Tornare a riflettere sui testi classici è fonte tanto di stimoli sempre nuovi quanto di timori, più o meno reverenziali. Quando si tratta di Antigone, poi, entrambe le sensazioni si amplificano. Considerata da molti, Hegel fra tutti, uno dei maggiori capolavori della storia della letteratura, non solo drammaturgica, la tragedia di Sofocle è stata oggetto di continue reinterpretazioni e attualizzazioni nel corso dei secoli.
Sullo scontro fra Antigone e Creonte sono tornati recentemente Livio Pepino e Nello Rossi in un serrato dialogo che mescola la riflessione sul testo sofocleo e sui suoi molteplici piani di lettura alla passione civile e alla decennale esperienza nei ruoli della magistratura italiana. Il risultato è quello di una sorta di partita a tennis potenzialmente infinita in cui la riflessione sulle ragioni di Antigone e su quelle di Creonte batte tanto le piste classiche incessantemente rinnovate dall'inesauribile vitalità del testo, quanto strade nuove che mostrano come l'Antigone di Sofocle sia sempre fonte di nuovi dilemmi a seconda del momento e del luogo in cui viene letta o messa in scena.
Pur riconoscendo in vari momenti l'irriducibilità della tensione tragica, i due dialoganti si appassionano talmente alla difesa del proprio personaggio d'elezione che, a tratti, sembra di sentir parlare di due drammi differenti.
Se ci mettiamo nei panni di Antigone, ci si presenta il dramma del coraggio e della purezza dell'eroina che manifesta la sua intransigenza verso le ingiustizie di un ostinato tiranno. Da questo punto di vista non si può non pensare ai tanti nuovi aspiranti dittatori che, in giro per il mondo e con diverse fortune, fanno della massima latina salus rei publicae suprema lex il pretesto per chiudere frontiere e lasciar morire a centinaia vittime disperate in fuga da guerre, epidemie o disastri sociali; loschi figuri che invocano la legge e l'ordine contro le proteste di piazza e la libera stampa; fomentatori di vecchie e nuove guerre militari, tecnologiche, commerciali o culturali fuori o dentro i confini nazionali. Creonte diviene emblema del diritto penale del nemico e del paradigma securitario che giustifica le continue rotture della legalità costituzionale attraverso l'invocazione di uno stato di emergenza perpetuo. Mentre Antigone è il simbolo della testimonianza necessaria contro l'arroganza del potere, perché – sostiene Pepino – al conflitto sociale e politico «si è sempre associata, in maggiore o minor misura, la repressione: per la decisiva ragione che non si danno, nella storia, rinunce spontanee alle posizioni di potere» (p. 49).
Se si assume il punto di vista di Creonte, invece, lo scontro appare quello fra la responsabilità travagliata del politico, solo custode dell'unità della città, condizione minima necessaria per ogni qualsivoglia forma di buon governo, contro la stolida e granitica irremovibilità di un'Antigone che, nel migliore dei casi, ci appare velleitaria e, nel peggiore, ci viene descritta come bigotta e invasata. Il suo motto non può che essere fiat iustitia, pereat mundus. Ci appaiono così le nuove forme di intolleranza sociale e di settarismo identitario; le battaglie reazionarie contro il lento allargamento dei diritti; i nuovi razzismi e sessismi, le crociate antiscientifiche. Antigone, rifiutando la legge della città, mostra il carattere antisociale della millenaria storia dell'intolleranza. Creonte è il vero eroe, personalmente sconfitto e distrutto ha salvato la città, almeno fino a prova contraria. «Antigone» – sostiene Rossi – «gode del paradossale privilegio di essere sconfitta: per questo non ci chiediamo mai che cosa sarebbe accaduto se avesse vinto lei» (p. 42).
La grandezza del testo di Sofocle sta nel mostrare le buone e le cattive ragioni di ambedue le prospettive, lasciando allo spettatore il diritto di mettersi nei panni dell'una, dell'altro o di entrambi i protagonisti. Il dialogo fra Pepino e Rossi è particolarmente riuscito perché oltre a ritornare sulle “ragioni eterne” del potere e della ribelle, ripensa il dilemma attraverso continue attualizzazioni; la tragedia contemporanea dei migranti è allora stretta fra «il senso politico dei gesti di disobbedienza» (p. 72) di chi meritoriamente rischia la libertà per salvare vite umane e il limite velleitario di «pulsioni etiche individuali e particolari che pretendono di sostituirsi alla politica» (p. 73). Ci sono poi le ragioni di un eterno Creonte che non vuole e non può trattare con i terroristi (p. 42). Ma anche l'indignazione che richiama l'intransigenza di Antigone nei confronti di nuovi tentativi di giustificare la tortura da parte dello Stato (per esempio, p. 65).
Per questo ricorro alla metafora tennistica, perché il dialogo è costellato di buoni argomenti e ci si lascia convincere ora da l'uno, ora dall'altro. Ma seguiamo la partita nei suoi momenti salienti. A pagina 58, Rossi rimprovera Pepino di avere, nel difendere Antigone, un «unico grande argomento: il potere può costruire ad arte i suoi nemici e additarli alla riprovazione collettiva»; ma, se il potere è solo costruzione di nemici (interni o esterni), «non resta che rifugiarsi nel sogno anarchico». L'argomento è molto forte, lo Stato si è trasformato, costituzionalizzato, il potere è andato limitandosi (nelle prerogative e nelle funzioni), ma la presenza di un potere comune è rimasta garanzia irrinunciabile di un ordine senza il quale non ci sarebbero neanche diritti. Molto convincente, effettivamente, in particolare di fronte ad una posizione come quella di Antigone che «guarda solo all'indietro e segue un destino puramente individuale» (p. 76).
Ma se prendiamo invece pagina 93 ci ricordiamo perché nella storia delle interpretazioni della tragedia è certamente più fortunata la versione dell'eroina contro il tiranno, spesso riproposta in momenti storici in cui poteri arbitrari e crudeli si riaffacciano sulla scena politica. Secondo Pepino: «La ribellione potrà essere accolta o meno e, comunque, potrà provocare sintesi di segno diverso. Ma non può essere puramente e semplicemente cancellata con la forza». Anche se fossimo davanti a due posizioni egualmente inaccettabili per la loro comune e sorda intransigenza, l'incomparabile asimmetria di potere non potrebbe che portarci dalla parte di Antigone; continua Pepino: «La tranquillità (magari imposta) è davvero un valore? O è opportuno che il tarlo del dubbio, la sollecitazione della critica radicale accompagnino senza tregua l'azione di governo?» (p. 93).
Gioco, partita, incontro?
Prima di prendere posizione e di proporre una, non originalissima, terza opzione, vorrei accogliere l'invito più volte ripetuto dai due autori di ritornare al testo dell'opera di Sofocle, ma anche al suo contesto. La tragedia è stata presumibilmente composta e messa in scena attorno al 442 a.C., nel pieno della cosiddetta età dell'oro della democrazia ateniese, l'età di Pericle.
Non è possibile non leggere nella tragedia di Sofocle la tensione con il clima culturale ateniese di quel tempo. Il consolidarsi delle istituzioni democratiche si accompagna al fiorire della grande stagione della sofistica, da molti definita come un umanesimo ante litteram, che con una buona dose di approssimazione possiamo riassumere nell'uomo misura di tutte le cose di Protagora, molto vicino a Pericle, come del resto anche Sofocle.
Tale clima culturale è evidente nell'elogio che dell'artificio umano fa il coro nel primo stasimo dell'Antigone: «Molti sono i prodigi e nulla è più prodigioso dell'uomo» (vv. 334-5). Ma tale affermazione finisce per essere simile all'elogio della società borghese che Marx ed Engels fanno nel primo capitolo del Manifesto: «Solo la borghesia ha dimostrato che cosa l'attività umana può produrre». Come la società borghese non potrà che cadere sotto il peso delle proprie stesse contraddizioni – «le armi con cui la borghesia ha annientato il feudalesimo si rivoltano ora contro la borghesia stessa» – così l'ingegno umano, pur formidabile, non deve mai dimenticare i propri limiti perché l'uomo «scopritore mirabile d'ingegnose risorse, ora al bene ora al male s'incammina» (vv. 365-8). L'essere umano – qui la polemica di Sofocle con gli intellettuali del suo tempo – non può credersi misura del bene e del male, perché questi sono oggettivi.
Sia Creonte sia Antigone sono convinti di avere ragione, né l'uno né l'alta ha dubbi; e lo stesso Sofocle costruisce il testo attorno alla tragica inconciliabilità di due punti di vista entrambi plausibili e difendibili. Finché delle due intransigenze quella di Creonte non risulta insostenibile: glielo dice la città (il coro), glielo ribadisce suo figlio (sul quale tra poco torneremo), ma Creonte cede solo davanti al vaticinio di Tiresia che gli rimprovera di essersi sostituito agli dei come giudice ultimo del bene e del male e per questo ha attirato sulla sua casa una sorte tragica.
Il ruolo di Antigone è, allora, prima di tutto quello di guardiana della tradizione, eterno monito nei confronti dei limiti dell'umano, prima di tutto la sua finitezza. Antigone, che ha vissuto la tragedia di suo padre e poi dei suoi fratelli, è custode dei morti e con essi di leggi naturali e divine ultraterrene, immutabili e incontrovertibili. Da questo punto di vista il personaggio di Antigone è affine a quello di Elettra; anche essa vive per i morti, anche se, diversamente da Antigone lo fa odiando.
La mia spontanea simpatia nei confronti delle ragioni della ribelle deve essere già trapelata da quanto detto in precedenza, ma quando torno al testo di Sofocle finisco sempre per provare un po' di insofferenza per l'intransigenza di Antigone alla quale tutti in fine riconoscono ragione. Non perché creda che l'essere umano debba operare senza limiti; il disastro ambientale perpetrato dall'umanità mi pare esempio che non consente appello. Limiti e vincoli, inoltre, sono necessari soprattutto per chi si trova in posizione di potere e il pregiudizio negativo nei confronti di un Creonte legibus solutus è ancor più difficile da aggirare.
Ma questi limiti non possono essere ricercati fuori dal mondo come fa Antigone. Soprattutto perché, come già avevano intuito i sofisti, non c'è morale fuori dalle cose umane. Prendiamo il caso della tortura: certamente a molti di noi appare inumano, degradate, orribile pensare che si possa tormentare il corpo di qualcuno in nome di principi come la sicurezza dello Stato o la vendetta di altre (vere o presunte) vittime. Eppure, non solo tale sentimento di repulsione si è diffuso solo dopo secoli di battaglie politiche e culturali ma non è neanche poi così diffuso come ci illudiamo; basti pensare che il primo a deriderlo è il presidente della “più antica democrazia del mondo”.
E allora mi viene da rivalutare Emone. Nonostante la sua scarsa imparzialità dettata dall'amore nei confronti di Antigone, il figlio di Creonte risulta il più saggio tra i molti personaggi e, almeno ai miei occhi, più persuasivo dell'ondivago coro o del vaticinante Tiresia, quando per convincere suo padre ad evitare la tragedia afferma che «quanti presumono di aver sempre ragione, o di possedere una lingua e un animo superiori, ebbene, una volta scrutati a fondo, rivelano il loro vuoto interiore» (vv. 705-6).
Perché la politica è lotta per i diritti – intesi in senso più ampio possibile –, non per la verità, né quella troppo umana di Creonte, ma neanche quella così poco terrena di Antigone. Ed è proprio nella lotta di trincea per i diritti – soprattutto quelli di chi si trova in posizioni di debolezza nei confronti dei tanti poteri politici, economici e ideologici – che si giocano le partite politicamente più rilevanti, dove nessuna conquista può mai essere data per scontata in particolare in tempi come il nostro, in cui – per fare un esempio tra i tanti possibili – la parola “sicurezza” è sempre sinonimo di ordine pubblico e mai di fiducia sociale nei confronti di uno Stato che, prendendo seriamente il dettato costituzionale, dovrebbe occuparsi della sofferenza dei più deboli.
Pepino e Rossi conoscono bene il valore politico del “dubbio” e, in uno dei momenti migliori del dialogo, l'uno rivendica la grandezza dell'intransigenza di Antigone che «per il suo carattere non violento, genera il dubbio» (p. 80); mentre l'altro evoca un Creonte travagliato, come non può che essere ogni politico di fronte a scelte tragiche, rivendicando che «la vera grandezza sta in chi dubita e non in chi suscita il dubbio» (p. 81).
Eppure, il dubbio che è il germe della tolleranza e della possibilità stessa di pensare la convivenza democratica continua a non parermi una virtù né di Creonte né di Antigone. E con esso, i due mancano di tolleranza, di capacità di mediare e ascoltare le ragioni dell'altro, tutte caratteristiche che Pepino e Rossi ritengono necessarie al diritto e alla politica che, nella modernità si sono mossi in tale direzione – non senza arresti e contraddizioni. Secondo Pepino tale processo è frutto delle continue sollevazioni dei ribelli contro il potere che può farsi tollerante solo se «contempla la possibilità del dissenso (anche radicale)» (p. 52), mentre per Rossi, il cammino verso un potere statale “tollerante” è frutto di «travagliato e conflittuale processo storico nel quale il ribellismo ha uno spazio marginale e un’incidenza effettiva ancora minore» (p. 47).
Pepino e Rossi sono quasi sempre d'accordo – pur con differenze di sfumatura – sulla gran parte dei casi concreti e spesso tragici che si trovano a discutere, e questo a volte stride con i tipi ideali di Antigone e di Creonte che ricostruiscono proprio a partire dall'inconciliabilità delle loro visioni del mondo.
Insomma, il dramma di Sofocle è un classico proprio perché stimola sempre nuove riflessioni fino al punto di trarne insegnamenti diametralmente opposti. Da buona tragedia, però, una virtù certamente gli manca: quella dell'ironia, strumento tutto umano spesso molto efficace per istillare il dubbio. Nel suo capolavoro, Ludovico Ariosto si è trovato a raccontare un momento tragico con qualche affinità con la nostra storia: Cloridano, che morirà in battaglia restando al fianco dell'amico fraterno Medoro, cerca comunque di convincere quest'ultimo a desistere dall'ostinazione di recuperare la salma del loro re morto in battaglia:
«Frate, bisogna (Cloridan dicea)/gittar la soma, e dare opra ai calcagni;/che sarebbe pensier non troppo accorto,/perder duo vivi per salvar un morto».