Razza e inGiustizia è nata come ricerca storica per gli ottant’anni dall’approvazione delle leggi razziali. È bastato, tuttavia, aprire i primi testi giuridici dell’epoca per comprendere la bruciante attualità dei suoi temi:
- l’attualità del censimento su base razziale, al quale è dedicata la copertina del volume; un documento nel quale gli ebrei sono censiti per regione e suddivisi in razza «pura», «imprecisata», «mista» e «complessa», allorquando si parla di censimento dell’etnia rom, inaccettabilmente riproposto proprio in questo anno di ricorrenza degli ottant’anni dalle leggi razziali;
- l’attualità della triste vicenda delle restituzioni, incredibilmente ancora non completate, come testimoniato dalla notizia della riconsegna, il 12 settembre scorso, del quadro di Auguste Renoir Due ragazze che leggono in un giardino (1919) alla nipote dell’ebreo Alfred Weinberger; fuggito a Parigi, quest’ultimo depositò in una cassetta di sicurezza bancaria alcuni quadri − di cui, nel 1941, si appropriarono i nazisti − per sfuggire alle persecuzioni; si tratta di una vicenda spesso tormentata da meschini ostacoli opposti dai detentori e, non di meno, da interpretazioni incapaci di cogliere appieno il contesto delle persecuzioni;
- l’attualità delle discriminazioni su base razziale, quale concausa dei fenomeni migratori dall’Africa all’Europa ed effetto di una politica incapace di regolarne i flussi e l’impatto sulle singole comunità degli Stati europei;
- l’attualità degli hate speech diffusi, allora, da discorsi politici e vignette satiriche di inusitata violenza contro gli ebrei (come quelle pubblicate nel volume) e, oggi, con analoga potenza comunicativa, dai social network, sapientemente indirizzati per alimentare intolleranza e odio razziale;
- l’attualità del conflitto tra magistratura e politica, inevitabile quando la seconda rivendica una immunità di fatto, soprattutto nel ledere i diritti umani e nel trascurare il divieto di discriminazione scolpito nell’art. 3 della Carta costituzionale.
Grazie anche alla collaborazione di brillanti storici, come Antonella Meniconi e Marcello Pezzetti, la ricerca si è inevitabilmente trasformata in un’esperienza intensa, divenendo percorso personale di comprensione e interiorizzazione − non solo come giuristi − del significato ultimo di quell’epoca e dei suoi tragici eventi nonché degli imperativi che essi impongono, sia al legislatore sia all’interprete.
Nel “viaggio della memoria” effettuato al campo di Auschwitz-Birkenau, organizzato dal Miur in collaborazione con il Csm e i rappresentanti dell’Ucei insieme agli studenti delle scuole superiori e con la indimenticabile testimonianza di Andra Bucci, monumento vivente alla storia dell’Olocausto, abbiamo potuto cogliere appieno la mostruosa efficienza della burocrazia dello sterminio, potente rappresentazione della banalità del male: partendo dall’intolleranza e dal sospetto verso gli ebrei, da secoli latenti in parte della popolazione, la propaganda, la politica e le leggi alimentarono paure e frustrazioni, così da determinare l’apertura, in un anonimo snodo ferroviario al centro dell’Europa, di un buco nero nell’universo etico, ove fu dissolto qualsiasi barlume di umanità e speranza.
Nonostante l’impossibilità di lenire il dolore collettivo, quanto accaduto durante questo glaciale inverno dei diritti ha permesso la gemmazione del moderno statuto dei diritti umani. Anche il divieto di respingimento, sancito dalla Convenzione sullo statuto dei rifugiati firmata a Ginevra nel 1951, trova significativamente un precedente storico simbolico nella fuga e nelle deportazioni degli ebrei. Il 22 agosto 1942, tre apolidi ebrei (Eduard Gros, Hubert e Paul Kan), dopo aver varcato illegalmente il confine svizzero nei pressi di Ginevra, vennero fermati dalla gendarmeria dell'esercito e inviati a piedi verso la frontiera della Francia occupata; alla vista degli agenti di confine tedeschi, essi si gettarono nel Rodano e tornarono a nuoto verso la riva svizzera. Invocato disperatamente asilo, ma senza successo, «uno di loro tentò di tagliarsi le vene», come riportato dal Rapporto Bergier [1]. Concordata la loro consegna ufficiale con i funzionari di frontiera tedeschi, i tre ebrei furono tratti in arresto dalla polizia di confine e deportati ad Auschwitz. Nel Rapporto è citata la Circolare emessa, il 13 agosto 1942, dalla Divisione di polizia del Dipartimento federale svizzero di giustizia e polizia, laddove dispone che «I profughi solo per motivi razziali, ad esempio gli ebrei, non sono considerati profughi politici». Ciò implicava il loro respingimento da parte delle autorità civili e militari cantonali. Heinrich Rothmund, capo della Divisione federale e fautore dell’inasprimento delle misure di espulsione, si espresse in proposito nei seguenti termini: «La barca è piena».
In Italia, nell’impulso dell’Istituto nazionale di cultura fascista alla difesa della razza, e nella firma del relativo Manifesto del ’38, stava l’urgenza di fornire una base scientifica al razzismo. Per giustificare l’ingiustificabile occorreva, però, anche un fondamento giuridico.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la senatrice Liliana Segre [2] hanno sottolineato la funzionalità delle leggi razziali al progetto dittatoriale. Parafrasando Hannah Arendt, possiamo dire che, durante il fascismo, per cementare insieme cultura razzista, politica razzista e burocrazia razzista si dimostrò necessaria anche la “legalità del male”, consacrata da numerose leggi introdotte senza alcun dissenso parlamentare.
Nella visione della dittatura, la norma razziale non era, di per sé, sufficiente. Occorreva offrire alla comunità dei sofisticati giuristi italiani un sostegno dogmatico alla legislazione antisemita: qualcuno doveva assumersi il compito di scolpirne la ratio legis per trasformare la persona in un illecito.
Nel 1939 fu fondata la rivista giuridica Il diritto razzista, diretta dall’avvocato squadrista Stefano Cutelli, il cui Comitato scientifico vedeva la partecipazione, oltre che di avvocati e professori, di numerosi magistrati, ordinari e amministrativi, di altissimo rango [3].
Si affermò che le leggi razziali fasciste aspiravano a «mantenere il prestigio della razza superiore (ariana) di fronte alle altre, ponendo in una situazione d’inferiorità sociale e giuridica gli elementi di razze inferiori», giustificando molte disposizioni speciali con l’affermazione che gli ebrei rappresentavano «nel momento politico attuale il maggiore pericolo per la nostra razza» [4].
In questo modo, furono create le premesse per abbandonare il principio di uguaglianza formale dei cittadini proprio dello Statuto Albertino, giungendo all’orrida limitazione della capacità giuridica in base alla razza dell’art. 1 del codice civile, in un impensabile crescendo di differenziazione, discriminazione, emarginazione, espropriazione, deportazione, riduzione in schiavitù, tortura ed eliminazione, che portò l’Italia ad accodarsi al tentativo di cancellazione di un popolo dalla Storia.
Saggisti, politologi sociologici non sono ancora riusciti a fornire gli strumenti culturali per individuare il momento in cui, nella storicità del tempo e del luogo, il diverso, strappato al principio universale di uguaglianza, diviene nemico nella percezione collettiva e, come tale, costretto a diventare clandestino, irregolare, apolide, rifugiato, inutilmente richiedente asilo come furono gli ebrei − tra i quali troviamo magistrati, come il giovane Mario Finzi, e avvocati, come Amalia Fleisher.
Eppure, resta essenziale il saper cogliere tempestivamente i segnali di questo mutamento, prima che un nuovo buco nero incominci ad attrarre irrimediabilmente i diritti umani senza che nessuno riesca utilmente a opporsi; prima che la legalità, da difesa dei diritti, si trasformi in arma del male, non contrastabile con la Costituzione e le Convenzioni internazionali, portando nell’ombra le vite di persone incolpevoli.
Il breve saggio dell’Ufficio studi sull’involuzione ordinamentale e i suoi protagonisti descrive come, durante il regime fascista – e con velocità futurista − le riforme della magistratura e, più ancora, il mutato contesto politico dissolsero ogni forma di autonomia esterna e interna del magistrato manifestatasi durante il periodo liberale, il cui epilogo coincide con la fine della Grande guerra.
Rari furono i comportamenti autenticamente coraggiosi.
Dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, l’anziano magistrato Mauro Del Giudice, presidente della sezione di accusa della Corte d’appello di Roma, coraggiosamente si autoassegnò l’inchiesta invece di affidarla al consigliere anziano della Sezione, «contagiato da lue fascista», nonostante il tentativo di dissuasione del primo presidente della Corte.
Due giorni dopo l’arresto di Giovanni Marinelli (22 giugno 1924), Del Giudice viene posto sotto tutela e, scrive il magistrato nella sua Cronistoria, «una cinquantina di fascisti facinorosi vennero a fare una dimostrazione sotto casa mia» [5].
Il 27 luglio 1924, il giornale L’Impero scriveva: «È inutile alludere, più o meno velatamente, a Mussolini per il delitto Matteotti. Il Duce, salvatore della Patria, non si tocca», per poi aggiungere: «Chi tocca il Duce sarà polverizzato».
Quella che seguì è storia nota: il trasferimento del magistrato Del Giudice e del processo Matteotti a Chieti «per ragioni di ordine pubblico», con il suo farsesco epilogo.
Sorprende come, credo, con ignoranza del passato piuttosto che con consapevole trascuratezza, esponenti politici del tempo presente possano utilizzare – dopo ciò che è stato − le stesse espressioni, non cogliendone il carattere eversivo e la volgarità istituzionale.
L’organizzazione e l’azione quotidiana della magistratura durante il Ventennio rendono chiaro come, senza indipendenza esterna dal potere politico e dal contesto socio-culturale, ma anche senza indipendenza interna dai capi degli uffici, non vi è libertà effettiva di interpretazione.
Il diritto nazionalsocialista si rifaceva al «sano sentimento del Popolo», così come previsto dal novellato par. 2 del codice penale tedesco. L’ermeneutica italiana, nell’applicare le leggi razziali e fatte salve alcune eccezioni, cadeva nella trappola della legalità meramente formale e del silenzio di fronte alla lacerazione dei principi dell’ordinamento, dando il suo contributo esiziale alla dissoluzione della democrazia.
Totalitarismi e forni crematori hanno immunizzato le società europee, determinando l’enorme avanzamento della loro cultura giuridica e consentendo, oggi, di confrontarci con le “tradizioni costituzionali comuni”, di assicurare la tutela multilivello dei diritti, di riconoscere l’intangibilità, anche da parte del legislatore, dei diritti umani.
Come è stato espresso magistralmente, ancora una volta, da Arendt, il male è come un «fungo» che ammanta in superficie la società; il pensiero, invece, è qualcosa che penetra in profondità le sue radici.
Ebbene, l’interpretazione del giudice non può che rispecchiare questo modo di essere del pensiero: abbandonare coraggiosamente gli scogli sicuri del testo letterale della singola disposizione, calarsi nelle viscere dell’ordinamento − anzi, degli ordinamenti-, scandagliarne le acque in profondità, conoscere il contesto socio-politico che ha portato alla loro introduzione senza condizionamenti, alternando assiduamente storicizzazione e contestualizzazione della norma.
La generazione dei millennials ha incominciato a indossare la toga. Questi giovani magistrati maneggiano bene gli strumenti della tutela dei diritti e della persona anche di fronte all’abuso del legislatore: l’incidente di costituzionalità; la disapplicazione della norma interna per contrasto con il diritto eurounitario. Essi non ignorano il problema dei controlimiti e del bilanciamento tra Europa e Costituzione; conoscono e rispettano la consuetudine e le convenzioni internazionali, e la loro inderogabilità anche da parte dei parlamenti nazionali.
Il pensiero corre, ancora una volta, all’attualità dell’obbligo di salvataggio in mare e del non-refoulement verso Paesi non sicuri in garanzia dei diritti umani.
Occorre, però, evitare che, come avvenne ai tempi dell’involuzione ordinamentale della magistratura fascista (e non solo allora), opportunismo, semplice voglia di evitare grane, attenzione eccessiva alla carriera − sollecitata da una riforma dell’ordinamento giudiziario che, per alcuni versi, indulge troppo sulla distinzione tra funzioni di primo grado e tutte le altre, diverse, ma non “superiori” − rispolverino abitudini deteriori del passato; abitudini delle quali la magistratura e, con essa, i cittadini si sono faticosamente liberati: penso a un approccio burocratico al lavoro o ai tentativi di aggirare la complessità dei giudizi, assecondando istinti di autopromozione o autoconservazione.
Una considerazione finale: la memoria di ciò che costituisce il collante essenziale di una comunità è irrinunciabile. Per questa ragione, gli Stati europei hanno preso la sofferta decisione di considerare come reato il negazionismo della Shoah e di altri genocidi, prestando il fianco alle critiche costantemente mosse ai reati di mera opinione e venendo tacciati di imporre una “verità di Stato”.
L’annunciata prosecuzione di questa ricerca su Razza e inGiustizia non può non passare per il ripristino della memoria dei magistrati eroi (Mario Fioretti, Pasquale Colagrande, Mario Finzi, Mauro Del Giudice e gli altri ricordati nel volume) che, come i Giusti, hanno salvato l’onore e la dignità di una magistratura in gran parte silente rispetto alla deriva autoritaria del fascismo.
[*] È l'intervento tenuto al plenum del Csm il 13 settembre 2018 dall'autore in occasione della presentazione del volume di A. Meniconi - M. Pezzetti (a cura di), Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, pubblicazione promossa da Cnf, Csm, Senato della Repubblica e Ucei.
[1] Presentato il 22 marzo 2002, il documento porta il nome di Jean-François Bergier, presidente della Commissione indipendente di esperti Svizzera-Seconda guerra mondiale istituita nel 1996. Il frutto dell’attività svolta dalla Commissione (tra il 1997 e il 2002) ha offerto alla storiografia nuovi materiali e prospettive di ricerca.
[2] Mi riferisco, rispettivamente, all’ultimo discorso tenuto dal Presidente Mattarella nel Giorno della Memoria (27 gennaio 2018) e al saggio introduttivo di Liliana Segre Le leggi e la vita, contenuto in Razza e inGiustizia (pp. 25-30).
[3] Vds. in allegato: Il diritto razzista, Anno I, n. 1-2, 1939.
[4] S. Borghese, Razzismo e diritto civile, in Monitore dei tribunali 80 (1939), serie III, vol. 16, pp. 353-357, in particolare p. 353.
[5] M. Del Giudice, Cronistoria del processo Matteotti, Lo Monaco, Palermo, 1954. Per un ritratto a tutto tondo del giurista e dell’uomo, si veda T. M. Rauzino, Un Magistrato scomodo nel processo Matteotti, in G. Cassieri (a cura di), Figure egemoni del Novecento, Schena, Fasano, 2006, pp. 7-44.