Oggi è il 25 aprile e credo che possiamo celebrare questa ricorrenza anche ricordando i nomi dei magistrati (almeno 16) caduti nella guerra di liberazione o uccisi dai nazifascisti. Si tratta di Dino Col, Pasquale Colagrande, Francesco Drago, Carlo Ferrero, Mario Finzi, Mario Fioretti, Vincenzo Giusto, Giuseppe Garribba, Cosimo Mariano, Cosimo Orru, Nicola Panevino, Pier Amato Perretta, Pasquale Saraceno, Vittorio Scala e Mario Tradardi oltre al vice pretore di Alba, Viglino.
Credo ve ne siano altri e mi scuso per le possibili omissioni. Vorrei però aggiungere il nome di Emilio Sacerdote che non era più magistrato perché si era dimesso volontariamente prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali. Sacerdote partecipò alla resistenza e, dopo essere stato catturato, fu deportato prima a Flossemburg e poi a Bergen Belsen dove morì, per gli stenti patiti, qualche settimana dopo essere stato liberato dagli alleati non senza aver dimostrato, durante la sua prigionia, il suo coraggio e il suo valore.
Altri magistrati (tra i quali Giovanni Colli e Luigi Bianchi D’Espinosa, che nel dopoguerra ricopriranno posizioni di prestigio all’interno dell’organizzazione giudiziaria) abbandonarono il posto di lavoro e si collegarono ai movimenti della resistenza o agli alleati e altri dodici lasciarono il servizio. Gli studiosi ricordano anche che circa cinquanta magistrati collaborarono in vario modo, pur continuando a lavorare negli uffici giudiziari, con le forze della resistenza.
Si ricorda ancora che alcuni giudici del Tribunale di Gorizia furono destituiti dall’autorità germanica per essersi rifiutati di applicare la pena di morte secondo le direttive dell’autorità occupante.
Del resto generalizzato fu il rifiuto dei magistrati di presta il giuramento di obbedienza alla Repubblica di Salò tanto che il ministro Pisenti prese atto della situazione e sospese l’efficacia del decreto che aveva imposto tale obbligo.
Queste vicende confermano come, in questo tragico periodo, i giudici (in particolare quelli di merito) non si dimostrarono, in linea di massima, strumento passivo nelle mani del potere e, a rischio della loro stessa vita, cercarono di attuare i principi di legalità che la stessa Rsi non disconosceva in astratto ma che, nella pratica, i suoi aderenti violavano quotidianamente con arresti illegali, esecuzioni, rappresaglie e con atti di violenza compiuti anche nelle aule di giustizia e negli uffici del ministero della giustizia.
Vorrei anche ricordare il nome di un magistrato, Emilio Ondei, che, dopo aver fatto parte della redazione della rivista Il diritto razzista, durante il regime di Salò “assumerà posizioni di coraggiosa opposizione ai nazifascisti, annullando, come pretore, arresti illegali e rischiando a sua volta la cattura” (sono parole di G. Scarpari).
Come frequentemente era avvenuto prima della guerra la più parte degli alti gradi della magistratura si adeguò presto, invece, ai principi del nuovo regime prestando il giuramento, collaborando attivamente con esso e ottenendo posti di prestigio che la carenza di magistrati e la creazione, a Brescia, di tre sezioni della Corte di cassazione (due civili e una penale) aveva reso disponibili.
Naturalmente, finita la guerra, i magistrati che avevano occupato i vertici dell’amministrazione giudiziaria della Rsi giustificarono in vario modo la loro adesione al regime evidenziando gli atti da loro compiuti diretti a proteggere magistrati invisi al regime. Va però ricordato che anche Salvatore Messina, primo presidente f.f. dalla Corte di cassazione di Roma (ancora sotto l’occupazione tedesca) preannunziò al ministro che la grande maggioranza, se non la totalità, dei magistrati della cassazione si sarebbe astenuta dall’aderire all’invito di prestare giuramento al regime.
*(le notizie sono tratte dagli scritti di G. Focardi, P. Saraceno e G. Scarpari - l'articolo è stato pubblicato in origine sul sito www.magistraturademocratica.it)