini porti a risultati ambigui, difficilmente dipanabili in sede di verifica dibattimentale, dunque oltre quanto prescritto dall’art. 125 delle disp. att. c.p.p. sull’inidoneità degli elementi acquisiti in indagini a sostenere l’accusa in giudizio.
Al di là dei diversi esperimenti di riforma normativa, un tentativo per un’acquisizione di consapevolezza del problema potrebbe, peraltro, essere avviato all’interno degli stessi uffici di Procura e nelle riunioni generali tra i magistrati che, nella pratica quotidiana risultano, invece, di rara applicazione.
Le riunioni tra soggetti consapevoli del proprio ruolo potrebbero alimentare confronti e verifiche anche in senso autocritico del proprio operato, con una costante rielaborazione del concetto stesso di obbligatorietà dell’azione penale.
Ormai in tutte le fonti secondarie di autogoverno (e in tale direzione sembrerebbe esprimersi proprio l’ultimo aggiornamento della Circolare sull’organizzazione delle Procure della Repubblica) viene dato particolare risalto a tre aspetti particolari suscettibili di qualificare il documento organizzativo:
- L’analisi delle caratteristiche criminali presenti sul territorio d’interesse;
- L’adeguatezza dell’organizzazione interna a farvi fronte, anche con una più specifica indicazione delle priorità da rispettare;
- La continuità della partecipazione del pubblico ministero titolare delle indagini anche alle ulteriori fasi di giudizio.
Si tratta di profili sui quali vi è un implicito richiamo al senso di responsabilità, che di tutti gli aspetti considerati costituisce presupposto e denominatore comune.
Il Procuratore deve assumersi il compito e la responsabilità di un’operazione ricognitiva delle forme criminali più gravemente disturbanti la collettività sulla quale ha il governo delle indagini penali. Si tratta di un approfondimento complesso, per il cui svolgimento è necessario fare riferimento a fonti di conoscenza diverse. L’analisi dei flussi delle sopravvenienze nel corso degli anni, ossia dei numeri di procedimenti aperti sulla base delle segnalazioni di determinati tipi di reato non sempre fotografano in maniera attendibile le esigenze effettive presenti sul territorio.
Vi sono, infatti, i dati relativi ai c.d. crimini sommersi, che pur destando un grave allarme sociale, di solito non vengono denunciati (emblematico in tal senso, ad esempio, il reato dell’usura).
Né si possono trascurare le situazioni che nella società si verificano per particolari contingenze storiche, a loro volta possibili fattori criminogeni: si pensi alla crisi epidemica con la grave crisi economica indotta e all’allarme su determinate manifestazioni criminose quali conseguenti ulteriori effetti.
Un progetto organizzativo che si voglia interpretare in chiave moderna non sembra potere sfuggire da tale genere di valutazioni, che coinvolgano anche un’interlocuzione leale con enti e forze dell’ordine, in una ricerca onesta delle più gravi manifestazioni criminose da attenzionare con soluzioni indipendenti da condizionamenti di carattere statistico. Potrebbe derivarne pure la formulazione di precise indicazioni di orientamento per la stessa modalità di redazione delle comunicazioni di reato in cui si rappresentino non solo tutti gli elementi utili a costituire l’ipotesi criminosa suscettibile di segnalazione, ma anche quegli elementi che possano indirizzare verso esiti favorevoli all’indagato. Tale prospettiva richiede di combinare un approfondimento giuridico con le scelte di orientamento investigativo, funzionali a comprendere il reato in tutte le sue possibili sfaccettature.
Le verifiche in tale direzione non possono neppure prescindere da un confronto tra tutti i pubblici ministeri dell’ufficio, per uno scambio sulle esperienze investigative maturate nel corso della vigenza dell’ultimo documento organizzativo.
Solo sulla base di tale genere di analisi si può ottenere un’ottimizzazione di gestione, orientando il fascio di luce dell’attività investigativa su determinate aree criminali piuttosto che verso altre, razionalizzando le risorse disponibili non sempre in un numero adeguato.
E’ ancora il senso di responsabilità dietro la regola che vorrebbe garantire la partecipazione al giudizio del medesimo pubblico ministero titolare delle indagini. Si tratta di una regola che non va letta solo come un fattore di organizzazione, ma, soprattutto, come un richiamo a un impegno del pubblico ministero a porsi nella prospettiva di doversi misurare con il suo interlocutore al quale dovrà dare contezza delle sue scelte accusatorie; tale richiamo dovrebbe costituire un motivo di impegno nelle indagini e di maggiore considerazione anche verso gli elementi che militano a favore del soggetto indagato.
Il senso di responsabilità è implicito nel dovere di resoconto che, pur non espressamente prescritto nelle norme di legge e nelle norme consiliari, costituisce un fondamentale elemento dal quale un buon documento organizzativo non può prescindere.
Il dovere di resoconto (la c.d. accountability) è parte determinante di un’analisi autocritica (o più semplicemente di analisi) di quanto avvenuto negli anni precedenti, di quali risultati l’esercizio dell’azione penale in un determinato contesto territoriale ha prodotto, non solo sul piano delle condanne o delle assoluzioni, ma anche sulla comunità, sui rapporti tra le istituzioni, sull’economia, sulla pubblica amministrazione.
Il dovere di resoconto sollecita i protagonisti a interrogarsi sulle modalità della loro azione, sulla ponderata attenzione ai parametri attraverso i quali l’art. 358 del codice di rito indica come modello del buon pubblico ministero.
Anche per le strade di consapevole partecipazione al proprio ufficio, dell’adesione autocritica alle proprie funzioni, del costruttivo contributo alla formazione del documento organizzativo può svilupparsi l’auspicata formazione della sensibilità del pubblico ministero ai requisiti fondanti della sua funzione, avvicinando la sua declinazione materiale alle regole formali e ai principi astratti.