Magistratura democratica
Magistratura e società

Le correnti nella magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni *

di Guido Melis
già professore ordinario di storia delle istituzioni politiche e di storia dell’amministrazione pubblica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, già deputato nella legislatura 2008-2013 e già membro del Comitato direttivo della SSM
Il saggio ripercorre, in rapida sintesi, le origini e la storia delle correnti della magistratura italiana,  individuando le ragioni professionali ed ideali della formazione di diversi gruppi associativi e gettando uno scandaglio sulla loro evoluzione nel quadro delle vicende del Paese. Sino ai problemi ed alle crisi del presente...
Guido Melis è professore ordinario di storia delle istituzioni politiche e di storia dell’amministrazione pubblica presso l’Università di Roma “La Sapienza”. In precedenza ha insegnato nelle Università di Sassari e di Siena ed è stato docente, nel triennio 1996-1999, presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È stato deputato, componente della Commissione Giustizia, nella legislatura 2008-2013. Attualmente è membro del Comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura. Autore di oltre 350 tra saggi, articoli e volumi, in prevalenza in materia di storia dell’amministrazione, della burocrazia e della cultura del diritto amministrativo, ha scritto, tra l’altro, “Storia dell’amministrazione italiana. 1861-1993” (1996) e “La burocrazia” (2015). Il suo libro più recente è “La macchina imperfetta: immagine e realtà dello Stato fascista” (2018).

 

1. Come eravamo: il caso del pretore Guido Neppi Modona a Torino

Il 1° febbraio del 1972 era in corso nella Galleria d’arte moderna del capoluogo piemontese, davanti a un folto pubblico, la presentazione di un volume sulle carceri scritto da Aldo Ricci e Giuliano Salerno[1]. Pubblico abbastanza folto. Partecipavano anche diversi magistrati, alcuni avvocati, professori universitari, studenti e qualche operatore carcerario. A un tratto con gran fracasso la porta della sala venne spalancata di botto e un gruppo di una quindicina di persone irruppe vociando all’interno. Proclamandosi anarchici (ma non lo erano affatto), iniziarono a diffondere un volantino, interrompendo la manifestazione in corso. Parlava un quel momento, nella sua qualità di relatore (insieme all’avvocata Bianca Guidetti Serra), un giovane pretore, il futuro professore Guido Neppi Modona (poi massimo storico della magistratura italiana e come tale più volte ospite ai corsi della Scuola superiore della Magistratura). Neppi cercò di opporsi, ma insultato, addirittura colpito da un cazzotto in testa e infine minacciato di morte dagli aggressori. La polizia, pur presente in sala, non intervenne. La riunione, dopo aver rischiato lo scontro tra aggrediti e aggressori, si sciolse. Tra l’altro gli aggressori si impossessarono della pelliccia di persiano della Guidetti Serra, che era appoggiata a una sedia al tavolo dei relatori, e se la portarono via sventolandola come un trofeo.

L’indomani Neppi, come riteneva fosse suo dovere, informò degli eventi il potente procuratore generale Colli. Questi gli disse di avere già sul suo tavolo il rapporto della Questura che attribuiva al giovane magistrato la responsabilità di aver pronunciato, rivolto agli astanti, la frase: “invito a cacciar via questi fascisti provocatori mandati dalla Questura” (vilipendio alle forze armate). Neppi negò di averla mai pronunciata, denunciò l’aggressione subìta e l’inerzia della polizia presente in sala, anche quando era stato minacciato di morte dagli aggressori, ma il procuratore lo deferì ugualmente al Consiglio superiore della magistratura.

La sentenza fu emessa due anni dopo dalla Sezione disciplinare del Csm.

Sono 18 pagine dattiloscritte, datate 29 maggio 1974. Concernono anche un’altra accusa a carico di Neppi, risalente al 30 ottobre 1969: la partecipazione, “con assoluto dispregio di quel costume di correttezza e di riservatezza al quale il magistrato deve attenersi in ogni circostanza, e specialmente in pubblico” (così gli atti d’accusa) a una manifestazione politica, sempre a Torino davanti al viceconsolato di Spagna, nel corso della quale sarebbero state emesse, cito letteralmente, “grida vilipendiose contro il capo di uno Stato estero”. Nel caso specifico il “vilipeso” era il dittatore spagnolo Francisco Franco, all’indomani della esecuzione da lui ordinata tramite garrota di un giovane oppositore del regime.

La sentenza è molto interessante. Nell’esito è interamente favorevole all’incolpato, e testimonia in ciò la diversa percezione che l’organo indipendente della magistratura ha maturato rispetto all’apparato esecutivo (diciamo pure poliziesco) dello Stato. Neppi viene infatti assolto rispetto all’episodio della Galleria d’Arte moderna “per non aver commesso il fatto”, e ciò in base alle autorevoli testimonianze a suo favore degli intellettuali, avvocati e magistrati torinesi quella sera presenti nella sala della conferenza, testimonianze che risultano più convincenti del rapporto della Questura. Viene poi assolto anche per la manifestazione antifranchista, ma questa volta “per non essere stata raggiunta la prova della colpevolezza” (formula peraltro abbastanza usuale nella giurisprudenza del Consiglio e anche in quella dei tribunali). La Sezione disciplinare, sulla base del fatto che la manifestazione stessa era stata promossa da magistrati e avvocati torinesi “con l’intento di dar luogo a una civile protesta”, e d’altra parte risultando “incerta” la presenza di Neppi al momento delle “grida vilipendiose” (alcuni testimoni la escludevano, anche se il capo dell’ufficio politico della Questura la dava per certa), ritenne l’accusato presente sì, ma inconsapevole dell’eventuale degenerazione della manifestazione; e in nulla responsabile per non aver egli profferito personalmente le “grida vilipendiose”.

Ho voluto citare questo caso (ripeto, uno dei tanti simili di quel periodo) per due ragioni.

La prima è che vi si legge facilmente il clima generale di quegli anni e la fortissima tensione esistente tra istituzioni dello Stato (polizia, alta magistratura, pretori, Csm, ognuno con una sua linea spesso contrastante con quella degli altri soggetti). Che il procuratore generale Colli richiedesse il rinvio al giudizio davanti alla sezione disciplinare di Neppi rimandava al durissimo conflitto esistente all’epoca in alcune sedi (Torino tra queste) tra alcuni giudici, in genere giovani e progressisti, e i capi degli uffici, in genere anziani e conservatori. Vi ritornerò ragionando brevemente sulla giurisprudenza innovativa di quei giovani giudici.

La seconda ragione è che trapela visibilmente tra le righe di questi documenti la faticosa mediazione che dovette esercitare i quegli anni il Csm. Istituito solo da pochi anni e con grande ritardo, l’organo dell’indipendenza della magistratura aveva attraversato una prima fase relativamente moderata nell’esercizio dei suoi poteri e solo adesso, nel passaggio tra anni Sessanta e Settanta, entrava in una nuova stagione di consapevole protagonismo istituzionale[2].

Non erano tempi facili per i magistrati, specie per quelli tra loro che, per dati anagrafici e per formazione culturale, credevano fosse giunto il momento di attuare, nell’esercizio della funzione giudiziaria, i valori e il dettato della Costituzione repubblicana.

La Carta era stata approvata nel 1948 dopo quasi due anni di intenso e proficuo lavoro dell’Assemblea costituente, ma il sopravvenire della guerra fredda, la rottura dell’unità antifascista che ne era derivata, le asprezze dello scontro politico sociale del dopoguerra ne avevano di fatto per intere parti sospeso praticamente l’attuazione.

Rispetto allo spirito se non anche alla lettera della Costituzione il mondo dei tribunali era d’altra parte rimasto inerte, quando non si era rivelato addirittura ostile ai valori costituzionali, ciò che del resto era accaduto più in generale nell’amministrazione stessa dello Stato repubblicano, nei ministeri e nei grandi enti di Stato[3]. La Costituzione non aveva plasmato lo Stato, ma vi si era in qualche modo inserita precariamente, risultando di fatto un corpo estraneo. Una forte continuità aveva contrassegnato la transizione dalla dittatura alla democrazia: continuità nella legislazione, rimasta, a cominciare dai codici, e in particolare da quelli penale e di procedura penale, la stessa del periodo fascista; e nell’ordinamento giudiziario solo “depurato” alle norme più autoritarie del 1946. Continuità favorita dalla lunga, troppo lunga, assenza dalla scena della Corte costituzionale, operativa soltanto nel 1956, e subito costretta a rivendicare la propria competenza giudicare sulla costituzionalità delle leggi ereditate del fascismo (contro – si badi bene – la tesi del Governo, rappresentata in giudizio dall’Avvocatura dello Stato)[4]; continuità espressa nel predominio anomalo che ne era scaturito a favore della Corte di cassazione, i cui componenti erano tutti giudici anziani, già in carriera nel periodo fascista e spesso con essi conniventi; continuità infine – e non era poco – manifestatasi nei contenuti conservatori della giurisprudenza, nell’ideologia dei giudici[5], nello stile stesso delle sentenze; nonché nella prosecuzione inalterata del meccanismo gerarchico e autoritario che governava inesorabilmente le carriere.

Come in molti altri campi, in quei decenni Sessanta e Settanta vecchio e nuovo si affrontavano e lo scontro non era affatto destinato a risolversi pacificamente.

2. L’associazionismo: la sua storia

L’associazionismo giudiziario, per parte sua, aveva alle spalle esperienze contraddittorie. Alla caduta del fascismo, quando aveva finalmente potuto riannodare le proprie fila, poteva rivendicare – è vero – una storia non disprezzabile, ma era ormai storia antica. Fondata nel 1909, l’Agmi (Associazione generale magistrati italiani, come allora si chiamava) era stata il frutto della reazione dei giudici d’inizio secolo alle pessime condizioni retributive dell’epoca, all’assenza di libertà ma anche alle nuove sollecitazioni liberali connesse alle trasformazioni del primo decollo industriale[6]. Nel primo dopoguerra l’Associazione, diretta con saggezza da magistrati innovatori, aveva sostenuto cause via via meno corporative, come l’autogoverno, l’estensione della inamovibilità ai pm (sottraendoli dalla ferrea morsa dell’esecutivo), la ricostituzione dell’unità della giurisdizione. Di quei primi barlumi di riformismo giudiziario fece letteralmente strame il fascismo, che in pratica costrinse l’Associazione ad autosciogliersi e perseguitò i suoi dirigenti. Finita la dittatura l’Associazione nazionale magistrati (come ora si chiamò: Anm) rinacque nel 1945, ma su posizioni fortemente moderate[7]. Il tema centrale era – sì – la rivendicazione dell’indipendenza della magistratura; ma temperato, e per così dire anche cauterizzato nelle sue conseguenze più radicali, da una forte conservazione delle sue strutture gerarchiche[8]. Restava intatta cioè l’idea quasi castale della figura del magistrato (“Il sacerdote di Temi”, per citare il titolo di un libro di quegli anni)[9]. Egli doveva vivere in una sorta di mondo separato, protetto come fosse in una campana di vetro dalle influenze esterne, e in particolare isolato dalle passioni inquinanti della politica. L’indipendenza dal potere giudiziario era la bussola (ed era certo una bussola importante, dopo vent’anni di ingerenze pesanti nel periodo fascista), ma ciò si risolveva poi in un rifiuto ostinato a percepire la domanda proveniente dalla società, una società che presto, col miracolo economico, si sarebbe rivelata in repentina fase di cambiamento. E persino di più: si traduceva – quella rivendicazione di indipendenza – in una chiusura corporativa, in un rinserrarsi nel mondo separato delle toghe e nel linguaggio talvolta ipercriptico dei provvedimenti giudiziari. Unica religione quel culto sacrale della legge (da applicare – si ripeteva – e non da interpretare) che negava in radice la possibilità stessa del fisiologico ruolo di mediazione del giudice tra la norma e la realtà in mutamento. L’articolo 107 (“i magistrati si distinguono tra loro soltanto per la diversità di funzione”) appariva a questo mondo chiuso come implicitamente sovversivo delle gerarchie interne; così come l’art. 101, “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, sembrava sancire un’eresia, giacché postulava evidentemente la piena autonomia non della magistratura in quanto grande corpo ma di un semplice giudice, isolato nella sua coscienza e libero dai condizionamenti gerarchici.

L’entrata in funzione del Csm (1959, dopo la legge dell’anno precedente) fu il primo elemento che aprì la crisi del sistema[10]. Era però – quello – ancora un Csm a rigida composizione gerarchica, nel quale mantenevano salde posizioni di preminenza i giudici della Cassazione. Essi erano, per ragioni anagrafiche oltre che ideologiche, la quintessenza del conservatorismo giudiziario: le “toghe di ermellino”, come invalse l’uso di scrivere nella stampa e come si disse comunamente nel dibattito pubblico[11].

L’Anm, dopo l’immobilismo dell’immediato dopoguerra, subiva tuttavia una sua sia pur graduale evoluzione. L’associazione aveva sino ad allora soprattutto trovato la sua unità sui temi (peraltro “ereditati” dalla fase prefascista) dell’indipendenza della magistratura, dominanti nei congressi di Firenze (1948), Napoli (1950), Venezia (1952), Torino (1954), ancora Napoli (1957: dove però fu posto fortemente in discussione il concetto stesso di “carriera” e prospettata la soluzione di collegare la progressione economica alla sola anzianità; ciò che provocò immediatamente la dura reazione della Cassazione)[12]; ma nei congressi successivi cominciò a spirare il vento benefico del disgelo costituzionale in atto nel Paese e nelle stesse istituzioni. Così nel congresso di Sanremo (1959) “fu affermata la necessità di un controllo della stampa sull’attività di giurisdizione”[13]; e nei congressi di Palermo (1961) e di Alghero (1963) “furono posti dinanzi all’opinione pubblica i problemi inerenti alla grave crisi funzionale della giustizia civile e penale, alla natura delle funzioni del Pubblico Ministero, ai gravi danni derivanti al cittadino dal formalismo e dagli eccessi del tecnicismo giuridico e dall’ibrida legge istitutiva del Consiglio superiore della magistratura”[14].

Sopravveniva in quei primi anni Sessanta un fatto nuovo, che si sarebbe rivelato ben presto eversivo dell’ordine precedente: l’ascesa cioè, nelle preture prima e nei tribunali poi, quindi nelle corti d’appello, infine persino in Cassazione, di una generazione di magistrati più giovani, entrati in carriera dopo la fine della guerra, cresciuti nel clima nuovo della democrazia repubblicana. Il dato fu messo già allora in rilievo dalle indagini sociologiche e discusso da una vastissima pubblicistica. Si trattava, se così si può dire, di una “rivoluzione generazionale”, cui corrispondeva – pur utilizzando il termine con le necessarie attenuazioni che merita – una vera e propria “rivoluzione culturale”.

A questa “rivoluzione” corrispondeva un quadro di luci e ombre. In un articolo poco citato, pubblicato nella rivista “Nord e Sud”, il sociologo Domenico De Masi annotava nel 1965 i seguenti dati: la maggior parte dei magistrati allora in servizio, il 77%, proveniva per nascita da zone rurali o sottosviluppate o da ceti piccolo-borghesi; molti di loro avevano conseguita la laurea in giurisprudenza in piccole università di provincia[15]. Molto diversificato ero lo stato della giustizia anche solo nei termini del servizio reso ai cittadini: la rete dei tribunali presentava profonde asimmetrie, riflesse nel diverso grado di produttività nelle varie regioni del Paese; i “tempi” della giustizia erano differenziati tra loro, sicché la stessa prestazione poteva essere ottenuta dai cittadini relativamente presto oppure ritardare in modo considerevole a seconda del distretto giudiziario cui si rivolgeva la domanda di giustizia. Una radiografia attendibile (ma in quegli anni se ne conta più d’una) la si trova nella Relazione al Parlamento sullo stato della giustizia che il Csm presentò qualche decennio dopo, nell’anno 1980[16]. Rilevati i sensibili mutamenti sociali e i fattori di crisi evidenziatisi degli ultimi anni Settanta, la relazione condensava alcuni dati di per sé molto eloquenti. Vale la pena di rileggerli. Anni 1974/79, Corte di cassazione, riepilogo dei ricorsi civili: nel 1974, su un totale di 20.796 ricorsi pendenti nell’anno (frutto di un’eredità di 14.610 dall’anno precedente e di 6.186 ricorsi aggiuntisi nel 1974) ne erano stai definiti 5.649 e trasmessi in eredità al 1975 15.147. Il monte dei ricorsi sarebbe salito sino a toccare nel 1979 la cifra di oltre 31 mila. I definiti sarebbero cresciuti sino a toccare gli 8.569 (nel 1979). I pendenti però sarebbero stati nel 1979 in totale 22.726. Un bilancio sconfortante. Analoghi i dati per i ricorsi penali negli stessi anni: da un totale di poco più di 41 mila nel 1974 a ben 70 mila nel 1979, dai 21 mila definiti del 1974 ai 38 mila e 200 nel 1979. Dati simili anche per le Corti d’appello, soprattutto per i processi penali; e per i tribunali e le preture. Un vero campanello d’allarme era quello relativo alle controversie di lavoro e a quelle previdenziali, che superavano in valori assoluti l’intero contenzioso civile. Emergevano inoltre forti squilibri regionali: “l’incremento complessivo delle pendenze […] nel settore del contenzioso civile – si annotava – è da imputare quasi esclusivamente ai distretti dell’Italia meridionale e insulare”. Ciò anche per il settore previdenziale, per le controversie individuali di lavoro, per gli stessi procedimenti penali. Una geografia della domanda di giustizia di tipo nuovo, dunque, che richiedeva adeguate risposte.

Insomma, la mutazione sociologica del corpo giudiziario non stava avvenendo per così dire “a freddo”, ma si profilava nel vivo di una veloce trasformazione sociale del Paese, dalla quale derivavano domande di giustizia nuove, articolate, approfondite e anche fortemente differenziate. A fronte delle quali l’apparato giudiziario stentava a rispondere. Se non si coglie questo punto fondamentale sarà difficile comprendere i riflessi che ne derivavano nel dibattito interno della magistratura.

Non è facile dire in poche battute quanto vasta e profonda fosse la revisione conseguente di valori, saperi, sentimenti, percezioni della realtà. Erano gli anni che, in generale, gli storici indicano come quelli della modernizzazione del Paese. Dopo lo “strappo” in avanti economico del “miracolo”, se ne dovevano adesso fronteggiare le conseguenze gestendo nuove domande di diritti (sociali e politici), mutamenti profondi nella domanda di giustizia. Il giudice tradizionale non bastava più. Fermenti, proposte, critiche anche, nascevano dal corpo stesso della magistratura, specie della più giovane.

Per riassumere meglio quanto fosse diffusa questa nuova “cultura dei giudici”, sia pure a diversi livelli e con differenti accenti, farò ricorso – in quella che potrà essere solo una breve parentesi – a una rassegna giornalistica che a me pare esemplare, pubblicata nel 1966 non da un periodico giuridico ma dal rotocalco “L’Europeo”, un tabloid dell’epoca destinato al grande pubblico.

Un bravo giornalista, Gian Franco Venè, pose quell’anno a una serie di magistrati la domanda fatidica: “Che cosa non va nella giustizia?”[17].

Ed ecco in sintesi estrema uno stralcio delle loro risposte (attenzione alle parole, ma ancor di più ai nomi di coloro che le pronunciano):

Salvatore Giallombardo, allora presidente di sezione al Tribunale di Roma:
“Oggi i giudici, per mantenere al corrente il diritto, dovrebbero utilizzare fonti estranee allo stesso diritto e trarre aiuto anche dai fattori sociali, economici, culturali e storici. Ma il congegno giudiziario che possediamo non consente ciò, perché è organizzato per esigenze opposte. I nostri giudici sono portati, per estrazione sociale, per tradizioni culturali, per organizzazione interna e per formazione mentale, a porre l’accento sul concettualismo imposto dal sistema”.

 

Mario Elia, presidente di sezione al Tribunale di Roma:
“Il ritmo di trasformazione della vita moderna dà a volte la sensazione che gli ordinamenti giuridici non riescano sempre a seguire il corso della storia”.

 

Marco Ramat, pretore di Borgo San Lorenzo, Firenze:
“la magistratura, in un paese civile, deve essere una élite, non di censo o di casta, bensì una élite culturale; e come tale deve essere senza clamorose esternazioni all’avanguardia piuttosto che alla retroguardia del costume sociale, deve insegnare essa stessa la strada da seguire affinché la società non ristagni in posizioni di conformismo e di paura della libertà”.

 

Mario Berruti, magistrato di Cassazione:
“Molte leggi sono superate dal costume, ma il potere esecutivo non propone le necessarie riforme e il potere legislativo non assume le iniziative rese doverose dall’inerzia del governo”.

 

Emilio Germano, presidente di sezione al Tribunale di Torino:
“l’attività del giudice consiste in ben altro che in una semplice, arida, meccanica interpretazione della norma giuridica, perché è la vita che deve essere dal giudice interpretata, la vita in continua evoluzione”.

 

Bruno Meneghello, giudice del Tribunale di Vicenza:
“Il vizio fondamentale […] deriva secondo me dal mito del significato obiettivo, certo, incorruttibile della norma, dalla presunzione un po’ filistea che l’interpretazione della legge possa magari essere difficile e dar luogo ad errori, ma abbia alla fine un suo valore unico e vero, per così dire al di là del bene e del male. Sta qui l’illusione del giudice, scienziato neutrale, fuori della mischia, nella torre d’avorio, vestale della legge. […]”.

 

Francesco Saverio Borrelli, giudice del Tribunale di Milano:
“la società ha incluso in sé un’idea di rinnovamento che, per il solo fatto di essere acquisita permanentemente, pone in crisi […] la funzione statica di conservazione cui un tempo di riteneva eminentemente delegata la giustizia, i parametri non scritti cui erano ancorati i valori fondamentali, il rapporto stesso tra il cittadino e il giudice”.

 

Gian Paolo Meucci, consigliere di Corte d’appello a Firenze:
“la magistratura non è […] che lo specchio di una situazione la quale deve trovare le sue radici di rinnovamento prima di tutto al livello del rapporto legge-società”.

 

Dino Greco, giudice nel Tribunale di Milano:
“la crisi ha investito il modello tradizionale di giudice del nostro paese: schivo, portato a estraniarsi dalla realtà, anzi a temerla perché capace di influenzarlo nelle sue decisioni, tecnicamente preparato ma disposto nelle sue decisioni alla sopravvalutazione dell’aspetto formale della sua funzione, versato nell’argomentazione logico-giuridica ma chiuso spesso ad altre esperienze conoscitive e più genericamente culturali, affatto convinto che la codificazione, la rigida previsione di astratte ipotesi normative propria del nostro sistema, lo ponesse al riparo della necessità di operare delle scelte”.

 

Eugenio Zumin, presidente del Tribunale di Varese:
“il giudice dovrà decidere sempre secondo la legge, ma tenendo presenti la lettera e soprattutto lo spirito della Costituzione”.

 

Emilia Capelli, giudice del Tribunale di Milano:
“il magistrato […] deve rendersi mediatore tra il vecchio e il nuovo, non può ignorare né l’uno né l’altro, soprattutto non può identificarsi senz’altro coi vecchi istituti”.

 

Antonio Marcucci, giudice nel Tribunale di Milano:
“abolire la carriera, e con essa la struttura piramidale della professione. […] rendere il magistrato responsabile, in senso professionale. Se io impiego un anno a fare una sentenza che potevo fare in un mese devo essere chiamato a rispondere del mio comportamento e del danno che ho recato ai cittadini”.

 

Dante Troisi, giudice nel Tribunale di Cassino:
“Occorre il coraggio di contestare la struttura della nostra società e con ostinata franchezza riconoscere che un discorso intorno ai giudici è possibile e si giustifica con la volontà di mutare radicalmente la realtà in cui viviamo e da cui i giudici sono estratti”.

 

Adolfo Beria d’Argentine, giudice del Tribunale di Milano:
“Nel Congresso dei magistrati, tenutosi lo scorso settembre a Gardone, è stata approvata all’unanimità una mozione nella quale, pur riaffermandosi gli invalicabili confini di subordinazione del giudice alla legge, si esprime il fermo dissenso alla concezione che pretende di ridurre l’interpretazione, e cioè la funzione del giudice, a una attività puramente formalistica, indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese. Il compito del giudice non consiste invero in un’applicazione automatica ai fatti concreti di norme che per essere comprese è sufficiente che siano lette”.

La sintetica antologia di opinioni (certo troppo ristretta e forse anche selezionata ai suoi fini dal giornalista) ha il valore che ha. Però mi si consentirà di dire che restituisce un clima, raccogliendo gli elementi di una cultura della magistratura che appare in netta evoluzione. Dieci anni prima le risposte sarebbero state certamente ben diverse.

 3. Il Congresso di Gardone e l’irresistibile ascesa delle correnti

Beria, l’ultimo degli intervistati, accennava nelle sue risposte a Gardone. Qui, nel 1965, celebrandosi il XII Congresso nazionale dell’Anm[18] sotto la presidenza dell’avvocato generale Mario Berutti (uno tra i più prestigiosi magistrati italiani)[19], si era in effetti realizzata una cesura netta, assai rilevante, quasi un atto fondativo di quella che avrebbe voluto presentarsi e sarebbe stata effettivamente negli anni successivi la nuova magistratura italiana. Ne erano state protagoniste di primo piano le tre correnti nelle quali era organizzata la magistratura: Magistratura indipendente, Terzo potere e Magistratura democratica.

L’Associazione nazionale magistrati aveva ascoltato e condiviso, seppure con qualche reazione contraria e qualche malumore – dicono le cronache – specie da parte dei giudici di Magistratura indipendente – la relazione generale del politologo e giurista Giuseppe Maranini su Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione; e aveva approvato, dopo una diplomatica azione svolta dai presentatori, la mozione Benvenuto, Beria, Principe, cui lo stesso Beria avrebbe alluso poi nell’intervista a “L’Europeo”.

I due documenti meritano qualche cenno di commento. Maranini, autore di volumi importanti sulla magistratura[20], promotore nel 1961 come preside universitario di un pionieristico convegno su “Indipendenza della magistratura e ordinamento giuridico” tenutosi a Firenze con la partecipazione di numerosi magistrati[21], insisteva sulla “coscienza del giudice” e – non senza suscitare qualche scandalo in sala – anche su quello che chiamava il suo “indirizzo politico”. Il giudice – diceva – “non può essere un perfetto robot, produttore di perfetti sillogismi giuridici; è necessariamente una travagliata coscienza umana, che si consuma nello sforzo di individuare la norma nel rispetto delle fonti, ma anche e soprattutto di renderla compatibile con il suo sentimento della giustizia, che si identifica con tutto il suo io”[22]. E subito dopo: “L’indirizzo politico del giudice entra necessariamente e utilmente, come componente biologica, nella sua attività giurisdizionale”[23]. Nella replica il professore fiorentino avrebbe polemizzato con Giovanni Leone sul fatto che solo il Parlamento rappresentasse il popolo, rivendicando invece che anche la magistratura, al pari di altri poteri, lo rappresentasse e anzi in nome del popolo emettesse le sentenze[24].

Ma “l’indirizzo politico del giudice doveva essere – avrebbe subito aggiunto – solo quello della sua coscienza, perennemente agitata dal dubbio e perennemente non conformista, non quello di un’organizzazione qualsiasi, politica od economica”[25]. Bisognava dunque guardarsi, era la conclusione, dall’attrazione fatale delle “forze esterne”: il governo, i partiti, le organizzazioni economiche, gli altri giudici anche. L’indipendenza restava il valore-base dell’identità stessa del magistrato; la sua funzione usciva dalla sfera asettica della traduzione tecnica della legge per collocarsi in quella dell’interpretazione. Alle sole “voci di dentro”, per citare la celebre commedia di Eduardo, si dovevano aggiungere le “voci di fuori”, cioè il rumore profondo e perennemente cangiante della società in evoluzione.

Intervento complesso, ricco di profili teorici, quello di Maranini apparve a una parte dell’assemblea troppo ispirato al garantismo, illuminista persino (parola che suonava evidentemente come un segnale d’allarme). Vi fu quindi una resistenza che chiameremo “conservatrice”. Ma vi fu anche chi – come specialmente Lelio Basso, autore di un contestatissimo intervento – impostarono piuttosto il discorso su ciò che la società italiana di quegli anni si aspettava dal giudice[26]: e delinearono una prospettiva assai più radicale di quella di Maranini..

La mozione approvata infine col voto unitario delle tre correnti parlava della “portata politico-costituzionale” della funzione di garanzia impersonata dal giudice; rivendicava l’imparzialità e l’indipendenza dei magistrati da ogni centro di potere; indicava il dovere di “applicare direttamente le norme della Costituzione, quando ciò sia tecnicamente in relazione al fatto concreto controverso”; e di rinviare alla Corte costituzionale le leggi estranee al dettato costituzionale. Fissava infine solennemente l’impegno a interpretare le leggi “in conformità ai principi della Costituzione, che rappresentano – proclamava – i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale”[27].

Oltre a quella qui riassunte erano state anche approvate altre mozioni: quella concordata tra Magistratura indipendente e Terzo potere, firmata Beria d’Argentine, Bocassini, Principe, nella quale si parlava di formare il giudice “accuratamente reclutato, attraverso una scuola vera e propria, per alcuni anni senza funzioni, con particolare cura per lo sviluppo della capacità di giudicare”, affidando al Csm “l’attribuzione delle diverse funzioni di merito, attraverso una valutazione complessiva delle attitudini”[28]; quella (MD e Terzo potere) che approvava la relazione Barile-Bianchi d’Espinosa e contrastava con concrete proposte il rischio che “il potere giudiziario, anziché frazionato tra tutti i magistrati, venga concentrato al vertice”[29]; quella MD e Terzo potere, firmata Beria d’Argentina e Principe, che auspicava l’introduzione del giudice monocratico togato nel primo grado della giurisdizione civile e penale[30]; quella che – stesse correnti e stessi firmatari – riprendeva la relazione Ramat auspicando un “giudizio di equità”, da affidarsi a magistrati onorari con incarico di durata limitata[31]; quella presentata da Magistratura indipendente (firmatari Carabba e La Cava) circa l’istruzione dei processi e in particolare i poteri dei pubblici ministeri[32].

Si è detto “correnti”. Parola nuova, questa, estranea al lessico dei giudici, mutuata forse dal linguaggio della politica: il principale partito di maggioranza, la Dc, era, appunto, diviso in “correnti”; e correnti erano presenti anche in altri partiti, con l’eccezione forse del solo, apparentemente monolitico Partito comunista)[33].

Delle tre correnti citate, la prima, Magistratura indipendente, era quella che nell’Associazione occupava le posizioni più moderate.

Va detto che cinque anni prima i giudici di Cassazione, cioè i vertici della piramide, avevano creato nell’Anm una loro “Unione delle Corti” (1960), poi l’Unione dei magistrati italiani, Umi, che nel 1961 si era resa protagonista di una polemica scissione dall’associazione unitaria. Alla nuova corrente “esterna” avevano aderito per lo più i soli magistrati di Cassazione (tra i più attivi quel Giovanni Colli di cui si è già parlato per il contrasto con Neppi Modona), non paghi evidentemente di mantenere, come mantenevano all’epoca, posizioni di predominio istituzionale all’interno del Csm (nelle elezioni del 1963 l’Umi aveva avuto ben 8 consiglieri sui 14 eletti, tra cui lo stesso Colli)[34]. Essi, i membri dell’Umi, rivendicavano con quell’atto estremo (destinato per altro a essere rivisto nel 1979 con un rientro in gruppo nell’Anm) il valore supremo del principio gerarchico: la loro avversione – come dicevano in un documento – a “ogni forma di livellamento”. In definitiva il loro diritto-dovere a guidare dall’alto le file dell’intero apparato giudiziario[35]. La loro rivista, la Rassegna dei magistrati, forte di importanti firme della cultura giuridica tradizionalista, sarebbe stata la portavoce e il punto di raccolta della corrente, che ebbe con l’Anm scontri anche vivaci, come “le autentiche ingiurie – sono parole di Paolo Barile – rivolte dal presidente dell’Umi Stella Richter ai colleghi dell’Anm”[36].

Scissa l’Umi, nell’Anm monca degli scissionisti, Magistratura indipendente, nata nel 1962, rappresentava la corrente conservatrice-moderata. Nel suo statuto affermava “l’unità e l’apoliticità dell’ordine giudiziario” e dichiarava di voler perseguire “la tutela della dignità morale e materiale della magistratura”. Parole pesanti, dietro le quali si intuiva l’adesione al modello tradizionale di magistrato, appunto concepito come membro di un “ordine” unitario, del quale si volevano gelosamente conservare i valori fondamentali, base di quella che era sentita come una sorta di primazia morale. Si raccoglievano in questa corrente magistrati in genere di lunga carriera, anziani, spesso già agli alti gradi della gerarchia. Esclusi i componenti della Cassazione confluiti nell’Umi[37], erano rappresentativi generalmente del secondo livello gerarchico del corpo giudiziario.

Terzo potere, la corrente più antica per essersi formata nel 1957, era genericamente riconducibile (se si vuole utilizzare un riferimento alla politica) allo schieramento di centro-sinistra, all’epoca prossimo ad andare al governo del Paese. Si era formata per rappresentare quella che – con espressione ottocentesca – si potrebbe definire “la bassa magistratura” (ancora persisteva, ma per poco, la netta distinzione di quest’ultima rispetto invece alla cosiddetta “alta magistratura”). Aveva una base prevalentemente meridionale. Ne era il leader indiscusso una straordinaria figura di magistrato, purtroppo destinato a scomparire troppo presto, nel 1968, Salvatore Giallombardo. Questi fu anche il fondatore e l’animatore dei Comitati d’azione per la giustizia, sorti in varie parti d’Italia come collegamento tra magistrati, avvocati e vari operatori della giustizia, con programmi radicalmente riformisti. Furono – va sottolineato – tra le rare esperienze di organico collegamento su basi progressive delle istanze dei giudici con quelle dell’avvocatura.

Va ricordato – come giustamente rileva Vladimiro Zagrebelsky in una delle migliori ricostruzioni della storia della magistratura dalla Costituzione ad oggi – che l’Associazione nazionale magistrati, subito dopo l’istituzione del Csm nel 1957, aveva sempre più convintamente propugnato “la sostituzione della struttura gerarchica con il potere diffuso tra tutti i giudici uguali e garantiti dall’indipendenza interna”[38]. Ciò coincideva con l’azione di Terzo potere, nel cui ambito crebbe un gruppo di magistrati che avrebbe largamente frequentato e contribuito a sviluppare il dibattito del dopo-Gardone. Nelle elezioni del direttivo dell’Anm del 1964 Terzo potere risultò la corrente di maggioranza, con il 41% dei voti, contro il 33% di Magistratura indipendente e il 19% dell’appena costituita MD, della quale subito si dirà. Ma nelle successive elezioni i rapporti di forza si rovesciarono a vantaggio della corrente tradizionalista: 42% contro 29% di Terzo potare e 25% di MD nel 1967; 40%, 33%, 27% nel 1969; 45%, 26%, 13,5% nel 1970, con un residuo 15,5% per IC (Impegno costituzionale), un gruppo formatosi negli anni precedenti[39].

Ma a proposito del confronto del periodo successivo a Gardone non si può dimenticare il ruolo decisivo che vi ebbe, e che da allora mantenne nel dibattito associativo, Magistratura democratica. Nata nel 1964 a Bologna (relazione introduttiva di Arnaldo Cremonini), come si è visto minoritaria nell’Anm, radunava però i magistrati più giovani e verosimilmente quelli politicamente più prossimi alla sinistra. Aveva anche dietro (o a fianco, se si preferisce) la svolta in senso democratico negli studi giuridici di quegli stessi anni Sessanta: Rodotà, Galgano, Barcellona, Cassese, Amato, Bricola, Giugni, Ghezzi, Smuraglia, Treu, Cordero, Proto Pisani, Mancini… La lista potrebbe essere più lunga, coinvolgere interi gruppi organizzati (come quello di Tirrenia, dalla località dove si strinse l’ “alleanza” dei giovani giuristi che diedero vita alla rivista “Politica del diritto”, o più tardi il gruppo redazionale di “Democrazia e diritto”, vicina al Pci). Pur nelle differenze che li caratterizzavano questi giovani giuristi avevano in comune la passione civile per i diritti, il problema della piena attuazione della Costituzione e il rinnovamento – anche con “contaminazioni” verso altre tradizioni giuridiche diverse da quella italiana – della cultura stessa del diritto. In quel brodo di cultura nacque MD. Livio Pepino, che ne è stato una delle anime, ne ha tracciato qualche anno fa un denso bilancio retrospettivo distinguendo due periodi, quello tra il 1964 e il 1969, nel quale – scrive – “l’obiettivo non fu tanto la ‘demistificazione’ quanto la democratizzazione dell’esercizio della funzione giudiziaria, affinché la sovranità popolare [fosse] posta sempre in grado di esercitare il suo controllo e affinché si [impedisse] al magistrato di essere e di sentirsi avulso dal corpo sociale”; e un secondo periodo, sul finire degli anni Sessanta, in corrispondenza con i grandi movimenti popolari di quel fatidico biennio 1968-69[40]. E la “miccia” – così la definisce Pepino – fu il 30 novembre 1969 l’assemblea di MD a Bologna e il cosiddetto ordine del giorno Tolin, un documento di indignata critica verso la polizia e la magistratura stessa per aver impedito ad alcune tipografie milanesi e romane, minacciando processi penali, la stampa di documenti di varie associazioni democratiche in favore del direttore di “Potere operaio” Francesco Tolin, colpito da ordine di cattura per reati di opinione commessi a mezzo stampa. Quel documento, molto netto nelle sue formulazioni, aveva un autore materiale, ed era uno dei giovani pretori a capo della corrente, il toscano Marco Ramat, il quale avrebbe commentato per parte sua con una frase più che eloquente: “È stato toccato un tabù”[41]. Il tabù, nel caso specifico, era la critica all’interno della magistratura, la rottura del silenzio sulle sentenze o sugli atti dei colleghi[42].

L’episodio non finì a Bologna. Una vasta eco sui giornali lo drammatizzò al punto da innescare in MD una scissione, avvenuta nel dicembre successivo esattamente il 21 dicembre. La data è importante perché tra l’odg Tolin e la scissione era intervenuta il 12 dicembre la strage di Piazza Fontana a Milano. Di fronte alla drammatica sequenza di notizie proveniente da Milano (dove gli anarchici del Ponte della Ghisolfa e in particolare Pietro Valpreda furono in un primo momento incolpati di aver compiuto l’attentato) anche il dibattito interno alla magistratura e a MD in particolare si radicalizzò. Tenendo fermo Ramat e gli altri la loro fedeltà all’odg approvato dall’assemblea bolognese, un gruppo di colleghi decise per la rottura: fra di loro sette componenti sui 10 del vertice della corrente, e cioè Beria d’Argentine, Scardia, Pajardi, Micelisopo, Zumin, Scapinelli, Sciacchitano. I primi due erano, con Cremonini altro membro di MD, componenti in quel momento del Csm. I due che con Ramat rimasero nel gruppo furono Petrella e De Marco.

Fu, a rileggere ora i documenti e le testimonianze quasi a caldo dei protagonisti, un momento per la corrente e per l’intera magistratura italiana difficilissimo (lo testimonia la ridda delle telefonate anti-scissione intercorse febbrilmente in tutta Italia, ricordate da Ramat: Violante a Torino, Porcella a Cagliari, Mannuzzu a Sassari, Palombarini a Padova, Greco e Pulitanò a Milano, Cappelli a Napoli, Governatori a Bologna, in pratica tutta la rete dei magistrati aderenti alla corrente chiamati a raccolta nel momento del pericolo). La crisi poi si ripercosse senza mediazione nella stessa Anm, della quale il già citato De Marco era il segretario nazionale. Due esponenti di Terzo potere, Mario Barone e Alfredo Chiavelli, erano invece rispettivamente presidente dell’Associazione unitaria e direttore del suo organo ufficiale, “La Magistratura”: ma entrambi avevano aderito dall’esterno alle posizioni sul caso Tolin ed entrambi furono dunque coinvolti nella accesa polemica che ne derivò. Nella sua memoria Ramat ricorda il pianto di Barone, dimissionario, sconvolto dall’asprezza delle reazioni dei suoi stessi colleghi di corrente. “Nella riunione del Comitato centrale associativo – ha ancora scritto Ramat – fummo presi letteralmente a sassate”. La Giunta nazionale dell’Associazione si dovette dimettere, sostituita da una Giunta provvisoria tutta di Terzo potere[43]. La corrente invece “tenne” (per usare ancora un’espressione di Ramat), ma in realtà si era in quelle ore manifestata una gravissima divisione interna alla magistratura che avrebbe pesato non poco nei tempi immediatamente successivi e anche più oltre. MD – notano Piana e Vauchez – rimase fuori dall’organo di governo dell’Anm sino al 1968, quando MI sarà invece estromessa dopo un lungo periodo di permanenza al vertice[44].

 

Gradualismo riformista o radicale opposizione politica al potere, forse non solo a quello giudiziario? Questo dilemma divise in quei mesi e negli anni successivi i giudici italiani, mentre iniziava quella che sarebbe stata una delle stagioni più dure e sanguinose dell’intera storia del dopoguerra: quella delle stragi, della violenza di piazza, delle risposte repressive degli apparati più o meno deviati, poi dei progettati e (chissà) forse almeno parzialmente tentati colpi di Stato e infine del terrorismo nero e rosso. Fu quello anche il tempo delle controinaugurazioni giudiziarie nelle varie sedi[45], dei collegamenti stabili tra MD e i partiti di sinistra (ma anche i gruppi extraparlamentari), e anche della promozione del referendum abrogativo dei reati di opinione politici e sindacali destinato a fallire per il suo isolamento politico.

Ma non era solo questione di correnti. MD non si limitava a contestare il potere con atti più o meno clamorosi: poneva la questione serissima di un diverso modo di esercitare la giurisdizione. Scriveva Ramat in un breve ma polemico intervento su “Il Ponte” del maggio 1968, all’indomani degli scontri tra studenti e polizia a Roma, in piazza Cavour, e del processo per direttissima che ne era seguito: “Ho letto con vero sbalordimento, sulla cronaca dei giornali, la requisitoria del sostituto procuratore romano che ha sostenuto l’accusa […]. Non entro né posso entrare nel merito della causa […] ma ciò che deve essere criticato è l’atteggiamento di fondo di quella requisitoria”. E cioè, aggiungeva:

“L’ ‘esemplarità’ di un processo e di una condanna urta spaventosamente contro l’essenza della giustizia, e in un Paese civile non dovrebbe neanche essere rammentata”. E poi: “la suggestione della giustizia come parte offesa nel processo […]. In un regime democratico la posizione della giustizia e del magistrato non può mai essere questa”[46].

Non erano motivi di dissenso da poco conto. Era tutta una concezione della giustizia che veniva contestata. Del resto basterà sfogliare le raccolte della rivista della corrente, “Qualegiustizia”., uscita a partire dal febbraio 1970 sotto la direzione, per primo, di Federico Governatori[47]: “Crediamo che mai, come oggi – si leggeva nell’editoriale di presentazione –, è stato messo in evidenza, più che altro dai fatti, il contenuto sociale e politico del fenomeno giuridico”. I fascicoli della rivista, stampata in due colonne, pezzi brevi, resoconti asciutti di fatti e misfatti, erano soprattutto fitti di documenti, di sentenze innovative, soprattutto in materia di lavoro, libertà sindacale e di sciopero, diritti civili, libertà di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero, di stampa, di espressione artistica e cinematografica. Formavano come il manifesto della nuova giurisprudenza (quella che fu chiamata spregiativamente dei “pretori d’assalto”), che si caratterizzava per essere dichiaratamente imperniata sui valori costituzionali, anche e specialmente in contrasto con i vecchi codici di eredità fascista. Spesso erano atti di pretori di periferia, o talvolta (poche) di magistrati di tribunale: Garavelli, Ambrosini, Neppi Modona, Pulitanò, Governatori, Luigi Saraceni, Giafranco Amendola, Bernardi, Pizzorusso, Accattatis, Mannuzzu, Porcella, Senese, Fleury, Elena Paciotti; sovente di giovani giudici istruttori (come Gerardo D’Ambrosio a Milano). Moltissime erano le eccezioni di legittimità costituzionale, spesso accolte dalla Corte. Un imponente filone di giurisprudenza che fu detta – non so quanto propriamente – “alternativa”, ma che in realtà aveva il comune fine di attivare i diritti costituzionali.

 

4. Il giudice e la politica: chiaroscuri

Fu troppo “politica” quella giurisprudenza? Si spinse troppo in avanti la contestazione sia pure in chiave di attuazione costituzionale? Su questo interrogativo si potrebbe dibattere a lungo[48]. Alla fine del secolo scorso, un autorevole esponente della magistratura, Marcello Maddalena, di opposto orientamento correntizio, ha contestato a posteriori quelle posizioni di MD. Ha chiamato in causa esponenti della corrente e “fiancheggiatori” laici, attribuendo loro la responsabilità dell’avere voluto conferire alla funzione giudiziaria “una indubbia valenza politica […] a tutela delle classi proletarie oppresse dalle classi padronali e borghesi”: come il giurista Pietro Barcellona, che nel 1972 aveva curato gli atti di un convegno sull’ “uso alternativo del diritto” (un’espressione poi divenuta quasi proverbiale)[49]; o come Luigi Ferrajoli, allora magistrato poi eminente docente universitario, che aveva attribuito alla “giurisprudenza alternativa” il compito di aprire “nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere”; sino a giungere all’introduzione di Franco Marrone, esponente di MD, al volumetto Manifesto di autodifesa di un militante, nel quale – denunciava Maddalena – si arrivava al punto di definire “avversari” la polizia e gli stessi giudici. È stato giustamente osservato che l’obiettivo di attuare la Costituzione “debordò” in “una specie di collateralismo con la politica”[50].

La “requisitoria” di Maddalena coglieva certamente elementi di radicalizzazione esasperata che furono presenti almeno tra la fine degli anni Sessanta e lungo tutto il decennio successivo. La eccessiva prossimità con la politica di tutta la categoria dei magistrati ma in particolare del gruppo di MD è del resto testimoniata dalle candidature e dal frequente passaggio nelle file parlamentari, più spesso nei partiti della sinistra, di eminenti esponenti della corrente[51]. Tuttavia, a giustificare un giudizio più ponderato su quegli anni giova tenere presente quanto un altro importante magistrato, Michele Coiro, avrebbe rivendicato in una garbata polemica con il fondatore della “Repubblica” Eugenio Scalfari, cagionata all’epoca da un contrasto di Coiro col procuratore di Milano Borrelli:

“Gentile direttore […] – scriveva Coiro –, ciò che lei dice sulla passiva politicizzazione della magistratura nei decenni passati, in quei decenni cioè in cui la politicità dell’ azione dei magistrati non era avvertita, è profondamente vero. Le dirò, il carattere politico degli interventi o dei non interventi della magistratura non era avvertito pienamente nemmeno all’ interno dell’ordine giudiziario che era difeso da alcuni principi, universalmente accettati, primo fra tutti quello della sacralità delle decisioni dei giudici con conseguente illiceità delle critiche. Uno dei principali meriti dell’azione di Magistratura democratica fu quello di rivendicare la critica delle decisioni giudiziarie a opera degli stessi appartenenti all’ ordine giudiziario. Allora tali critiche venivano bollate come indebite interferenze. Non vorrei peccare di presunzione affermando che furono i magistrati democratici a stimolare le critiche esterne all’ operato dei giudici. Cadde così uno dei tabù che permettevano al potere di agire indisturbato”[52].

 

Si sbaglierebbe però a ridurre l’intera dialettica tra le correnti degli anni Settanta al tema, pur cruciale, dell’attuazione costituzionale o a quello della cosiddetta giurisprudenza alternativa. Confrontando tra di loro i programmi non è difficile cogliere altri elementi di identità, certamente ugualmente rilevanti. Si legge nelle proposizioni programmatiche di Terzo potere:

“Ci distinguiamo altresì nettamente dall’altra corrente di “Magistratura Democratica. La linea che ci caratterizza rispetto a questa corrente è di natura storica, programmatica, metodologica. Storica perché la nostra azione non è nutrita solo di studi, ma anche di esperienza. Programmatica perché il nostro programma di riforme non è condizionato, e tanto meno subordinato, ad un più ampio quadro di riforme che investono l’ordinamento giurisdizionale e processuale. “Terzo Potere” dissente radicalmente anche su talune posizioni specifiche di “Magistratura Democratica”, e particolarmente per quanto attiene alla cosiddetta “selezione attitudinale " che pretende di trasferire nell’ambito della Magistratura criteri e metodi applicati nell’industria. Metodologica è, infine, la nostra caratterizzazione, in quanto la nostra azione è stata e sarà improntata a criteri di realismo e di concretezza”.

Magistratura indipendente afferma di “volere le riforme, perché è tempo che l’ordine giudiziario si ponga sulla linea di sviluppo democratico tracciata dalla Costituzione”, ma di voler “bloccare con intransigente fermezza qualsiasi tentativo di interferenze politiche esterne nelle strutture associative”, “deplorando quei colleghi che per esuberanza o per altri motivi assumono posizioni di forzata polemica, non consone al nostro costume ma piuttosto a quello di coloro che partecipano alla mischia politica”. Ma le contraddizioni riguardavano anche i problemi dell’ordinamento giudiziario, tanto che quando, nel 1968, l’Associazione elaborò attraverso una speciale commissione un progetto organico di riforma, Magistratura indipendente, propose un proprio testo di minoranza. “È stato necessario – si legge sempre nel programma del 1967 – sbarrare il passo a numerose, ricorrenti, insistenti proposte di riforma sostenute da Tp e da Md (spesso di concerto fra loro), che sono da noi avversate perché contrarie all’indipendenza dell’ordine, al prestigio della funzione, alla dignità e agli interessi dei colleghi, alle esigenze di giustizia. L’istituzione di Cassazioni regionali, l’assegnazione solo temporanea del magistrato alle funzioni di legittimità, il massiccio inserimento di elementi laici nei ruoli della Cassazione, l’immissione di giudici popolari nei Tribunali per la famiglia e dci minorenni, l’elettività del pretore o la sua trasformazione in magistrato onorario o la sua sostituzione con un giudice di pace, il conferimento di estesi poteri di equità a magistrati onorari, il giudice elettivo, tutte queste proposte sono state da noi tenacemente avversate e contestate”.

Distanze radicali, come si vede: che andavano ben oltre il tema pure centrale del rapporto con la politica per estendersi a problematiche ordinamentali e in genere inerenti il ripensamento dell’intero assetto della giustizia. Che interpretazione dare a questa conflittualità tra le correnti? Nel 1975 un giudice attivo nell’associazionismo come Giovanni Giacobbe ne dava paradossalmente una lettura positiva, non negativa:

“Già la circostanza che esistono due associazioni di magistrati [Anm e Umi] e che quella più antica e numerosa è suddivisa in quattro correnti rappresenta un sintomo assai significativo di una realtà ormai acquisita: la magistratura sul piano delle valutazioni lato sensu politiche concernenti la definizione del ruolo che ad essa è assegnato è profondamente divisa. E questa divisione, nella misura in cui risponde alle esigenze di una presa di coscienza, a livello ideologico, dei problemi che oggi premono sulla magistratura […], lungi dal rappresentare un fatto negativo – come erroneamente sostiene chi ha addirittura proposto lo scioglimento per legge delle associazioni esistenti – è altamente positivo. Semmai fatto negativo potrebbe essere rappresentato da certe larghe convergenze unitarie determinatesi sul piano di valutazioni settoriali, se non addirittura corporative”[53].

Intanto non c’era solo il fronte esterno. Contava, e molto, anche quello interno. Una serie di eventi si succedevano con importanti conseguenze. Cito qui, senza poterli approfondire, nel 1963, il primo concorso aperto alle donne: fu un evento che nel seguito degli anni si sarebbe rivelato epocale (basti pensare che gli ultimi concorsi degli anni Duemila hanno promosso in prevalenza candidate donne, sicché si può ben dire che va cambiando visibilmente e velocemente la composizione per generi della magistratura del presente e del futuro); e poi gli atti normativi più rilevanti: la legge Breganze del 1966, che di fatto introduceva il criterio dell’anzianità per le promozioni in carriera, seguita nel 1973 dalla cosiddetta legge “Breganzone” (la fantasia del gergo parlamentare è a volte sorprendente), che estendeva il criterio alla progressione ai gradi di magistrato di Cassazione e di magistrato idoneo alle funzioni superiori; il che era – se così si può dire – una vera e propria rivoluzione. Metteva insieme la giusta critica alle carriere gestite dall’alto, di fatto per cooptazione, con una spinta (che pure esisteva) di origine corporativa, che a sua volta si inseriva nel generale clima egualitario tipico dei tardi anni Sessanta. Il tema della “carriera” era cruciale e tale sarebbe rimasto a lungo, non senza contenere in sé elementi di ambiguità (come riconosce, tra gli altri, Giovanni Palombarini)[54]

Ciò – secondo l’autorevole parere di Vladimiro Zagrebelsky – poneva sulle spalle del Csm il delicatissimo compito della valutazione (un tema, questo, ancora oggi irrisolto in generale in tutta l’area delle funzioni pubbliche), sfociando di fatto in una sorta di automatismo della carriera. Prevaleva cioè sul merito (in certo senso inaccertabile) il criterio dell’anzianità, come accadde – cito ancora Zagrebelsky – nel momento dell’assegnazione del magistrato alle varie funzioni e sedi, operazione complessa che il Csm dovette da allora compiere sulla base dei non sempre illuminanti pareri dei Consigli giudiziari e sulla scorta di una valutazione il più possibile oggettiva dei curriculum degli interessati: “Tutto ciò è in larga misura – dice Zagrebelsky – effetto della carenza informativa e valutativa sulla reale personalità dei magistrati”. E, aggiunge, “è questa carenza che lascia il campo quasi necessariamente, ai rapporti personali, a quelli di gruppo, alle segnalazioni politiche”[55].

Un aspetto nuovo che non si può trascurare è poi quello inerente la riforma del sistema elettorale del Csm per designare la componente togata. Inizialmente si manifestava – lo si è detto – quella che è stata chiamata “la schiacciante sovrarappresentazione della gerarchia”, che privilegiava largamente la Corte di cassazione. Ma nel 1967 la legge n. 1198 corresse parzialmente il sistema, introducendo il voto generalizzato di tutti per tutti i rappresentanti delle varie categorie. La legge del 1975 (la n. 695) completò, instaurando il sistema di voto a base proporzionale, costituendo un collegio unico nazionale e stabilendo la parità di voto a prescindere dalle categorie.

Si apriva così una vera e propria “arena” elettorale, nella quale le correnti avrebbero agito – alla stregua di partiti politici (parlo qui solo del metodo del loro intervento, non dei programmi). Vi sarebbero poi state ancora due modifiche, nel 1990 e nel 2002, l’una soprattutto per introdurre i collegi territoriali, l’altra per inserire il voto uninominale. Secondo Daniela Piana e Antoine Vauchez, alla cui ricostruzione specialmente qui ci si appoggia, “quel che colpisce nell’ingegneria elettorale e nelle numerose leggi è tuttavia la loro inefficacia”[56]. Esse mirarono a rendere il voto il più possibile libero dalle correnti (che precocemente, sin dai primi anni Ottanta, vennero individuate come potenziali “padrone del voto”), ma sortirono in questa direzione effetti se non nulli, per lo meno modesti.

Infine era intervenuto nell’arco di quegli stessi anni un dato economico. Come ricordava già nel 1972 Sabino Cassese, erano mutate le retribuzioni dei magistrati: “il salario lordo annuo di un magistrato, nel 1966, era – ha scritto Cassese – circa il doppio di quello di un impiegato statale nel primissimi anni della carriera […]. A partire dal 1970 il salario lordo annuo di un magistrato è più di due volte e mezzo quello di un impiegato statale nei primissimi anni di carriera”[57]. Nel 1979, come annota Bruti Liberati, con l’ “aggancio” delle retribuzioni dei magistrati a quelle della dirigenza pubblica, la magistratura fu liberata “dalla ricontrattazione periodica dei livelli salariali”[58]. Una tendenza – questa alla crescita delle retribuzioni – che paradossalmente (o forse no) sarebbe andata di pari passo nei decenni successivi man mano che si affermava l’indipendenza dei giudici e la loro influenza in quanto corpo sociale. La magistratura italiana descritta da Calamandrei come un ceto virtuoso di servitori della giustizia dalla esistenza povera e sobria con qualche problema a raggiungere il 27 del mese entrava a fare parte, anche secondo il criterio del reddito, del novero delle élites del dopoguerra.

5. Le tre emergenze e l’unità dei giudici

Negli anni Ottanta appunto si chiuse una fase e se ne aprì un’altra. Nuove, impegnative prove erano alle porte. La magistratura italiana fu in quel decennio e nel successivo coinvolta in prima persona in quelle che potremmo definire le tre grandi emergenze della democrazia italiana del secolo scorso: la prima, preparata dalle stragi degli anni Settanta, fu l’escalation del terrorismo nero e di quello rosso, sino alla sfida suprema allo Stato rappresentata dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro; la seconda fu l’infierire della lotta contro la mafia e alle grandi organizzazioni criminali e di queste contro lo Stato di diritto; la terza – ancora in corso, come del resto anche la seconda – fu rappresentata dallo strenuo impegno dei giudici (in primo luogo i pm) contro la corruzione. In tutte e tre le emergenze, specie nelle prime due, la magistratura avrebbe pagato un prezzo altissimo, incomparabile, drammaticamente verificabile nella triste statistica delle vittime tra i magistrati e in genere nell’intero apparato della giustizia. In tutte e tre le emergenze (meno forse nella prima, in modo assai più netto nella seconda, in maniera manifesta nella terza) i giudici sarebbero stati lasciati soli e avrebbero dovuto di conseguenza svolgere quello che si chiamò un ruolo di supplenza (nel dibattito interno si parlò anche di “delega”)[59]: supplenza nei confronti della politica, in modo particolare, avendo quest’ultima, almeno nelle componenti principali, svolto un suo impegno dignitoso contro il terrorismo, ma essendo stata ambigua e latitante contro la grande criminalità mafiosa (con preoccupanti fenomeni di connivenza) e infine addirittura essendo divenuta una sorta di controparte della magistratura, seppure non sempre esplicitamente, nel caso della lotta alla corruzione[60].

Tutto ciò non fu privo di conseguenze sulla competizione delle correnti interne all’Anm. MD, come è stato da più parti sottolineato, comprese “che l’insieme dei risultati delle consultazioni sul divorzio […] e amministrative e politiche […]” (le vittorie delle sinistre sino al 1976) segnavano il punto massimo di un’ondata politica destinata a rifluire nel decennio successivo (ciò che puntualmente avvenne); e ne trasse materia di revisione delle sue stesse posizioni. Si andava riducendo di molto del resto la prossimità dei partiti di sinistra con i magistrati democratici (nel 1976 era uscito polemicamente da MD Luciano Violante, che ne era stato uno dei più attivi fondatori e che sarebbe divenuto per molti versi come deputato l’uomo chiave, insieme a Ugo Pecchioli, della politica comunista verso i problemi della giustizia)[61]. I fatti del 1977, preludio dell’apparire del terrorismo, ebbero la loro influenza in questo processo di ripensamento, peraltro non privo di resistenze.

Nel corso delle tre emergenze la visibilità e anche il potere della magistratura rispetto agli anni precedenti crebbe tuttavia in modo considerevole, forse persino talvolta smodato. Per un paradosso, mentre si attenuava la critica dei magistrati della sinistra alle istituzioni, la magistratura nel suo complesso si proponeva come il corpo sano capace di assumere di quelle stesse istituzioni la difesa, anche a costo di gravissimi sacrifici. Era anche l’effetto, si è detto per giustificare il fenomeno, della sovraesposizione tipica della società dello spettacolo, del protagonismo nella grande rete dei media. In molti, specie nelle procure, furono colpiti dal virus del presenzialismo. Certo, è vero: non si contavano i programmi televisivi spesso con presenza in studio di magistrati (persino ricostruzioni a stralcio di processi, come nel programma Rai “Un giorno in pretura”, che ha contribuito ad accreditare presso una platea immensa di italiani ignari delle procedure un’idea profondamente falsata dell’esercizio della funzione giudiziaria), o gli interventi sulla stampa quotidiana e periodica, o poi quelli sulla rete. Un protagonismo individuale purtroppo a volte contagioso e sapientemente finalizzato da alcuni alla propria visibilità ha consegnato all’opinione pubblica la figura del magistrato-giustiziere, in una chiave talvolta goffamente “eroica” (si è creato un mito, che spesso è servito poi per fini personali di carriera politica); altre volte è invece emersa in negativo la rappresentazione del giudice corrotto e corruttibile (del resto avvalorata da vicende deprecabili come quelle della procura di Roma, il “porto delle nebbie” come fu ribattezzata). Le telecamere e le cineprese sono diventate un elemento fisso nelle aule e nei corridoi dei palazzi di giustizia. L’immagine del pubblico ministero assediato dai giornalisti e attorniato da una selva di microfoni, le cui dichiarazioni “a caldo” sono poi spesso tagliate con sapienza in redazione e inserite nei “panini” dei telegiornali (così si chiamano le sintesi di parole e immagini ridotte a pochi minuti), è diventata quasi un cliché[62]. Un’informazione impreparata e distratta (e dire che uno dei primi libri sul magistrato italiano lo aveva scritto, denso di dati e di riflessioni nient’affatto banali, un grande giornalista come Gigi Ghirotti, ed era il 1963)[63] si è infiammata per le grandi inchieste, le ha seguite nelle ricostruzioni televisive come si seguono le telenovelas, ha letteralmente fatto tifo per questo o quel magistrato (in genere per i pubblici ministeri), ha visto nelle toghe la soluzione salvifica per tutti i problemi del Paese. Dopo decenni di sobrietà e di voluta invisibilità, il potere giudiziario ha avuto puntati su di sé tutti i riflettori, sino al punto che i media si sono appassionati alle nomine in questa o quella procura, di questa o quella presidenza di tribunale, e ai contrasti di competenza tra uffici e singoli capi delle strutture giudiziarie quasi si trattasse di eventi agonistici. Ne è derivata una nuova collocazione della magistratura in quanto corpo unitario nel sistema politico-istituzionale. L’influenza che essa ha esercitato non si è limitata alla singola vicenda dei processi famosi (in particolare quelli per fatti di corruzione) ma si è estesa molto al di là, alle politiche repressive della criminalità ad esempio, o a quelle di contenimento della corruzione, con la progressiva trasformazione del Csm in “rappresentante del potere giudiziario verso l’esterno”[64].

Ma al fondo si manifestava anche qualcosa di più sostanziale, che potremmo chiamare – come, per fare una citazione ma se ne potrebbero fare altre – scrisse alla fine degli anni Novanta Marcello Maddalena – “il progressivo ‘avvicinamento’ tra le correnti a seguito della altrettanto progressiva deideologizzazione della magistratura”. Maddalena citava a questo proposito un episodio che forse non si sarebbe potuto verificare nei due decenni precedenti: l’elezione, da parte di MI, nel Consiglio superiore di un magistrato come Maurizio Laudi, “che non ha mai fatto mistero delle sue simpatie per il Pci prima e per il Pds poi, e che proveniva da una lunga e significativa militanza in Md”[65]. A ciò corrispondeva l’allentamento dei legami tra le correnti e i partiti di riferimento. Dopo una fase che potremmo definire di collateralismo, il rapporto tra correnti e politica mutava gradualmente in una sorta di contrattazione con singoli leader politici o gruppi organizzati dentro i partiti.

Cambiava di conseguenza anche il ruolo e l’essenza stessa delle correnti interne all’Anm. Lo testimoniano alcune ulteriori piccole scissioni, sintomo, al di là delle motivazioni che le causarono, di un malessere da parte di alcune avanguardie più avvertite rispetto all’unanimismo in atto. Nel 1979 era intanto avvenuta però la fusione tra Terzo potere e il gruppo appena formatosi di Impegno costituzionale, dalla quale era nata Unità per la costituzione (Unicost), erede almeno in parte della tradizionale collocazione sul centrosinistra di Terzo potere ma anche portatrice di un modo nuovo di intendere la militanza in magistratura. Nella seconda metà degli anni Ottanta, dal gruppone di Unicost si distaccò non senza scandalo un piccolo gruppo di magistrati che – come scrisse uno di loro, Giovanni Tamburino, “si oppose alla logica che riduceva l’Anm a mero contenitore di decisioni prese dalle correnti, conformemente alla logica che minava l’effettività dell’unità associativa rendendola formale e vuota di contenuti”[66]. L’Anm, lamentava Tamburino, “non era una sede aperta di riflessione e confronti sulla ‘politica’ giudiziaria, bensì il luogo dove le correnti depositavano i propri deliberati interni”. La scissione nacque su un fatto particolare: la candidatura di Giacomo Caliendo, già componente del Csm molto discusso “per un comportamento tenuto […] in una vicenda che toccava la P2”, a presidente della stessa Anm[67]. Tacendo sul punto Unicost, che era la corrente di maggioranza, la questione fu sollevata da un gruppo di iscritti che sarebbero poi diventati gli “scissionisti”: Mario Almerighi, Vito D’Ambrosio, Enrico De Nicola, Ubaldo Nannucci, Memmo Nataloni, lo stesso Tamburino, Vladimiro Zagrebelsky e pochi altri. Nacque da quel dissenso il “Movimento per la giustizia” (presidente dell’Anm, in luogo di Caliendo, fu eletto Sandro Criscuolo). In seguito un’ulteriore “distacco” da Unicost seguito da una mini-fusione con transfughi di Magistratura indipendente (Stefano Racheli e altri) diede vita al gruppo di “Proposta”, che nel 1988 si sarebbe fuso con il Movimento per la giustizia.

La frammentazione, il susseguirsi di scissioni e fusioni, denunciava un disagio. I dissensi però pur essendo eloquenti, anche aspri, erano contenuti in manifestazioni minoritarie. Le fusioni erano piuttosto confluenze silenziose. Il mare agitato delle correnti degli anni Settanta, le ondate violente (per restare nella metafora) sollevate da MD e dai contrasti nati sulla giurisprudenza alternativa nel decennio precedente, tendevano adesso come magicamente a placarsi. Frattanto – particolare non privo di importanza – declinava anche, agli occhi dell’opinione pubblica, la figura del giudice, che nei sondaggi del periodo sino alla fine del secolo aveva primeggiato – insieme all’immagine intramontabile dell’Arma dei carabinieri – nelle preferenze popolari; e che ora invece, anche per effetto di episodi negativi della cronaca nella quale erano stati coinvolti magistrati, scivolava più in basso.

Cambiava di conseguenza, e sarebbe ancora più mutata, l’essenza stessa delle correnti, il loro rapporto coi problemi della giustizia e di conseguenza della magistratura. Sinora – lo si è detto – esse avevano fatto riferimento a universi valoriali forse discutibili ma connotati da precise scelte di campo, relative sia alla questione della giustizia nel suo insieme (i problemi strutturali dell’organizzazione del sistema ad esempio; o i diritti del cittadino), sia al tema cruciale delle risposte che avrebbe dovuto dare alla domanda di giustizia il magistrato. “In definitiva – ha scritto qualche anno fa Nello Rossi – il pluralismo ideale e associativo della magistratura italiana (fatto di gruppi che riuniscono e rappresentano magistrati sulla base di visioni differenziate dei problemi della giustizia, del suo funzionamento, della sua organizzazione) ha dalla sua la storia”[68]. Osservazione perfettamente condivisibile: l’àncora di salvezza dal pericolo di cadere nel “correntismo”, inteso nel senso deteriore del termine, era stata a lungo, appunto, questa vocazione dei gruppi organizzati in correnti a seguire la via non del corporativismo categoriale né della faziosità prossima alla politica ma invece quella del costante rapporto coi problemi generali. Ciò tra l’altro aveva evitato negli anni che nascessero e si diffondessero i “sindacatini” dei giudici concentrati nei soli problemi retributivi, di status e di carriera[69]. Era esistito – aveva ragione Rossi – un terreno comune, nel quale si era potuto anche dissentire sino a dividersi, ma sempre su grandi temi di carattere generale. Una letteratura più che ragguardevole, composta di riviste, libri, atti di convegni, interventi anche sulla stampa d’opinione, attesta quanto ricco sia stato negli ultimi decenni del secolo scorso, e parimenti acceso, il dibattito interno tra le varie componenti della magistratura. Un’intera collana editoriale, promossa dall’editore Laterza (un editore non specialista in testi giuridici), era stata ad esempio ispirata da uomini della magistratura come Adolfo Beria d’Argentine, o da esponenti illustri dell’accademia, come il sociologo Renato Treves e i suoi allievi. E aveva dato luogo a un accumulo di studi e ricerche di grandissima rilevanza scientifica.

Ma – ecco il punto – quegli studi, quei “laboratori” interni, spesso legati alle correnti, apparivano adesso, all’inizio del nuovo secolo, sempre meno vitali, quando addirittura non erano stati chiusi. Regnava da qualche anno, nel mondo della magistratura, una sorta di pax, più che altro basata sulla fine delle ideologie. Si direbbe – riprendendo una celebre frase relativa a ben altro – che le correnti avessero perso “la loro spinta propulsiva”.

È forse per effetto di questo ripiegamento degli ideali (così si potrebbe anche chiamare) che le stesse competizioni in seno all’Anm hanno teso nei tempi recenti a stemperarsi? La tabella pubblicata da Piana-Vauchez sulle elezioni del comitato direttivo dell’Associazione, già evocata per gli anni Sessanta, offre nei decenni successivi dati interessanti. A partire dal 1980 Magistratura indipendente perse la leadership, conquistando quell’anno il 42% dei voti ma per la prima volta alla pari con Unicost. Risultò poi soccombente sistematicamente rispetto alla corrente rivale nelle elezioni successive: 1983 37%, contro il 45% di Unicost.; 1988, 31%, contro il 47%; 1992 24.5%, contro il 41%; 1996, 19,5%, contro il 41,5%; 1999, 22%, contro il 38%; 2003, 19%, contro il 34%; 2007, 24%, contro il 38%. Magistratura democratica, che nel 1999 arrivò al 28% (il suo massimo storico) si è poi attestata negli ultimi anni su valori intorno a una media del 24-25%, ma già dopo il 1977 (un anno chiave per l’imperversare del terrorismo rosso e per la recrudescenza dell’offensiva armata contro i magistrati) la corrente di sinistra era rifluita verso forme meno estreme di contestazione, prevalendo tra le sue file l’anima garantista (presente del resto sin dall’origine). Il Movimento per la giustizia (dapprima presentatosi sotto il nome di “Verdi”) giunse nel 2003 al suo massimo storico del 15%.

Questi spostamenti non diedero luogo, come ci si sarebbe forse potuto attendere, a rotture irreparabili nell’organizzazione unitaria; in fondo neanche sfociarono in una crescita del tasso di conflitto interno; tutt’altro: si risolsero viceversa in una sua gestione unitaria abbastanza concordata. Forse la sequenza dolorosa degli assassini dei magistrati (testimoniata dalla lapide che ne ricorda il sacrificio nell’aula magna della Corte di cassazione) aveva indotto, nei decenni di fine Novecento, anche sul piano emotivo, a far fronte comune. Analoghi motivi a favore dell’unità le tre correnti avevano forse tratto dall’attacco frontale alla magistratura negli anni difficili della presidenza della Repubblica di Francesco Cossiga, quando dal Quirinale venne un’offensiva senza precedenti ai giudici (a tutti i giudici in quanto tali, sebbene in prevalenza gli strali del presidente esternatore fossero diretti contro quelli di MD).

Negli anni Novanta, il decennio delle grandi inchieste giudiziarie giornalisticamente riassunte nel nome di “Tangentopoli”, i magistrati, specie quelli più giovani, tesero a identificarsi in un ruolo inedito, che non apparteneva se non marginalmente al passato dei loro colleghi più anziani: quello di soggetti delegati non tanto alla giurisdizione del caso per caso ma a ristabilire un quadro di giustizia e di legalità nel mondo degenerato delle istituzioni pubbliche. Sarà bene non sottovalutare questo fattore per così dire “emozionale”, che riplasmò in pochi anni i valori identitari della magistratura, traducendosi in una nuova ideologia unitaria sostitutiva delle precedenti ideologie di parte, alimentate dalle correnti. Il contrasto alla grande criminalità organizzata costituì un banco di prova fondamentale; le inchieste contro la corruzione realizzarono e perfezionarono quelle premesse. Tutto ciò forse concorse a mettere in sordina le visioni divisive manifestatesi nel passato, configurando – come pure è stato scritto forse con qualche esagerazione – una sorta di “partito unitario della magistratura”. L’Anm era stata nel periodo precedente una sorta di “associazione delle associazioni”, un terminale della dialettica delle correnti, al punto che si potrebbe sostenere che l’intero dibattito interno si svolgesse prima al di fuori della Anm, in sedi preparatorie identificabili con le correnti, e solo dopo fosse “ratificato” nella sede associativa comune. Adesso questa lunga fase si chiudeva, ed emergeva il ruolo centrale dell’Associazione dei giudici in quanto tale.

6. Conclusioni: il lento declino delle correnti

È abbastanza paradossale – ci si consentirà – che la stagione della visibilità massima della magistratura, quella in cui l’iniziativa dei giudici (ma soprattutto dei pubblici ministeri) riscrisse (lo si può ben dire) la storia d’Italia, abbia di fatto coinciso con l’incubazione di una crisi, prima latente e poi sempre più manifesta sino a tradursi in un mutamento genetico, delle correnti interne. Crisi non di tessere, si badi (che a quanto pare non difettarono e non difettano), ma di idee e di proposte aggreganti e caratterizzanti. A leggerne le carte costitutive e gli statuti, le correnti degli anni Duemila fanno tutte riferimento a una nobile e consolidata tavola dei principi comuni (a cominciare dal riferimento alla Costituzione), ereditata dal passato recente e remoto; ma gli stessi “progetti” che esse propongono riguardo alla questione della giustizia differiscono poi solo su particolari secondari l’uno dall’altro, facendo tutti riferimento in maniera indiscriminata all’esperienza compiuta dall’associazionismo negli ultimi cinquant’anni, senza più alcun elemento di originalità e di differenziazione “politica” (e scrivo l’aggettivo con le necessarie virgolette). Ciò è un bene, sotto un certo punto di vista, perché attenua le tensioni interne all’Anm. Lo è di meno quando le parole e i concetti comuni offuscano le ragioni della distinzione tra correnti, che tuttavia restano tuttavia separate e concorrenti.

Come è noto le correnti sono attualmente quattro: Md e Movimento per la giustizia, riunite in Area[70]; Unicost, Magistratura indipendente[71] e – nata da una scissione di quest’ultima nel 2015, Autonomia&indipendenza, la corrente presieduta da Piercamillo Davigo[72]. Non è lo scopo di questa relazione esprimere giudizi su di esse. Quelle più antiche sono sorte, lo si è visto, per ragioni storiche, quando si è trattato di organizzare la democrazia interna dei magistrati in precisi alvei ideali che non solo alimentassero la dialettica democratica nel Csm ma esprimessero pluralisticamente e pubblicamente gli indirizzi del corpo giudiziario, eliminando o almeno riducendo i rischi della frammentazione e del particolarismo corporativo. Le recenti hanno avuto come causa prima l’insoddisfazione di gruppi minoritari rispetto alla linea delle correnti “storiche”. Tutte hanno necessariamente seguito l’evoluzione della storia politica della società italiana nell’arco degli ultimi 60 anni, partecipandovi, e ciò non deve suonare affatto scandaloso, come non deve destare scandalo che in questo percorso abbiano incrociato interessi organizzati, partiti, sindacati, movimenti culturali e professionali esterni alla magistratura. Hanno tuttavia, ognuna secondo la sua visuale, concorso a difendere l’indipendenza della magistratura e contribuito ad approfondire i temi della questione giustizia.

Tuttavia hanno anche subìto negli anni una sorta di involuzione che ne ha snaturato la funzione. Da ossatura della democrazia interna della magistratura, da arterie, quali erano efficacemente, di una circolazione sanguigna fondamentale per la stessa esistenza della dialettica, da portatrici di idee e di modelli differenti circa la funzione giurisdizionale e il modo di esercitarla, si sono via via trasformate in ambigue articolazioni di potere; dedite, più che non alla realizzazione di un progetto alla propria autoconservazione. La loro influenza sul Csm, sia nella fase elettorale (il sistema elettorale non è indifferente al protagonismo delle correnti: alcuni sistemi ne accrescono fisiologicamente la funzione di selezione dei candidati), sia in quella della designazione delle commissioni, sia in quella del lavoro concreto dell’organo (compreso il delicato terreno della valutazione finalizzata alle nomine)[73] è divenuta nel tempo molto penetrante, tanto da far sospettare – come del resto sembrano confermare recenti deprecabili episodi – che esse svolgano ormai un’attività istruttoria impropria su temi delicatissimi, espropriandone il Csm stesso che dovrebbe essere viceversa la sede delle decisioni inerenti quei temi. Accade, in qualche misura, quel che Luigi Einaudi da presidente della Repubblica lamentava accadesse agli inizi dell’esperienza repubblicana nell’esproprio esercitato dai partiti politici di quelle che erano le funzioni costituzionali del presidente del Consiglio nella scelta dei ministri e nell’organizzazione autonoma dell’attività di governo. Verrebbe da porsi i seguenti interrogativi: quanto conta oggi un magistrato (ve ne saranno, immagino, per quanto non molti) che non sia iscritto a nessuna corrente? Quali garanzie può avere a difesa dei suoi interessi di carriera? E anche: chi decide all’interno delle correnti? Con quali metodi di consultazione e in quali sedi collettive sono assunte le decisioni?

Perché l’impressione che si ha, scrutando dal di fuori quel che succede nel corpo della magistratura, è che le scelte, persino quelle dell’organo di autogoverno di rilievo costituzionale, vengano assunte secondo un metodo non definibile altrimenti che spartitorio.

Che fare dunque? Non fa parte dei miei compiti almanaccare su soluzioni che devono scaturire dalla cultura e dalla coscienza dei tanti magistrati virtuosi (e sono, ne siamo sicuri, la stragrande maggioranza). Mi pare però che qualcosa si possa dire, in conclusione: non sarà attraverso regolamenti che stabiliscano complicate procedure che si potrà porre rimedio alle “cordate”, alle cooptazioni dall’alto e in definitiva a questa vera e propria “occupazione” dell’istituzione che sembra di intravedere chiaramente anche in recenti fatti di cronaca. Né sarà dividendo i magistrati per categorie, funzioni, settori, magari ognuno con relative associazioni corporative, onde “depoliticizzare” la dialettica interna della magistratura. Né appare plausibile affidarsi a riforme bizzarre quali quella del sorteggio in luogo delle elezioni, il che costituirebbe una dichiarazione di resa della democrazia di fronte alle difficoltà di riforma[74]. Il pluralismo dell’associazionismo giudiziario è un bene da preservare come scriveva giustamente Nello Rossi negli ultimi anni Novanta, ma va depurato del “correntismo” fine a sé stesso, e ricondotto in confini istituzionali propri, che ne evitino in futuro la degenerazione. Tra le tante voci che si intrecciano nel dibattito in corso (un dibattito che sembra avvitarsi a volte nella logica perdente del “meno peggio”) mi sembra ragionevole l’intervento del presidente della Scuola superiore della magistratura Gaetano Silvestri (un intervento – s’intende – da “uomo libero”, non ratione muneris) nel quale si propone “come traccia ispiratrice il vecchio sistema elettorale del Senato, che coniuga visibilità dei singoli candidati e sistema proporzionale temperato nell’assegnazione dei seggi”[75]. Il punto è sempre lo stesso: come preservare la qualità del singolo candidato senza rinunciare alle aggregazioni rappresentative su scala nazionale. È quasi superfluo aggiungere che in ogni caso anche la migliore delle riforme del sistema di designazione dei membri togati del Csm non varrebbe a granché se non si accompagnasse da una svolta radicale nell’etica individuale e di corpo della magistratura: se si continua a ritenere che “è sempre avvenuto e sempre avverrà”, che “lo fan tutti e quindi lo faccio anch’io”, se cioè non vi sarà una rivalsa forte e diffusa dell’etica, difficilmente si potrà uscire dal cul-de-sac del quale le recenti vicende mostrano tutta la gravissima evidenza.

Il discorso potrebbe chiudersi qui. Ma non si può tacere una postilla. Non sarebbe infatti completo se non evocasse la grande assente di questi anni recenti: la politica. Perché il tema della connivenza tra poteri forti e mafia o camorra, quello del finanziamento occulto dei partiti politici, quello della compravendita delle cariche, quello della corruzione esistente nella pubblica amministrazione e nella stessa società civile, temi “scoperti”, affrontati con coraggio e perizia professionale grazie all’azione assidua e generosa dei magistrati, avrebbero richiesto, oltre alla celebrazione dei processi, qualcosa che il magistrato stesso non poteva dare: una risposta chiara e netta della politica nei termini delle necessarie riforme volte a estirpare per il presente e per il futuro le cause di quei fenomeni criminali. Una risposta che invece non venne[76].

 

[1] Il carcere in Italia, Torino, Einaudi, 1971.

[2] Il caso Neppi Modona è più brevemente trattato da E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 2018, pp. 133-134. Qui si utilizza per la ricostruzione la sentenza della Sezione disciplinare Csm del 29 maggio 1974.

[3] Da vedere P. Calamandrei, Polizia e magistratura. Introduzione a un’inchiesta”, in Il Ponte, VIII, 1952, n. 1, pp. 90 ss., che riferisce di un’inchiesta a base di questionari sul tema. Calamandrei poneva qui la delicata questione, tratta del resto da recenti cronache giudiziarie, “dei doveri della magistratura di fronte alle rivelazioni che affiorano da certi processi del comportamento della polizia nella fase istruttoria”.

[4] Cfr. A. Battaglia, I giudici e la politica, Bari, Laterza, 1962, specie pp. 134-135. Ma tutto il volume di Battaglia va riletto per le “resistenze” della Corte di cassazione rispetto all’applicazione dei principi costituzionali. Dello stesso autore cfr. Processo alla giustizia, Bari, Laterza, 1954, appassionata denuncia dei limiti della amministrazione delle giustizia nell’Italia dell’immediato dopoguerra.

[5] E. Moriondo, L’ideologia della magistratura italiana, Bari, Laterza, 1967.

[6] F. Venturini, Un “sindacato” di giudici da Giolitti a Mussolini. L’Associazione Generale fra i magistrati italiani 1909-1926, Bologna, Il Mulino, 1987.

[7] Il 1° aprile 1945 aveva ripreso le pubblicazioni quello che fu l’organo dell’Anm, la rivista La Magistratura (cfr. G. Mammone, 1945-1969: Magistrati, associazione e correnti nelle pagine de “La Magistratura”www.diritto.it/giustizia_costituzione/doc_verb_com/mammone .

[8] I due significati di “indipendenza” sono bene spiegati in un articolo di Marco Ramat su Il Ponte, XVII, 1961, n.6, L’indipendenza della magistratura, pp. 848 ss.: “L’indipendenza dall’esterno mira a garantire i singoli giudici e la magistratura nel suo complesso dalle interferenze degli altri poteri, in particolar modo del potere esecutivo”; “l’indipendenza dall’interno mira a garantire il singolo giudice, nell’atto del giudicare, dalle paure e dalle speranze che la sua decisione possa dispiacere o far piacere ad altri giudici, posti in posizione giuridicamente superiore, dal giudizio dei quali potrà domani dipendere il suo avanzamento in ‘carriera’”. Il tema dell’indipendenza nelle due accezioni è anche affrontato in una delle “conferenze messicane” di Piero Calamandrei, ora riprodotte in Processo e democrazia. Le conferenze messicane di Piero Calamandrei, a cura di T, Groppi, E. Bindi, G. Milani, Pisa, Pacini, 2019, pp……

[9] G.A. Raffaelli, Il sacerdote di Temi, Milano, Gentile, 1945.

[10] Sui ritardi e le più o meno esplicite opposizioni che precedettero la legge del 1958 cfr. D.R. Peretti Griva, Esperienze di un magistrato, Torino, Einaudi, 1965, che resta uno dei classici della memorialistica giudiziaria; sul punto specie pp. 303 ss.

[11] Traggo queste e le successive informazioni (e molte suggestioni) dai due recenti studi complessivi sulla magistratura italiana: quelli di Antonella Meniconi, che verte sull’intera esperienza unitaria (Storia della magistratura italiana, Bologna, Il Mulino, 2012; e quello di Edmondo Bruti Liberati, egli stesso eminente magistrato, Magistratura e società nell’Italia repubblicana cit.. Sui limiti di quel Csm, presenti nella legge istitutiva e sostanzialmente confermati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (che nel 1963 ritenne sì contrastante con la Costituzione subordinare l’iniziativa del Csm alla “richiesta ministeriale” ma tuttavia non illegittima l’elezione “per categorie” dei membri togati), cfr. la nota polemica di Vincenzo Gatteschi su Il Ponte, XX, 1964, n. 1, pp. 5 ss., Ancora sull’indipendenza dei giudici.

[12] V. Zagrebelsky, La magistratura ordinaria cit., pp. 740-741, che cita l’assemblea della Corte di cassazione tenutasi a ridosso dell’assemblea di Napoli, indicato come “non rappresentativa e vittima di giovanili intemperanze ed immaturità”.

[13] Su quel congresso cfr. A. Apponi, Il Congresso dei magistrati, in “Il Ponte”, XV, 1959, n. 10, pp. 1202 ss. Temi del congresso furono il diritto alla cronaca giudiziaria (relatore i presidente di sezione della Cassazione Amedeo Foschini), la potestà di iniziativa del ministro rispetto al Csm (relatore il giudice Paolo Glinni, componente del Csm) e il sistema delle elezioni dello stesso massimo organo dei magistrati.

[14] Cfr. la prefazione al volume Associazione Nazionale Magistrati, Atti e Commenti. XII Congresso Nazionale, Brescia-Gardone, 25-28-IX-1965, Roma, Arti grafiche Jasillo, 1966, pp. 7 ss. Ivi anche i congressi, sedi e date. La trasformazione era in qualche misura il derivato naturale di un processo evolutivo profondo in atto da qualche anno nella società italiana. Lo aveva ben intuito uno straordinario “interprete” venuto in Italia dagli Stati Uniti nel 1963-64 per studiare quello che, nella dottrina, nella legge e nell’interpretazione del giudice, aveva chiamato l’Italian Style (parlo di John Merryman, i cui tre saggi sul tema furono poi pubblicati dalla Rivista trimestrale di diritto e procedura civile 1966, pp. 1169 ss.; 1967, pp. 709 ss.; e 1968, pp. 373 ss.). Merryman aveva preconizzato: “il futuro sembra riservare un ruolo più importante e un prestigio maggiore ai giudici. Ciò deriverà in parte da un ridimensionamento della esagerata considerazione del potere legislativo che ha gravato sul pensiero giuridico dei sistemi continentali fin dal 1804. In parte sgorgherà da un riesame della natura e del grado di rigidità della separazione dei poteri. Ma soprattutto potrà seguire dal riconoscimento del più ampio significato dottrinale che può assumere l’opera creativa di un potere giudiziario le cui statuizioni abbiano valore di precedente” (Lo “stile italiano”: l’interpretazione, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1968 cit., p. 413). Su Merryman, scomparso nel 2013, cfr. l’informato “necrologio” di L. Casini in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2016, n. 3, pp.875 ss.

[15] D. De Masi, La giustizia senza qualità, in “Nord e Sud”, XII, n.s., n. 69, settembre 1965, pp. 64 ss. Di De Masi è anche da vedere Sociologia dell’organizzazione e amministrazione della giustizia, in La Magistratura, 1966, n. 11-12, poi ripreso da G. Borrè e G. Petrella, La specializzazione del giudice, in Il Ponte, XXIV, 1968, n. 6-7, dedicato interamente a “La magistratura in Italia”, pp. 866 ss. Anche di De Masi La crisi dei magistrati, in Nord e Sud, XIII, n.s., n. 79, 1966, pp. 73 ss., dove discute una proposta di Bruno Meneghello (Selezione attitudinale) presentata all’Assemblea di MD di Perugia del 13-14 novembre 1965. Si parla in questo articolo, sebbene De Masi si dichiari contrario, di testare anche attraverso la psicanalisi l’idoneità del futuro magistrato.

[16] Era intitolata Impegno di riforma per il superamento della crisi, Roma, Arti Grafiche Jasillo, 1980.

[17] In “L’Europeo”, XXII, 14 aprile 1966, pp. 36-39.

[18] Associazione Nazionale Magistrati, Atti e commenti cit.

[19] Berutti era all’epoca uno dei magistrati più noti. Nel 1956 un suo volumetto di racconti, Giustizia, aveva suscitato qualche polemica e una minaccia di intervento disciplinare del ministro rientrato poi per l’asserita scarsa diffusione del libro (cfr. A. Meniconi, Storia cit., p. 298 nota). Nel 1966 si sarebbe reso protagonista di un caso interessante. Avrebbe, da presidente dell’Anm (ma non era giudice di Cassazione, il che avrebbe pesato sulla vicenda), “sollecitato il ministro della Giustizia a svolgere accertamenti sulle modalità della visita medica disposta dal pm di Milano” su una delle studentesse coinvolte nel caso del giornaletto del liceo Parini “La zanzara”. Fu costretto in seguito a ciò a dimettersi dalla presidenza. Cfr. E. Bruti Liberati, Magistratura e società cit., p. 90.

[20] Cfr. in particolare Carriera dei giudici, casta giudiziaria e potere politico, negli Atti da lui stesso curati del Symposium “Ordinamento giudiziario e indipendenza della magistratura”, organizzato dalla Facoltà di scienze politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, Istituto di diritto pubblico comparato, Milano, Edizioni di Comunità, 1962, pp. 56 ss. (ma tutto il volume è ricco di interessanti interventi, anche di relatori stranieri); e poi nel volume Il tiranno senza volto. Lo spirito della Costituzione e i centri occulti del potere, Milano, Bompiani, 1963, il cap. “I giudici e il tiranno”, pp. 141 ss. Di qualche anno dopo è la Storia del potere in Italia 1848-1967, Firenze, Vallecchi, 1967, nel quale sono da vedere il cap. VI, “Il travaglio del terzo potere nell’esperienza risorgimentale e prefascista”, pp. 259 ss.; e il V, “Contrastata affermazione del terzo potere nel ventennio repubblicano”, pp. 451 ss.

[21] Lo ricorda M. Ramat, L’indipendenza della giustizia cit., p. 859, che ne rammenta anche i temi più rilevanti: autogoverno della magistratura, Csm, carriera, reclutamento, funzioni del pm, giurisdizioni speciali, rapporto tra giustizia ordinaria e giustizia costituzionale.

[22] La cit. è tratta dalla relazione Maranini, p. 23. “Necessariamente produttore di diritto – aggiungeva Maranini –, il giudice è dunque anche necessariamente portatore e attuatore di un indirizzo politico”.

[23] Ivi, p. 25.

[24] In particolare il resoconto in Associazione Nazionale Magistrati, Atti e commenti cit., p. 293.

[25] G. Maranini, Funzione giurisdizionale cit., p. 25.

[26] Cfr. la bella intervista a Michele Coiro, nel volume di Paolo Gambescia, Magistratura un mito controluce, con pref. di Giuseppe Branca, Roma, Napoleone ed., 1973, specie pp. 67 ss.

[27] Cfr. il testo della mozione in Atti cit., pp. 309 ss.

[28] Ivi, p. 313.

[29] Ivi, pp. 311-312.

[30] Ivi, p. 315.

[31] Ivi, p. 316-317.

[32] Ivi, pp. 309 ss.

[33] Traggo questa osservazione da E. Bruti Liberati, Magistratura e società cit., p. 66, che giustamente nota come all’epoca il termine “correnti” non avesse l’attuale connotazione negativa.

[34] A. Meniconi, Storia cit., p. 316. Su Colli cfr. anche E. Bruti Liberati, Magistratura e società cit., in particolare p. 16 e n., dove si ricorda un intervento dell’immediato dopoguerra di Colli a un congresso del Partito liberale italiano nel quale egli proponeva un Csm solo composto di alti magistrati. All’epoca della prima sentenza della Corte costituzionale, quella che affermò la competenza della Corte anche sulla legislazione pregressa, Colli si era espresso pubblicamente in senso contrario (pp. 77-78).

[35] I. Micelisopo, L’Associazione Nazionale Magistrati Italiani, in Il Ponte, XXIV, 1968, n. 6-7, dedicato interamente a “La magistratura in Italia”, p. 767.

[36] Cfr. P. Barile, La giustizia dimezzata, in L’Espresso, XII, n. 4, 23 gennaio 1966, nel quale si analizzavano anche i recenti discorsi di Enrico Poggi, procuratore generale della Cassazione, e di Giuseppe Lattanzi, procuratore generale della Corte di appello di Roma, alle rispettive inaugurazioni dell’anno giudiziario 1966. Si inquadrava nell’ambito di quei contrasti, talvolta assai acuti, anche “la vicenda dell’estensione dell’istruttoria sommaria prevista dal codice di procedura penale del 1930 delle garanzie per l’istruzione formale”, estensione che veniva contestata dalla Cassazione (cfr. la sentenza Cass. Sez. prima, 28 aprile 1965). La Corte costituzionale aveva viceversa ritenuto (Corte cost., sentenza n. 11 del 1965) che le norme introdotte per l’istruzione formale dalla legge 18 giugno 1955, n. 517 dovessero applicarsi – conformemente ai principi costituzionali – anche all’istruzione sommaria. Il conflitto tra le due Corti si risolse con la dichiarazione di incostituzionalità della norma del 1930. Su tutto cfr. V. Zagrebelsky, La magistratura ordinaria cit., pp. 732-733 (donde è tratta la citazione).

[37] Nel settembre 1968 l’Umi tenne un congresso a Ravenna nel corso del quale affrontò senza mezzi termini il rapporto magistratura-politica. Giovanni Colli vi tenne l’intervento più rilevante (cfr. un commento, anche in rapporto a posizioni invece interne all’Anm di Roberto Schiaccitano, Ancora su magistratura e politica, in “Il Ponte”, XXV, 1969, n. 1, pp. 39 ss.).

[38] V. Zagrebelsky, La magistratura ordinaria cit., p. 765.

[39] D. Piana, F. Vauchez, Il Consiglio superiore della magistratura, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 104.

[40] L. Pepino, Appunti per una storia di Magistratura democratica, in “Questione giustizia”, 2002, n. 1, pp. 111 ss.; ma anche G. Palombarini, Giudici a sinistra. I 36 anni della storia di Magistratura Democratica: una proposta per una nuova politica per la giustizia, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2000; e soprattutto V. Zagrebelsky (La magistratura ordinaria cit., p. 772), che a proposito di Md parla di tre periodi: il primo 1964-69, il secondo 1969-77 e infine un terzo dal 1977 circa ai primi anni ’90, “caratterizzato dalla scelta in favore del garantismo.

[41] M. Ramat, Una piccola storia in una grande storia, in Storia di un magistrato, a cura di M. Ramat, Roma, 1986. Anche Id., La nascita di Md, in Gli “spiccioli” di Magistratura democratica, appendice a Crisi della giurisdizione e crisi della politica, Milano, Franco Angeli, 1988, pp….Di Ramat va anche visto il denso saggio (Che cosa abbiamo voluto dire) pubblicato nel numero speciale de “Il Ponte”, XXIV, 1968, n. 6-7, interamente dedicato a “La magistratura in Italia”, ma in realtà dichiaratamente volto a raccogliere le opinioni del gruppo di MD. Il saggio iniziale di Ramat ne compendia in qualche modo le tesi di fondo. Il numero contiene anche scritti di Bruno Meneghello, Antonio Porcella, Salvatore Mannuzzu (sui discorsi inaugurali dei procuratori generali), di Guido Marino, di Ignazio Micelisopo (sull’Anm), di Igino Capelli, di Luigi Bianchi d’Espinosa, di Luigi De Marco, di Roberto Schiaccitano, di Riccardo Pacifici e Lorenzo Scapinelli, d Gabriele Cerminara e Ottorino Pesce, di Dino Greco, di Alfredo Carlo Moro, di Giuseppe Battistacci, di Giuseppe Borrè e Generoso Petrella, di Camillo Perletti, di Francesco Pintus, di Renato Santilli, di Nicola Perrazzelli.

[42] L’episodio bolognese non venne isolato, peraltro. All’inizio di quello stesso 1969, in dissenso con la sezione romana che aveva deliberato uno sciopero locale, lasciarono Md Alfredo Carlo Moro e Salvatore Giangreco; più in là fu la volta di Pier Paolo Casadei Monti.

[43] Presidente Principe, segretario Cucco, direttore del giornale Quiligotti. Esclusi Barone e Chiavelli.

[44] D. Piana, A. Vauchez, Il Consiglio superiore della magistratura cit., p. 109. Interessante l’opinione di uno dei protagonisti di primo piano di quegli eventi, Marco Ramat, nell’articolo-sintesi uscito su “Il Ponte”,XXV, 1969, n.12, pp. 1537 ss., Dove va l’Associazione nazionale dei magistrati? (dal quale traggo anche i nomi della nuova Giunta di cui alla nota 37)..

[45] G. Palombarini, Giudici a sinistra cit., pp. 86-88, che ne elenca molte nelle varie sedi con dettagli sugli organizzatori e oratori.

[46] M. Ramat, Inquietudini politico-giudiziarie, in Il Ponte, XXIV, n. 5, 1968, pp, 574 ss. (la cit. a p 575).

[47] Un bilancio a posteriori nel numero speciale de Il Ponte, maggio 2015, curato da Livio Pepino. Secondo G. Palombarini, Giudici a sinistra cit., pp. 110-111, “la rivista costituì una novità assoluta nel panorama delle riviste giuridiche. Mai, a livello nazionale, le decisioni dei giudici di merito erano state così attentamente analizzate e pubblicizzate. Mai l’analisi era stata così attenta alle implicazioni sociali, istituzionali e politiche delle sentenze”.

[48] Interessante il saggio di Stefano Rodotà, Le “tentazioni” della politica, in Politica del diritto, III, n. 3-4, agosto 1972, pp. 311 ss., che si poneva appunto il tema del “giudice ‘politico’”. Rodotà ravvisava diversi fattori all’origine del protagonismo dei giudici: “la caduta del legame formale con l’esecutivo”, “il crescente numero delle materie che sfuggono al dominio parlamentare” (implicando una definizione post-legislativa), la stessa “innovazione legislativa” in atto in quegli anni. Da vedere, ivi, pp. 341 ss., anche il saggio di Paolo Ungari, Giurisdizione e politica, più critico verso il ruolo della magistratura (“non non possiamo seriamente pensare di affidare nessuna funzione di ordine come dire programmatorio, di governo concreto dello sviluppo economico alla magistratura” (p. 343). L’articolo di Ungari si concludeva con uno strale alla magistratura, su un tema molto delicato, quello della “carriera parallela”, “che si fa – scriveva Ungari – nei gabinetti dei ministri o negli uffici legislativi degli enti, o presso commissioni d’inchiesta…sulla magistratura, o negli ambulacri delle regioni”. A discapito – aggiungeva – dell’indipendenza della magistratura (ibidem).

[49] L’uso alternativo del diritto. I. Scienza giuridica e analisi marxista, II. Ortodossia giuridica e pratica politica, a cura di P. Barcellona, Roma-Bari, Laterza, 1973.

[50] S. Cassese, Governare gli italiani. Storia dello Stato, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 188. Su Marrone cfr. anche G. Palombarini, Giudici a sinistra cit., pp. 94-95.

[51] Ivi, p. 189: “Basti ricordare che i membri della Camera dei deputati provenienti dalla magistratura, che erano stati nel periodo fascista circa l’1-2% dei parlamentari, ed erano, nel secondo dopoguerra, scesi a meno dell’1%, nel periodo 1994-2006, quello seguito alle iniziative della magistratura milanese denominate ‘mani pulite’, sono triplicati”. Cfr. anche F. Venturini, I magistrati eletti al Parlamento italiano. 1861-2013: dati e metodologia, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2017, n.1, pp. 175 ss., specialmente pp. 212 ss. per il dopoguerra sino al 2013.

[52] M. Coiro, I tabù della giustizia, in La Repubblica, 19 marzo 1996.

[53] G. Giacobbe, L’associazionismo tra i magistrati nella prospettiva del ruolo nuovo del giudice, in “Giustizia e costituzione”, VI, n.s., 1975, nn. 3-4, pp. 35 ss. (la citazione è tratta dalla p. 38). Proseguiva Giacobbe: “La profonda divisione interna, sul piano associativo, dei magistrati, consente di precisare un’ulteriore qualificazione: nonostante chiare e univoche affermazioni statutarie che escludono il carattere politico delle associazioni, esse si pongono tuttavia come organismi aventi tendenzialmente carattere politico, sempre nel senso alto che a cotesta espressione deve essere attribuito”.

[54] G. Palombarini, Giudici a sinistra cit., pp. 41-42: “Accanto a chi credeva profondamente alla pari importanza e dignità di tutte le funzioni e a una piena indipendenza, vi erano coloro che coglievano l’opportunità di una personale comodità nella cancellazione di selezioni e controlli”.

[55] V. Zagrebelsky, La magistratura ordinaria cit., p. 760. E sulle leggi citate pp. 757-758.

[56] D. Piana, A. Vauchez, Il Consiglio superiore della magistratura cit., p. 95. Si potrebbe aggiungere forse che proprio la centralità del tema dell’esercizio del voto, lungo tutte le varie riforme che lo hanno riguardato, ha forse determinato indirettamente e quasi inconsapevolmente la “specializzazione” delle correnti interne nel ruolo di organizzatrici del consenso, magari anche a discapito di altre “vocazioni” più generali, pur presenti nelle loro origini e nella loro storia.

[57] S. Cassese, Dissenso dei giudici e sistema politico, in Politica del diritto, III, 1972, n. 3-4, pp. 295 ss. Prosegue Cassese: “Come si spiega la contraddizione tra il diffuso dissenso dei magistrati rispetto al sistema politico e le condizioni che questo fa ai primi? È solo una debolezza del sistema politico, che cede alla domanda dei magistrati, nonostante la loro opposizione […]? Oppure è un modo per vincere questa opposizione e mettere a tacere il dissenso? Nessuna di queste spiegazioni è convincente: esse indicano un vincitore e un vinto, un conflitto risolto, là dove è questione di equilibri. Invece questa contraddizione va vista come l’indicatore del limite degli attuali rapporti di tensione tra magistrati e ‘corpo’ politico’ ” (p. 297).

[58] E. Bruti Liberati, Magistratura e società cit., pp. 215-216.

[59] La parola “supplenza” ha una sua piccola storia. Fu utilizzata, prima che nella grande stampa degli anni Settanta e soprattutto Ottanta, nel dibattito interno alle correnti. Cfr. ad esempio un breve ma acuto intervento di Pierluigi Onorato, La giustizia italiana negli anni Settanta, in “Il Ponte”, XXVI, 1970, n. 12, pp. 1668 ss.: “se è vero […] che la nostra storia si sposta tendenzialmente a livello giudiziario e trova qui i suoi momenti qualificanti, vuol dire che la società si avvia sempre di più a una fase patologica. Ma c’è di più, mi pare. C’è che la crisi è talmente profonda e la società ancora talmente incapace di risolverla, che l’apparato giudiziario si assume per spinte endogene e esogene, lo sappia egli o non lo sappia, funzioni politiche supplenti”.

[60] Su questi problemi e in genere su quelli affrontati subito dopo mi permetto di rinviare a G. Melis, Il potere dei giudici e la latitanza della politica, in “Passato e Presente”, 2012, n. 85, pp. 1-10.

[61] Di Violante è da vedere almeno Magistrati, Torino, Einaudi, 2009.

[62] Nel periodo delle indagini milanesi battezzate dai media come “Mani pulite” (bisognerà anche ragionare su queste abbreviazioni giornalistiche non prive di un loro subliminale “messaggio”) era quasi quotidiana l’immagine televisiva del pool (anche la parola inglese faceva il suo effetto), capeggiato dal procuratore Borrelli con al seguito i magistrati della Procura, avanzante compatto in un corridoio ingombro di carrelli straripanti di fascicoli e carte. Si traduceva in quelle immagini un preciso “discorso”, il cui contenuto non era difficile decifrare.

[63] G. Ghirotti, Il magistrato, Firenze, Vallecchi, 1963. Il libro era per l’epoca molto documentato; recava in appendice tutti i compiti ai concorsi di ammissione dal 1934 a quel momento.

[64] S. Cassese, Governare cit., p. 189, che trae questa espressione da documenti ufficiali del Csm.

[65] M. Maddalena, La congiura del silenzio cit., p. 180. Di “gestione unitaria” dell’Anm parla anche E. Bruti Liberati, Magistratura e società cit., p. 214, che ricorda la nomina “alle massime cariche dell’Anm” di Salvatore Senese e Elena Paciotti, entrambi esponenti di MD.

[66] G. Tamburino, Nasce il Movimento per la giustizia, http://www.movimentoperlagiustizia.it/2012-10-09-13-26-52/cos-e-il-movimento-per-la-giustizia.html

[67] Ivi: “Nessuno, si badi, addebitava a Caliendo compromissioni con la P2. Ma aveva accettato di effettuare un intervento sui magistrati di Milano, chiestogli dal noto Zilletti in favore del banchiere Calvi, uomo di Gelli. Era evidente l’inopportunità in quel frangente di scegliere lui a presidente dell’Anm”. Caliendo sarebbe poi stato sottosegretario ala Giustizia nella XVI legislatura nel governo Berlusconi.

[68] N. Rossi, Attualità del pluralismo, in MicroMega, 1997, n. 4, pp. 186 ss. La cit. è tolta dalla p. 189.

[69] Qualche avvisaglia (marginale ma da non sottovalutare) della emersione di questo rischio si presenta anche nell’attuale situazione. In merito è interessante, per la sede in cui è apparso, la rivista di Area, un intervento di Enrico Manzon, Qualche breve considerazione sull’associazionismo dei magistrati e le sue prospettive, in Questione giustizia. Rivista trimestrale, 2015, n. 4 (http://questionegiustizia.it/rivista/2015/4/qualche-breve-considerazione-sull-associazionismo-dei-magistrati-e-sulle-sue-prospettive_299.php): “Il termine sindacato deve tuttora considerarsi vietato, una sorta di taboo? Io penso di no”. E ancora: “Fare sindacato, anche per i magistrati, è un diritto costituzionalmente garantito […] è necessario sdoganare definitivamente questa ‘idea-forza’, non avere più alcuna remora né alcuna ‘vergogna’ nel pensare che uno degli scopi primari dell’Anm sia appunto di fare ciò che tutti i sindacati fanno: appunto tutelare gli interessi anche personali della categoria di riferimento”. Manzon riconosce che esiste una “particolarità”, e cioè che la magistratura “incarna” un potere essenziale dello Stato: “Tuttavia – conclude – questo intreccio ontologico, lungi dall’essere inestricabile, è/deve essere la base di qualsiasi ragionamento sensato intorno al ‘sindacalismo dei magistrati’”. Pur postulando la fusione tra scala meramente sindacale e scala valoriale, l’articolo presenta insomma qualche ambiguità e comunque – come riconosce onestamente l’autore – “sdogana” un tema che l’associazionismo dei giudici a lungo aveva tenuto fuori delle sue tavole programmatiche.

 

[70] Per Area è da vedere specialmente la “Carta dei valori”, in www.magistraturademocratica.it/mdem/materiale/AREA_carta-dei-valori.pdf, in particolare all’art. 3: “Siamo magistrati italiani ed europei, orgogliosi di far parte di una magistratura indipendente e autonoma, che, proprio perché tale, è capace di far fronte al terroriso e alle mafie e di tutelare i diritti fondamentali delle persone. Siamo consapevoli che l’evoluzione del ruolo del magistrato e il crescente rilievo della giustizia nella vita collettiva sottolineano l’esigenza della professionalità, della responsabilità e della deontologia del magistrato. La Costituzione è il nostro punto di riferimento nell’esercizio della giurisdizione e dell’autogoverno. Area nasce da un’idea di giustizia come esigenza inalienabile di ogni persona, bene comune e funzione pubblica al servizio della società. Vogliamo realizzarla, partendo e beneficiando dell’esperienza e del patrimonio storico e ideale di Magistratura democratica e del Movimento per la giustizia”.

[71] Dallo Statuto 2017 di Magistratura indipendente, cfr. l’art. 1: “1. Magistratura Indipendente, quale libera associazione di magistrati ordinari, afferma l’unità, l’apoliticità, l’indipendenza e l’autonomia dell’Ordine giudiziario inteso come insieme di giudici e pubblici ministeri e ne persegue la tutela della dignità morale e materiale. 2. Magistratura Indipendente agisce anche nell’ambito dell’Associazione nazionale magistrati, quale gruppo che partecipa e contribuisce alla realizzazione degli scopi di tale Associazione. 3. Magistratura Indipendente afferma i valori della terzietà e indipendenza sia dei giudici sia dei pubblici ministeri attraverso la partecipazione alle organizzazioni internazionali delle magistrature e alle strutture di cooperazione giudiziaria. 4. Magistratura Indipendente persegue e incoraggia la formazione di nuove iniziative internazionali dirette ad affermare i suddetti valori” (www.magistraturaindipendente.it/statuto.htm).

[72] Dal Programma della corrente: “Nell’attuale crisi delle ideologie, resta ferma la stella polare del modello di magistrato che deve coltivare l’umiltà e non la superbia, non deve avere ambizioni né timori, deve essere terzo, imparziale ed altamente professionale, deve preservare al massimo livello la propria indipendenza, deve rispettare la politica ma esserne sempre distante ed evitare ogni forma di interferenza, collateralismo ed opacità. Questa è la figura di magistrato delineata dalla nostra Carta Costituzionale, che è una figura moderna e non scontata, che passa per un alto senso della funzione e dell’etica professionale. La questione morale in magistratura sta proprio nella perdita di questo senso della funzione e dell’etica professionale” (https://www.autonomiaeindipendenza.it).

[73] In un recente dibattito, Salvatore Mazzamuto, ex consigliere laico del Csm ha parlato di un vero e proprio “vincolo di mandato” per chi si candida al Csm; ed ha ravvisato questo legame come duraturo, ben oltre l’esercizio del mandato, giacché – ha detto – da esso dipendono anche le collocazioni successive del consigliere (cfr. l’interessante dibattito su “Il Consiglio superiore della magistratura: quale riforma elettorale?” del 5 luglio 2019, trasmesso da Radioradicale (https://www.radioradicale.it/scheda/578728/il-consiglio-superiore-della-magistratura-quale-riforma-elettorale?i=4010879).

[74] Cfr. le sagge considerazioni di Valerio Savio, Come eleggere il Csm, analisi e proposte: il sorteggio è un rimedio peggiore del male, in “Questione giustizia. Rivista trimestrale”, 2019, n. 2 (www.questionegiustizia.it/articolo/come-eleggere-il-csm-analisi-e-proposte-il-sorteggio-e-un-rimedio-peggiore-del-male_26-06-2019.php).

[75] G. Silvestri, Consiglio Superiore della Magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia, 16 ottobre 201 (www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2017-4_03.pdf). Sarebbe un po’ la ripresa della proposta (da parte di una Commissione Scotti di qualche anno fa) dei piccoli collegi decentrati, nei quali l’elettore conosce personalmente le qualità del candidato e quindi la scelta avviene sulla base di una libera determinazione dal basso e non di una imposizione dall’alto; ma “temperato” appunto dai collegamenti trasversali tra candidati di diversi collegi, non necessariamente geograficamente finitimi ed eventualmente ispirati ad appartenenze ideali. Sui gruppi così creatisi si applicherebbe si compirebbe poi la distribuzione dei seggi, “da effettuarsi, su scala nazionale, con il sistema proporzionale, metodo l’Hondt”, che “non produce resti e quindi, pur rimanendo proporzionale, evita la frantumazione estrema”.

[76] Molto lucido, in proposito, V. Zagrebelsky, Giudici e sistema politico, in Giustizia e costituzione, IX, n.s., 1978, nn. 1-2, pp. 3 ss. Secondo questo autore, egli stesso esponente di punta della magistratura associata, quest’ultima “è parsa talora entrare nel campo proprio degli organi titolari della funzione di indirizzo politico e dell’amministrazione, se non altro in conseguenza del rilevante significato e delle dirette conseguenze politiche dei suoi interventi”. Ciò anche perché “si è assistito a una rilevante carenza di direzione politica nelle sedi parlamentare e governativa, con gravissimo ritardo nell’apprestamento degli strumenti normativi e materiali necessari ad affrontare – secondo le linee indicate dalla Costituzione – i problemi posti dalla nostra società. […]. Al riempimento di tali norme è stata chiamata la magistratura al momento dell’applicazione”.

[*] Lo scritto è stato redatto per il corso straordinario della Scuola della magistratura sul tema delle garanzie istituzionali dell'indipendenza della magistratura (Roma 5-7 novembre 2019).

10/01/2020
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