Livio Pepino, Beniamino Deidda e Renato Rordorf sono i magistrati che si sono succeduti nella direzione di Questione Giustizia dal 1997 - anno della prematura scomparsa di Pino Borrè, fondatore della Rivista nel 1982 – sino al 2018.
Ai tre direttori Questione Giustizia ha rivolto domande sulla loro esperienza di direzione, sui contenuti e sulla funzione della Rivista e sulle trasformazioni di impostazione culturale e di assetto tecnologico verificatesi negli anni.
Le interviste - pubblicate nell’arco di tempo di tre giorni, rispettando la cronologia dei periodi di direzione- rappresentano l’occasione di un bilancio critico sul passato e offrono preziosi spunti di riflessione sulle prospettive future della Rivista, ormai saldamente attestata sui due binari delle pubblicazioni quotidiane on line e dei numeri della Trimestrale.
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In quale arco di tempo sei stato il direttore di QG? Quali stagioni politiche e culturali tu e il collettivo che ha “fatto” la rivista avete attraversato? Quale è stato il ruolo che la Rivista ha inteso svolgere e quali i campi di intervento che ha privilegiato?
Sono stato partecipe del collettivo che ha costruito e diretto Questione giustizia dalla fondazione (nel 1982) al novembre 2012, e dunque per oltre trent’anni. Formalmente ne sono stato condirettore dal 1984 (affiancando Pino Borrè) e direttore dal 1997 (anno della morte di Pino), avendo a fianco come condirettori, dapprima Carlo Verardi (per un periodo troppo breve, dal 1999 alla sua scomparsa nell’estate 2001) e poi, dal 2004 fino al termine del mio incarico, Gianfranco Gilardi e Nello Rossi. Una direzione così lunga ha comportato, inevitabilmente, una forte personalizzazione – soprattutto nei periodi di maggiore difficoltà – ma, almeno nei momenti più alti, a “fare” la rivista è stato davvero un collettivo. È una storia che conviene raccontare, sia pur per cenni.
Dopo la “rifondazione” seguita alla scissione di fine 1969, Magistratura democratica diede vita a due riviste: Qualegiustizia, diretta da Federico Governatori e pubblicata con cadenza bimestrale da La Nuova Italia (primo numero nel 1970) e Magistratura democratica, mensile diretto da Luigi De Marco per i tipi di Dedalo (nato nel 1973 ma consolidatosi, anche con una nuova veste grafica, l’anno successivo). Le due riviste (veicolo di giurisprudenza alternativa e di critica agli orientamenti prevalenti la prima e luogo di riflessione teorica la seconda) furono strettamente connesse con la vita del gruppo e contribuirono in maniera decisiva a innovare la cultura giuridica e la politica giudiziaria e a «consumare uno scisma entro la cittadella della giurisdizione, rompendo miti antichi, autorevoli, mai posti in dubbio» (come ebbe a scrivere, anni dopo, Pino Borrè). Senza le due riviste la storia di Magistratura democratica sarebbe stata diversa, o forse non ci sarebbe proprio stata. Ma con la fine degli anni Settanta la vicenda di entrambe le pubblicazioni si esaurì: per difficoltà organizzative (determinate, in particolare, da incomprensioni con La Nuova Italia), per tensioni interne a Magistratura democratica (uscita dal congresso di Rimini del 1977 con una linea politica rinnovata ma anche con forti e durature lacerazioni) e, soprattutto, per i profondi cambiamenti intervenuti nella società e nella stessa giurisdizione. Bisognava, dunque, percorrere nuove strade e Salvatore Senese, allora segretario del gruppo, e l’esecutivo ne incaricarono alcuni torinesi: per l’esperienza accumulata in una vivace rivista locale (fondata nel 1973 e ancora in vita) e perché c’era, a Torino, Giangiulio Ambrosini, condirettore, negli ultimi anni, di Qualegiustizia. Ci mettemmo al lavoro: costruimmo un prototipo della nuova rivista, ne definimmo il titolo (scartando – ricordo – la proposta alternativa di Diritto e rovescio, arguta ma, come disse qualcuno, più adatta a un giornale di tennis o di maglia), e trovammo l’editore (un Franco Angeli disponibile e attento nell’ascoltare il nostro progetto). Restavano da nominare il comitato di redazione e il direttore: operazione laboriosa la prima (che, per contemperare capacità e sensibilità rappresentative dell’intero gruppo, richiese un apposito consiglio nazionale), scelta semplice e unanime la seconda, ché la statura politica e culturale di Pino Borrè, allora presidente di Magistratura democratica, era una rassicurazione e una garanzia per tutti. Così, nei primi mesi del 1982, nacque Questione giustizia il cui progetto venne esplicitato nell’editoriale di presentazione: «Pur nel riconoscimento della sua ideale derivazione dalle precedenti testate, Questione giustizia presenterà tuttavia, necessariamente, elementi di novità, ciò essendo imposto dal mutamento stesso dei tempi. Le precedenti riviste, collocandosi in un cultura di abbattimento di vecchie e ben identificate ideologie, e coincidendo con la stagione delle riforme, avevano un compito più facile, si inquadravano in una strategia più agevolmente disegnabile. La nuova rivista nasce, invece, nella stagione del riflusso; ha di fronte a sé un’inversione di tendenza legislativa propiziata dal terrorismo e dalla crisi economica; e soprattutto deve fare i conti con emergenti prospettive di riforma istituzionale, la cui novità e ambiguità richiede un aggiornamento delle strategie di risposta». Nessuna concessione alle logiche di corporazione. Questione giustizia ambiva a muoversi su un altro piano, quello dei contenuti della giurisdizione, e a rivolgersi al mondo dei giuristi complessivamente inteso (e anche oltre): quando guardava alle questioni interne alla corporazione era solo per domandarsi (vera e propria preveggenza) «se dinamiche negative nella professionalità degli organi di accusa non siano state avviate e consolidate dalla costrizione della magistratura a una supplenza sempre più intensa, da sistemi burocratici di gestione degli uffici e dalla legislazione dell’emergenza degli ultimi anni».
Questa impostazione è rimasta, per me, la stella polare. I campi di intervento della rivista sono stati molti: su tutti, gli orientamenti della giurisdizione (tema a me particolarmente caro e per il quale venne creata, a partire dal 1995, un’apposita sezione, denominata, appunto, “Giurisprudenza e documenti”, rimasta attiva fino alla chiusura del cartaceo, pur se deperita negli ultimi anni) e, poi, come si può vedere negli indici completi pubblicati nel fascicolo n. 9/2009, l’ordinamento giudiziario, il Consiglio superiore della magistratura, il processo penale e la cultura della prova, il diritto del lavoro, le mafie (temi tutti nei quali Questione giustizia è stata un punto di riferimento per l’intera cultura giuridica: unica – come ebbe a dire Alessandro Pizzorusso – tra le riviste provenienti dalla magistratura) ma anche le riforme istituzionali, la pace e la guerra e molto altro ancora.
Nonostante Questione Giustizia venga talvolta rappresenta come “la rivista d MD” o addirittura come l’house organ del gruppo, essa è nata e ha vissuto come una rivista “promossa” da MD , caratterizzata da un vivace pluralismo culturale, ricca di apporti esterni alla magistratura e dotata di un’ampia autonomia. Quanto è importante per Md e per Questione Giustizia questa autonomia? Ed è stato difficile mantenerla nel periodo della tua direzione?
L’autonomia della rivista, anche dai suoi promotori, è stata ed è fondamentale. Per la semplice ragione che la cultura (quella giuridica non diversamente dalla cultura tout court) non può dispiegarsi senza piena libertà di elaborazione. Così è stato sempre per Questione giustizia. Non sono mancati momenti in cui ciò è stato messo in discussione, in particolare tra il 2011 e il 2013, ma sia io che, dopo di me, Beniamino Deidda abbiamo salvaguardato senza tentennamenti questa libertà. Di ciò, peraltro, parlerò più avanti.
Ora mi sembra importante chiarire che cosa si debba intendere per autonomia. Gli obiettivi – del gruppo promotore e della rivista – erano e sono, ovviamente, gli stessi, ché, altrimenti, non avrebbe senso il richiamo, finanche nella testata, a Magistratura democratica. Del resto, lo avevamo scritto nell’editoriale di presentazione in cui parlavamo di «una impegnativa scelta di valori», in continuità con l’esperienza di Qualegiustizia, il cui biglietto da visita era esplicito: «Abbiamo parlato di ricerca e di rivista per così dire “aperta”; ciò non significa “tribuna” e ancor meno “palestra”, nel senso che tradizionalmente viene attribuito a questa parole. Crediamo nel “confronto delle idee”, ma ne paventiamo la confusione. Sappiamo che certi ludi accademici, ai quali offrono sede le cosiddette “palestre”, sono soltanto alibi all’inerzia: un colpo al cerchio e l’altro alla botte, nero e bianco, vecchio e nuovo, diavolo e acqua santa; ciascuno dice la sua, tutti soddisfatti; civiltà, democrazia, tolleranza, libertà di pensiero e molti altri grandi princìpi salvi, ogni cosa resta come prima. Noi intendiamo promuovere una ricerca in una prospettiva ben definita». Nessuna incertezza, dunque, sulla “scelta di campo”, coincidente con quella di Magistratura democratica. Ma una rivista deve rispettare l’ampio pluralismo presente nell’area del pensiero critico, sottrarsi ai condizionamenti propri dell’agire politico e/o associativo, non temere strumentalizzazioni contingenti. In altri termini deve essere alimentata dalle idee e dalle esperienze del gruppo (senza le quali non potrebbe esistere) ma deve muoversi con maggiore spregiudicatezza, aprirsi all’esterno, pensare in grande (anche sfidando l’utopia), essere sempre un passo avanti. Insomma, deve essere omogenea ma anche capace, se necessario, di disturbare il manovratore.
Questo abbiamo cercato di fare nel corso degli anni: aprendo la redazione e il comitato scientifico a giuristi non magistrati, ospitando anche interventi rappresentativi di posizioni minoritarie, evitando il conformismo e perseguendo un elevato livello culturale. Abbiamo talora respinto dei contributi (e c’è chi se ne è adontato) ma solo per la loro (ritenuta) insufficienza tecnica o culturale e mai per censura politica (salvo ovviamente i casi – pochi in verità – di scritti estranei all’orizzonte della rivista).
Se non vuole essere un grigio bollettino di gruppo e la custode di una – peraltro inesistente – ortodossia, una rivista ha il dovere di smuovere luoghi comuni e suscitare dibattiti e confronti. Vi sono state particolari turbolenze e contrasti nella fase della tua direzione? E quali?
Fino a quando sono rimasto in magistratura (cioè fino a tutto il 2010), l’autonomia della rivista non è mai stata un problema. Al contrario, è stata automatica e vissuta quasi come un’ovvietà tanto che la questione della possibile incompatibilità tra incarichi nella rivista e nel gruppo (o nel Consiglio superiore), pur posta tanto da Borrè quanto da me, non venne mai neppur presa in esame. Non che siano mancati contrasti e discussioni (per esempio in tema di valutazione dell’intervento legislativo e giudiziario nei confronti del terrorismo e a proposito dell’operato del Csm o dell’Associazione, in cui erano coinvolti anche esponenti di Md) ma si trattò sempre di divergenze sul merito di questo o quell’articolo e non sul ruolo e la gestione della rivista.
La situazione cambiò dopo il congresso di Napoli di Magistratura democratica del 2010 e, soprattutto, negli anni immediatamente successivi. Anche qui alcuni cenni di storia sono necessari: non per fare recriminazioni inutili (e un po’ patetiche a distanza di anni) ma per cogliere il senso e le difficoltà dell’autonomia. Il congresso di Napoli segnò, come noto, un brusco cambiamento nella linea politica di Md con un prevalente investimento istituzionale, un notevole appiattimento sull’Anm, l’avvio dell’infelice esperienza di Area democratica per la giustizia, l’estrema prudenza nella critica all’operato della magistratura e agli orientamenti giurisprudenziali emergenti. L’antica eresia diventò ortodossia e, come spesso avviene, i nuovi ortodossi finirono per essere più realisti del re. Questa, almeno, era la valutazione mia e di gran parte della redazione. Emersero dunque, inevitabilmente, delle frizioni, aggravate dalla precarietà della direzione (che avevo messo a disposizione dell’esecutivo, avendo nel frattempo lasciato la magistratura). I punti di contrasto, per lo più sotto traccia, furono diversi. Essenzialmente tre: la priorità da attribuire al servizio giustizia (inteso essenzialmente come questione di organizzazione ed efficienza) o alle grandi questioni dei diritti, l’attenzione da riservare all’associazionismo giudiziario e all’autogoverno, gli orientamenti e le prassi giudiziarie in tema di conflitto sociale e di repressione del dissenso. Quanto ai primi due punti non piacquero in particolare, perché ritenuti troppo “politici”, alcuni editoriali (come quello del n. 2/2011 dedicato a “pace, guerra e diritto”) e venne lasciata cadere l’occasione di un confronto a tutto campo tra i giuristi e nel Paese sulla “condizione delle persone” prefigurato da un corposo fascicolo monografico (il n. 3-4/2011) alla cui definizione avevano partecipato autori di primissimo piano. Ma il conflitto più rilevante – per lo più sordo e accompagnato da sgradevoli personalizzazioni – si verificò sul terzo punto: la repressione del conflitto sociale e del dissenso politico e le sue modalità anche in sede giudiziaria. Il tema era stato sempre un classico della rivista (come, del resto, di Md): penso, per esempio, agli “obiettivi” sul processo 7 aprile (n. 3/1982) e sulla repressione delle manifestazioni contro il G8 di Genova del luglio 2001 (n. 4/2001, primo intervento a tutto campo sul tema e tuttora considerato una delle analisi più complete e documentate) e ai due fascicoli monografici La libertà delle persone (n. 2-3/2004) e Verso un diritto penale del nemico (n. 4/2006), vere pietre miliari nel settore. Del tutto normale e coerente sarebbe dunque stata una analoga analisi dei molti processi, con imputazioni e misure cautelari a dir poco discutibili (tanto da essere fortemente censurate, anni dopo, dalla stessa Corte di cassazione), avviati dalla Procura di Torino nei confronti di esponenti del movimento di opposizione alla costruzione della Nuova linea ferroviaria Torino-Lione, vero laboratorio della curvatura dell’intervento giudiziario nel settore. Non fu così. Per ragioni diverse – dal coinvolgimento nei processi di esponenti di primo piano di Magistratura democratica alla volontà di evitare una spaccatura nella magistratura e di essere considerati estremisti – il tema divenne un tabù (e tale è rimasto nel tempo, essendo stata ad esso dedicata, nella intera vita della rivista cartacea, una sola nota tecnica, scritta non a caso da un avvocato e non da un magistrato, relativa a una abnorme contestazione di attentato per finalità terroristiche letteralmente distrutta dalla Suprema Corte: vds. n. 3/2014). Con il consenso della redazione decisi di evitare interventi (miei o di altri) sulla rivista, ma non fu sufficiente: un mio articolo su il manifesto di fine gennaio 2012 e un libro da me scritto pochi mesi dopo con Marco Revelli (Non solo un treno… La democrazia alla prova della Val Susa) innescarono reazioni e polemiche a tratti scomposte. Non fu solo un fatto personale (del quale, se così fosse, non parlerei): si andava, al contrario, sviluppando nel gruppo un’involuzione che avrebbe portato, tempo dopo, finanche al grottesco disconoscimento di un articolo di Erri De Luca sulla stagione degli anni ‘70 a lui richiesto e pubblicato nell’agenda di Md del 2014.
La situazione di Questione giustizia divenne paradossale. Magistratura democratica non poteva supportare e neppure tollerare una rivista che manteneva tracce dell’antica eresia. Il suo gruppo dirigente non condivideva la mia direzione ma non era in grado di esprimerne una diversa (pur potendolo fare senza problemi, avendo io da tempo messo a disposizione l’incarico); io, a mia volta, vivevo una situazione di disagio sia perché avvertivo la difficoltà di dirigere la rivista senza condividere la linea del gruppo (per di più essendo ormai fuori dalla magistratura). Si verificò così una condizione di stallo che non giovava alla rivista. Non ci furono censure esplicite né tentativi di prevaricazione (il cui l’esito sarebbe stato, del resto, scontato), ma ci furono critiche personali, disinteresse dell’esecutivo, mancate risposte o aperti dinieghi alle sollecitazioni di rinnovamento (sia nel collettivo redazionale che nell’apertura di un sito, da me ripetutamente richiesto perché necessario ai fini di un intervento sull’attualità impossibile con la cadenza trimestrale). E qualcuno arrivò ad adombrare che di Questione giustizia si sarebbe potuto tranquillamente fare a meno.
Reagii, alla fine, dimettendomi (e con me si dimisero, per ragioni diverse ma anche in conseguenza del clima difficile che si era instaurato, i condirettori). Le motivazioni le scrissi nell’editoriale di saluto: «Da qualche tempo – lo dico con la franchezza di sempre – questi cardini ideali scricchiolano in conseguenza del mutare della collocazione di Magistratura democratica (che della rivista è non solo l’azionista di riferimento ma, storicamente e culturalmente, l’anima), sempre più attenta alle dinamiche interne alla corporazione e preoccupata delle ricadute dei propri interventi sugli equilibri politici. Ciò si è tradotto in minore alimento per la rivista e talora in ostacoli ad affrontare – pur in termini problematici – temi caldi, essenziali per comprendere le attuali dinamiche della giurisdizione (come il rapporto in concreto tra intervento giudiziario e ordine pubblico o, proprio negli ultimi giorni, il “caso Palermo” con tutte le sue implicazioni). Di qui una crescente difficoltà della rivista a essere fino in fondo organo di una riflessione permanente, critica e non meramente corporativa, sulla realtà del paese, del diritto, della magistratura».
Le dimissioni furono una forzatura che, peraltro, si rivelò felice perché la scelta del nuovo direttore cadde su Beniamino Deidda, storico militante di Md di straordinaria indipendenza e intelligenza, che seppe resistere alle pressioni e ricostruire un tessuto di collaborazione e di agibilità politica della rivista, che ha continuato così il suo percorso con immutata qualità e avviando i cambiamenti (a cominciare dalla realizzazione del sito) necessari e precedentemente negati.
L’esistenza e la vitalità di riviste e di altri organi di pensiero dei gruppi della magistratura – come centri studi e fondazioni – sono una vivente smentita della vulgata polemica di una magistratura impegnata solo nella difesa delle prerogative di corporazione e interessata esclusivamente a nomine e carriere. Quale è, a tuo giudizio, lo stato di salute e l’incisività degli strumenti di cultura e di comunicazione di cui dispone la magistratura?
Non mi è facile rispondere avendo lasciato la magistratura da oltre 12 anni e avendo scelto di dedicarmi ad altro evitando un pernicioso reducismo. Continuo, ovviamente, a leggere Questione giustizia ma delle altre pubblicazioni provenienti dal mondo della magistratura conosco poco più di un cittadino informato. Rispondo, dunque, da esterno e con un occhio diverso da quello dei magistrati e parlo esclusivamente dei contenuti e della qualità della comunicazione che viene dalla magistratura. Non è una buona comunicazione ché – con l’eccezione di Questione giustizia e, per quel poco che vedo, di Giustizia insieme – essa è patrimonio di alcune prime donne che scrivono sui giornali o partecipano a talk show televisivi e dei vertici associativi: per lo più viziate da “populismo giudiziario” le prime, spesso appiattite sulla difesa della corporazione i secondi. Lo si vede icasticamente in questi giorni nel dibattito sullo sciopero della fame di Alfredo Cospito, sul 41 bis e sull’ergastolo ostativo in cui i magistrati – che pure potrebbero dare un grande contributo (come fece Questione giustizia, nel n. 2/1982, con un obiettivo tuttora attuale sul tema del rifiuto di alcuni detenuti di alimentarsi) – sono per lo più afoni o attestati su una acritica difesa dell’esistente. Inutile dire che, in questo modo, si perpetua la sindrome nefasta della cittadella assediata e si intensificano ulteriormente le fratture e le incomprensioni con il mondo largo dei giuristi (degli avvocati anzitutto, ma anche dell’Università). C’è, dunque, per Questione giustizia il compito storico di contribuire all’inversione di questa tendenza.
La rivista parla all’opinione pubblica interna alla magistratura, al ceto dei giuristi, ai giornalisti che si occupano di temi istituzionali e dei problemi della giustizia. È possibile e utile operare per conquistare l’attenzione di nuove fasce di lettori come i giovani delle Università e gli aderenti a organizzazioni sociali, sindacali e culturali interessati ai temi del diritto e dei diritti?
È, come ho appena detto, possibile e necessario. Ne sono convinto, non da oggi, e lo scrissi su Questione giustizia nell’editoriale di commiato dalla direzione: «È sempre più evidente che le riviste tradizionali (ad eccezione di quelle tecniche) stanno perdendo terreno e abbonamenti. A sopravvivere – e, anzi, a conoscere una fase di accresciuta importanza – sono soltanto le riviste che si sono trasformate in imprese culturali, cioè in luoghi di dibattito, di interazione con la stampa non specialistica, di organizzazione di eventi, di offerta tempestiva di documenti e materiali a un pubblico indifferenziato, di presenza sul campo anche con un sito attivo e vivace etc. Questione giustizia si trova in questa stretta. O cambia o diventerà una pubblicazione per addetti, lontana da ciò che è stata negli anni: l’unica rivista promossa da magistrati capace di interloquire con la cultura giuridica e politica, a volte addirittura dettando l’agenda (in particolare in tema di ordinamento giudiziario, di diritto del lavoro, di procedura penale)». Questione giustizia – come già Qualegiustizia – ha avuto successo e ha realizzato un’egemonia (seppur limitata al mondo giudiziario) anche per la sua anomalia, per la sua capacità di rapportarsi con mondi diversi (ricordo gli abbonamenti gratuiti a detenuti e l’ospitalità accordata a loro scritti), per la scelta di ospitare – a differenza delle consorelle accademiche e paludate – contributi legati alla concretezza e alla attualità (come sottolineava Sergio Chiarloni), per la consuetudine di accompagnare le proprie analisi con quaderni di approfondimento (ben 29 tra il 1982 e il 2012, al ritmo di uno ogni anno) e momenti convegnistici di rilievo nazionale. Dopo il periodo di difficoltà di cui ho parlato in precedenza, questa consuetudine sta riprendendo e Questione giustizia (insieme a una Magistratura democratica che ha recuperato la propria identità) sta ridiventando il cuore di un progetto, che comprende, tra l’altro, l’appuntamento di “Parole di giustizia” e si rivela sempre più attrattivo. Credo sia la strada da percorrere: non si tratta di cercare nuovi lettori ma di costruire un progetto complessivo. I nuovi lettori verranno, ma ci vuole coraggio e disponibilità a navigare in mare aperto. Le linee di intervento sono chiare: la mobilitazione, teorica e pratica, a sostegno dei fondamenti dell’ordinamento costituzionale e democratico, una rinnovata cultura dell’interpretazione (da costruire sia nelle università che nei tribunali), un effettivo controllo dei giuristi sulla giurisprudenza e sui provvedimenti giudiziari con una critica argomentata e rigorosa (che è complemento necessario dell’indipendenza dei giudici, garanzia contro gli abusi e veicolo di standard più elevati di approfondimento e di motivazione), il rinnovamento delle forme associative e delle aggregazioni dei giuristi (magari trasversali, fondate su idee e obiettivi comuni anziché su appartenenze).
La formula editoriale di Questione Giustizia prevede la coesistenza della trimestrale, monografica o centrata su “obiettivi” di approfondimento e della Rivista on line che pubblica quotidianamente uno o più articoli. Quale è il tuo giudizio su questa combinazione? Può essere variata o arricchita, ad esempio affiancando alla Rivista una collana di libri o pubblicando una edizione cartacea limitata dei numeri della trimestrale?
Questione giustizia ha cambiato più volte pelle: è stata prima trimestrale, poi bimestrale, per ritornare infine alla periodicità originaria; ha modificato almeno tre volte la veste grafica; ha prodotto quasi 30 quaderni e organizzato decine di convegni. La sua trasformazione in online è stata assolutamente necessaria ed ha consentito (e consente) interventi più immediati e incisivi, giustamente integrati dall’approfondimento realizzato con la trimestrale. È utile, a questo punto, un parziale recupero anche della dimensione cartacea? Non lo so dire. E, comunque, il mio giudizio sarebbe viziato dall’amore per la carta stampata (per mia scelta Questione giustizia è stata l’ultima rivista della Franco Angeli ad abbandonare la stampa con i piombi...) e dal fatto che oggi faccio l’editore. Ma so anche che la storia avanza e non si torna indietro. Forse, utilizzando l’interazione che il web consente, lo si potrebbe chiedere ai lettori.