La pubblicazione da parte del Consiglio superiore della magistratura del volume Razza e inGiustizia ha rappresentato una preziosa occasione per approfondire la conoscenza di un momento storico che ha inciso così profondamente sulla storia di tante famiglie italiane e, in generale, sulla storia del nostro Paese, determinando lo stesso assetto costituzionale che lo Stato italiano avrebbe assunto.
È stata anche un’occasione per avere accesso a testi e documenti storici e conoscere così la biografia di alcuni magistrati, ebrei e antifascisti, scoprendo che la dittatura ha privato l’Italia e la magistratura di colleghi dotati di un ingegno e di qualità umane e professionali davvero straordinari.
È stata, inevitabilmente, l’occasione per guardare a quel tragico momento storico dall’angolo prospettico della magistratura.
Tutti noi qui presenti oggi siamo diventati magistrati, avvocati, professori universitari in uno Stato libero e democratico, potendo dare per scontate le libertà fondamentali (prima fra tutte, la libertà di espressione) e quei principi sottostanti alle disposizioni che la Costituzione ha dedicato all’ordine giudiziario: l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere (art. 104 Cost.), il divieto di istituzione di giudici straordinari o speciali (art. 102, comma 2, Cost.), l’inamovibilità dei magistrati (art. 107, comma 1, Cost.), la distinzione fra i magistrati solo per le funzioni che svolgono (art. 107, comma 3, Cost.), per citarne alcune.
Si tratta di disposizioni contenenti principi fortemente voluti dal Costituente, in risposta alle iniziative legislative che il regime fascista aveva assunto nei confronti della magistratura.
Ecco che, nonostante siano trascorsi molti decenni da allora, un filo stretto ci lega a quel passato, che ha costituito il terreno su cui è avvenuta l’edificazione dello Stato di diritto che oggi conosciamo. Il fascismo e la vergogna delle leggi antiebraiche hanno rappresentato il parametro negativo dal quale il Costituente è partito per costruire uno Stato che fosse espressione di valori opposti a quelli che fondarono il regime.
Dallo stesso passato derivano, pertanto, tutti i principi contenuti nella prima parte della nostra Costituzione: il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, il principio di uguaglianza e di non discriminazione, l’uguaglianza di tutte le confessioni religiose.
Lo studio della magistratura durante il regime fascista, inoltre, apre una finestra su questioni di carattere generale e suscita riflessioni destinate a valere anche oggi: sul rapporto che esiste tra il principio di legalità e la giustizia, sul concetto stesso di “giustizia” e “ingiustizia”, sul ruolo di garanzia che svolge la giurisdizione in uno Stato di diritto, sui diversi modi in cui si può essere magistrati, oggi come ieri.
Approfondendo la storia della magistratura durante il periodo fascista, si comprende perché il regime abbia coinvolto la magistratura nel processo di fascistizzazione dello Stato.
Occorre, innanzitutto, ricordare che la magistratura italiana non conosceva una indipendenza interna, né esterna, almeno nei termini in cui siamo abituati a parlarne oggi.
Era, però, già vivo il dibattito sull’importanza di prevedere alcune fondamentali garanzie di indipendenza, almeno per i giudici. La sola idea che una parte dell’apparato statale potesse immaginarsi indipendente dal potere esecutivo era, di per sé, incompatibile con il regime.
Esisteva, inoltre, già l’Associazione generale dei magistrati italiani. La nascita dell’associazionismo giudiziario aveva suscitato vivaci discussioni e lo scontro di posizioni opposte sull’opportunità, per i magistrati, di dare vita a un’autonoma associazione.
C’erano, inoltre, magistrati che, nonostante il governo totalitario, avevano creduto di svolgere la propria funzione senza dover subire cambiamenti, continuando a interpretare le leggi come avevano sempre fatto, ovvero secondo i principi generali dell’ordinamento.
Queste sono solo alcune delle ragioni per le quali il regime ritenne di avviare una vera e propria opera di assimilazione della magistratura al resto della pubblica amministrazione, in un’ottica di semplificazione e omogeneizzazione di tutte le istituzioni pubbliche, così da rendere i magistrati funzionari alla pari di tutti gli altri funzionari pubblici e da facilitare, in tal modo, anche l’imposizione di un’interpretazione delle leggi secondo lo “spirito fascista”.
In concreto, questo processo avvenne per tappe: adottando leggi che consentivano di epurare i magistrati manifestamente non allineati con il regime, dispensandoli dal servizio per motivi formalmente connessi all’esercizio delle funzioni giudiziarie o collocandoli a riposo anticipatamente; tramutandoli punitivamente in sedi sgradite, lontane centinaia di chilometri dalle loro famiglie, o istituendo i tribunali speciali deputati a giudicare dei reati politici, con l’intenzione di ridurre progressivamente gli spazi di operatività della giurisdizione ordinaria; ancora, potenziando il ruolo delle istituzioni amministrative a scapito della giurisdizione: si attribuì, ad esempio, per legge al Ministero dell’interno la competenza a gestire le problematiche connesse all’attuazione delle leggi antiebraiche.
È importante ricordare come, in questo contesto, molti magistrati si adoperarono, invece, per affermare la cognizione dei giudici ordinari sull’applicazione delle leggi antiebraiche, usando argomentazioni giuridiche di cui conoscevano la scarsa sostenibilità al solo fine di arginare la competenza in materia del Ministero dell’interno.
La magistratura uscì, comunque, deformata da quel processo di trasformazione. Quando è indebolita l’autorità giudiziaria si indebolisce, in realtà, anche il sistema di garanzie e di diritti di cui i magistrati, attraverso il loro lavoro quotidiano, sono i custodi.
Con la stabilizzazione del regime e la mutazione della magistratura in senso fascista, furono soppresse le libertà individuali e si creò un sistema criminale in cui le violenze e perfino gli omicidi erano giustificati, legalizzati, e le discriminazioni addirittura imposte normativamente, garantendo l’impunità ai responsabili, in un’ottica di perverso capovolgimento dei valori.
Determinati principi di libertà − si diceva prima − sono oggi parte del comune sentire. Tuttavia, ragionando su questi temi, ascoltando i dibattiti pubblici o leggendo semplicemente i giornali, si ricava sempre più spesso l’idea che non basti avere una carta costituzionale magnifica e avveniristica per tutelare in modo efficace quelle libertà, difendendo i principi che esse esprimono, perché non esiste una diffusa consapevolezza sul nostro passato e sull’origine delle libertà consacrate nella Costituzione.
Sono, infatti, ancora oggi numerose le sentenze relative ai cd. “crimini d’odio”. Un recente monitoraggio sul tema, condotto dal Consiglio superiore della magistratura, ha evidenziato l’esistenza di diverse sentenze in cui è stata contestata agli imputati l’aggravante della discriminazione razziale. Alcune di queste decisioni riguardano episodi di antisemitismo. La maggior parte però si riferisce a episodi di discriminazione nei confronti di immigrati o appartenenti alle comunità di sinti e rom.
Il germe della discriminazione è, perciò, ancora presente nella società civile e occorre lavorare molto per dare concretezza ai principi sanciti nella prima parte della nostra Carta costituzionale.
Se non esiste una diffusa consapevolezza sull’origine delle nostre libertà fondamentali, dibattiti pubblici e quotidiani dimostrano che è ancora meno diffusa la consapevolezza sull’origine delle disposizioni della Costituzione dedicate alla magistratura.
Ecco perché anche l’indipendenza dell’ordine giudiziario, e i valori di cui tale principio è espressione, non devono essere dati per scontate e necessitano di una costante vigilanza.
Chiuderò con due auspici. Il primo è che si moltiplichino occasioni di riflessione e confronto come questa e che siano il più possibile aperte alla società civile, così da contribuire alla diffusione di una consapevolezza maggiore sull’origine delle nostre libertà fondamentali e sul fatto che la tutela della giurisdizione e il rispetto delle prerogative che il Costituente ha riservato all’ordine giudiziario, sono il principale presidio di quelle libertà, la principale garanzia posta a tutela delle libertà di ciascuno.
Il secondo auspicio è, per noi magistrati, di rifuggire dall’autoreferenzialità, dalla interpretazione burocratica della funzione giudiziaria, che è sempre dietro l’angolo, e di continuare invece a interrogarci sul suo senso più alto, cercando ispirazione in quelle figure di magistrati – alcuni dei quali ricordati qui oggi – che non vennero meno ai loro principi nemmeno quando era praticamente impossibile non farlo, mostrando una integrità, una rettitudine, una costante tensione verso un alto ideale di giustizia. Magistrati che vissero in maniera drammatica il confronto con la violenza e la discriminazione elevata a sistema.
E visto che oggi è anche una occasione per commemorare, fra questi magistrati voglio ricordare Mario Fioretti. Con la sua storia si apre il contributo dell’Ufficio studi nel volume Razza e inGiustizia.
Durante l’attività di studio in vista della presente pubblicazione, mi sono imbattuta, fra le carte dei miei nonni, in un opuscolo pubblicato dal Comitato dell’Associazione nazionale magistrati nel 1945, che contiene la trascrizione della commemorazione funebre del giudice Fioretti, ucciso a tradimento da un fascista a Roma, nei pressi di Piazza di Spagna, dopo che aveva tenuto un comizio improvvisato a Piazzale Flaminio. La commemorazione fu pronunciata il 4 novembre 1944, a un anno dalla morte, dal collega Andrea Lugo in un’aula del Tribunale di Roma.
Conoscevo già la storia del giudice Fioretti per averla appresa dai miei nonni, che avevano condiviso gli stessi suoi ideali e lo stesso percorso politico. Non sapevo, però, dell’esistenza di questo opuscolo. Ciò che colpisce leggendolo è certamente la forza del ricordo di Mario Fioretti in quanti lo avevano conosciuto (ad ascoltare le parole di Lugo, furono infatti moltissimi colleghi, anche della cd. “alta magistratura”, avvocati, professori universitari), ma soprattutto la certezza del dramma che visse, diviso tra la consapevolezza che l’alto ufficio cui era stato chiamato richiedeva distacco dalle passioni di quel tempo e l’insofferenza per l’opprimente conformismo fascista, il disgusto per la ripetuta menzogna e la sopraffazione.
Concludo, quindi, con la speranza che si coltivi la memoria, anche da parte di noi magistrati, e che nell’esempio di uomini liberi come Mario Fioretti l’indipendenza della nostra istituzione possa avere, anche per il futuro, le sue basi più solide.
[*] È l'intervento tenuto al plenum del Csm il 13 settembre 2018 dall'autrice, in occasione della presentazione del volume di A. Meniconi - M. Pezzetti (a cura di), Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, pubblicazione promossa da Cnf, Csm, Senato della Repubblica e Ucei.