- Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sent. 369/2024
- Corte d'Appello di Catanzaro, Sez. Lavoro, sent. 1125/2023
1. Carcere e lavoro: un binomio indissolubile
Carcere e lavoro sono legati tra loro a doppia mandata. La parentela è risalente: nel periodo di formazione degli Stati nazionali e del modo di produzione capitalistico, la civiltà occidentale inventa il carcere partendo dalla fabbrica, “trovandolo” letteralmente – l’etimologia del verbo inventare è significativa – nella forma sociale e architettonica delle prime manifatture. È la storia delle Bridewells e delle workhouses dell’Inghilterra elisabettiana; della contemporanea Rasp-Huis olandese, così chiamata perché il lavoro che i ristretti sono chiamati a svolgervi è quello di grattugiare con una sega (rasp) il legno fino a trasformarlo in una polvere sottile, utile per tingere quei filati che sono il prodotto per eccellenza dell’industria nascente[1].
Il carcere moderno, agli albori, non è altro che una casa lavoro, all’interno della quale vengono concentrate quote di forza lavoro da utilizzare secondo le esigenze di valorizzazione del capitale. Le ore di lavoro diventano misura concreta della retribuzione: prendono vita unità produttive che si inseriscono nella libera concorrenza del mercato, procacciandosi a basso costo una manodopera sulla quale, in ragione della supremazia punitiva, è esercitabile un potere di comando e di controllo senza limiti.
Accanto a questo scopo di sfruttamento della forza lavoro coatta, tuttavia, all’interno degli stabilimenti penitenziari delle origini, prende man mano piede (le ragioni sono molteplici) una diversa funzione del lavoro: non più uno strumento per implementare la produzione grazie al risparmio nella componente del salario, ma un dispositivo per “correggere” la persona ribelle, la persona punita, per forgiarla all’etica, alla cultura e alla disciplina non solo del sistema di produzione capitalistico, ma della società borghese tout court. Nascono le case di correzione e il binomio carcere-lavoro, sempre più indissolubile, assume un profilo diverso. Lo testimonia il racconto di un protestante olandese il quale, nel 1612, in polemica con la credenza cattolica nei miracoli dei santi, afferma essere San Raspino, Santa Pena e San Lavoro “i tre santi che nella casa di correzione di Amsterdam effettivamente raggiungono il miracolo […] di correggere vagabondi e criminali”[2]. La composizione sociale della popolazione ristretta in queste carceri primitive la dice lunga su quella funzione materiale di segregazione e controllo delle classi povere che, ponendosi accanto alle finalità manifeste e codificate (retributiva, preventiva), contrassegna la pena detentiva sin dal suo configurarsi in epoca moderna: nelle case di lavoro e correzione entrano giovani autori di piccole infrazioni, ladri, mendichi, prostitute; in genere, tutto il sottoproletariato accumulatosi nelle città in parallelo al rapido processo di espulsione dalle terre recintate e privatizzate.
Il lavoro, insieme ad altre pratiche affinate con gradualità, diviene un dispositivo correzionale e disciplinare essenziale del penitenziario; nel gergo di Foucalt, una tecnica di addomesticamento dell’anima[3]. Non abbandonerà mai più il carcere moderno e contemporaneo, conseguendo in breve la dimensione dell’obbligatorietà e assorbendo dalla pena una certa quota di afflittività. Nella logica dell’emenda del reo e della deterrenza, il lavoro penitenziario diventa parte della punizione. Conta che sia duro più che produttivo, monotono più che utile, mai professionalizzante. Un esempio è il treadmill inglese, il famoso mulino a scalini che, per il tipo di mansioni ripetitive richieste al detenuto, somiglia alla ruota del criceto: tanta fatica e poco risultato.
All’interno del carcere, il rapporto di lavoro diventa doppiamente diseguale: alla coppia datore di lavoro/lavoratore si associa la coppia custode/custodito, con la strutturazione di una relazione verticale senza pari nella società libera.
Non dissimile dalla logica del castigo è quella della premialità, che in maniera più sotterranea va conquistando terreno: il detenuto potrà lavorare, ma solo se avrà dimostrato di comportarsi bene, di tenere buona condotta, di conformarsi alle regole dell’istituzione.
Le impronte dell’obbligatorietà e della parziale afflittività si manifesteranno nel lavoro carcerario a tutte le latitudini: negli Stati Uniti del modello auburniano – isolamento cellulare notturno dei detenuti, lavoro in comune diurno: il prototipo del carcere contemporaneo –, nell’Irlanda del sistema misto, nell’Italia preunitaria, unitaria e fascista.
2. La storia italiana
Veniamo proprio alla nostra storia. Il codice penale Zanardelli del 1889, pur abolendo i lavori forzati (i famigerati bagni penali), fa del lavoro una componente obbligatoria e afflittiva delle pene restrittive della libertà personale (dall’ergastolo all’arresto).
Arrivati al fascismo, il codice penale Rocco (1931) e il coevo regolamento penitenziario (n. 787 del 1931) confermano il carattere obbligatorio del lavoro, sempre associato, in ottica di inasprimento del castigo e general-preventiva, a ogni pena detentiva. Ergastolo, reclusione e arresto si scontano “con l’obbligo del lavoro” (artt. 22, 23, 25 c.p.). Sono norme ancora oggi in vigore, anche se a dare orizzonte a una prospettiva diversa arrivano la Costituzione e le carte internazionali, queste ultime con il loro addentellato di soft law. Gli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione inaugurano una rivoluzione che metterà pian piano radici nelle fabbriche e nelle carceri: il lavoro diventa diritto; il rapporto lavorativo si costella di diritti. Più al fondo, il lavoro diviene la porta che apre alla partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Lavoro e partecipazione costituiscono “il modo di agire consapevole di individui e gruppi che intendono dare corpo alla democrazia come modello di convivenza prescritto dalla Costituzione”[4]. Sul versante penitenziario, le pene (saggiamente declinate al plurale nella Carta fondamentale) smettono di essere pura retribuzione, assumendo una dimensione polifunzionale. È un fatto, tuttavia, che tra tutte le finalità, solo una viene messa nero su bianco dai costituenti nel celebre terzo comma dell’art. 27: le pene devono tendere alla rieducazione del reo. Rieducare, tuttavia, significa reinserire, reimmettere le persone in quel circuito virtuoso di lavoro e partecipazione.
Negli stessi anni o poco più tardi, le Carte internazionali e sovranazionali stabiliscono divieti al lavoro obbligatorio e forzato. Escludono che sia considerato tale quello prestato in stato di detenzione (art. 4, secondo comma, CEDU, art. 8, terzo comma, Patt. ONU), ma anche in questi casi l’obbligatorietà assume un colore diverso: il lavoro non è più aggravio di pena, componente del castigo, ma “cardine insopprimibile di qualsiasi tecnica di reinserimento sociale”[5], elemento del trattamento risocializzante. L’obbligatorietà, dunque, sembra parlare più all’amministrazione penitenziaria: metta il lavoro al centro del progetto rieducativo.
In quest’ordine di ragionamenti si muovono le Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners – frutto del primo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine del 1955 – , nelle quali si afferma che il lavoro penitenziario non deve avere carattere afflittivo, deve essere tendenzialmente equiparato a quello libero (salvo le esigenze di ordine e sicurezza) anche sotto il profilo del salario e dei diritti e finalizzato a incrementare le possibilità di guadagnarsi una vita onesta dopo il rilascio.
3. Il lavoro in carcere e l’ordinamento penitenziario
È inevitabile che le innovative visioni delle Carte refluiscano sulla puntuale disciplina del lavoro in carcere, nonostante a livello nazionale il “conservatorismo culturale”[6] agisca sia a livello legislativo sia nel momento giurisprudenziale. Occorrerà attendere la riforma penitenziaria del 1975 – le lotte e le battaglie culturali che l’hanno preceduta – per vedere riconosciuto il lavoro, pur sempre obbligatorio, come uno degli elementi del trattamento rieducativo del condannato (art. 15 ord. penit.)[7]. Inoltre, dismette il “carattere afflittivo” e deve essere “remunerato” (art. 20, secondo comma, ord. penit.). Ad assumere massima importanza, nell’ottica del carcere riformato, è la qualificazione in termini di laica risocializzazione che il lavoro trasmette al concetto, pericolosamente ambiguo, di rieducazione: “l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale” (art. 20, terzo comma, ord. penit.). Per creare persone abili al rientro in società, la legge sancisce le tutele essenziali del lavoro: orario, riposo festivo, tutela assicurativa e previdenziale. Viene favorita, poi, l’apertura del carcere soggetti imprenditoriali pubblici e privati.
Le matrici strutturali, tuttavia, sono scorie difficili da smaltire: il lavoro in carcere, a livello politico, sociale e di dibattito pubblico, continua troppo spesso a essere inteso come aggravio di pena, necessaria appendice di una rieducazione che ha ancora il sapore di emenda morale. È un quadro di mentalità che produce i suoi effetti anche sulla penalità materiale, quella vissuta al di sotto della soglia legislativa dentro gli istituti di pena, nei quali il lavoro continua troppo spesso a essere assoggettato alle logiche della punizione e della premialità e a svolgere funzioni diverse e ulteriori rispetto a quelle di strumento fondamentale della risocializzazione.
La distanza dal lavoro libero si misurava, ancora a livello legislativo, anche a livello terminologico: è solo con la riforma del 2018 che il lavoro smette di essere obbligatorio per l’ordinamento penitenziario – lo rimane nelle previsioni del codice penale –, che il lavoratore finisce di essere “lavorante” e la retribuzione una “mercede”. Il carattere dell’obbligatorietà, comunque, rimane un’ombra minacciosa: il volontario inadempimento di obblighi lavorativi costituisce infrazione disciplinare e il meccanismo lascia poco margine all’agibilità di proteste pur vagamente assimilabili allo sciopero. A fronte di tale obbligatorietà, nei fatti non esiste un vero e proprio diritto al lavoro, perché quest’ultimo “è assicurato” al condannato e all’internato “salvo casi di impossibilità” (art. 15 ord. penit.).
L’impossibilità è più frequente di quanto si possa pensare: le carenze di risorse da investire in retribuzioni, infatti, limitano la possibilità di ottenere un lavoro. A guardare le serie statistiche dell’ultimo trentennio, si scoprirà che la quota di condannati lavoranti è stabilmente inferiore al 30% della popolazione ristretta, con anni in cui ha toccato il livello del 18 o 19%.
4. Lavoro all’esterno e lavoro intramurario alle dipendenze dell’amministrazione: due destini diversi
Nel carcere della realtà, inoltre, si assiste a una netta biforcazione tra il lavoro all’esterno dell’istituto di pena (art. 21 ord. penit.) – nel quale ai detenuti sono riconosciuti tutti i diritti dei lavoratori liberi alla sola condizione di una minima compatibilità con la privazione della libertà – e il lavoro dentro il carcere. Soffermiamoci su quest’ultimo, il lavoro intramurario. Che tipo di lavoro è? Quasi sempre domestico, posto in essere alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria – raro, nonostante gli incentivi della legge Smuraglia, quello alle dipendenze di imprese –, remunerato in misura pari ai due terzi del trattamento dei contratti collettivi (art. 22 ord. penit.) e consistente nello svolgimento di attività necessarie alla gestione materiale degli istituti: barberia, cucina, lavanderia, distribuzione dei pasti, sopravvitto, solo per citarne alcune. Ci sono poi le mansioni classiche, quelle ricomprese nella celebre MOF (Manutenzione Ordinaria Fabbricati): idraulici, imbianchini, muratori. Per lo più si tratta di lavori non professionalizzanti: distribuire i pasti e raccogliere gli ordini per l’acquisto allo spaccio non sono certo attività che preparano al mondo di fuori. Per quanto riguarda le mansioni più ambite e più retribuite – cuoco o addetto MOF – in carcere non c’è tempo per formazione: o le sai fare per averle imparate fuori, nel mondo e nel tempo di prima del reato, o sei tagliato fuori dalla rotazione in quella funzione. Sono anche mansioni che servono al carcere: un bravo cuoco contribuisce a tenere in equilibrio il carcere. In sintesi, nella generalità dei casi (salvo esempi virtuosi, tra cui quelli legati alla fattura e alla vendita di alcune lavorazioni penitenziarie), il lavoro intramurario rimane una risorsa scarsa, poco professionalizzante (non siamo a San Raspino, ma poco manca) e, in compenso, molto appetibile dai detenuti, che riescono a guadagnare qualcosa per rendere la vita meno disagevole all’interno dell’istituto, destinare qualcosa ai parenti liberi più prossimi o, nei casi più fortunati, mettere insieme qualche modesta risorsa da utilizzare dopo il fine pena.
Quello tra scarsità della risorsa e forte appetibilità della stessa, nel contesto penitenziario, diventa un mix pericoloso: distribuire tra i detenuti la possibilità di essere impiegati all’interno delle mura vuol dire utilizzare uno dei più potenti strumenti di governo del carcere. È la funzione che svolge la commissione prevista dall’art. 20, quarto comma, ord. penit.: formare elenchi di detenuti per l’assegnazione al lavoro, individuare i posti di lavoro ai quali possono essere assegnati, stabilire i criteri per l’avvicendamento. Ci si trova di fronte a uno dei gangli vitali del funzionamento del meccanismo carcerario, dell’istituzione totale. Nonostante le garanzie in termini di composizione della commissione, criteri di legge e di circolare, il funzionamento reale consente scarti importanti rispetto a quello che è scritto sulla carta: dosare la risorsa lavoro permette di utilizzare le logiche della premialità e del castigo (rimaste avvinghiate al lavoro penitenziario) per i fini più disparati, dalla configurazione del detenuto modello – quello a cui andrà il lavoro prima di altri o con più frequenza di altri – alla garanzia di obbedienza, dalla tacitazione delle rivendicazioni alla surrogazione di ulteriori risorse trattamentali.
Come correggere questa traiettoria che pare immodificabile? La risposta sta proprio nel corredare il più possibile il lavoro penitenziario, soprattutto intramurario, di diritti. Equipararlo il più possibile al lavoro di fuori, a quello libero. Affermare la dignità della persona e del lavoro quale titolo di partecipazione all’organizzazione economica e sociale della collettività generale a cui il detenuto appartiene, diritto non scalfito dallo stato di detenzione la cui finalità non è quella di negargli di essere individuo con i bisogni destinati ad essere soddisfatti con il lavoro e con le tutele costituzionalmente garantite che al lavoro accedono.
5. Il riconoscimento della NASpI ai detenuti
È esattamente su questo piano che si colloca il valore della sentenza catanzarese in commento, in continuità con quelle di merito che l’hanno preceduta e seguita (quelle citate nella motivazione e Tribunale Milano 12.12.2023), la cui coerenza con l’ordinamento costituzionale, penitenziario e previdenziale è stata di lì a poco riconosciuta dal giudice di legittimità con la sentenza n. 396 del 2024, che pubblichiamo. A differenza di quest’ultima, che riguardava un detenuto a cui la NASpI è stata negata in contestualità con la sua dimissione dall’istituto di pena, e dunque una fattispecie di più immediata soluzione, la Corte di Catanzaro si occupa del diritto dei detenuti cessati dal servizio in permanente stato di restrizione e si deve confrontare anche con un argomento insidioso, apparentemente fondato sulla normativa integrativa della disciplina della NASpI e apparentemente non immediatamente riconducibile a una (apoditticamente affermata) incompatibilità del lavoro carcerario o della sua organizzazione intramuraria con l’indennità per lo stato di disoccupazione involontaria.
Come noto la NASpI è stata concepita e disciplinata dal d. lgs n. 22 del 2015 per razionalizzare il sistema degli ammortizzatori sociali e dei vari trattamenti per i lavoratori in stato di disoccupazione involontaria – che avevano originato disparità di trattamento e disarmonie –, quindi con lo scopo dichiarato di essere universale e di essere rivolta a tutti i lavoratori assicurati contro il rischio specifico, salvo quelli espressamente esclusi.
L’art. 1 della legge delega n. 183 del 2014 sancisce espressamente la finalità di assicurare trattamenti uniformi modulati solo sulla storia contributiva di ogni lavoratore e l’art. 2 della l. n. 22 del 2015, di attuazione, definisce il proprio ambito di applicazione escludendo solo i dipendenti a tempo indeterminato della pubblica amministrazione e gli operai agricoli (eccetto gli operai agricoli dipendenti delle cooperative a cui è stata estesa dal 2022).
È inoltre pacifico che si tratti di un regime assicurativo e, per quanto le assicurazioni pubbliche siano concepite con una applicazione generalizzata e solidaristica dei premi e con delle condizionalità per l’erogazione del trattamento previdenziale, anche per le stesse vige il principio del diritto ad accedere alla garanzia una volta integrati i requisiti contributivi e verificatosi il rischio assicurato.
Le disposizioni del d. lgs n. 22 del 2015 non escludono né direttamente, né indirettamente il lavoro carcerario dall’assicurazione e i rapporti di lavoro di cui si tratta sono assoggettati alla contribuzione.
In questo contesto normativo gli argomenti svolti dall’Inps, aderendo a una circolare del DAP[8], hanno tutti fatto riferimento alla natura intrinsecamente incompatibile del lavoro intramurario alle dipendenze della amministrazione con la NASpI, come affermato da una risalente pronuncia del giudice penale (peraltro antecedente alla sentenza della Corte costituzionale n. 241 del 2006 che ha dichiarato illegittima l’attribuzione delle controversie di lavoro e previdenziali dei detenuti al giudice di sorveglianza e non al giudice del lavoro) e ciò per avere il lavoro carcerario alle dipendenze della amministrazione da un lato una specifica finalità di riabilitazione e, dall’altro, per essere organizzato a turnazione, in base a graduatorie, con cessazioni e intervalli di attività predeterminati, non integranti la fattispecie della disoccupazione involontaria per atto datoriale.
Questi argomenti sono stati tutti disattesi e superati dalla Corte catanzarese e dalla successiva sentenza della Corte cassazione, in quanto non coerenti con il dato normativo letto alla luce dei principi costituzionali e delle carte internazionali in materia di lavoro e di funzione della pena.
6. Gli argomenti delle Corti
Il primo argomento riflette un’impostazione culturale, sopra descritta in storia e contenuto, incompatibile con la finalità art. 20 ord. penit. sia nel testo originario, sia e a maggior ragione nel testo riformato, che pone l’accento sull’obbligo per l’amministrazione di organizzare il lavoro con modalità il più possibile analoghe a quelle del lavoro esterno e non sull’obbligatorietà del lavoro nel regime di detenzione: il secondo comma stabilisce che “Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato” e il terzo comma prevede, come già sopra sottolineato, che “l'organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale”. Bene ha evidenziato la corte catanzarese che, fissato dal terzo comma dell’art. 20 ord penit. ‹‹l’obiettivo di restituire alla comunità un consociato socialmente reinserito e consapevole delle regole che disciplinano la convivenza, dovrebbe necessariamente conseguirne che le regole a cui si fa riferimento non sono solo quelle che ne fissano i doveri, ma anche quelle che ne riconoscono i diritti. E riconoscere meno diritti al lavoratore detenuto rispetto a quello libero non è certo il miglior viatico per un suo pieno reinserimento sociale››.
Il regime detentivo e il rapporto di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione hanno ineliminabili interferenze – dovute all’ambiente carcerario in cui il rapporto si svolge – con le relative esigenze disciplinari e di sicurezza, senza che però queste possano incidere, mutandone la natura, sull’oggettività del contenuto del rapporto di lavoro, sul relativo valore (art. 35 Cost.), sulla funzionalità al soddisfacimento di bisogni a protezione costituzionale (art. 36 Cost.) e sulla posizione soggettiva che ne deriva per il detenuto lavoratore (art. 38), per questi aspetti in nulla differente da quella di ogni altro lavoratore (sul punto, Corte costituzionale sentenza n. 158 del 2001). Che poi, sempre sotto questo profilo, il lavoro del detenuto sia intramurario, svolto alle dipendenze della amministrazione, o sia svolto alle dipendenze di datori esterni è palesemente irrilevante. La distinzione operata dalla cassazione penale richiamata dal DAP e dall’Inps, quanto a diritti e obblighi che scaturiscono dal rapporto di lavoro, è priva di fondamento normativo e risente di una impostazione culturale non coerente con i principi richiamati: impostazione che attribuisce al lavoro un carattere afflittivo, che ne legittima di fatto lo sfruttamento attraverso la negazione di diritti e in questa prospettiva, di mera penalizzazione, legittima implicitamente senza darne regione l’esistenza di un onere di contribuzione a cui non corrisponde la tutela una volta realizzatosi il rischio assicurato.
Il secondo argomento, vero fulcro del diniego dell’indennità di disoccupazione come sottolineato dalla Corte di Catanzaro, è quello della insussistenza di uno stato di disoccupazione involontaria, in quanto il rapporto di lavoro intramurario, per consentire di accedervi a tutti i detenuti, è organizzato a turni e sulla base di graduatorie, con la conseguenza che non vi sarebbe un atto datoriale di dismissione del rapporto.
Si tratta di affermazioni che si agganciano nuovamente ad una peculiarità propria del lavoro intramurario per discriminarlo.
La disciplina normativa della NASpI identifica il rischio assicurato nella involontarietà della disoccupazione intesa come stato che il lavoratore subisce senza alternativa, tant’è che il secondo comma dell’art. 3 d.lgs.22 del 2015, recependo la sentenza n. 269 del 2002 della Corte costituzionale resa sul regime della indennità di disoccupazione, indica espressamente tra le cause di interruzione del rapporto che danno diritto alla NASpI anche le dimissioni per giusta causa e la risoluzione consensuale in sede di conciliazione ex art. 7 l. n. 604 del 66, come modificato dalla l. n. 92 del 2012. A questo proposito, e a riscontro di un pregiudizio discriminatorio verso il lavoro intramurario, è sufficiente richiamare la nota e fondamentale sentenza interpretativa di rigetto n. 160 del 1974 della Corte costituzionale sul contratto a termine, con la quale è stato definitivamente chiarito che “per l'art. 38 della Costituzione è lo stato di ‘disoccupazione involontaria’ il requisito che rende la disoccupazione indennizzabile”, intendendosi per tale una impossibilità oggettiva per il lavoratore di poter svolgere una attività remunerata dalla quale trarre i mezzi di sussistenza per un certo periodo di tempo, indipendentemente dalla circostanza che la cessazione dell’attività lavorativa nel momento in cui si è avuto l’accesso alla assicurazione fosse certa in quanto connessa alla scadenza del termine apposto al contratto di lavoro. La Corte costituzionale ha evidenziato come queste peculiarità del rischio e di assenza di alea accomunino tutte le assicurazioni sociali, tutte dirette, a differenza delle assicurazioni di diritto privato, a proteggere ex art. 38 cost. anche e per la maggior parte da eventi certi nel loro verificarsi futuro.
Sotto questo profilo non vi è alcuna ragione oggettiva e sostanziale per discriminare il lavoro intramurario: l’art. 20, quinto comma, ord. penit. lo struttura come contratto a termine rimanendo esterne al contenuto del contratto le finalità perseguite con le graduatorie e l’avvicendamento, che integrano semplicemente le ragioni proprie alla amministrazione, a rilevanza normativa, per l’apposizione del termine. E a questo proposito si può anche sottolineare che le cooperative agricole, ai cui operai con la l. n. 234 del 2021 è stata estesa la NASpI, concludono sovente con i soci rapporti di lavoro a termine prevedendo graduatorie per le assegnazioni e per le proroghe, con una organizzazione non molto dissimile da quella di cui si sta trattando.
Nel giudizio davanti alla Corte di Catanzaro l’Inps ha richiamato, per il detenuto permanentemente in stato di restrizione, anche l’art. 19 del d. lgs n. 150 del 2015 ovvero l’impossibilità per questi assicurati di soddisfare alle condizionalità di cui all’art. 7 d. lgs n. 22 del 2015, per il quale “sono considerati disoccupati i soggetti privi di impiego che dichiarano, in forma telematica, al sistema informativo unitario delle politiche del lavoro di cui all'articolo 13, la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l'impiego.”
La Corte ha respinto questa insidiosa eccezione impeditiva, in quanto estranea alla disciplina della NASpI, che era stata posta a fondamento del rigetto della domanda amministrativa, attenendo invece alla partecipazione alle politiche attive del lavoro.
E a ben vedere anche questa contestazione viene tratta da una valutazione astratta e si risolve nuovamente in una affermazione di non compatibilità del trattamento previdenziale per le caratteristiche del lavoro carcerario. Infatti, l’eccezione, che non può essere riferita al materiale invio della dichiarazione per via telematica, per la quale non si vede perché dovrebbe essere ostativo lo stato di detenzione, non può che riguardare l’effettiva disponibilità ad accedere e partecipare alle politiche attive del lavoro,
In realtà, si tratta di una condizione, la cui ricorrenza va modulata sulle possibilità oggettive di ogni assicurato, che fa salvo il giustificato motivo impeditivo di una partecipazione non riconducibile ad un atto volontario del lavoratore disoccupato (v. art. 21 d.lgs n. 150 del 2015), diversamente dovrebbero perdere il trattamento i lavoratori e le lavoratrici impossibilitate per ragioni contingenti o per motivi, ad esempio, familiari o di malattia e così via. Nello stesso tempo la condizione potrebbe invece ricorrere per il singolo detenuto, la cui storia e vita non debbono essere portati a conoscenza dell’Inps, che potrebbe in ogni momento essere chiamato nuovamente al lavoro in carcere o accedere, ricorrendone le altre condizioni, al lavoro esterno o a iniziative di formazione.
La disponibilità deve essere effettiva sul piano della collaborazione soggettiva, non può essere misurata su circostanze esterne e contingenti che rendono oggettivamente e temporaneamente non realizzabili tutte le iniziative che potrebbero essere proposte a un lavoratore libero e senza problemi di sorta.
7. Lavoro vero vs lavoro di pubblica utilità
Nell’ottica del miglioramento della penalità penitenziaria, come visto, la pronuncia catanzarese ha il merito di riconoscere la NASpI (come un tempo è avvenuto) proprio a quei detenuti che perdono il posto di lavoro per via dell’avvicendamento deciso dalla commissione. Il passo indietro di Inps e Dap nel riconoscere l’indennità ha esasperato quel meccanismo di governo del carcere di cui si è prima detto, gettando nello sconforto più acuto i detenuti che su quella indennità potevano contare per assicurarsi una vita più decente all’interno delle prigioni, meno esposta al ricatto e alle pressioni.
Sotto l’aspetto più generale, la pronuncia ha il merito di indicare una strada per il futuro: si insista di più sulla qualità trattamentale del lavoro vero, senza inseguire (troppo) le retoriche del lavoro di pubblica utilità.
Sia chiaro: anche le attività a titolo volontario e gratuito – sbarcate all’interno dell’ordinamento penitenziario nel 2018 grazie all’inserimento dell’art. 20 ter – assumono valore indiscutibile per traghettare i detenuti fuori dal contesto murario, soprattutto in periodo di sovraffollamento. Tuttavia, è incontestabile che i lavori di pubblica utilità tendano a legittimare, soprattutto nel dibattito pubblico, l’idea che il lavoro dei detenuti debba essere sudore e fatica gratuiti, il prezzo da pagare per giustificare e legittimare la riammissione nella società dei liberi. Come è stato acutamente rilevato, “in mezzo a questa profonda trasformazione del ruolo sociale del lavoro penale-penitenziario, domina la retorica della collettività offesa e impaurita dal crimine, che va risarcita e va rigenerata attraverso l’offerta materiale e simbolica di prestazioni volontarie di sedicente utilità pubblica o sociale”[9]. Non chiamatelo lavoro, verrebbe da dire, parafrasando il titolo di un fortunato libro sull’evoluzione e le trasformazioni del diritto dei lavoratori[10]. Il lavoro, quello vero, quello che prepara al rientro in società, è un’altra cosa. Queste sentenze contribuiscono a metterlo in luce.
[1] Per i riferimenti alla storia del penitenziario e ai suoi addentellati con il lavoro cfr. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Bologna, I ed.1977, nonché M. Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale, trad. it. Milano, 1978. Per una panoramica delle diverse teorie sull’invenzione del carcere è utile C. Sarzotti, Percorsi didattici sul carcere, rinvenibile in www.museodellamemoriacarceraria.it. Importante, per un’analisi dello sviluppo del dogma correzionali sta in relaziona al lavoro, G. Caputo, Carcere senza fabbrica: povertà, lavoro forzato, welfare, Pisa, 2020. Ancora in tema, M. Bortolato, Note sul lavoro in carcere fra vecchie certezze e nuove provocazioni, in questa Rivista, 2/2015.
[2] D. Melossi, M. Pavarini, op.cit., p. 56.
[3] M. Foucalt, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it, Torino, 1976.
[4] P. Marsocci, Effettività e sincerità della partecipazione popolare. Spunti sui cambiamenti dell’assetto costituzionale italiano, in Costituzionalismo.it, 3/2015, p. 91.
[5] E. Fassone, Sfondi ideologici e scelte normative nella disciplina del lavoro penitenziario, in V. Grevi (ed.), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981.
[6] Così M. Pavarini, La nuova disciplina del lavoro carcerario nella riforma dell’ordinamento penitenziario, in F. Bricola (ed.), Il carcere riformato, Bologna, 1977, p. 109.
[7] Per una riflessione dal punto di vista lavoristico sulla riforma penitenziaria, U. Romagnoli, Il lavoro nella riforma carceraria, in M. Cappelletto, A. Lombroso (ed.), Carcere e società, Venezia, 1976.
[8] Si tratta della circolare n. 3681/6131 del 19 novembre 2018 avente ad oggetto la riforma dell’ordinamento penitenziario, nella quale si forniscono “indicazioni al fine di una univoca e corretta applicazione delle nuove norme sul lavoro penitenziario”.
[9] D. Bertaccini, Nuova o vecchia penalità nella riforma efficientista? Le pene sostitutive alla prova delle istanze garantise e delle ragioni strutturali, in L’indice penale, settembre-dicembre 2023, p. 186.
[10] C. Ponterio, R. Sanlorenzo, E lo chiamano lavoro…, Torino, 2014.
Anna Terzi, già magistrato
Riccardo De Vito, giudice del Tribunale di Nuoro