Presentazione.
Il 20 settembre del 2013, intervenendo in un convegno per ricordare Loris D’Ambrosio, magistrato e consigliere giuridico del Quirinale, il Presidente della Repubblica Napolitano affermò che “… dovrebbe scaturire anche, tra i magistrati, un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana”.
E’ molto probabile che, nelle intenzioni del Presidente, “il discorso sulle riforme della giustizia” fosse riferito, in larga, se non esclusiva, parte, a quelle relative alla giustizia penale ed ai rapporti tra politica e giurisdizione, come si ricava anche da altri passi di quel discorso.
Ma quell’appello alla magistratura, ad essere “meno difensiva e più propositiva”, ben può essere raccolto anche con riferimento alla giustizia civile; specie da quella parte della magistratura che, da sempre, non si è trincerata dietro le critiche – spesso davvero ampiamente giustificate – alle inadempienze dei legislatori o ai loro estemporanei interventi, ma ha cercato di offrire un contributo ad un dibattito che avesse di mira il miglioramento dell’efficienza della giurisdizione civile.
Questa è, oggi, l’ambizione del Gruppo civile di Area, che vuole proporsi quale nucleo propositivo per una riflessione di ampio respiro sulla situazione della giustizia (non solo del processo) civile, in un dialogo continuo con gli altri attori di questa fondamentale funzione della vita sociale del Paese.
Il Gruppo civile di Area intende avviare, grazie all’ospitalità offerta da Questione Giustizia online (redazione@questionegiustizia.it), un percorso di discussione e confronto con i colleghi sui temi di maggiore attualità nel panorama della giustizia civile.
Si tratta di un tentativo per riflettere insieme e per confrontare i punti di vista con modalità differenti da quelli del dibattito, a volte “isterico”, che si registra sulle liste di discussione, anche quelle tematiche, in cui la brevità dei messaggi e la fretta di replicare a quelli immediatamente precedenti spesso innescano sterili polemiche o facili incomprensioni, catene infinite di repliche e controrepliche, che fanno perdere di vista il tema o i temi di dibattito.
Grazie agli spazi un po’ più ampi che Questione Giustizia ci offre, vorremmo provare ad esaminare tutte le questioni che concorrono a determinare la crisi della giustizia civile: dal punto di vista tecnico – giuridico, certo, ma anche con la volontà di rappresentare, o concorrere a rappresentare, un punto di vista politico del Gruppo.
L’ambizione è di non limitarsi alle sole questioni processuali (che, certo, costituiranno un nucleo rilevante delle nostre riflessioni), ma ampliare gli orizzonti anche ad altri ambiti e settori, di diritto sostanziale o ordinamentale o di carattere organizzativo, che possono concorrere a meglio individuare le (con)cause della crisi della giustizia civile e ad individuare possibili rimedi.
Il risultato di questi interventi (che sollecitiamo a chiunque ritenga di poter concorrere) potrà confluire in un incontro seminariale che il Gruppo si riserva di organizzare.
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La bulimia legislativa ed il disegno di legge delega per l’efficienza del processo civile.
Nello scorso mese di giugno valutammo positivamente, nel complesso, la strategia e le modalità di intervento sottese alle norme dedicate alla giustizia civile contenute nel cd. decreto del fare; in particolare, salutammo con favore quella che parve “una salutare presa di coscienza dell’inutilità (ed anzi, spesso, della dannosità) di interventi concentrati unicamente sulle norme processuali”, e l’emergere “di un differente approccio strategico, che abbia di mira da un lato i modelli organizzativi e le strutture di supporto al giudice, e che tenti dall’altro di creare (o ricreare) strumenti alternativi alla giurisdizione ordinaria”, con la consapevolezza, che pareva trasparire, “del fatto che la giustizia civile necessita anche di investimenti finanziari”.
Si è trattato, purtroppo, di una illusione di breve durata.
Mentre la commissione istituita dal Ministro della Giustizia a fine giugno 2013 per elaborare proposte di interventi in materia di processo civile e mediazione, presieduta dal prof. Romano Vaccarella, ha depositato il 3 dicembre scorso le proprie proposte, il 17 dicembre 2013 il Governo ha varato il disegno di legge delega per l’efficienza del processo civile ed altre disposizioni per il processo di esecuzione, contenente una serie di novità (o di criteri per introdurre rilevanti novità) nei giudizi civili e di esecuzione.
Dunque, lo “sciame sismico” sul codice di procedura civile riparte, e con intensità ancora maggiore.
E’ quasi impossibile, ormai, tenere il conto delle riforme, miniriforme, modifiche (organiche o singolari) degli ultimi anni, che contribuiscono a rendere l’attività di giudici ed avvocati una continua ed affannosa ricerca delle norme via via vigenti ed applicabili a seconda del momento dell’introduzione della causa, della sua fase, ecc. Ormai, ogni giudice, così come ogni avvocato, deve tenere sotto mano, e continuamente aggiornare, una sorta di prospetto che indichi le date a partire dalle quali si applicano queste o quelle altre norme: lasciando da parte la storia più risalente, e volendo ripercorre solo le modifiche introdotte a partire dall’inizio di questo secolo (e senza alcuna certezza di non dimenticarne alcune), abbiamo avuto, prima, il non rimpianto rito societario (il d. lgs. 5/2003 poi abrogato dalla l. 69/2009); abbiamo avuto, poi, la riforma del 2005 (il d.l. n. 35, convertito nella l. 80) che ha dato continuità ed evoluzione alla l. 353/90; quindi, alcune modifiche nel 2006 al giudizio di cassazione ed all’arbitrato; la riforma delle esecuzioni mobiliari ad opera della l. 52 del 2006; le numerose modifiche al c.p.c. introdotte dalla l. 69/2009; il d. lgs. 150/2011 sulla semplificazione dei riti; la legge di stabilità 183 del 12 novembre 2011 (con varie modifiche per rendere compatibile il codice di rito col processo telematico, e l’introduzione della norma processuale che, credo, abbia avuto la vita più breve in assoluto: quell’art. 26 sull’istanza di prelievo in appello e cassazione, partorito da menti sottilissime, abrogato dopo aver prodotto ritardi ed ingolfamenti dei ruoli dal d.l. 212 del 22 dicembre 2011, convertito nella l. 17 febbraio 2012, n. 10); le ulteriori modifiche introdotte dall’art. 27 della stessa legge, che ha apportato vari ritocchi alle norme sull’appello; la l. 218/2011 (quella che ha eliminato l’ultima parte dell’art. 645 c.p.c. in tema di opposizione a d.i. dopo la nota sentenza delle sezioni unite della Cass. sulla riduzione dei termini nell’opposizione); il decreto sviluppo n. 83/2012 conv. con modifiche nella l. 134 del 2012 (modifiche all’appello, al giudizio di cassazione e modifiche alla l. Pinto); la l. 228 del 2012 (legge di stabilità per il 2013) che, all’art. 1, co. 17, ha modificato l’art. 13, comma quater del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, sulle spese di giustizia, prevedendo il raddoppio del contributo unificato in appello in caso di rigetto o inammissibilità del gravame; il d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (misure urgenti per la crescita del Paese), convertito con modifiche nella l. 7 agosto 2012, n. 134, che ha modificato la forma dell’appello, ha introdotto il cd. filtro ed apportato modifiche al giudizio di cassazione; le nuove disposizioni introdotte in materia di mediazione dalla l. 98 del 2013 (di conversione del decreto del fare).
Ed ora, siamo arrivati alle “norme per l’efficienza del processo civile” …
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Da cosa nasce questa “bulimìa legislativa”? Fermo restando che alcune modifiche erano necessarie, altre opportune, il fenomeno è tale, nella sua imponenza, da rimandare a spiegazioni di carattere (se non psichiatrico) quanto meno filosofico. C’è, alla base di quest’iperattività, quello che i filosofi chiamano un paralogismo, vale a dire un sillogismo fasullo, fallace. Questo paralogismo si articola così: la premessa maggiore è che il processo civile non funziona, quella minore è che la colpa è della legge processuale, la conclusione è che si deve cambiare la legge processuale.
Ma si tratta di un paralogismo, e dunque, se vogliamo, di un imbroglio, perché la premessa minore anziché essere un fatto, una constatazione, è una valutazione, peraltro soltanto parziale, delle ragioni per cui si riscontra quella maggiore; e dunque la conclusione è fuorviata dalla sopravalutazione (come causa, e come possibili effetti) della premessa minore (la colpa è della legge processuale).
Del resto, salta agli occhi come, a fronte di tanto numerosi, ed infruttuosi, interventi sulla legge processuale, molti di meno siano stati quelli sull’organizzazione del servizio, e non tutti abbiano sortito gli effetti sperati (staremo a vedere, ora, gli effetti della riforma delle circoscrizioni giudiziarie).
Ciò che, a mio avviso, va aspramente contestato è l’atteggiamento di fondo del legislatore di turno, che pare desideroso soltanto di intestarsi “LA” riforma (ovviamente, a costo zero), come segnale politico di efficienza, capacità e decisionismo, senza peraltro curarsi di un preventivo raccordo con gli operatori tutti e con gli studiosi del processo civile, e senza neppure sforzarsi di coordinare l’estemporaneo intervento legislativo con quelli varati pochi mesi prima o, addirittura, come nel caso ultimo, con l’opera della commissione precedentemente insediata.
In tutto ciò, non viene neanche preso in considerazione il costo e l’impatto che ogni riforma, anche la più marginale, determina sulla sconquassata giustizia civile. Non mi pare che sia stato mai condotto, prima di una modifica processuale, un serio esame di quanto questa, a prescindere dalla sua bontà, possa rallentare l’ordinario andamento dei processi: occorrerebbe, al contrario, operare sempre una valutazione del rapporto costi/benefici, dove i costi di ogni riforma sono legati agli “effetti collaterali” che essa determina in termini di rallentamento dell’ordinaria attività processuale per effetto della necessità di studiare, valutare ed applicare norme prive di una precedente elaborazione giurisprudenziale; in termini di incertezza interpretativa; in termini di aumento del contenzioso che ogni norma nuova inevitabilmente comporta per il fatto stesso di prestarsi – come quasi sempre avviene – a diverse e mutevoli interpretazioni.
Molto più difficile – e per ciò spesso negletta – pare una paziente opera di comprensione delle cause strutturali della crisi, che imporrebbe misure più complesse sul piano organizzativo e/o ordinamentale (quando non addirittura sul piano socio-economico). Molto meno appariscente e “mediaticamente” spendibile è un serio impegno organizzativo, di cui pure ci sarebbe estremo bisogno, in vista dell’ormai prossimo appuntamento con il processo civile telematico del 30 giugno 2014.
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Questi vizi, e questa fretta riformatrice ad ogni costo, sono ravvisabili anche nel recente disegno di legge delega, e traspaiono sia nell’articolato che nella relazione di accompagnamento.
Limiterò il mio esame essenzialmente ad alcune delle disposizioni (ed ai passi della relazione ad esse relativi) concernenti il giudizio di appello, che è quello che attualmente pratico.
Mi pare opportuno partire da alcuni passaggi della relazione illustrativa, che costituiscono la miglior prova di quanto sin qui detto.
La relazione contiene alcune tabelle illustrative dei flussi e delle pendenze dei procedimenti civili presso i Tribunali e presso le Corti d’Appello, e dal raffronto tra le stesse trae la conclusione che, mentre i primi hanno conseguito una maggiore efficienza, con una costante diminuzione delle pendenze, le seconde mostrano una situazione di sofferenza, con pendenze in inesorabile aumento.
Ora, è innegabile la situazione di criticità in cui versano in generale le Corti d’Appello, che in taluni casi hanno tempi di definizione davvero insostenibili (rinvii per conclusioni a cinque o sei anni).
Ma non si possono citare dati e numeri parziali e “datati” per giustificare le nuove scosse telluriche che ci si accinge a provocare. Non è corretto, a mio modo di vedere, citare i dati del 2011 raffrontati con quelli del 2010 per concludere nel senso di un “inesorabile aumento delle pendenze” nelle Corti d’Appello, senza neppure provare ad operare una valutazione di quali possano essere gli effetti delle riforme (all’epoca, anch’esse salutate come ‘epocali’) varate nel 2012 e nel 2013: il filtro in appello sta funzionando o no? Quali contributi ci si attende, in concreto, dagli ausiliari da reclutare secondo il “decreto del fare” del 2013? L’impiego degli stagisti nelle Corti d’Appello sta incrementando, sia pure parzialmente, le capacità di smaltimento dei singoli consiglieri cui sono affidati?
Se dovessi giudicare dalla mia personale esperienza presso la Corte d’Appello di Napoli e dai contatti sporadici avuti con colleghi di altre Corti d’Appello (ovviamente, si tratta di dati non certo elevabili a campione rappresentativo), sarei indotto a ritenere che, per una sorta di eterogenesi dei fini, il “filtro” ex art. 348 bis c.p.c. (sulla cui formulazione tecnica si possono avanzare tutte le critiche possibili), unitamente all’introduzione (l. 183/2011) della decisione con le modalità dell’art. 281 sexies anche in appello, stia ottenendo effetti positivi; e qualche sia pur modesto (per ora) ausilio stia arrivando anche dagli stagisti; un contributo quantitativamente sensibile allo smaltimento dell’arretrato lo si attende, poi, dagli ausiliari previsti dal decreto del fare.
Ma, in ogni caso, non sarebbe opportuno attendere almeno una rilevazione statistica successiva, in modo da avere indicatori più attendibili?
Ed invece, e con gran fretta, si introducono una serie di norme che mal si conciliano con l’assetto vigente del processo civile.
Così, la delega prevede, tra i principi e criteri direttivi cui il Governo dovrà attenersi nell’emanazione dei decreti, che la motivazione dei provvedimenti che definiscono il giudizio in grado d’appello possa consistere nel richiamo della motivazione del provvedimento impugnato.
La relazione spiega che circa il 77% degli appelli proposti sono respinti: ed allora, questo è il ragionamento, tanto vale ricorrere a questa forma semplificata di decisione (che si affianca alla motivazione semplificata in primo grado).
Ma, evidentemente, ci si dimentica che il d.l. 83/2012 (misure per la crescita del Paese), convertito in l. 134/2012, ha sensibilmente riformato l’art. 342 c.p.c. sulla forma dell’appello, trasformando – secondo parte della dottrina – l’appello da gravame a critica libera ad impugnazione a critica vincolata. Ed allora, pare davvero paradossale richiedere alla parte impugnante un maggiore tecnicismo, ed imporle la puntuale indicazione delle parti del provvedimento che si intendono appellare e delle modifiche che vengono richieste, con l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata, e, poi, permettere al giudice d’appello che voglia respingere l’impugnazione di richiamare soltanto la motivazione del provvedimento impugnato. Con quale frustrazione e senso di ingiustizia per la parte impugnante, condannata anche al pagamento del raddoppio del contributo unificato, è facile immaginare.
Sulla stessa scia, di superficiale semplificazione, si colloca, a mio avviso, anche la previsione del giudice unico in appello: il Governo potrà, infatti, stabilire che la Corte giudichi in composizione monocratica nelle cause pendenti da oltre tre anni in una serie di materie. Ciò servirebbe, secondo gli estensori del progetto, ad “evitare una serie di fasi del processo decisionale che indubbiamente lo rallentano, quali la camera di consiglio e la sottoscrizione della sentenza da parte del presidente del collegio”.
E’, innanzitutto, sorprendente che l’attività collegiale venga considerata solo in termini di “rallentamento” della decisione, senza nessuna valutazione (quanto meno in termini di bilanciamento costi/benefici) dell’apporto qualitativo che la decisione collegiale può dare; e proprio la svalutazione del momento qualitativo rende possibile ipotizzare che il gravame contro una sentenza monocratica del Tribunale possa essere decisa da un giudice ugualmente monocratico dell’ufficio superiore, evidentemente ritenuto più affidabile in forza dello “status” conseguito.
In secondo luogo, l’elenco delle materie selezionate “per la loro semplicità” è, a tratti, sorprendente, includendo anche le cause in materia di diritti reali e divisione che, come ben sanno quanti ne hanno esperienza, certamente non possono essere ascritte nel novero delle cause “semplici”.
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La sensazione complessiva è che l’estemporaneità degli interventi sia accomunata soltanto dall’intento di incidere, grossolanamente, sui numeri, come che sia, a partire dal disincentivo alla proposizione delle domande attraverso la leva fiscale. Solo così possono, del resto, spiegarsi, il recente raddoppio del contributo unificato in caso di appelli respinti o dichiarati inammissibili, o la condanna al pagamento di una pena pecuniaria per il caso di rigetto o declaratoria di inammissibilità delle istanze di sospensione dell’esecutività provvisoria delle sentenze di primo grado. E nella stessa ottica sanzionatoria pare muoversi anche la odiosa previsione della responsabilità solidale del difensore con la parte in caso di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., che tralascia un radicato principio che vuole distinti i ruoli di parte e difensore.