Un severo presidente di corte d’assise è vittima di un grave incidente che lo ospedalizza per varie settimane. Viene curato da un’affascinante dottoressa che ha l’abitudine di stabilire un contatto umano (e fisico, sia pur casto) coi suoi pazienti. Dimesso, per poterla rivedere organizza una cena coinvolgendo goffamente il direttore del reparto, un riccastro noioso; ma quando si fa timidamente avanti riceve un garbato rifiuto.
Qualche anno dopo, la rivede in corte d’assise in veste di giurata popolare nel controverso caso di omicidio d’una neonata, consumato in ambito familiare. La dottoressa è l’unica dei giurati a intuire, contro le apparenze, la verità. Anche il presidente finisce per intuire la verità, e in un breve discorso fa quello che un presidente di corte d’assise non dovrebbe mai fare, ossia orienta il giudizio popolare proprio il giorno prima della camera di consiglio: spiegando che il fine della giustizia non è l’accertamento della verità, ma la riaffermazione della volontà della legge; che a seguito di un’eventuale assoluzione l’imputato verrebbe nuovamente giudicato su appello del procuratore. Passeranno due-tre anni (la giustizia francese è più veloce della nostra) e forse la verità verrà a galla da sola.
I giurati recepiscono il messaggio e l’imputato viene assolto.
Il presidente s’era innamorato della dottoressa per come lei svolgeva il proprio lavoro, per come gli prendeva la mano mentre era disteso sul letto d’ospedale. La relazione tra paziente e medico non è evidentemente quella tra imputato e giudice.
Per una ragione insondabile, la presenza di lei tra i giurati cambia l’atteggiamento del presidente, che tra la sorpresa generale si rivela innocentista. In genere smonta la difesa, qui smonterà l’accusa.
L’innocente che viene liberato, senza la dottoressa sarebbe certamente stato condannato proprio perché gli elementi che si dibattono nel processo non consentono di stabilire la verità: è tutto soltanto un problema di apparenze, di versioni e soprattutto di sentimenti. Una verità obiettiva non c’è mai, esiste soltanto la combinazione soggettiva degli incerti dati somministrati dal dibattimento.
Il presidente viene premiato e ottiene quel che vuole; non la verità (il destino dell’imputato gli è del tutto indifferente, come non ha difficoltà a riconoscere commentando di sfuggita il caso con la segretaria d’udienza) bensì l’attenzione della dottoressa, sotto i cui occhi complici inizia un altro dibattimento. Del quale, l’unica cosa che davvero gli interessa è che lei resti lì a guardarlo («ho bisogno di sentire i tuoi occhi su di me»).
Perché la dottoressa, che anni prima lo aveva respinto, ora sembra accettare l’impacciata e quasi disperata proposta amorosa? Non c’è alcun dubbio: per come il presidente ha saputo svolgere il suo lavoro e per come ha mostrato di saper cambiare l’atteggiamento che lo rendeva tristemente noto come “il presidente a due cifre” (gli anni che era solito comminare).
Sulla base di questa trama, difficile pensare che La Corte (titolo originale: L’ermellino) sia un film sulla giustizia; a sessant’anni, il presidente ha capito che la giustizia non esiste perché non può esistere senza verità. Esiste semmai la sanzione, ossia la riaffermazione della volontà violenta della legge: e questa impone che gli esponenti delle classi non privilegiate vadano puniti. Essi non hanno voce, neppure nei verbali di interrogatorio che sempre vengono tradotti nel linguaggio delle classi privilegiate (“tradurre è tradire”, contesta la difesa, peraltro piuttosto assente).
Non è neppure un film sull’amore, almeno nel significato tradizionale. Difficile classificare amore il sentimento represso e frustrato di lui, ancor più difficile leggere negli sguardi distaccati di lei.
Ma qualcosa in fin dei conti accade, tutto restando nel dominio del Caso: quello che li ha fatti rincontrare, quello che ha consentito all’imputato di venir assolto, quello che fa emozionare il presidente per un complice sorriso di lei. Ma cosa riservi loro il Caso, il film non lo lascia neppure intuire.