Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

La comunicazione nel sistema giustizia: linguaggio scritto e linguaggio orale

Ricordando Teresa Massa e il suo pensiero
Nel 2002 ci fu un tentativo da parte della Formazione decentrata per la Corte d’Appello di Torino di lavorare sul tema della “comunicazione” all’interno del sistema giustizia, nella vita e nell’organizzazione giudiziaria. 

Vennero invitati per aprire la discussione Teresa Massa, Luigi Cancrini, Franco La Cecla e Anna Ronfani.

Non saremo mai abbastanza grati a Teresa Massa per il suo lavoro pionieristico e non solo su questo argomento.

Questione Giustizia intende renderle omaggio per ravvivare la fiamma del suo pensiero pubblicando il suo intervento di allora nella forma diretta della trascrizione. 

Abbiamo semplicemente recuperato la trascrizione scritta lasciando inalterata la struttura e il ritmo della relazione orale.

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Teresa Massa – Magistrato addetto al Massimario della Corte di cassazione

“L’attenzione del magistrato agli aspetti comunicativi del lavoro giudiziario”

 

Innanzi tutto ringrazio Marco Bouchard di avermi invitata e delle parole che ha usato nei miei confronti. Sono veramente lusingata di ricevere questo tipo di presentazione.

Vediamo se la merito davvero.

Allora, parlare di comunicazione nel processo significa già mettersi da un punto di vista esterno rispetto alla realtà del diritto, del mondo del diritto, secondo un’espressione probabilmente familiare a molti di voi, che si deve ad Hart, e che distingue tra la collocazione tra un punto di vista esterno e un punto di vista interno, interno ed esterno rispetto al sistema normativo, il punto di vista interno quando si riconduce tutto al linguaggio delle norme, il punto di vista esterno quando invece si pone al centro del proprio interesse non soltanto la parola della legge, il linguaggio delle norme ma i comportamenti effettivi che entrano in qualche maniera in considerazione nel fenomeno giudiziario, nel fenomeno del diritto visto nel suo complesso.

Io, per la verità, preferisco a questo punto di vista esterno, un’altra espressione che è utilizzata da numerosi altri studiosi che si sono occupati di filosofia del diritto, di teoria generale del diritto, che è quella della prospettiva dell’osservatore, perché adottare la prospettiva dell’osservatore nel guardare lo svolgimento del fenomeno giuridico nel suo insieme, nel suo complesso, mi sembra che sia l’unica chiave che consente di guardare e di valutare anche la comunicazione nel processo.

E perché dico questo. Perché di comunicazione vera e propria, degli strumenti di comunicazione, in realtà le norme non ne parlano o quando ne parlano, ne parlano marginalmente, in modo tutto sommato trascurabile, se ci riferiamo alle norme che impongono per esempio l’uso della lingua italiana; non è di questo che vogliamo parlare.

Gli strumenti della comunicazione non figurano tra le caratteristiche del sistema giuridico e questa espressione che io ho usato “sistema giuridico”, in realtà a sua volta comprende in sé qualcosa di più dell’espressione “diritto” o dell’espressione “ordinamento”.

Quando si parla di “sistema del diritto” o di “sistema giuridico” si pone l’accento sulla sistematizzazione, sull’idea di un’unità, non stiamo parlando dei diritti singoli, delle singole posizioni, delle singole pretese, quello che succede, le norme individualmente considerate o gli interessi qualificati e riconosciuti come frammenti di una realtà sociale in cui viviamo; noi parliamo di sistema giuridico, quindi sottolineiamo la sistematizzazione, quella che nasce dalle grandi codificazioni della fine del ‘700 e dell’800 e che annettono il ruolo unificante al legislatore, da una parte, e invece le grandi sistematizzazioni della dottrina, tra le quali ricordo come esempio, quella della scuola storica di Savigny.

Ora, nella seconda metà del ‘900, in epoca vicina a noi, si è iniziato a parlare di questa formula - sistema del diritto e sistema giuridico -, che ha avuto fortuna e ha soppiantato in qualche maniera quella di diritto e quella di ordinamento; questo implica che la rivalutazione della posizione dell’osservatore, è soltanto quella di un osservatore esterno al sistema, quello che può notare come i diritti, frammenti di norme, i precetti sono correlati tra loro in una qualche rete che ha delle connessioni, delle interconnessioni tra loro, e quindi gli elementi costitutivi del sistema si legano per tale sistema e l’osservatore esterno al sistema è l’unico in grado di coglierli e percepirli.

Allora, il parlare della comunicazione nel processo, della comunicazione del diritto, del modo in cui il diritto definisce se stesso, è un gioco di osservazione ed è un gioco che presuppone un nostro collocarci guardando al diritto come sistema, ma comunque un sistema che sia una parte e non il tutto dell’esperienza in cui siamo calati, perché chiaramente è un sistema che entrerà in contatto con tutto quello che è il portato, tutto quello che ha significato nella società più in generale, quindi nel mondo che può andare dall’economia, all’etica, alla scienza, le relazioni sociali in senso ampio.

Il processo, che è il momento centrale, imprescindibile per l’attuazione del diritto, è evidentemente un luogo di comunicazione, tant’è che è stato chiamato, individuato in tempi molto recenti, come uno dei cinque mercati delle idee che il nostro mondo ci presenta; in questo saggio che è di uno scrittore canadese si parla di mercati delle idee, ora, al di là del termine mercati, che forse non può risultare simpatico alle nostre orecchie perché rievoca immediatamente concezioni di tipo neoliberista od economiche, quello che vorrei dire è che il mercato della decisione, ecco così si identifica il sistema giuridico o il processo se vogliamo, in questa lettura, il mercato della decisione è un mercato e quindi un luogo di scambio, questo è evidente, un luogo di comunicazione.

Un mercato e non un tempio, mi viene di pensare, quindi un luogo dove non ci sono posizioni totalizzanti, dove non ci sono depositari assoluti della verità del diritto ma si dovrebbe affermare uno sviluppo e una individuazione discorsiva del diritto, cioè al diritto si dovrebbe arrivare soltanto a seguito di quella comunicazione, di quello scambio che nel mercato ha luogo, però un mercato caratterizzato dal monopolio della decisione.

Non abbiamo posizioni monopolistiche di individui che facciano parte del mercato della decisione ma c’è il monopolio della decisione, del momento finale verso il quale tutte le attività e tutte le comunicazioni che avvengono nel processo vanno a convergere, di questo esito assolutamente necessitato che rappresenta la caratterizzazione forte, secondo me, del processo come luogo di comunicazione.

Nella grammatica della comunicazione c’è un’attenzione particolare a quella che è l’interazione tra l’individuo e il suo ambiente, tra l’individuo e il contesto in cui l’individuo si muove.

Sappiamo tutti, perché ormai è un dato acquisito, l’idea che comunque le comunicazioni avvengono secondo moduli circolari, non esiste la modularità della comunicazione, ma poiché ogni comunicazione comporta un effetto di retroazione per cui ciascun evento non si può dire che la comunicazione non abbia mai né un inizio né una fine ma ciascun evento è causa ed effetto al tempo stesso degli altri eventi comunicativi, degli altri scambi di informazione che fanno parte del fenomeno comunicativo, in questo circuito di informazioni, il processo, l’ambiente, il contesto rappresenta uno degli elementi fondamentali che si affianca a quello della sorgente della comunicazione da una parte, al canale che è lo strumento attraverso il quale la comunicazione avviene, il destinatario dall’altra parte, il contesto è determinante e il contesto del processo è a mio avviso il contesto fortemente caratterizzato e diverso dagli altri contesti di comunicazione umana.

E dico questo perché nel processo noi abbiamo spazi e tempi non liberi ma vincoli pressanti che sono dati dalle regole del processo, dalla legge, dal diritto sostanziale o dal diritto processuale e in qualche misura anche dall’incidenza di precedenti giurisprudenziali o dalle acquisizioni della scienza della dogmatica, della scienza del diritto.

I protagonisti di questa comunicazione hanno ruoli distinti e non scambiabili, non interscambiabili tra di loro perché abbiamo protagonisti che sono chi parte, chi avvocato, chi giudice, quindi i ruoli sono diversificati e la comunicazione è decisamente orientata in senso finalistico verso questo scopo predeterminato, predefinito, che abbiamo chiamato “decisione” e comunque gli scopi individualmente perseguiti dai protagonisti possono essere in conflitto tra loro perché ad esempio le parti in un processo civile tendono ciascuna ad ottenere la decisione più favorevole e così ugualmente si può immaginare e ipotizzare anche nel processo penale.

Allora, parlare di comunicazione nel processo significa in realtà parlare di molte cose; il tema sul quale non esistono norme, in realtà apre uno scenario ampissimo, perché parlare di comunicazione nel processo significa parlare dei discorsi sui fatti che si fanno in un processo e dei discorsi del diritto, perché dall’altra parte c’è il diritto che dice se stesso e al tempo stesso potremmo fare una distinzione utilizzando come criterio il canale di comunicazione e quindi ci sono forme di comunicazione verbale e messaggi orali e messaggi non verbali da una parte e messaggi scritti dall’altra.

Le due cose si intersecano secondo tutte le possibili combinazioni, perché ad esempio è noto ed evidente a tutti che nel processo abbondano forme di comunicazione scritta del diritto, sono tutte le forme di argomentazione giuridica, sono tutti quei momenti nei quali il diritto attraverso la parola scritta, si argomenta, si comunica argomentandosi.

Io in realtà preferirei non parlare di questo e parlare invece, per quello che riesco, di momenti di pura comunicazione non scritta e quindi dei messaggi orali e dei messaggi non verbali sui fatti che non abbiano ad oggetto il contenuto del diritto ma sui fatti che entrano nel processo e per fare questo ho individuato due momenti esemplificativi, ho scelto due momenti che sono quello dell’interrogatorio libero delle parti nel processo civile e la comunicazione che si stabilisce tra Pm e pentiti nel processo penale, ma naturalmente farò poi alcune considerazioni che possono valere, se volete, anche per altri momenti del processo.

Perché la scelta sulla comunicazione non scritta sui fatti? innanzitutto perché parlare della comunicazione scritta e dell’argomentazione giuridica è un tema più familiare, più arato, sul quale certamente non avrei nulla di nuovo da dire rispetto a tutto quello che è stato detto in maniera molto migliore di quello che potrei fare io.

La comunicazione non scritta, sembra, nel processo, irrilevante, cioè sembra che il diritto dia a se stesso questa regola, che tutte le parole dette finché non diventano parole scritte, finché non diventano verbale, finché non diventano ordinanza, comparsa o quello che sia non rilevi, quindi sembra che ci sia uno spartiacque netto tra le parole dette nel processo e le parole scritte, le parole dette sembrerebbero non rilevanti.

Ma secondo me le cose non stanno esattamente così e mi fa piacere che anche Marco Bouchard nell’introdurre questi lavori si sia posto nella stessa lunghezza d’onda, cioè non è vero che per il diritto rilevi soltanto lo scritto.

Per il diritto la parola anche prima di diventare segno grafico ha una sua rilevanza nel processo, anche prima di diventare quello che Platone ha chiamato nel “Fedro” – “Segno Estraneo” – la parola scritta era segno estraneo rispetto al pensiero, il pensiero vive nella mente e quindi è vivo, vitale, capace di reagire, capace di evolversi, capace di difendersi, capace di reagire alle emozioni e alle reazioni degli altri soltanto quando è parola orale, diceva Platone oltre che nel Fedro, nella settima lettera, della cui autenticità o meno si discute ma che costituisce il fondamento sulle teorie delle dottrine non scritte di Platone.

Quindi in ogni caso la parola scritta diventa limitata, immutabile, perde la vitalità della parola orale.

Il linguaggio della scrittura diventa un linguaggio innaturale ed artefatto nel pensiero di Rousseau.

Rousseau, nel saggio sull’origine delle lingue, dice che la lingua nasce da un desiderio passionale, da un desiderio emotivo, non nasce dal bisogno, perché il bisogno dell’uomo si soddisfa attraverso il gesto, il movimento, un linguaggio segnico, comunicativo che poteva servire a risolvere i bisogni anche dell’uomo primitivo ma quello a cui bisogna dare voce è l’emozione, la passione; sono le emozioni e le passioni che non possono essere dette con un segno soltanto comunicativo, questa è la posizione di Rousseau, poi voglio dire, forse queste cose oggi non si dicono più in questi termini, però l’origine è questa, l’origine è che bisogna dare parola all’emozione e alle passioni.

E così il linguaggio è quello più naturale, meno innaturale e meno artefatto possibile.

 

L’INTERROGATORIO LIBERO DELLE PARTI NEL PROCESSO CIVILE

Allora, libero interrogatorio delle parti nel processo civile.

Facciamo un salto di mentalità, di contenuti.

Il Giudice ha davanti per lo meno due litiganti ma anche di più se è un processo a più parti e queste parti proprio perché litigano evidentemente sono tra loro in una relazione conflittuale.

Che cosa può fare il Giudice nell’interrogatorio libero delle parti, può cercare di indurre una retroazione positiva, cioè può cercare di indurre un cambiamento nella loro relazione, non si deve sforzare di lasciare la relazione così com’è, quella che si chiamerebbe retroazione negativa ma deve cercare di modificare questo modo di rapportarsi delle parti, tant’è che l’interrogatorio libero è finalizzato al tentativo di conciliazione e il Giudice partecipa al processo comunicativo a pieno titolo come gli altri, non è un estraneo, ecco, non può assumere la prospettiva dell’osservatore, il Giudice deve assumere la prospettiva del partecipante.

Partecipa al ruolo comunicativo e nell’interrogatorio libero, entrano in gioco necessariamente anche tutte le aspettative, tutte le sue aspettative, tutte le cose di cui lui si fa carico, per esempio, l’atteggiamento quale sarà? Di fiducia nei confronti dell’interrogatorio libero? Penserà di risolvere una controversia o di sfiducia o è un disilluso? Come definisce il giudice questa situazione che si trova a vivere? Cioè come definisce il momento dell’interrogatorio libero delle parti?

Se lo stato emotivo, il modo di vedere la situazione influenzerà necessariamente l’esito della procedura, quanto peseranno i messaggi non verbali che comunque lui farà passare? Intendo per messaggi non verbali sia gli elementi non verbali del parlato e quindi il tono della voce, l’intonazione della frase, c’è un modo di dire le cose con pathos, c’è invece il modo di chi le dice con disincanto, la velocità con cui parla, anche questi sono indici che comunicano e al tempo stesso anche quegli elementi invece assolutamente diversi, cinesici che sono lo sguardo, la mimica facciale, le espressioni che assume.

Il Giudice partecipa alla comunicazione nell’interrogatorio libero delle parti e ha di fronte questa relazione conflittuale tra i litiganti di cui dovrebbe innanzitutto stabilire il grado di quanto questa relazione sia sana o sia malata, il grado di correttezza di questa relazione perché secondo una classificazione che io ho adottato, ossia ho cercato di trasferire in quello che succede nel processo ma una classificazione che invece viene dall’Istituto di Ricerche Mentali di Palo Alto e si riferisce a interviste familiari e quindi a contesti diversi da quelli processuali, comunque le relazioni interpersonali sono sane quando presentano simmetria e complementarietà nella relazione che si alternano tra loro.

Chiarisco subito quali sono questi elementi di simmetria e complementarietà.

Una relazione è basata sulla simmetria quando adotta come criterio quello dell’uguaglianza, ossia quando le parti non importa di cosa stiano parlando, non importa il contenuto, importa il modo in cui tra di loro parlano di certe cose.

Ora, se le parti si inseguono sempre esattamente, si rincorrono sullo stesso terreno, nel senso che se uno ha un atteggiamento aggressivo l’altro anche ha un atteggiamento aggressivo, se uno è arrendevole anche l’altro è arrendevole, fanno in modo che ciascuno debba sempre dire l’ultima parola, debba avere la possibilità di parlare lui del fatto, della relazione o di quello che sia, ora questa è una relazione di tipo simmetrico, perché ciascuna delle due vuole affermare il proprio diritto di parlare di quell’oggetto e di parlare rispetto all’altro.

Una relazione complementare è all’opposto, quando immediatamente una delle parti si colloca in posizione sovra ordinata e l’altra in posizione sotto ordinata e quest’assetto rimane costante nel processo comunicativo e quindi i ruoli non cambiano mai, cioè immaginiamo un interrogatorio di coniugi o di datore di lavoro e di lavoratore, cioè una parte che stabilisce il proprio diritto a parlare, cioè a dire le cose come stanno, io posso raccontarti come è andata questa storia e l’altra parte che non interviene, che si adegua, che accetta.

Ora, entrambi questi tipi di relazioni sono poco sane, perché una relazione sana è quella invece nella quale si alternino entrambi questi atteggiamenti, quindi il Giudice cosa può fare, una volta che abbia colto il tipo di relazione esistente tra i soggetti che sta interrogando, che ha davanti? Beh, può cercare, secondo me, di introdurre, di ricondurre la relazione tra le parti a una relazione sana, quindi può cercare di introdurre quegli elementi che difettano, che possono essere appunto gli elementi di simmetria o gli elementi di complementarietà che le parti autonomamente non hanno invece stabilito tra loro.

E per quanto riguarda il contenuto di questo interrogatorio, dei tentativi possibili che il Giudice può fare, il tipo di impostazione, di comunicazione che può tentare di introdurre nell’interrogatorio libero, io ho cercato di dividere in quattro fasi, di analizzare in quattro fasi il procedere della comunicazione nell’interrogatorio libero.

Una prima fase, una fase definitoria del problema, in cui il Giudice deve cercare di capire la cosa fondamentale del processo civile, secondo me, cioè qual è il reale interesse in gioco; questo è il cuore del processo civile, perché appartiene all’esperienza di tutti noi, quella cioè che molto spesso il reale interesse non venga fuori, non sia immediato, non sia immediatamente evidente, viene mascherato da una serie di pseudo situazioni, di coperture, di richieste strumentali rispetto al reale interesse perseguito dalle parti e allora il cercare di capire innanzitutto perché le parti sono lì davanti, il perché  si sta celebrando questo processo.

Come si può fare questo?

Forse, dopo le domande di apertura, qual è la vostra situazione, io ho cercato anche di fare delle tipizzazioni assolutamente estemporanee, non esaustive, è una sorta di classificazione un po’ empirica, poi ci possono essere domande informative, di chiarimento, quando non si capisce la situazione, cosa intende per, ma chi è che ha fatto questo, cioè quelle domande che servono a definire la situazione ma per formulare poi le domande giustificative in cui si chiede la ragione, la giustificazione dei comportamenti che sono coinvolti nella situazione litigiosa, nella res litigiosa, quindi ad esempio perché ha cambiato la serratura?, Ed infine arriviamo alla domanda focale, a quella che chiede le intenzioni, cioè cerca di mettere in luce i reali interessi delle parti, sarebbe interessato all’adempimento del contratto ma io direi a quello che è il contenuto concreto, per esempio deve consegnare un cavallo, sarebbe interessato ad avere un cavallo oggi? Lo vuole? O non lo vuole più? Cioè il tirare fuori il reale interesse delle parti.

La seconda fase è un’analisi della soluzione tentata fino a quel momento ma chiaramente infruttuosa, se no non avreste davanti le parti in un interrogatorio libero, cioè c’è stato un insuccesso, questo è evidente e allora cercare di chiedere le ragioni dell’insuccesso, cercando tra l’altro di attuare una comunicazione più affermativa, più positiva possibile e quindi il Giudice potrebbe partire dicendo: “…ma sicuramente avrete cercato una soluzione tra di voi, avrete cercato di mettervi d’accordo, come mai non ci siete riusciti, quali sono le proposte che erano venute fuori?”

Poi si entra nella terza fase, una fase più propositiva, cioè bisogna definire qual è il cambiamento da adottare, per fare in modo che le parti possano arrivare ad un possibile accordo e allora si esplorano delle possibili proposte conciliative, attraverso varie domande ipotetiche, prospettando varie possibilità che mi sembra comunque una forma di comunicazione preferibile a quella di chi invece si limiti a farne soltanto una, perché è meglio aprire un ventaglio di possibilità per poi magari arrivare alla definizione, alla domanda conclusiva e a quella attraverso la quale si possa auspicabilmente dire “allora siamo d’accordo ecc. ecc.”

Nel corso di questa comunicazione si può anche pensare a volte di provocare domande che in qualche maniera allarghino il campo, allarghino l’orizzonte, cercare di prospettare alle parti quelle soluzioni che magari vanno al di là dell’ambito della controversia, così come è stata introdotto, come è stata definita processualmente ma che con uno sforzo di fantasia da parte del Giudice potrebbe anche risultare più soddisfacente.

Insomma quello che il Giudice deve fare, a mio avviso, per realizzare una comunicazione efficace nell’interrogatorio libero delle parti è la capacità di assumere l’atteggiamento dell’altro, altrimenti non si ha comunicazione, quindi se il Giudice riesce davvero a mettersi nella posizione di ciascuna delle parti litiganti che ha di fronte, ecco, soltanto così io credo che possa espletare una comunicazione efficace nell’interrogatorio libero.

 

IL RAPPORTO TRA IL PUBBLICO MINISTERO E IL PENTITO NEL PROCESSO PENALE

Adesso facciamo un altro salto e direi qualcosa per quel che riguarda il processo penale sul tema dei collaboratori di giustizia e sulla comunicazione tra pentito e Pubblico ministero.

Veramente rapidissima perché ho soltanto 5 minuti.

Gli istituti premiali sappiamo tutti bene come innanzitutto di per se trasmettano un messaggio di incoraggiamento, la norma che minaccia una sanzione trasmette un messaggio di dissuasione perché vuole che non si pongano in essere certe condotte offensive; la legge premiale chiaramente manda all’opposto un messaggio di incoraggiamento, se tu terrai un comportamento di tipo diverso invece avrai una riduzione o l’eliminazione della pena ecc.

Nella visione tradizionale, secondo gli istituti di tipo premiale tradizionali e quelli conosciuti nel codice, quelli codicistici, nel momento in cui si applica la politica premiale da parte del legislatore penale, è un momento che si concentra sull’azione di segno opposto invece all’azione criminosa e si parla di contro azione nel senso che deve essere un tipo di condotta, un tipo di comportamento che prescinde completamente, non ha alcuna dimensione processuale perché è una condotta, un comportamento che viene posto in essere del tutto al di fuori del processo e attraverso la quale sostanzialmente si attua una tardiva osservanza della norma che è stata prima violata.

Invece le figure premiali nuove, quelle che sono il pentitismo, la collaborazione dei collaboratori di giustizia hanno due caratteristiche fondamentali rispetto agli istituti premiali tradizionali. Innanzitutto si svolgono nel processo, hanno uno stretto legame con il processo, una natura processuale e questa collaborazione con l’inquirente, questa collaborazione dell’imputato, del reo, con l’inquirente e poi con il Giudice, quindi non consiste in un’azione, in una condotta che si svolge al di fuori del processo, ma è una vera e propria collaborazione processuale.

E questo ha due conseguenze importanti: da una parte trasfigura completamente il processo, il processo non è più il luogo dell’accertamento di fatti che sono accaduti prima ma il processo diventa costitutivo, diventa il luogo dove avvengono dei fatti rilevanti, cioè dove avviene la collaborazione e dove avviene il pentitismo e l’altro fatto rilevante è che questa collaborazione è soprattutto essenzialmente una collaborazione di tipo comunicativo, cioè c’è una comunicazione tra il pentito e l’inquirente.

L’ordinamento dice di essere indifferente a quelle che sono le motivazioni personali che hanno indotto la persona a collaborare, proclama che in realtà, ribadisce che il pentito per accedere ai benefici premiali non è necessario che si sia ravveduto, ciascuno lo può fare per le ragioni utilitaristiche che ritiene per avere sconti di pena.

Però l’ordinamento poi cade in contraddizione quando mi dice che per la chiamata in correità i riscontri che si desumono dalle dichiarazioni degli altri eventuali pentiti, debbono essere attendibili, perché nel valutare l’attendibilità probabilmente una valutazione sul processo psicologico che ha portato l’individuo a collaborare, una valutazione sulla bontà di quell’analisi costi/benefici che deve aver fatto, a mio avviso rientra, altrimenti sarebbe difficile ritenere attendibile o meno la dichiarazione di un pentito.

La cosa che credo abbia più a che fare con la comunicazione nel processo è quello che il pentito racconta, perché il pentito fa un suo racconto e racconta un fatto complesso.

Poiché il pentitismo non può che riferirsi ai fatti associativi, alle associazioni per delinquere di tipo mafioso, destinate al traffico degli stupefacenti e altre ipotesi che conoscete, il racconto del pentito riguarda eventi storici e sue valutazioni e suoi giudizi, perché il dire chi aveva il ruolo di capo o quali erano le strategie, come funzionava quel tessuto organizzativo e associativo di cui parla, poiché non parla il pentito soltanto di singoli eventi, di singoli episodi delittuosi, allora in tutto questo suo racconto, secondo me, non è scindibile l’elemento dell’evento storico con l’elemento valutativo e quella del pentito è stata chiamata da qualcuno come una verità rivelata, cioè diventa una complessa ricostruzione delle cose come stanno, rispetto alla quale il Pubblico ministero non può che farsi interprete.

Non si riesce a scindere l’evento storico dal momento valutativo e dal giudizio reso dal pentito.

Il pentito nel momento in cui parla con l’inquirente potrebbe compiere un’operazione in cui naturalmente ci sono alcune proposizioni, alcune delle cose che dice hanno carattere assertorio e assertivo quindi sono descrizioni di fatti che possono corrispondere ed essere valutate logicamente come vere o false, soggetti a questa valutazione semantica, ma al tempo stesso è un atto performativo perché in questo caso parlare è agire, il pentito che parla, in quanto parla collabora con la giustizia, e quindi ha accesso ai benefici di legge, quindi il pentito diventa collaboratore di giustizia, cioè questa cosa diventa una conseguenza immediata, è un parlare che è anche un agire ed oltre a questo ha un contenuto espressivo, perché quello che il pentito racconta può manifestare appunto il proprio timore o il proprio disprezzo o il proprio riconoscimento di certi ruoli di vertice.

E il Pm cosa fa in tutto questo?

Deve decodificare questi messaggi che riceve dal pentito e cercare di ritradurli in termini giuridici e nel tradurre, voi sapete bene, che c’è sempre anche un tradire, quindi la traduzione operata dal Pubblico ministero non può che necessariamente essere una traduzione in cui poi la verità diventa quella che il Pubblico ministero è in grado di sostenere.

Cioè ci deve essere una quota di fraintendimento, una quota più o meno ampia più o meno estesa.

Il fraintendimento secondo alcuni è necessitato, ma questo anche nelle ricerche filosofiche di Wittgenstein è così, quando lui nega che possa avere il linguaggio un significato suo proprio ma che invece necessariamente il significato sia soltanto desumibile, dico tra virgolette, tra l’uso che se ne fa e dalle condizioni di giustificazione dell’uso del linguaggio.

Comunque il fraintendimento è la dimensione necessitata, il Pm diventa traduttore delle parole del pentito e alla fine la posizione potrebbe essere confrontata con quelle che sono le parole di Socrate riportate nei Dialoghi di Platone o le parole di Cristo nei Vangeli e quindi la domanda è: Di chi è la verità alla fine? A chi appartiene quella parola? 

                        ********                                   

*Riportiamo anche quanto detto da Teresa Massa, a conclusione dell'incontro di studio, nel "giro" di considerazioni finali dei relatori:

Non so neanche se approfitterò di tutti i minuti che ho ancora a disposizione anche perché a questo punto sono nel più completo disordine, forse quasi a uno stadio di anarchia perché le sollecitazioni del pomeriggio sono state veramente tantissime.

Soltanto alcuni pensieri sparsi su due o tre punti.

Il primo punto è la definizione, una riflessione sul rapporto tra il ruolo e la persona, un tema che è stato trattato nella relazione dell’avv. Ronfani e del prof. La Cecla in qualche maniera, non negli stessi termini ovviamente, ma con qualche riferimento a quello che può essere il ruolo nel sociale e il rapporto dell’individuo.

Mi veniva in mente l’idea, cara proprio ai fondatori nella sociologia moderna, secondo cui forse c’è una contemporaneità nel modo in cui si sviluppano il mondo sociale e il mondo soggettivo

Cioè mi chiedo se in realtà nella definizione di ruolo e persona non dobbiamo porci la domanda se in realtà non siano definizioni che necessariamente vanno insieme, perché tra ruolo e persona nessuna delle due può dire di giocare d’anticipo sull’altra, ma lo sviluppo del mondo sociale va insieme a quello del mondo soggettivo, e questo sarebbe il tema di altri infiniti incontri.

L’altra osservazione che volevo fare, riguarda la relazione del prof. La Cecla, quando ha introdotto la nozione di retorica.

A me fa sempre molta paura sentire parlare di retorica, perché naturalmente l’associo a certe forme, per cui sono state società che manifestavano delle crisi di valori quelle che più frequentemente hanno fatto ricorso ad un certo tipo di retorica, quella di cui di solito si parla, in maniera forse banale, quando banalizziamo l’uso del termine.

Sono abbastanza convinta che non fosse in questi termini, riferendosi a questa retorica cattiva, consentitemi adesso il termine, quello di cui parlava il prof. La Cecla e invece credo che dal mio punto di vista quello che la retorica implica e quello che è importante nel discorso giuridico (ma questa è la mia opinione), è la presenza del pubblico, la presenza dell’uditorio, il fatto che ci sia un senso comune, il giudizio, lo dice Kant nella Critica del giudizio è pubblico, non può non essere pubblico, non esiste giudizio privato, non esistono le regole che si possono seguire privatamente, tutto questo avviene soltanto in una dimensione pubblica.

Il ricordarsi che c’è un uditorio, il ricordarsi che c’è l’intersoggettività dei diritti passa attraverso il senso comune, quindi una dimensione pubblica dell’attività di giudizio è quello che secondo me, in un senso positivo si può cogliere nell’uso della retorica, se intendiamo con questo il fatto che i parlanti sono consapevoli della presenza dell’uditorio che dovrà essere persuaso, in cui dovranno raccogliere consenso, cioè una condivisione della decisione.

E questo è il discorso che si fa a partire da Kant e tutte le teorie del discorso dell’agire comunicativo o delle teorie del diritto discorsivo.

L’ultimissima cosa mi ha molto emozionato: sentire il prof. Cancrini parlare del terzo livello della comunicazione e quindi il prestare attenzione oltre che ai contenuti, al tipo di relazione che si stabilisce nella relazione anche all’emozione che prova il destinatario di questa comunicazione, cioè l’effetto che fa in me il sentire, il ricevere la comunicazione dell’altro, se ho ben capito.

Questo mi sembra che valorizzi appunto lo stato emotivo, emozionale interno anche del giudice perché riceve queste comunicazioni nel processo e mi viene in mente il fatto che delle tre grandi parole della Rivoluzione francese, “Uguaglianza, Libertà, Fraternità”, la meno scandagliata, la meno perseguita, la meno indagata, anche dai giuristi è quella della fraternità, cioè parliamo tutti molto di libertà e di uguaglianza ma l’idea della fraternità, che poi è l’idea dell’essere capaci di porsi di fronte all’altro come a un fratello, quindi con tutto un bagaglio di emozioni e di affettività è invece quello che di solito è quello più carente o quello in cui siamo più carenti.

29/09/2016
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