Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Qualità della ricerca, qualità della giurisdizione

di Daniela Piana
professoressa ordinaria di scienza politica

Potenzialità di un dialogo che passa da una policy istituzionale 

«Non si tratta di distruggere, si tratta di collegare».
Edgar Morin

 

La giustizia è una funzione ed è uno spazio. Anzi, una funzione architrave e una combinazione di spazi-tempo che si articolano nel pensare, fare, dire, il diritto e nel diritto. Chi si interessa di giustizia dal punto di vista delle discipline sociali ed umanistiche ha trovato un indirizzo e un’equipe cui rivolgersi per crescere intellettualmente, per approfondire scientificamente e per costruire quelle forme di dialogo e collaborazione che, nutrite di una comune curiosità e di una condivisa cultura del pluralismo e della tolleranza, durano nel tempo. Era l’Institut des Hautes Etudes sur la Justice. L’istantanea che molti studiosi e molte studiose italiani ed italiane che hanno da molto tempo avviato lo studio della giustizia e delle sue interazioni con le altre dimensioni della società, della politica e dell’economia può essere così sintetizzata: una azione ambiziosa che unisce la tradizione della ricerca, lo sguardo della comparazione, l’attenzione per le professionalità della giustizia. Fino al 2021 si trattava di una azione che aveva due voci, una, quella dell’Institut des Hautes Etudes sur la Justice, e l’altra quella della Mission Droit et Justice, inquadrata nello spettro delle funzioni di social accountability del Ministero della giustizia e più diffusamente nota come la articolazione della progettazione di policy orientata verso il mondo della ricerca e pensata per raccogliere da questa gli stimoli, le idee e le suggestioni di metodo e di merito che hanno via via insisto sui diversi cantieri di riforma in cui il governo francese si è trovato impegnato. 

Caratterizzato da una fortissima identità internazionale e comparata, nell’Institut des Hautes Etudes sur la Justice ci si è interrogati sostanzialmente su ogni aspetto del grande prisma delle trasformazioni democratiche. Questa tradizione si è poi riflessa in molti paesi diversi del mondo, fra cui certamente il nostro, con cui la Francia ha avviato da lungo tempo una stretta collaborazione. Quando si cominciò a discutere di innovazione e intelligenza artificiale decise di mettersi a lavorare con un filosofo della matematica, perché, le intelligenze accademiche e istituzionali che nel mondo si interessano di giustizia sono facilitate da questa onda di dialogo permanente e mai estinta dell’équipe inizialmente costituita attorno all’Istituto. 

È tuttavia importante sottolineare quanto l’investimento per la ricerca e la produzione di conoscenza in situ nel mondo della giustizia in Francia si sia anche riflesso nella creazione di una unità dedicata presso il Ministère de la Justice, chiamata “Mission de recherche droit et justice”, istituita con un decreto del Ministère de la Justice et del Centre Nationale de Recherche Scientifique nel 1994. Tale atto istitutivo è orientato a costruire uno strumento permanente per assicurare un potenziale di ricerca di natura fortemente interdisciplinare. La Mission de recherche droit et justice ha quindi da allora definito animato e coordinato i programmi di ricerca sul diritto e la giustizia; ha identificato le equipe di ricerca per permettere loro di svolgere un ruolo importante nella promozione di nuove idee da applicare alla governance giudiziaria; ha favorito lo scambio di idee fra professionisti del diritto, attori della giurisdizione e studiosi. 

Oggi l’Institut Etudes et Recherches sur le Droit et la Justice raccoglie l’eredità di entrambe le esperienze, le consolida e le rilancia, in una prospettiva di ancoraggio scientifico forte, di proiezione internazionale e di effettivo scambio di conoscenza con le istituzioni. 

 

Ora più che mai 

Il rapporto fra scienze e giurisdizione non è certamente un portato del nostro tempo. A ben dire, trattasi di una caratteristica connaturata nella funzionalità stessa della seconda – ossia della forma con cui la tutela dei diritti si rende effettiva attraverso la dialettica del contraddittorio sottoposta in ultima istanza alla garanzia della regola del diritto inverata in modo impersonale ed imparziale. Eppure, nel tempo presente una differenza qualitativa rispetto a quanto sinora sperimentato e vissuto in materia di dialogo fra scienze e giustizia ci pare di poterla identificare. 

Viviamo un crinale di cambio di paradigma. Molti gli indicatori sia di ordine culturale, sia di ordine materiale, inducono a volgere le sguardo ai fondamenti, ai metodi con cui validiamo la conoscenza di cui ci avvaliamo per prendere le decisioni, per creare punti di controllo e di verifica sulla attendibilità dei percorsi intrapresi e sulla loro efficacia, infine per riorientare i nostri percorsi di apprendimento. Questo è vero sul piano individuale, ma è ancor più vero a livello macro, ovvero nelle e per le organizzazioni complesse e soprattutto per le politiche pubbliche tese a rispondere a problemi sociali o collettivi in genere. 

Il cambio di paradigma si configura come un momento in cui una parte del sapere che saremmo in grado di estrarre dalla esperienza del vivere hic et nunc, dalle esperienze di adattamento fatte dalle persone che svolgono ruoli e funzioni, dalle forme della intelligenza applicata in senso pratico, non riesce più ad essere “interpretato” attraverso le categorie di cui ci siamo avvalsi per decenni, forse per secoli. Parlare di post-modernità o post-modernismo sarebbe già qualificare un salto paradigmatico che ancora non si lascia afferrare nella sua vera e profonda natura. 

Che fare? In tempi di cambio di paradigma la conoscenza che arriva da una ricerca interdisciplinare fatta con i metodi empirici – ossia suscettibile di essere non solo verificata ma anche trasmessa e migliorata in via trans-soggettiva, da più equipe di ricerca, da più discipline, da più studi – è fondamentale. In essa, nel sapere pratico, si situa quella forma embrionale di apprendimento che dovrà poi ispirare la ridefinizione di categorie. 

Pensiamo a cosa è diventato a valle della esperienza pandemica il valore semantico della parola spazio. Spazio e spazialità – come peraltro ci ricorda molto opportunamente Antoine Garapon in un recente volume uscito in Italia con il titolo Despazializzazione della giustizia – sono diventate categorie che ci inducono a osservare – i concetti in fondo sono fasci di luce gettati sulle cose – parti delle interazioni in via ibrida, dematerializzata o materializzata che non potremmo più osservare con le stesse “lenti concettuali” che avevamo prima del 2020. Eppure di certo non dismettiamo tout court l’uso del concetto di spazio. L’udienza in remoto che forma di spazialità della giustizia è? 

Si tratta di un piccolo esempio per illustrare una questione molto più ampia e profonda. Ossia la necessità di dare una continuità e una visibilità istituzionale al dialogo fra ricerca e giurisdizione che appieno valorizzi gli apporti dei risultati e dei prodotti cognitivi – con immenso potenziale – della seconda per orientare la prima e che dalla prima porti verso la seconda metodi per aumentare la consapevolezza, sviluppare la propria postura epistemologica in un senso di discussione critica e, dunque, di miglioramento. Un valore aggiunto questo che si riflette anche sul modo con cui diritto e giustizia possono e devono dialogare con la società nelle sue più diverse e plurali articolazioni e voci. 

Oggi più che mai ci muoviamo come studiosi e come istituzioni sulla linea che si tratteggia giorno dopo giorno fra un momento di risposta emergenziale e uno spazio-tempo in cui le istituzioni della giustizia facendo proprie le lezioni apprese in termini di flessibilità, adattabilità e resilienza si riprogettano. Tanta conoscenza è contenuta in modo implicito nelle prassi sperimentate sul campo, nelle esperienze, nelle forme di adattamento e nelle soluzioni ai problemi sperimentate sub condizione di urgenza. Edgar Morin scrive nel 2020 che «Non si tratta di distruggere, si tratta di collegare». L’inedita prospettiva aperta dall’irrompere della crisi Covid-19 nella organizzazione della società e della amministrazione si qualifica, nella sua radicalità, come una straordinaria finestra di opportunità per pensare il possibile come realizzabile e sostenibile. Di fatto l’erogazione in via telematica della larga parte della formazione universitaria, lungo tutta la sua filiera, dalle lauree triennali ai master professionalizzanti ai seminari dottorali, posiziona su uno spazio – quello dematerializzato – contenuti, saperi, esperienze di costruzione delle competenze che mai prima avrebbero potuto incontrarsi nella condivisione dello stesso medium infrastrutturale. 

Se si considera poi che la stessa infrastruttura digitale che sta supportando gli atenei in questo sforzo mai prima fatto e oggi divenuto reale funzionamento più che prognostico è condivisa con il mondo degli uffici giudiziari e della amministrazione della giustizia, ecco che la prospettiva di una politica istituzionale e di un luogo – nel senso di spazio funzionale e di carattere plurale - che faccia sistema fra ricerca formazione e giustizia diventa non più improbabile, quanto sostenibile e necessario. 

Tre ordini di ragioni che sostengono questo orientamento: 

1) L’imperativo kantiano di fare del sapere un bene comune per il paese in un momento in cui più che mai se molto è posto sotto tensione nella gestione di spazi pubblici e servizi, è anche vero che siamo nella condizione di connettere, collegare, fare sistema superando confini funzionali che sono divenuti superabili appunto. 

2) La domanda di saperi integrati che arriva dal mondo della giustizia. Ne sono testimonianza le programmazioni di formazione che sono in corso da tempo per i magistrati aspiranti a funzioni direttive nel quadro della offerta della scuola della magistratura, ma anche e con maggiore pregnanza la continua elaborazione di discussioni e dibattiti che spesso si dispiegano in spazi dedicati o a margine di occasioni formativi fra chi, parte del personale amministrativo, sente di arrivare nel settore della giustizia per una via non diretta – il concorso per assistenti giudiziari che ha aperto il mondo giustizia anche a professionalità nuove – e chi nel mondo giustizia ha costruito tutta la propria professionalità e sente il bisogno di dare a questa un respiro ampio. 

3) La tensione funzionale che mette sotto pressione le strutture organizzative e gestionali del mondo della giustizia. 

Sappiamo che una buona decisione debba basarsi su un sapere che sia il frutto di processi di ricerca solidi, affidabili, aperti, condivisibili e discussi in una comunità scientifica qualificata, autorevole, internazionale. Ma non si tratta del solo livello al quale la conoscenza fattuale interviene per garantire la qualità delle decisioni. Anche nella organizzazione delle decisioni, ossia del potere di governare, di fare ed applicare regole indirizzando verso un obiettivo una organizzazione complessa, occorre una conoscenza di come quella organizzazione non solo funziona – una conoscenza dei suoi meccanismi strutturali – ma anche di come quella organizzazione sta reagendo o si sta adattando alle politiche alle scelte che sono state adottate per governarla. Se riferiamo questo al contesto della amministrazione della giustizia, possiamo dire che è cruciale conoscerne le caratteristiche strutturali – dotazione di risorse carichi pendenti arretrato, ad esempio – monitorarne l’andamento una volta che è stata adottata una strategia di riduzione dell’arretrato o di miglioramento della trasparenza e del servizio delle cancellerie. Per fare tutto questo una sola scienza, se presa isolatamente, non basta. 

La continuità del dialogo, la istituzionalizzazione del metodo e la possibilità di proiettarsi in uno spazio-tempo non suscettibile di dipendere dalle congiunture storico-sociali ed economiche appare dunque un fondamento di questo circuito virtuoso che è intrinseco alla qualità: qualità del sapere e qualità della decisione. 

 

L’esperienza francese e le prospettive di partenariato con l’IERDJ 

L’Institut Etudes Recherches sur Droit et la Justice è quindi una promettente forma che rilancia un metodo e valorizza una lunga tradizione di dialogo fra ricerca e istituzioni della giustizia. Costruito con la personalità giuridica di un “groupement d’intéret public” di diritto francese l’IERDJ è orientato a conservare la indipendenza scientifica – garanzia – e al contempo assicurare una governance partecipata e plurale – accountability – nella quale le voci delle istituzioni accademiche, di ricerca e di giustizia hanno pieno impegno. Egualmente impegnato sul piano internazionale ed europeo si prefigge di mantenere quella tradizione di eccellenza che si era riflessa nella costruzione di una rete di contatti e di collaborazioni trans-culturale e trans-nazionale. Gli obiettivi sono: definire, animare e valutare programmi di ricerca che sono finanziati sulla base di bandi regolarmente pubblicati; identificare con le equipe di ricerca di riferimenti su temi specifici le forme di dialogo capaci di massimizzare la valorizzazione dei risultati della ricerca nella promozione della qualità della giurisdizione e della amministrazione della giustizia. 

Il nostro paese ha una ampia tradizione di dialogo fra ricerca e giustizia. L’incontro fra le istituzioni del diritto e della giustizia e le istituzioni accademiche e scientifiche è uno dei tratti distintivi del ventennio con cui si apre in Italia il XXI secolo. Tutti i primi anni del XXI secolo sono caratterizzati nelle varie sedi circondariali, distrettuali e nelle istanze centrali della governance giudiziaria da un crescente dialogo fra ricerca e attività di innovazione organizzativa. Per molto tempo, tuttavia, era mancata una metrica di insieme, che dettasse ritmo e fasi del ciclo della conoscenza che dalla ricerca si riflette nelle organizzazioni e che da queste seconde rivolge alla ricerca nuovi interrogativi. L’eredità forte di questo ventennio si qualifica per la esistenza di forme di dialogo scientifico fra università e uffici giudiziari che, arrivate alla loro espressione di sistema che oggi trova in diverse esperienze di respiro nazionale e situate in una prospettiva europea, fissa i valori comuni e gli obiettivi strategici: valorizzazione dei saperi, declinazione della ricerca in una razionalità pratica di contesto, sussunzione delle migliori esperienze innovative in forme esemplificative di un metodo di governo del cambiamento, investimento su competenze e capacità. 

Il fine ultimo di tutto ciò risiede certamente nel riconoscimento della portata archimedea della res publica. È perché si vuole una migliore qualità della vita sociale, economica e istituzionale che ricerca e giustizia si incontrano per trovare insieme in un percorso aperto le soluzioni più efficaci ai problemi che via via si trovano all’orizzonte: se si parlava di efficienza gestione all’inizio oggi si aggiungono le questioni della sostenibilità ambientale, della prevenzione del rischio, della valorizzazione del benessere organizzativo, della ottimizzazione dell’uso della tecnologia digitale non come semplice risorsa, ma come catalizzatore di cambiamento. Vi è in questo dialogo un contributo destinato a lasciare il segno nella traiettoria dipanatasi fra diverse forme di progettualità nell’interfaccia fra istituzioni della ricerca e istituzioni giudiziarie: si tratta del tentativo e del progressivo affinarsi di metodi per mettere al centro delle politiche di qualità istituzionale il cittadino, i suoi bisogni e il suo potenziale di crescita economica, sociale, culturale.

22/03/2022
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