1. I principi della riforma
È decorso oltre un anno e mezzo dalla fatidica data del primo aprile 2015, quando è stata normativamente sancita la definitiva chiusura degli Opg ad opera della Legge n. 81/2014.
Il lento processo legislativo, teso al superamento di questo ultimo “residuato bellico” di istituzione totale, ove sono stati internati i non imputabili o semimputabili autori di reato, i c.d. “folli rei”, ritenuti pericolosi, era stato avviato fin dal D.p.c.m. 01.04.2008, in particolare dall’allegato C, ed era stato sancito dall’art. 3 ter del D.l. n. 211/2011. Insomma, anni di rinvii e di perpetuazione di istituzioni oscene intollerabili e tali da richiedere un intervento paradossalmente urgente del Parlamento.
Pertanto, gli Opg dovrebbero essere chiusi e le misure di sicurezza detentive, eccezionali e residuali, eseguite nelle nuove strutture per l’esecuzione delle misure di sicurezza, denominate Rems, ad esclusiva gestione sanitaria.
Purtroppo una riforma di tale portata è stata emanata in modo del tutto irrelato rispetto al codice penale e di procedura penale, alla legge penitenziaria ed al relativo regolamento di esecuzione, rimasti invariati, così da porre delicati problemi interpretativi e di armonizzazione con alcuni dei nuovi e garantisti principi sulle misure di sicurezza.
In primo luogo, nel solco tracciato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 253/2003 e n. 367/2004, si stabilisce che la misura di sicurezza detentiva, anche provvisoria, nei confronti dell’autore di reato non imputabile o semimputabile per patologia psichica, assume un carattere assolutamente eccezionale e residuale. Il giudice, pertanto, sia in fase cautelare, sia in fase esecutiva, potrà applicare la misura di sicurezza detentiva, provvisoria o definitiva, soltanto qualora siano stati acquisiti elementi dai quali risulti che ogni altra misura non sia idonea ad assicurare cure adeguate e a contenere la pericolosità sociale del prosciolto.
La norma ha stabilito poi, ad abundantiam, il principio che alla cessazione della pericolosità sociale consegua immediatamente la remissione in libertà. La misura di sicurezza principe diviene, pertanto, anche in fase cautelare, quella, non detentiva, della libertà vigilata con prescrizioni terapeutiche.
Purtroppo, nonostante il novum normativo, sin dai primi mesi di vigenza della riforma si registra un sensibile incremento degli internamenti per misura di sicurezza provvisoria, tanto che, ancora oggi, si assiste al fenomeno di centinaia di tali misure non eseguite per carenza di posti letto nelle Rems.
Tale fenomeno critico, tuttavia, non ha riguardato tanto la regione Emilia Romagna, ove, già a seguito del D.p.c.m. 01.04.2008, è stato realizzato un alacre lavoro di collaborazione tra magistratura (di sorveglianza e di cognizione), regione, Dsm (Dipartimenti di Salute Mentale), Uepe (Uffici esecuzione penale esterna) e Sanità “Penitenziaria”, finalizzato al coordinamento delle azioni in vista del superamento definitivo degli Opg, quanto, piuttosto, la magistratura di altri territori.
L’internamento in Rems ha assunto non solo il carattere della eccezionalità, ma anche della transitorietà: il Dsm, infatti, per ogni internato, deve predisporre, entro tempi stringenti, un progetto terapeutico-riabilitativo individualizzato per ogni internato e poi inviato al giudice competente, in modo da rendere residuale e transitorio il ricovero in struttura.
Le Rems assumono connotazioni del tutto differenti rispetto agli Opg anche in forza dello specifico decreto del Ministero della sanità 01.10.2012 che ne ha disposto le caratteristiche tecnico-strutturali. Si tratta di strutture a gestione specificamente ed esclusivamente sanitaria, dirette da un responsabile medico che ne assume la direzione sanitaria ed amministrativa, con ridotta capienza di posti letto, al massimo di venti, ove si svolgono attività terapeutico-riabilitative per gli ospiti in raccordo e coordinamento con i servizi psico-sociali territoriali.
La riforma ha posto, infatti, al centro del nuovo sistema, i dipartimenti di salute mentale, divenuti titolari dei programmi terapeutici e riabilitativi allo scopo di attuare, di norma, i trattamenti in contesti territoriali e residenziali. Le Rems sono, pertanto, soltanto un elemento (importante, ma sempre un elemento) del complesso sistema di cura e riabilitazione dei pazienti psichiatrici autori di reato.
L’attività di “vigilanza esterna” sulle Rems, se necessaria in relazione alle caratteristiche dei pazienti ospitati, è demandata ad accordi con le Prefetture.
In regione Emilia Romagna, in relazione alle due Rems, di Bologna e di Parma, nel maggio 2015, è stato siglato, su indicazione del Presidente del Tribunale di sorveglianza, un protocollo rispettivamente tra le Prefetture di Bologna e di Parma ed i Direttori generali delle Ausl delle due città per regolamentare gli interventi nei casi di eventi “critici” dentro le Rems, come, ad esempio, scompensi psichici dei pazienti con pericolo per l’incolumità fisica degli stessi o di terzi, necessità di ricoveri urgenti di internati in strutture sanitarie esterne o eventuali “allontanamenti” dalle strutture degli internati.
Le Rems, poi, in attuazione, sia del principio di territorializzazione dell’esecuzione della misura sia del principio della continuità terapeutica, devono accogliere, di regola, i pazienti residenti sul territorio regionale.
Altro principio innovativo introdotto dalla riforma riguarda i criteri precettivi per il giudice in sede di accertamento della pericolosità dell’autore di reato affetto da patologia psichiatrica: si stabilisce, infatti, che si debbano prendere in considerazione le qualità soggettive della persona senza, tuttavia, tenere conto del parametro di cui all’art. 133, 2° co., n. 4) c.p., ovvero le condizioni di vita individuali, familiari e sociali.
Viene sconfessato, così, il fondamento scientifico di quella c.d. “pericolosità sociale latente”, troppe volte abusata dalla giurisprudenza di merito, così perpetuando all’infinito le misure di sicurezza. In altri termini, ora il giudice, nell’accertare la pericolosità sociale dell’autore di reato affetto da patologia psichica e nel decidere se applicare o disporre la prosecuzione di una misura di sicurezza detentiva, non potrà più tenere conto delle condizioni di emarginazione socio-familiare al fine di ritenere sussistente una pericolosità sociale fondata esclusivamente su situazioni di estremo disagio ed abbandono.
Per contro, in ossequio al principio del favor libertatis, il giudice tiene conto delle condizioni individuali, familiari e sociali al fine di valutare come attenuata o cessata la pericolosità sociale dell’internato, qualora le stesse condizioni siano particolarmente favorevoli.
Ancora, la riforma ha opportunamente sancito che la pericolosità sociale non possa essere fondata esclusivamente sulla carenza di progetti terapeutici individualizzati, in modo che i ritardi e le carenze dei Dsm non ricadano sul paziente.
Altra innovazione di portata storica introdotta dalla legge 81 è il termine di durata massima della misura di sicurezza detentiva. Si assisteva, infatti, in precedenza al fenomeno dei c.d. “ergastoli bianchi”, ovvero ad internamenti della durata di decenni, talora anche perpetui, a fronte, quasi di norma, di reati di lievissima offensività, a seguito di giudizi di riesame della pericolosità periodici e ripetuti sine die, spesso proprio a causa di condizioni di emarginazione sociale dell’internato.
La riforma del 2014 ha finalmente sancito che la misura di sicurezza detentiva, provvisoria o definitiva, non possa mai durare oltre la durata della pena prevista per il reato, avuto riguardo alla previsione edittale massima.
Ai fini della determinazione della durata massima della misura, il giudice dovrà applicare i criteri di cui all’art. 278 c.p.p.
La norma, tuttavia, non si applica ai reati puniti con la pena dell’ergastolo.
Il principio introdotto investe tutte le misure di sicurezza detentive e quindi, anche gli internati in casa di lavoro o in colonia agricola, come del resto, dopo contrastanti orientamenti di merito, ha riconosciuto la Corte di cassazione (Sez. 1, 01.12.2015, Schiboni).
Il principio della durata massima della misura di sicurezza detentiva, poi, non essendo stata introdotta dalle legge 81 una disposizione transitoria (nonostante l’isolata e nominalistica sentenza della Cassazione del 09.01.2015, n. 27/2015), secondo quanto previsto dall’art. 200, 2° co. c.p., dovrà trovare immediata applicazione per tutte le misure di sicurezza detentive in corso, secondo il principio del tempus regit actum.
Circa la competenza in ordine al potere di accertamento dell’avvenuto decorso del termine massimo della misura di sicurezza, pur a fronte di divergenze giurisprudenziali, appare conforme alla sistematica codicistica dell’esecuzione, la competenza del magistrato di sorveglianza.
La cessazione della misura, per lo spirare del termine massimo, non opera ipso iure, dovendo, appunto, essere accertata e dichiarata in sede giudiziaria. Detta cessazione opera quale nuova causa di estinzione delle misure di sicurezza come le altre, previste dal codice penale, quali la morte del reo o l’abrogazione del reato.
Al fine del computo della durata massima si dovrà, ragionevolmente, tenere conto di tutti i periodi di internamento, anche intervallati, relativi alla misura detentiva, ed anche, ad esempio, del periodo trascorso in licenza finale di esperimento, posto che si tratta pur sempre di un tempo di esecuzione della misura.
Dichiarata detta cessazione della misura, il giudice, qualora residui poi una qualche forma di pericolosità sociale, potrà applicare la misura di sicurezza non detentiva della libertà vigilata, ex novo.
Naturalmente, in caso di successive reiterate e gravi violazioni delle prescrizioni della libertà vigilata, la misura di sicurezza detentiva non potrà più essere applicata in aggravamento ed il giudice potrà soltanto disporre opportune restrizioni delle prescrizioni della libertà vigilata.
2. Questioni attuali
In applicazione della riforma e del nuovo art. 35 bis o.p., al fine del definitivo superamento dei residuali e deprecabili internamenti negli Opg, sono stati emessi, medio tempore, importanti ordinanze da parte dei magistrati di sorveglianza di Reggio Emilia e di Firenze.
Il thema decidendum era l’illegalità dell’internamento in Opg, a fronte della norma che prescrive l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, dal 01.04.2015, esclusivamente nelle Rems, con grave violazione del diritto alla cura ed alla riabilitazione, non garantiti in Opg, e quindi, la richiesta di cessazione della violazione in atto da parte delle amministrazioni competenti.
Il magistrato, nei relativi procedimenti giurisdizionali, ha citato in giudizio tutte le amministrazioni interessate alla vicenda, ovvero il Dap e la regione Veneto (che avrebbe dovuto organizzare la Rems di destinazione), dato il principio della territorialità nell’esecuzione delle misure di sicurezza. La regione Veneto faceva rilevare, in udienza, come la Rems provvisoria prevista a Nogara sarebbe stata ultimata all’incirca nell’ottobre 2016 e pertanto con un ritardo di un anno e mezzo rispetto al termine di legge. Il Dap riferiva di aver adempiuto ai propri compiti circa le assegnazioni degli internati nelle Rems, incontrando, tuttavia, notevoli difficoltà per la mancanza di disponibilità di posti letto all’interno delle strutture esistenti sul territorio nazionale.
Il magistrato ha ravvisato principalmente una violazione dell’art. 13, 2° co., Cost. in quanto, pur sussistendo un motivato provvedimento giudiziario di restrizione della libertà, questo disponeva però, come misura detentiva, l’internamento in Opg. Tale condizione detentiva, di fatto, è stata tuttavia, ritenuta illegale sotto il profilo delle modalità, prevedendo la legge 81/2014 che attualmente la misura detentiva debba operarsi esclusivamente mediante il ricovero nelle Rems. I reclamanti, pertanto, pur infermi di mente, sono stati ritenuti titolari del diritto all’immediato trasferimento in una Rems.
Per quanto peraltro attiene al profilo, normativamente previsto, dell’inosservanza, da parte dell’amministrazione, di disposizioni previste dall’o.p., con riferimento all’art. 69, co. 6, è stato posto l’accento sull’art. 62 (che prevede gli istituti per l’esecuzione delle misure di sicurezze detentive), che è stato implicitamente modificato dall’art. 3-ter del D.l. n. 211/2011 che ha “abrogato” l’Opg e la Casa di cura e custodia. Il giudice ha rilevato, poi, come, ai sensi dell’art. 69 o.p., il magistrato di sorveglianza abbia stringenti poteri in materia, sovrintendendo all’esecuzione delle misure di sicurezza personali e potendo impartire disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati.
Entrando nel merito della vicenda, si è rilevato come le nuove strutture per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, le Rems, abbiano caratteristiche strutturali e funzionali completamente diverse rispetto all’Opg, ove i reclamanti si trovavano ancora internati, essendo quest’ultimo non rispondente ai criteri di cui al D.m. 01.10.2012 in quanto gestito dall’Amministrazione penitenziaria, con caratteristiche, pertanto, non meramente sanitarie. È stata, pertanto, ravvisata una palese violazione dei diritti degli internati relativi alla misura di sicurezza in corso: il diritto ad essere trasferiti in una Rems e ad essere ivi sottoposti ai previsti trattamenti terapeutico-riabilitativi volti, soprattutto, alla cura della patologia. È stato infine rilevato come in Opg si protraesse una illegittima commistione tra gestione sanitaria e gestione penitenziaria, tale da imporre al Dap di esonerare il proprio personale di Polizia penitenziaria dal servizio all’interno della struttura. Il magistrato, pertanto, accertata la sussistenza e l’attualità del pregiudizio subito dai reclamanti nei propri diritti fondamentali ed accertata la responsabilità della regione Veneto, ha accolto i reclami ordinando alla regione medesima di porre rimedio al pregiudizio entro un termine di 15 giorni.
3. Pratiche virtuose tra presente normativo e de iure condendo
Non c’è chi non veda quanto attualmente la materia delle misure di sicurezza si connoti come ostica per tanti settori della magistratura. Basta segnalare come nella prassi si assista ancora, purtroppo, al fenomeno di dispositivi di sentenza che dispongono l’applicazione di misure di sicurezza atipiche, non esistenti nell’ordinamento, quali ad esempio, il ricovero in casa di cura e custodia da eseguirsi in comunità. In questi casi il magistrato di sorveglianza, in sede di giudizio di accertamento della pericolosità sociale, dovrà necessariamente promuovere un incidente di esecuzione al fine della rettifica del dispositivo. Occorre ribadire come, in materia di misure di sicurezza, viga il principio di legalità, sancito dall’art. 25 Cost. e dall’art. 199 c.p.: le misure sono quelle e soltanto quelle stabilite dalla legge.
Ancora si segnala un’eccessiva applicazione, in fase cautelare, della misura di sicurezza detentiva in spregio dei principi consacrati dalle riforme, con il deplorevole fenomeno, cui si è già accennato, di centinaia di misure detentive provvisorie inseguite sul territorio nazionale.
La riforma sottende un necessario mutamento delle relazioni interistituzionali tra la magistratura di sorveglianza, gli operatori delle Rems e dei Dsm, pur nel rispetto delle specifiche competenze e della esclusiva soggezione del giudice alla legge.
Questo cambiamento metodologico nell’Ufficio di sorveglianza di Bologna è stato praticato sin dal principio attraverso un’esperienza di proficua collaborazione e sinergia.
Allo stato è in fase di definizione un protocollo operativo tra magistratura di sorveglianza e di cognizione, Dsm e Uepe, nella cornice dell‘Accordo della conferenza unificata del 26.02.2015. Al protocollo verrà allegato anche un Glossario sulle misure di sicurezza, uno Schema di possibile iter giudiziario delle misure di sicurezza, dei rapporti tra pena e misura di sicurezza, in modo da favorire un linguaggio comune tra gli operatori.
È auspicabile che le prassi virtuose in atto, come quelle in corso da anni sul territorio della regione Emilia Romagna, vengano recepite sotto forma, ad esempio, di accordi tra Stato, regioni ed autonomie locali.
Certamente l’applicazione della riforma fa emergere talune altre criticità, come ad esempio, la difficoltà degli operatori sanitari ad accettare che gli “ospiti” delle Rems siano titolari dello status di internati a tutti gli effetti, e quindi dell’applicazione doverosa, da parte del giudice, dei codici e dell’ordinamento penitenziario.
L’accordo citato ha doverosamente ribadito come, in materia, si applichino le norme vigenti dei codici e dell’Ordinamento penitenziario. Il magistrato di sorveglianza, pertanto, ha il dovere di vigilare sulle strutture ove si eseguono le misure di sicurezza.
Al riguardo, appare anche doveroso per il magistrato stesso la visita periodica alla Rems di sua competenza, come i colloqui con gli internati.
In particolare, ed a mo' di sintesi, conviene enucleare i diritti ed i benefici compresi in detto status: i colloqui con gli aventi diritto, rapporti con la famiglia e la comunità esterna, telefonate e corrispondenza. È da riconoscere anche il diritto fondamentale, sancito dall’art. 35 bis o.p., di ricorrere al magistrato di sorveglianza in caso di grave ed attuale pregiudizio nell’esercizio di diritti; con il correlato potere del magistrato di sorveglianza di impartire a tutte le amministrazioni interessate, anche sanitaria, le disposizioni atte a far cessare la violazione in atto.
I rapporti, quanto mai opportuni nell’ottica del reinserimento e della riabilitazione, dell’internato con la comunità esterna sono regolati dall’art. 17 o.p., e quindi con l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza previa proposta da parte del direttore della Rems.
Per quanto riguarda i trasferimenti degli internati in luoghi esterni di cura, si applica l’art. 11 o.p. I trasferimenti, autorizzati dall’Autorità giudiziaria compente, restano a carico dell’Amministrazione sanitaria. In caso di ricovero, il piantonamento da parte dell’Amministrazione penitenziaria sarà disposto soltanto qualora ritenga di disporlo l’Autorità giudiziaria. Salvo diversa disposizione, pertanto, il ricovero avverrà senza piantonamento. In questi casi è quanto mai opportuno un parere ponderato dei sanitari circa le condizioni psichiche dell’internato da sottoporre al giudice competente.
In base all’accordo, per quanto attiene ai pazienti sottoposti a misura di sicurezza detentiva in Rems, all’Amministrazione penitenziaria competono soltanto le traduzioni per ragioni di giustizia ed i trasferimenti dagli Istituti penitenziari alle Rems.
Pertanto, ogni altro trasferimento (v. in caso di licenze o ammissione alla libertà vigilata) compete all’Amministrazione sanitaria.
Ancora, sono di competenza della magistratura di sorveglianza le decisioni sui permessi per gravi motivi, sulle licenze trattamentali, sulle visite e ricoveri esterni, sulla licenza finale esperimento, sulla semilibertà.
Le “uscite” dei pazienti dalla Rems sono disciplinate dall’art. 53 o.p. che prevede tre diverse tipologie di licenze concedibili dal magistrato di sorveglianza con decreto motivato:
- quelle “trattamentali”, per un massimo di trenta giorni l’anno. Al riguardo si ritiene opportuno che le richieste di tali benefici da parte dei sanitari della Rems siano supportate da analitico programma terapeutico individualizzato, in modo che il magistrato di sorveglianza possa valutare ponderatamente il progetto riabilitativo in corso nei confronti del paziente internato. Si potrebbe operare anche, opportunamente, con un sistema di “licenze a pacchetto”, proposte dalla direzione della Rems nell’ambito del complessivo progetto terapeutico-riabilitativo previsto per il paziente internato e da approvarsi con decreto del magistrato di sorveglianza, in tal modo delegando opportunamente la gestione delle licenze, sempre nell’ambito dei limiti normativi, alla direzione sanitaria della struttura. Nella prassi operativa con la Rems di Bologna il magistrato ha concesso numerose licenze trattamentali ad internati, prevalentemente con modalità ad horas e con l’accompagnamento di operatori della struttura, ma anche di congiunti del paziente;
- la licenza finale esperimento: si tratta di una licenza della durata (massima) di sei mesi che può essere concessa nel periodo immediatamente precedente la scadenza fissata per il riesame di pericolosità. Si sottolinea come, per legge, decorsi i sei mesi della licenza, il paziente debba necessariamente rientrare, sia pur per brevissimo tempo, in struttura, non essendo escluso, peraltro, nella prassi, la possibilità, in seguito, di concedere altra licenza. La licenza finale di esperimento ha una forte valenza trattamentale nell’ottica di sperimentare appunto l’internato in un contesto esterno, comunitario o sul territorio, al fine della successiva trasformazione o revoca della misura di sicurezza detentiva;
- una licenza di durata non superiore a quindici giorni per gravi esigenze personali o familiari.
Altri strumenti trattamentali nell’ottica del superamento dell’internamento e della riabilitazione del paziente, sono il lavoro all’esterno ex art. 21 o.p. − che la direzione della Rems può proporre al magistrato di sorveglianza, anche per lo svolgimento di corsi di formazione professionale o attività socialmente utili in favore della collettività − e la semilibertà ex artt. 48 e 50 o.p., di competenza del Tribunale di sorveglianza, per il reinserimento sociale dell’internato al fine di poter svolgere attività lavorative, istruttive e risocializzanti.
L’internato ammesso alla misura della semilibertà potrà, poi, fruire del più favorevole regime delle licenze di cui all’art. 52 o.p., per una durata complessiva non superiore a 45 giorni l’anno.
Un ruolo centrale di sana lealtà istituzionale, nello spirito della riforma, dovranno assumere i Dsm nel senso che quanto più daranno conto con precisione delle condizioni psichiche del paziente, dell’aderenza al programma terapeutico-riabilitativo, dell’atteggiamento nei confronti dell’agito antigiuridico posto in essere, della consapevolezza di malattia e delle possibilità di cura e reinserimento sociale sul territorio, tanto più la decisione del magistrato di sorveglianza riuscirà a contemperare obiettivi di cura e di controllo della recidiva per l’evoluzione della persona.
Infine desta preoccupazione, rispetto al traguardo di civiltà raggiunto con la riforma l’approvazione, nello scorso mese di agosto, in Commissione giustizia del Senato, di un emendamento al D.d.l. n. 2067 (in materia di riforma del codice penale, codice di procedura penale ed ordinamento penitenziario) in base al quale verrebbero destinati alle Rems non solo i soggetti affetti da infermità o seminfermità psichica in misura di sicurezza detentiva, definitiva o provvisoria, ma anche i condannati ai quali sopravvenga una infermità psichica ed anche i soggetti nei confronti dei quali si renda necessario un periodo di osservazione psichiatrica, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi.
Non c’è chi non veda come la destinazione, sic et simpliciter, alle Rems anche di detenuti con condizioni psichiche da accertare o con sopravvenuta malattia mentale, di fatto, ricreerebbe la medesima funzione che avevano gli Opg. Tale emendamento invero, non tiene conto dell’attuale realtà delle Rems: già oggi, nonostante una normativa garantista, ne viene fatto un uso eccessivo, tanto che risultano circa duecento persone in attesa di entrarvi per carenza di posti disponibili. Maggiormente coerente con lo spirito della riforma sarebbe, invece, la destinazione alle Rems delle sole persone per le quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità psichica al momento della commissione del fatto, con giudizio di pericolosità sociale e conseguente bisogno di cure psichiatriche.
D'altra parte, non possono prevalere le strategie esclusivamente gestionali e fattuali delle Rems, degli Spdc (Servizio psichiatrico diagnosi e cura) e dei Dsm ed ignorare ogni principio di incompatibilità di qualunque regime carcerario con gli autori di reato con gravi condizioni patologiche di salute mentale, al punto da collocare comunque questi nelle carceri. Certamente la natura e le funzioni delle Rems non ne consentirebbe una proliferazione sul territorio, ma sembrano invece percorribili scelte diverse, di interpretazione evolutiva della normativa codicistica e di lievi emendamenti alla stessa in linea con le proposte del tavolo degli Stati generali della esecuzione penale.