La Côte d’Azur di inverno, con i raggi del sole obliqui e senza l’azzurro intenso del cielo. Il volto del padre che porta i segni di un profondo dolore, mai superato, mai condiviso ed elaborato con sua figlia. La scenica terrazza della villa (“come una spilla di una donna”) sul porticciolo della calanque di Méjean, poche barche, l’acqua inquieta del mare: fa freddo, però. Joseph e Angèle, i due fratelli tornati al padre da altrove, hanno lunghi cappotti in cui si stringono e Armand, il fratello che è rimasto alla villa, ha un pullover pesante. Questo l’inizio de La casa sul mare (La villa, il titolo originale), il film di Robert Guédiguian all’ultimo festival del cinema di Venezia.
Ciascuno dei tre fratelli ha una storia di delusione, di perdita, di dolore profondo, di legami e di fratture, tra loro, con questo padre e con questo luogo. Ciascuno dei tre fratelli è cresciuto con speranze e utopie poi divenute disillusioni.
Joseph ha “il cuore che sanguina ancora”, perché, nonostante i principi del padre, non è mai riuscito ad elaborare il passaggio dalla classe sociale da cui proveniva al mondo intellettuale in cui è transitato. Entrato in fabbrica per solidarietà con gli operai, dopo aver scelto di abbandonare gli studi, ha imparato che “gli operai veri non scelgono di essere lì”.
Angèle è divenuta un’attrice teatrale di successo, ma ha il cuore congelato, perché ha perso sua figlia proprio in un incidente in quella casa sul mare, la figlia affidata a suo padre. Dopo l’incidente, anche il suo compagno è andato via e così, Angèle non è tornata alla casa sul mare per oltre vent’anni, perché non voleva “il lutto dei miei desideri, dei miei sogni, delle mie gioie, delle mie pene, né dei miei paesaggi”.
Armand è rimasto alla villa, continua a cucinare le ricette di famiglia nel ristorante da cui non vuole guadagnare e tiene i “prezzi bassi perché tutti possano andarci”.
In questa luttuosa nostalgia, il sopraggiunto stato catatonico del padre (“potrebbe durare per anni”) sembrerebbe fissare il dolore e la frattura ed escludere la possibilità di passaggio, di vita.
Anche gli anziani vicini, Martin e Suzanne non possono più uscire dalla fissità del loro passato, del loro forte affiatamento e non riescono neppure ad accettare che il loro figlio sia cresciuto e possa ora occuparsi di loro. Piuttosto, è meglio fermare la vita.
Eppure, qualcosa può succedere e succede, quando si ritrova “il centro del mondo”.
Benjamin, il giovane pescatore che non è mai andato via da questo luogo “immobile”, continua ad uscire in barca, al mattino presto e porta indietro la sua pesca. Conosce a memoria Paul Claudel e può recitarlo insieme ad Angèle che egli ama “immemorialmente” da quando è andato a vederla in città, a Marsiglia, dove un teatro c’è.
Berangère, la giovanissima compagna di Joseph, che sa di non poter amare soltanto “per pietà”, può continuare a lavorare anche nella piccola calanque, collegandosi con il suo pc e andare a correre oltre le curve della strada tortuosa e impervia.
Poi, qualcuno arriva da oltre il mare. Qualcuno estraneo, ma che ha imparato che occorre occuparsi l’uno dell’altro per (soprav)vivere.
Con delicatezza e asciuttezza, allora, la trama si dipana perché ciascun personaggio possa riappropriarsi della sua storia e della vita, mentre il treno sullo sfondo continuamente va e poi ritorna, perché la vita non può fermarsi: perfino, “dove sei sepolto”, anche lontano dalla terra in cui sei nato, comunque “metti radici”, per far rinascere qualcosa.
Una storia di straordinaria bellezza e consapevolezza, in cui è nell’apertura all’altro la possibilità di rinnovare il presente e di ricucirlo continuamente con il passato, perché, utilizzando parole altrui, vivre c'est trahir continûment son passé e perché la vita non torna indietro e non si ferma a ieri.
Questa apertura all’altro comincia dagli affetti e dalle relazioni vicine, dal “centro del mondo”, ma poi si realizza e porta appieno il suo frutto proprio grazie a chi proviene da oltre il mare, ha perduto tutto, ha una storia sconosciuta e non parla neppure una lingua comune: un messaggio pronunciato piano, senza retorica.