In quale arco di tempo sei stato il direttore di QG? Quali stagioni politiche e culturali tu e il collettivo che ha “fatto” la rivista avete attraversato? Quale è stato il ruolo che la Rivista ha inteso svolgere e quali i campi di intervento che ha privilegiato?
Era l’ultimo numero del 2012 quello in cui per la prima volta è comparso il mio nome come direttore della Rivista. Una direzione (sarebbe durata fino al 2015) che iniziava in un momento di notevole turbolenza all’interno di MD. Livio Pepino, dopo aver portato la rivista durante un lungo periodo di direzione ad un livello altissimo, se ne era andato senza grandi polemiche, ma aveva fatto intendere che non c’erano più le condizioni per lavorare con la serenità che aveva caratterizzato i lustri precedenti. Con lui se ne erano andati i due condirettori Gianfranco Gilardi e Nello Rossi, per motivi in parte diversi. Ma certo questo abbandono denunziava un evidente malessere dentro la corrente che inevitabilmente proiettava le sue conseguenze dentro la Rivista. Del resto era perfettamente naturale che questo accadesse. MD è sempre stata non solo il gruppo organizzato di giudici che aveva promosso Questione Giustizia, ma anche la linfa della rivista, la palestra di intuizioni e discussioni sempre segnate dall’originalità di un pensiero non conformista e talora apertamente eretico.
Quelle dimissioni di colleghi, che pure avevano segnato negli anni la vita e il cammino di MD, erano dunque la spia di un malessere profondo. Per chi avesse saputo interpretarle, dicevano con il linguaggio dei fatti che qualcosa si era rotto e andava ricostruito. Io per mio conto capivo, sia pure in confuso, che la rivista era ad una svolta importante e andava protetta. E Livio, del resto, nel momento in cui lasciava, sapeva benissimo che la Rivista era ancora necessaria per la magistratura (e non solo) e che certamente era più importante di tutti i contrasti tra noi. E, se ricordo bene, lo scrisse nel suo ultimo editoriale.
Accenno a queste cose per dire l’apprensione con cui avevo accettato la proposta di dirigere Questione Giustizia. C’era anche una componente affettiva che mi impediva di rifiutare. Avevo seguito la rivista dal suo primo numero. Anzi, ero nel folto gruppo che aveva invaso la casa di Governatori nel pomeriggio in cui decidemmo di far uscire Quale Giustizia (era il 1969 e ancora non riesco a capire come potessimo stare tutti quanti nel soggiorno della bella casa bolognese di Federico!). Dunque dietro Questione Giustizia c’era una storia lunga che contava, eccome, nel mio dire di sì alla proposta di direzione.
Nonostante Questione Giustizia venga talvolta rappresenta come “la rivista d MD” o addirittura come l’house organ del gruppo, essa è nata e ha vissuto come una rivista “promossa” da MD , caratterizzata da un vivace pluralismo culturale, ricca di apporti esterni alla magistratura e dotata di un’ampia autonomia. Quanto è importante per Md e per Questione Giustizia questa autonomia? Ed è stato difficile mantenerla nel periodo della tua direzione?
Devo dire però che l’aria che si respirava durante la prima riunione della redazione era rassicurante. La redazione era ridotta all’osso, ma, come spesso capita quando le imprese si fanno difficili, c’era voglia di fare, di impegnarsi seriamente e di mantenere la rivista all’altezza della sua storia. Ricordo l’entusiasmo di molti di noi, la voglia dei più giovani, la saggezza dei più esperti e la dedizione di Fernanda Torres.
Per il resto, ero pieno di dubbi nella preparazione dei numeri della rivista, dubbi che sono rimasti fino alla fine della mia esperienza di direzione. Ma, ora che posso sfogliare quelle annate con un certo distacco, devo dire che il gruppo dei redattori era riuscito a preparare numeri bimestrali pregevoli che si inseriscono bene nell’apertura tradizionale della rivista. Certo io non avevo l’esperienza e le capacità di Livio, ma mi pare di poter dire che la redazione riuscì miracolosamente a mantenere alto il livello di Questione Giustizia. Soprattutto riuscimmo a mantenere la varietà degli argomenti e degli interventi che avevano sempre caratterizzato la rivista. Ricordo ancora il lavoro fatto sui temi che in quegli anni attiravano l’attenzione dei giuristi, ma anche dell’opinione pubblica; in particolare gli “obiettivi” sui rapporti tra scienza e diritto, sui temi (in quegli anni assai caldi) della bioetica e del “fine vita”; quello sul caso della “Thyssen” sul quale erano ancora in corso processi che molto hanno fatto discutere i penalisti e non solo. E altri ancora, di buon livello.
Anche il tema dell’immigrazione ci fecero molto discutere, tema vivo, che sarebbe diventato incandescente con i decreti Salvini. Il lavoro, soprattutto, era al centro dei nostri interessi; e con ci lasciammo scappare l’occasione di dedicare l’attenzione critica che meritava al Jobs Act di Renzi. Restava poi sempre ricorrente il tema degli errori giudiziari e quello della responsabilità dei magistrati ai quali, mi pare di ricordare, dedicammo un obiettivo. E devo ancora ricordare la pubblicazione (QG 4/2014) di un interessante dibattito a quattro voci (Ferrajoli, Rossi, Rovelli e Senese) sui giudici e la giustizia che suscitò al tempo notevole interesse e molte interessanti riflessioni.
Inoltre è necessario ricordare che proprio in quegli anni era nata la Scuola Superiore della Magistratura, del cui Comitato Direttivo facevo parte anch’io. Era vivissimo in quei mesi il contrasto con il CSM che non si rassegnava a perdere la titolarità e il controllo della formazione dei magistrati. Alla Scuola dedicammo molto spazio e particolarmente alla formazione dei dirigenti degli uffici giudiziari, che era appunto il settore da me coordinato tra mille polemiche da parte del CSM. Ricordo che alla Scuola e alla formazione dei magistrati (specialmente a quella dei dirigenti e semi-dirigenti) dedicammo un numero monografico di notevole approfondimento che, mi pare, conserva ancora oggi una certa attualità.
Eppoi tanti altri temi: il caso Ilva, la giustizia minorile, la corruzione, la diffamazione a mezzo stampa; tutti temi che venivano alimentati dalla giurisprudenza di quegli anni e dall’attualità della vita politica e sociale del paese. Insomma mi pare di poter dire che abbiamo mantenuta ferma quella capacità di guardare alle vicende del Paese, giudiziarie e non, con sguardo critico e l’assoluta autonomia, che ha sempre caratterizzato la Rivista. Abbiamo dato spazio a voci diverse e non sempre concordi, come era nella nostra migliore tradizione. Siamo riusciti a polemizzare perfino tra di noi, tra persone, cioè, che avevano la stessa formazione politica e culturale (chi non ricorda la polemica sul famoso “decalogo del buon giudice” tra Livio Pepino e Luigi Ferrajoli, due persone che andavano d’accordo quasi su tutto e il cui livello intellettuale e morale era fuori discussione?).
Se non vuole essere un grigio bollettino di gruppo e la custode di una – peraltro inesistente – ortodossia, una rivista ha il dovere di smuovere luoghi comuni e suscitare dibattiti e confronti. Vi sono state particolari turbolenze e contrasti nella fase della tua direzione? E quali?
Dunque non mancarono i dibattiti e i confronti tra noi di MD. All’interno della nostra corrente erano vivissimi i contrasti tra due "linee" che per anni si sono contrapposte su due diversi modi di concepire la giurisdizione e il rapporto con la società e la politica. Il contrasto tra i due gruppi è stato a volte doloroso perché lo scontro ha lambito le persone e ha lasciato segni duraturi. Ora, dopo qualche anno, vediamo più chiaramente le ragioni e anche le diverse visioni culturali e ideologiche che erano all’origine di quei contrasti. A tutto questo non poteva rimanere estranea la rivista e i suoi redattori. Mentre all’interno della redazione regnava un sostanziale accordo sui temi da affrontare e sulle voci da ospitare (un accordo che era il frutto della composizione di diverse sensibilità e disparate interpretazioni di ciò che si muoveva nella giurisprudenza e nel paese), dall’esterno, e perfino dall’esecutivo di MD, arrivavano malumori e qualche volta critiche aperte sul nostro modo di costruire la rivista e sulla linea editoriale, non sempre gradita. Con molto garbo (debbo riconoscerlo) fu anche prospettato come “inaccettabile” un eventuale contrasto tra la linea politica della corrente e quella della rivista; un contrasto incomprensibile dall’esterno, si disse, tra “MD e la rivista di MD”. Non fu difficile per me sostenere la tradizionale linea della Rivista: che non è mai stata il bollettino di MD o l’organo di MD, ma per anni è stata una pubblicazione assolutamente libera, caratterizzata da un vasto apporto plurale non solo di magistrati ma anche di avvocati, di giuristi, di studiosi dell’Università e di uomini di cultura. Una rivista, certo, promossa da MD, che tuttavia non era mai stata il megafono delle sue scelte politiche o delle molte voci della sua dialettica interna. Fu facile dunque replicare che era impensabile che la redazione e la direzione della Rivista si facessero ‘dettare la linea’ o , peggio, dovessero sottostare ad una sorta di censura preventiva. E devo dare atto a tutti gli amici di MD di quegli anni del fatto che, pur in un momento di notevoli contrapposizioni e di profondi contrasti all’interno della corrente, mai nessuno è intervenuto per censurare questo o quell’articolo pubblicato sulla rivista o di richiamare all’ordine il suo direttore. Del resto ho sempre pensato che la funzione della Rivista non fosse quella di esprimere la linea della corrente, ma quella, assai più stimolante, di anticipare temi, tracciare percorsi e stimolare riflessioni, anche quelle non “in linea” rispetto alle scelte della corrente.
Per fortuna di tutti, e soprattutto dei lettori, questa autonomia della rivista non si è mai persa e si è tradotta in una ricchezza di interventi e di opinioni che in questi ultimi tempi si è perfino accentuata. In questo momento di grave oscuramento dell’immagine della magistratura agli occhi dell’opinione pubblica il tradizionale pluralismo della rivista si rivela vitale. Aprirsi alla discussione, mettersi in discussione, dare voce ai critici e a chi sostiene opinioni diverse è la via migliore, anche se impervia, per restituire credibilità ad una magistratura il cui credito è stato messo a dura prova da scandali e innegabili cadute.
L’esistenza e la vitalità di riviste e di altri organi di pensiero dei gruppi della magistratura – come centri studi e fondazioni – sono una vivente smentita della vulgata polemica di una magistratura impegnata solo nella difesa delle prerogative di corporazione e interessata esclusivamente a nomine e carriere. Quale è, a tuo giudizio, lo stato di salute e l’incisività degli strumenti di cultura e di comunicazione di cui dispone la magistratura?
La rivista parla all’opinione pubblica interna alla magistratura, al ceto dei giuristi, ai giornalisti che si occupano di temi istituzionali e dei problemi della giustizia. È possibile e utile operare per conquistare l’attenzione di nuove fasce di lettori come i giovani delle Università e gli aderenti a organizzazioni sociali, sindacali e culturali interessati ai temi del diritto e dei diritti?
Questione Giustizia non è stata l’unica voce della magistratura e nella magistratura. Devo dire con qualche preoccupazione che il dibattito televisivo e le pubblicazioni su quotidiani e riviste registrano spesso l’intervento dei magistrati e in qualche caso sempre dei soliti magistrati. Non è facile rendere chiaro all’opinione pubblica che quelle non sono “la voce” della magistratura, ma solo quelle di singoli magistrati, qualche volta discutibili e spesso molto criticabili. Tuttavia è innegabile che agli occhi dello spettatore disinformato sulle cose della giustizia, questi interventi finiscano per affermarsi come ‘il pensiero’ della magistratura, con danni non facilmente riparabili.
Ci sono state poi altre presenza di varia ispirazione che hanno contribuito a tenere vivo il dibattito dentro e fuori dall’ordine giudiziario. Bisogna inoltre aggiungere che nei quotidiani più autorevoli ci sono giornalisti di notevole valore, “specializzati” nelle cose della giustizia. Poi ci sono le tradizionali riviste giuridiche (la cui impostazione è ancora quella di un tempo, sicuramente invecchiata) che insieme alla giurisprudenza e alle tradizionali note a sentenza, ospitano talvolta riflessioni di carattere più politico o che comunque si sforzano di cogliere le ricadute sociali e di costume delle norme di legge e delle decisioni giudiziarie.
C’è infine Giustizia Insieme, che affronta spesso questioni legate all’attualità e che offre spazio non solo a tanti magistrati, ma anche ad interventi di uomini di cultura di varia provenienza. Tuttavia nonostante la presenza quasi giornaliera di temi riguardanti la giustizia, la rivista on line Giustizia Insieme presenta forti differenze di impostazione rispetto a QG, che la avvicinano a volte ad una delle tante tradizionali riviste giuridiche del nostro paese.
Questa pluralità, certamente vitale, di riviste e di testate varie, potrebbe far pensare che sia del tutto scomparsa quell’impronta corporativa che un tempo caratterizzava le riviste curate dai magistrati. Purtroppo i temi più vieti della corporazione non sono scomparsi. Ancora oggi tanti articoli su carta o on line si occupano di carichi esigibili, di edilizia giudiziaria, di stipendi, di nomine di dirigenti e in genere di carriera dei magistrati. E’ indubitabile che anche questi temi presentino talvolta un interesse di carattere generale, percepibile non solo dai magistrati, ma è altrettanto vero che questi contributi sembrano rivolgersi a quei colleghi preoccupati solo degli interessi della corporazione. Si tratta di temi che esauriscono la loro funzione non appena le questioni che riguardano la corporazione trovano qualche soluzione o perdono col tempo la loro attualità; tuttavia essi assolvono ad una funzione soporifera per i magistrati chiusi nel loro mondo, che inavvertitamente diventano restii a discutere di temi diversi e politicamente impegnativi.
Per questi motivi l’apparente stato di salute delle riviste a disposizione dei magistrati rischia di nascondere il processo, poco avvertito ma inarrestabile, di chiusura castale di molti, che ora si avverte in alcuni settori che fino a qualche lustro fa sembravano recuperati (anche se non del tutto) ad una dialettica di carattere politico e culturale.
Quanto alla ulteriore capacità della Rivista di diffondersi e di conquistare nuove categorie di lettori, sembra ragionevole, almeno in questo momento, un certo scetticismo. Sappiamo bene che la conquista di nuovi spazi e di nuovi lettori non dipende solo dalla nostra iniziativa o dalla nostra capacità. Influisce notevolmente il contesto politico, il "movimento" (come si chiamava un tempo) delle forze in campo e le dinamiche sociali. Proprio questo contesto rende problematico ricavarsi uno spazio culturale che consenta l’ulteriore diffusione di una rivista che non parli solo agli addetti ai lavori, ma voglia affrontare i temi della giustizia in chiave squisitamente politica.
E’ proprio la politica, quella “alta”, capace di elaborare convincenti visioni della società e dei rapporti con i cittadini, che è messa in crisi da un populismo sempre più becero e volgare, che quanto più sembra coinvolgere il ceto miope e impreparato dei politici, tanto più delude i cittadini, anche quelli che un tempo partecipavano attivamente alla vita politica e sindacale.
Sappiamo che la reazione più visibile in questo tempo è l’astensione degli elettori dal voto e il fastidio per un sistema di informazione e di dibattito politico che li vuole sempre più spettatori e sempre meno protagonisti.
Per questi motivi non è facile avere più lettori o interessare coloro che fino ad oggi sono rimasti indifferenti: non è facile tra i magistrati, ma (credo) neppure tra gli avvocati o i giuristi in generale. Forse invece è possibile attirare l’attenzione delle Università o dei giovani che la frequentano. Non dimentichiamo che tra gli studiosi è ancora grande il prestigio che la storia di MD si porta dietro e che questo consentirà di rivolgersi specialmente ai giovani con qualche autorevolezza.
In un contesto del genere, ciò che ancora può garantire la vitalità della Rivista è ancora oggi, come per il passato, quello di tessere con pazienza di fili di un dibattito ancora possibile: rivolgersi alle imprese culturali più vive del paese, coinvolgere la cultura politica e giuridica, i partiti (quel che ne resta) e i sindacati; insomma animare un dibattito che lasci fuori da Questione Giustizia le beghe irrilevanti della corporazione e sia capace di raccogliere le voci più autorevoli, dentro e fuori dalla Magistratura.
Il resto è affidato alla nostra capacità di fare una rivista aperta a tutte le idee, anche quelle più lontane delle nostre convinzioni. In questo momento mi pare importante, ad esempio, la voce degli avvocati, le cui posizioni ufficiali sono per molti versi antitetiche a quelle assunte da MD. Ma si tratta di posizioni con cui dobbiamo confrontarci, perché la conflittualità senza una pacata dialettica non serve alla giustizia di questo paese. Del resto l’avvocatura non è un monolite e presenta diverse aperture che vanno valorizzate e comunque discusse.
Anche un altro aspetto merita una discussione franca e libera dalle chiusure corporative. Noi sappiamo che la vitalità dirompente di MD è stata legata per molti lustri alla critica dei provvedimenti giudiziari. Era un tabù, tale da provocare anche dolorose scissioni. Ma l’arroccamento delle componenti più reazionarie della magistratura fu vinto negli anni ‘70 dalle nostre critiche alla giurisprudenza che comparivano su Quale Giustizia. La diffusa convinzione che “non si parla dei processi in corso e non si criticano le sentenze dei colleghi” fu superata dalla pratica aperta di manifestare il proprio pensiero da parte dei cittadini-magistrati decisi a disvelare la politicità della giurisdizione e ad aprirsi alle critiche dell’opinione pubblica. Finché è durato questo vento impetuoso di critica alle sentenze da parte dell’opinione pubblica, magistrati compresi, si è avuto il progressivo sbriciolarsi della separatezza della magistratura dalla società civile e la fine del “doveroso riserbo” dei magistrati. Poi anche la nostra rivista è diventata più timida, anche se mai abbiamo rimesso in discussione la necessità di una lettura critica della giurisprudenza. Anche su questo punto all’interno di MD sono emerse convinzioni contrastanti e mi pare di ricordare che anche questo fosse l’oggetto dei dissensi che hanno portato alle dimissioni di Livio Pepino dalla direzione della Rivista nel 2012.
Su questo punto devo ammettere che anche durante la mia direzione, la Rivista avrebbe potuto fare di più. Non sono mancate le nostre critiche, anche severe, a certe pronunce giurisprudenziali (ricordo quelle, che sollevarono qualche scandalo, al provvedimento milanese che assegnava Berlusconi ai servizi sociali dopo la condanna definitiva; e quelle rivolte alla condanna disciplinare da parte del CSM della collega Fiorillo che aveva smentito il Ministro sulla posizione assunta dalla Procura nella vicenda di Karima el Marough, “nipote di Moubarak”).
Ma la rivista di quegli anni non ha avuto la stessa puntualità e l’efficacia che la nostra rassegna di giurisprudenza aveva avuto in passato. Neanche dopo il 2015, e fino ad oggi, la critica alle pronunzie della giurisprudenza ha avuto l’antica efficacia. Ho anzi il sospetto che la critica puntuale della giurisprudenza non sia più gradita a molti dentro MD e forse questo spiega la minore, forse inconsapevole, disposizione della rivista all’analisi critica dei provvedimenti giudiziari.
Se così fosse, sarebbe urgente una seria riflessione di noi tutti. Il mio debole parere è che la rinuncia alla critica puntuale delle sentenze dei magistrati farebbe venir meno uno dei connotati più tipici della rivista, indebolirebbe molto la nostra capacità di sollecitare il dibattito dentro la Magistratura e offuscherebbe la nostra immagine più gradita all’opinione pubblica.
La formula editoriale di Questione Giustizia prevede la coesistenza della trimestrale, monografica o centrata su “obiettivi” di approfondimento e della Rivista on line che pubblica quotidianamente uno o più articoli. Quale è il tuo giudizio su questa combinazione? Può essere variata o arricchita, ad esempio affiancando alla Rivista una collana di libri o pubblicando una edizione cartacea limitata dei numeri della trimestrale?
Il dibattito sul passaggio dalla carta al digitale era già aperto quando ho assunto la direzione della Rivista. L’aveva aperto Livio Pepino che sollecitava le pubblicazioni on-line, pur prevedendo ancora la pubblicazione dei numeri della trimestrale su carta. Queste sollecitazioni trovavano orecchie poco disposte a sentire. Si trattava di una resistenza "sentimentale", per quanto io ricordi: si sentiva dire “siamo sempre usciti così, come si fa ad interrompere la collezione, abbiamo tutti i numeri, a partire da quelli di Quale Giustizia”! Istintivamente anch’io resistevo, del resto avevo anch’io tutta la collezione completa. Eppoi ero abbastanza vecchio da capir poco di digitale e di altre diavolerie. Devo perciò confessare che di fronte alla proposta di passare al digitale ero tiepido e volevo prendere tempo. Ma altri nella redazione erano più giovani (e soprattutto più esperti) e premevano perché il passaggio avvenisse rapidamente. Ma più che le pressioni della redazione, era la misteriosa forza delle cose nuove e ineluttabili che vinse la mia resistenza. Così cominciai ad informarmi, a capire come si poteva salvaguardare il senso più vero della nostra rivista senza perdere nessun lettore. Fu un cammino non facile, durante il quale ho imparato qualcosa degli strumenti della comunicazione telematica. Quando tutti (dentro e fuori dalla redazione) si erano convinti che il passaggio era inevitabile e forse utile, ci impegnammo tutti a gestire il cambiamento in tempi rapidi. Ricordo l’incontro con l’editore Angeli, insieme a Livio e Fernanda Torres, per definire tempi e modi del passaggio dalla carta stampata al digitale; ricordo le discussioni interminabili all’interno della redazione; ricordo anche le suppliche che venivano dai più "vecchi" di MD: “non toglieteci la rivista stampata”, “se proprio è necessario uscire con la stampa digitale, mantenete parallelamente anche il cartaceo” e così via.
Ma la forze delle cose spingeva più delle convinzioni di alcuni di noi. Del resto per tutti noi era difficile contestare che gli interventi quotidiani on line consentissero una più puntuale partecipazione al dibattito pubblico e la possibilità di intervenire tempestivamente perfino sui fatti di cronaca. L’entusiasmo di molti "giovani" della redazione fece il resto: fu costruito un sito, molto vivace, che cominciò a pubblicare contributi interni ed esterni ad MD, tutti diretti ad affrontare le questioni più rilevanti per la giustizia. Durante tutto il 2014, la macchina si perfezionò e i contributi online furono particolarmente rilevanti, tanto che a fine anno furono raccolti in un’antologia dal titolo Un anno di Questione Giustizia online (EBOOK 2014).
Insomma la barca di Questione Giustizia prese il largo nel 2015 con la formula attuale: la rivista trimestrale dedicata a temi unici o ad “obiettivi” specifici di approfondimento e la rivista on-line che quotidianamente pubblica contributi di attualità o interviene su temi rilevanti per la giustizia, emergenti dal dibattito politico in corso. Una formula che in questi anni è divenuta irrinunciabile e ci fa capire che i nostri (e i miei!) dubbi non erano molto fondati.
Non solo infatti la rivista digitale è stata un successo tra i lettori vecchi e nuovi; sono le nuove frontiere della comunicazione che, con il linguaggio dei fatti, ci dicono che, se non avessimo adottato questa soluzione, saremmo stati ai margini del dibattito politico sulle cose della giustizia. Si potrà obiettare che i tempi del on-line non consentono molta riflessione o i necessari approfondimenti. E’ vero. Ma è proprio questo che giustifica la scelta felice di mantenere i contributi più approfonditi della rivista trimestrale.
Ogni tanto (ma sempre di meno) si trova qualcuno che ricorda i bei tempi: “ma vuoi mettere, il gusto della carta, sfogliare le pagine...”. Conosco quel gusto, ma ripeto che se non avessimo fatto il passo necessario del “digitale al momento giusto”, saremmo stati tagliati fuori da un dibattito che ogni giorno presenta nuovi temi che si “bruciano” nel giro di pochi giorni o poche ore .
Credo, infine, che ci sia un pizzico di nostalgia anche nella proposta che ogni tanto fa capolino di pubblicare un’edizione cartacea, sia pure limitata, della trimestrale. Capisco, è anche commovente. Ma la storia ha preso un’altra strada.