Lasciateci lavorare. Lasciateci fare i giudici.
Un giudice non è una macchina per fare sentenze. Occorrono delle condizioni minime per fare il giudice in modo rispettabile. Il Parlamento può fare tutto, tranne che cambiare un uomo in donna (è la tradizione che viene dall'Inghilterra), ma non può trasformare un giudice in un manichino. Questo, in sostanza, il discorso che qualche tempo fa ha fatto il giudice federale americano John S. Martin sul New York Times del 24 giugno 2003 (Let Judges Do Their Jobs). Ho fatto il giudice federale per tredici anni – ha scritto Martin - ma ora non ne posso più, mi dimetto, cambio mestiere.
Martin, avendo raggiunto l'età del pensionamento, aveva la scelta fra il continuare a fare il giudice vita natural durante o tornare a fare l'avvocato. Ha scelto la seconda alternativa con questa precisa motivazione: il lavoro del giudici è utile, è interessante; un giudice lavora per garantire i diritti dei cittadini, ma negli ultimi anni l'esercizio della funzione è diventato impossibile, ingrato. Il giudice è divenuto parte di un meccanismo semiautomatico volutamente rigido ("a sentencing system that is unnecessarily cruel and rigid"), una macchina per sentenze. Per larga parte della nostra storia il sistema di giustizia ha operato in base alla premessa che le sentenze sono migliori se pronunciate da giudici che, pienamente a conoscenza dei fatti e della personalità dell'imputato, commisurano poi la pena. Benché la maggior parte dei giudici e dei professori di diritto ritengano questo sistema buono, il Congresso ha limitato sempre più l'ambito della discrezionalità dei giudici, imponendo loro alti minimi di pena prefissati.
Il giudice Martin si è soffermato sui più recenti attentati all'indipendenza del giudici, sul tentativo di intimidire i giudici, sulla noncuranza del Congresso per il delicato lavoro giudiziario ("Congress's disdain for the judiciary") in violazione della tradizione culturale americana. Privare il giudice della possibilità di graduare la pena tenendo conto della concreta personalità dell'imputato significa negare la più specifica e intima funzione giudiziaria("For a judge to be deprived of the ability to consider all of the factors that go into formulating a just sentence is completely at odds with the sentencing philosophy that has been a hallmark of the American system of justice"). "Quando tredici anni fa ho giurato, non pensavo minimamente di dover lasciare un giorno le mie funzioni giudiziarie, ma oggi sono costretto a lasciarle perché non voglio continuare ad essere parte di un sistema di giustizia ingiusto" ("I no longer want to be part of our unjust criminal justice system").
Ribellione alla legge? Per nulla. Seria critica di un giudice alle leggi. Il giudice, anche quello americano, è impegnato, prima di tutto, dai valori costituzionali e i valori costituzionali americani non sono per pene automatiche a rotta di collo. In America l'esecutivo deve rispettate i giudici, il Congresso deve rispettare i giudici. Il Congresso può fare le leggi ma non in modo arbitrario. Il giudice non può fare il legislatore ma il legislatore non può fare il giudice.
In Italia il legislatore oggi pretende, nientemeno, di dettare ai giudici la corretta interpretazione delle leggi. In Italia, a mio avviso, oggi si impone una rivisitazione di fondo del modello del buon giudice, di tipo liberal-borghese e occidentale. L'analisi del comportamento dei giudici nei paesi liberaldemocratici è di grande aiuto. Il giudice di tipo liberaldemocratico deve rispettare dei limiti, ma quali sono i limiti? È questo il problema.
Anche il legislatore - dice correttamente il giudice Martin - deve rispettare dei limiti. Quali limiti? Ovviamente quelli segnati nella Costituzione. Il Congresso americano oggi li rispetta? Il giudice Martin risponde di no. Il Parlamento italiano li rispetta? Siamo chiamati a rispondere. Dobbiamo rispondere. È vero, siamo in presenza di una "questione politica", di una questione politica eminente.
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*articolo pubblicato nel n.6/2004 di Questione Giustizia
(FOTO ISTITUTO LUCE)