1. Sta circolando in questi giorni una proposta titolata Come ridurre i tempi della giustizia civile.
Poiché di proposte di riforma del processo civile ne circolano molte, e in tanti, sempre più, purtroppo, si sentono investiti della possibilità di dare suggerimenti e indicare soluzioni, si potrebbe leggere tale documento come si legge un giornale dopo pranzo, e dimenticare il tutto subito dopo.
Ma poiché la proposta proviene dall’Osservatorio conti pubblici italiani dell’Università cattolica di Milano, e porta la firma di persone assai note, essa merita invece attenzione.
Prima, però, di passare ai commenti, crediamo che niente meglio della semplice trascrizione delle proposte dia la dimensione del progetto riformatore, che sinceramente non condividiamo sotto nessun profilo.
Si premette che il disegno di legge delega per la riforma del processo civile presentato dal Governo al Senato nel gennaio scorso è insufficiente, e si fanno, tra l'altro, le seguenti proposte:
1. «Occorre disincentivare, sia per i clienti sia per gli avvocati, il ricorso in giudizio».
2. «Si potrebbe condannare l’attore soccombente in appello o in cassazione a pagare un importo pari al quadruplo del contributo unificato (a favore dello Stato). In caso di ricorso in cassazione contro la c.d. "doppia conforme" e in caso di ulteriore soccombenza, le spese andrebbero liquidate alla parte vincitrice in misura pari almeno al triplo di quelle riconosciute dalla Corte di appello».
3. «Si dovrebbe limitare la possibilità di ricorso in cassazione ai casi attualmente affidati alle sezioni unite. In alternativa o in aggiunta si dovrebbe creare un organo giurisdizionale di supporto che operi sotto la direzione del primo presidente per trasferire allo stesso la funzione di filtro. Il filtro esterno assicurerà una decisione sulle ammissibilità in tempi brevi, riducendo il carico in entrata della cassazione».
4. «Non c’è una ragione perché una controversia tra privati debba essere necessariamente gestita solo dallo Stato. Affidare ad organismi la gestione di alcune procedure di volontaria giurisdizione in alternativa al ricorso al tribunale. Estendere a tutto il contenzioso in materia di diritti disponibili il primo incontro di mediazione».
5. «Prevedere un maggior ricorso al procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c. con l’ampliamento dei suoi casi di applicazione. Il ricorso diventerebbe l’unica forma di atto introduttivo di una causa civile per tutti i livelli di giudizio. A tutte le cause si dovrebbe applicare il rito del lavoro nella versione appositamente adattata».
6. «I giudici le cui cause vengono annullate dalla cassazione o totalmente riformate in appello in una percentuale superiore al 40 per cento della media nazionale, si dovrebbero veder negato il giudizio di idoneità quadriennale».
7. «Per accelerare la fissazione della prima udienza si potrebbe introdurre la seguente norma: “Il Presidente vigila affinché la fissazione della prima udienza a seguito del deposito del ricorso introduttivo del giudizio sia effettuata nel rispetto dei termini stabiliti dalle norme del codice. Per l’attuazione di tale vigilanza il presidente fa tenere dal dirigente amministrativo un registro nominativo dei giudici in cui debbono essere annotate tutte le violazioni di tali norme anche se di lieve entità”».
8. «Si dovrebbe creare un Centro di Coordinamento a livello nazionale e analoghi team a livello locale. La struttura qui ipotizzata sarebbe idonea a tenere gli stessi risultati che negli uffici giudiziari statunitensi si ottengono con i Court manager, soggetti titolari del caseflow. Non occorre sconvolgere la nostra normativa per realizzare questa sorta di èquipe di direzione senza prevedere parere e/o interventi dei Consigli giudiziari o farraginosi vincoli burocratici. I soggetti prescelti avrebbero la funzione di responsabili dei singoli progetti e sotto progetti».
2. Ora, ripetiamo, se non fosse per l’autorevolezza dell’ente e delle persone coinvolte, saremmo portati a non prendere sul serio simili proposte, anche perché di originale hanno ben poco, se non l’idea di terrorizzare chi debba rivolgersi al giudice e mettere in ansia i giudici che debbano provvedere a rendere giustizia.
I rimedi miracolosi per ridurre i tempi dei processi sono sempre gli stessi: sanzioni per le parti, sommarizzazione dei procedimenti, contrazioni delle libertà e dell'indipendenza dei giudici.
Non sono idee nuove; l’unica idea nuova è quella di esasperare ancor più i concetti, portandoli alle estreme conseguenze.
Magari chissà, per ridurre ulteriormente i tempi, nella logica del progetto, potremmo anche noi, per gioco, completare l’opera di esasperazione.
Perché no: si potrebbe ripristinare il solve et repete medioevale, e prevedere che chi voglia far valere in giudizio un diritto debba prima depositare una somma in denaro pari al doppio del valore della controversia; si potrebbe abolire l’art. 156, comma 3 c.p.c. ed escludere che un atto nullo possa essere sanato per il raggiungimento dello scopo; si potrebbe portare il termine di prescrizione dei diritti sostanziali da dieci anni ad un anno, e il termine breve per impugnare a soli tre giorni; si potrebbe poi creare l’Osservatorio degli Avvocati italiani, e prevedere che gli avvocati che perdono le cause in misura superiore al 60% (o addirittura al 50%) debbano pagare una tassa di iscrizione all’Albo dieci volte maggiore rispetto a quella di base; o, ancora, si potrebbero prevedere dei tempi standard per la stesura di certe sentenze e poi inventare un metodo di tracciabilità dei giudici per negare il giudizio di idoneità quadriennale ai perditempo; e poiché, infine, ogni fantasia è lecita, per aumentare i 309 c.p.c. e la cancellazione delle cause dal ruolo perché non proporre un incentivo a quei giudici che fissino le udienze alle 4 del mattino?
Anche questi accorgimenti, evidentemente, sarebbero in grado di ridurre i tempi della giustizia e/o il carico dei ruoli.
Il problema, però, è che in ogni cosa si deve avere il senso della misura, e soprattutto, prima di fare una qualsiasi proposta di riforma, bisognerebbe chiedersi se la stessa è compatibile con la nostra carta costituzionale; perché, crediamo, il difetto maggiore di questi tempi è proprio quello di essersi dimenticati che abbiamo una costituzione.
E crediamo, inoltre, che da tempo vi sia una tendenza a semplificare in modo assoluto dei meccanismi tutto al contrario complessi, così che si danno soluzioni, soprattutto da parte di economisti, che non tengono conto degli aspetti e delle tecniche giuridiche, che sono infatti considerate momenti da far venir meno.
E v’è, in questo, un (nemmeno tanto) velato sprezzo per gli avvocati, e ora anche per i giudici, e la sottesa idea che, se non si possa proprio fare a meno di loro, si debba almeno assegnarli a un ruolo più modesto e limitato.
Ed ancora, molti tralasciano in modo sempre più vistoso che la ragionevole durata dei processi non è l’unico valore costituzionale che lo Stato deve perseguire, perché, tutto al contrario, altri sono i valori, che insieme a quello, devono essere rispettati, primo fra tutto la qualità delle decisioni giurisdizionali, la indipendenza e la terzietà del giudice, il diritto all’azione e al contraddittorio, il diritto alle prove e alle impugnazioni; ed anzi, se si deve dare una scala di valori, quest’ultimi diritti costituzionalmente garantiti non vengono affatto dopo la ragionevole durata, perché nessun processo è “giusto” se per durare poco sacrifica questi principi.
Con questo progetto i cittadini diventano dei sudditi, i diritti soggettivi dei meri interessi, i giudici dei meri pubblici dipendenti; ed è triste pensare che qualcuno voglia una Italia così, poiché rendere giustizia è invece il primo dei doveri dello Stato, e i giudici devono essere liberi e indipendenti nell’amministrarla, poiché la democrazia di uno Stato si misura proprio in proporzione alla libertà che concede ai suoi giudici.
3. Veniamo all’analisi dei singoli punti.
a) Sulle sanzioni, sui tributi giudiziari ancora fortemente da aumentare, sulle spese di giustizia usate come strumenti di paura e di ricatto per chi debba rivolgersi ad un giudice, ci limitiamo qui a ricordare il pensiero di due grandi statisti del passato quali Pasquale Stanislao Mancini e Luigi Einaudi.
Mancini scriveva che «l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale» e che, se si introducono ostacoli, costi o sanzioni all’esercizio dell’azione in giudizio, allora «una comune prudenza determinerà sovente il cittadino a sopportare in pace torti anche gravi piuttosto che ricorrere a mezzi cotanto onerosi di riparazione. Allora le liti diverranno il lusso dei ricchi, la giustizia un loro privilegio e non un bene ed un diritto egualmente garentito a tutti» (in Mancini – Pisanelli – Scialoja, Commentario del codice di procedura civile per gli stati sardi, Torino, 1855, II, 9).
Luigi Einaudi sosteneva il principio della gratuità della giustizia quale momento fondamentale delle funzioni dello Stato, al pari della difesa nazionale e della sicurezza, e affermava senza mezzi termini che «Al litigante non è logico far pagare qualcosa (tassa, in qualunque modo congegnata, di bollo o di registro o altra) in aggiunta alle imposte che egli già pagò, come cittadino, per mettere in grado lo Stato di esercitare l’ufficio suo» (così Einaudi, Imposte e tasse giudiziarie, Riv. Dir. fin. 1937, I, 359).
Oggi, affermare un principio, che pure è evidente e logico, quale quello della gratuità del servizio giurisdizionale, non è possibile, e ragioni di cassa fanno sì che appaia invece legittima la pretesa fiscale della Stato a fronte dell’iniziativa delle parti di far valere un diritto in giudizio.
Ma usare i tributi e le spese giudiziarie quali mezzi per indurre il cittadino a non chiedere giustizia, fino a terrorizzarlo per le conseguenze economiche che l’aver adito il giudice potrebbe avere (quadruplo del contributo unificato e triplo delle spese liquidate), non è solo del tutto incostituzionale perché in violazione dell’art. 24 Cost., e non è solo qualcosa che, come già diceva Mancini nel secolo XIX, danneggia i ceti più deboli in deroga al nostro odierno art. 3 Cost., ma è il segno, evidente, di un imbarbarimento, che tutti noi con sdegno dobbiamo respingere.
b) Incredibile è poi quanto si propone sulla cassazione.
Si propone, in primo luogo, la creazione di un nuovo organo “giurisdizionale esterno”, o di un “organo giurisdizionale di supporto”.
La creazione di questo nuovo organo giurisdizionale esterno (si dice composto da avvocati, docenti e magistrati in pensione), crediamo sia frutto di un equivoco, poiché se un organo è giurisdizionale, anche solo ai sensi dell’art. 102 Cost., non può essere esterno, mentre se un organo è esterno, non può essere giurisdizionale.
Ma, al di là di questo, detto organo giurisdizionale esterno, o di supporto, dovrebbe avere il compito di dichiarare inammissibili i ricorsi per cassazione in sede di filtro.
Ora, che un organo esterno alla magistratura non possa fare una cosa del genere appare principio così chiaro e indiscutibile che, sinceramente, non sapremmo cosa altro aggiungere all’argomento; altrimenti sennò dovremmo concludere che l’art. 102 Cost, per il quale «La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario» è solo un orpello che possiamo tranquillamente tralasciare.
Si dice, poi, che «Si dovrebbe limitare la possibilità di ricorso in cassazione ai casi attualmente affidati alle sezioni unite»; e anche questa proposta lascia sconcertati, e ciò non solo per la sua incostituzionalità, in quanto l’art. 111 Cost. garantisce il controllo di legalità a tutti i cittadini avverso tutti i provvedimenti definitivi e decisori che siano stati pronunciati da giudici di merito, ma anche perché i casi che vanno alle sezioni unite sono rimessi alla discrezionalità del primo presidente ai sensi dell’art. 374 c.p.c., che vi rimette quelli «che presentano una questione di massima di particolare importanza».
Ora, se la proposta è che spetta al primo presidente della Corte di cassazione stabilire quali ricorsi debbano essere decisi nel merito e quali no, essa è del tutto irricevibile, non solo perché in palese contrasto con l’art 111 Cost. ma anche perché, anche a voler modificare l’art. 111 Cost. e quindi a voler porre in essere una riforma costituzionale, l’idea che spetti a un capo di un Ufficio giudiziario, e non alla legge, determinare i casi di ammissibilità di un ricorso è contrario a tutti i principi della nostra giurisdizione, intesa quale fenomeno regolato dalla legge a tutela di diritti soggettivi attraverso decisioni di giudici imparziali.
Ed è contraria, altresì, allo stesso concetto di inammissibilità, poiché una domanda giudiziale è inammissibile se è carente di un presupposto fissato dalla legge, e non può darsi, in un sistema di civil law, inammissibilità che siano invece rimesse alla discrezionalità del giudice, facoltizzando lo stesso a scegliere quali cause decidere e quali non decidere.
E dunque, a nostro parere, si tratta di una riforma del tutto impensabile a costituzione invariata, ma altresì irrealizzabile, oltre che non auspicabile, anche nella denegata ipotesi si volesse riformare l’art. 111 Cost.
c) Si asserisce, poi, che «Non c’è una ragione perché una controversia tra privati debba essere necessariamente gestita solo dallo Stato. Affidare ad organismi la gestione di alcune procedure di volontaria giurisdizione in alternativa al ricorso al tribunale. Estendere a tutto il contenzioso in materia di diritti disponibili il primo incontro di mediazione».
Anche qui a noi sembra non siano chiari i principi costituzionali sull’esercizio della funzione giurisdizionale.
Che la funzione dello ius dicere debba essere dello Stato in via esclusiva riteniamo sia un principio talmente ovvio che non v’è bisogno di doverlo spiegare; ciò, a livello costituzionale, è confermato con il già richiamato art. 102 Cost.; dal che la frase secondo la quale «Non c’è una ragione perché una controversia tra privati debba essere necessariamente gestita solo dallo Stato» appare ingiustificata, se non addirittura priva di senso.
Nel nostro sistema l’unica possibilità di devolvere funzioni giurisdizionali a privati si ha con l’arbitrato, ma esso è rimesso all’accordo delle parti e deve necessariamente avere ad oggetto diritti disponibili.
Conseguentemente, e sempre in forza dell’art. 102 Cost., è incostituzionale affidare a privati, o comunque ad enti o organismi non riconducibili al sistema giudiziario, funzioni di tipo giurisdizionale se su ciò non v’è accordo delle parti, e se i diritti giustiziabili non hanno carattere disponibile.
La proposta fatta, pertanto, non ha possibilità di essere concretizzata, poiché le procedure di volontaria giurisdizione normalmente attengono a diritti indisponibili; e in ogni caso il loro trasferimento dalla giurisdizione dello Stato ad altri organismi non ben identificati senza il consenso di tutte le parti non è possibile.
Parimenti incostituzionale, a nostro parere, è rendere obbligatorio il primo incontro di mediazione a tutte le controversie civili.
Senza tornare su decisioni che la nostra Corte costituzionale ha già preso in tema di condizioni dell’azione (v., fra le tante, Corte cost. 16 giugno 1964 n. 47; Corte cost. 11 luglio 1969 n. 125; Corte cost. 13 luglio 1970 n. 130; Corte cost. 13 luglio 2000 n. 276; Corte cost. 8 aprile 2004 n. 114) è noto che condizionare l’esercizio dell’azione ad un previo adempimento, qual è il tentativo obbligatorio di mediazione, è costituzionalmente legittimo se la condizione dell’azione è giustificata in modo specifico rispetto all’azione, non comporta particolari aggravi per la parte, e soprattutto non è tecnica generalizzata, pena altrimenti la violazione dell’art. 24 Cost.
Dal che, par evidente, l’idea di estendere obbligatoriamente a tutte le controversie civili un tentativo di mediazione, non solo è cosa, questa sì, che allunga i tempi e i costi dei procedimenti, ma anche è cosa incostituzionale per gli stessi orientamenti della nostra Corte.
d) Si arriva, così, al tema della sommarizzazione del processo.
Nessuno è contrario a che il sistema di tutela dei diritti civili abbia anche delle procedure sommarie; ed anzi, processi sommari che si affiancano all’ordinario esistono fin dal 1306 quando Papa Clemente V, con la Clementina saepe, introdusse la possibilità di giudicare sempliciter et de plano, sine strepitu et figura iudicii.
Ma la cognizione sommaria è sempre stata una eccezione a quella ordinaria, e tale deve rimanere.
Se viceversa l’idea è quella che la cognizione sommaria si trasformi nell’unica cognizione da dare ai giudici e alle parti, e che tutto debba avvenire senza regole di procedura, lì non saremmo più d’accordo, perché lì, evidentemente, assisteremmo viceversa ad una soppressione dello stesso diritto processuale, secondo quanto già ci insegnava Piero Calamandrei con un suo vecchio scritto.
Costituisce infatti irrinunciabile garanzia di civiltà quella di poter conoscere previamente le modalità di svolgimento dell’attività giurisdizionale (il c.d. giusto processo regolato dalla legge), di modo che ogni cittadino possa far conto, quando vaglia la soglia di un’aula di giustizia, proprio su quello svolgimento, senza sorprese e senza incognite.
Se la legge rinuncia invece a regolare il processo, e rimettere ogni regola processuale alla sola discrezionalità del giudice, la conseguenza è quella di giungere alla «abolizione del diritto stesso, almeno in quanto l’idea del diritto si riconnette alla garanzia di certezza e eguaglianza, conquista insopprimibile della civiltà» (Calamandrei, Abolizione del processo civile, Riv. Dir. proc., 1939, I, 386).
4. L'empito creativo dei membri del prestigioso Osservatorio non si ferma però alla sommarizzazione del processo civile e all'imposizione di odiosi balzelli ai cittadini che cercano giustizia. La proposta si estende all'organizzazione delle corti e all'ordinamento giudiziario.
Si prendono le mosse dai dati del rapporto 2018 della CEPEJ (Commissione per l'Efficacia della Giustizia del Consiglio d'Europa), che si riferiscono al 2016; si pescano alcuni dati (quelli sulla durata dei processi, che mostrano come il nostro Paese continui ad avere un problema di rispetto del diritto alla ragionevole durata); se ne ignorano altri, ad es. quelli che indicano che i magistrati italiani sono i più produttivi dei 47 Paesi del Consiglio d'Europa e che, ormai da anni, riescono a smaltire più processi di quelli che entrano, benché il nostro Paese sia tra quelli col più alto tasso di litigiosità, cioè di numero di cause per abitanti. Si dimentica altresì di menzionare che il rapporto CEPEJ prende atto che il numero delle sopravvenienze è in calo in Italia più che in altri Paesi esprimendo la preoccupazione che ciò sia conseguenza dell'aumento delle tasse e delle spese processuali, il quale potrebbe dunque essersi tradotto in un ostacolo all'accesso alla giustizia. Ancora si tace che l'arretrato ultratriennale nei tribunali e quello ultrabiennale nelle corti d'appello (3 e 2 anni è rispettivamente il tempo della durata ragionevole di un processo di primo e secondo grado), in sei anni, dal 2013 al 2019, si è letteralmente dimezzato.
La proposta, pur riconoscendo che in Italia il numero del personale di supporto è assai inferiore che in Germania, Francia e Spagna, omette di individuare o anche solo menzionare le cause dell'inefficacia del sistema: personale amministrativo decimato da pensionamenti e mancanza di turn-over, deprofessionalizzato da mancanza di formazione e di sviluppo di carriera, di età avanzata; insufficienze sviluppo della digitalizzazione nel settore civile e sostanziale assenza di digitalizzazione e uso delle nuove tecnologie nel settore penale; contesti lavorativi inadeguati se non fatiscenti e pericolosi. Tutte debolezze strutturali che l'emergenza sanitaria da Covid-19 ha esposto e enfatizzato. Non è solo il numero delle unità di supporto che ci differenzia dai Paesi più efficaci, sono anche la qualità del personale e della tecnologia messi a servizio della giustizia. Due soli esempi: l'Ecole nationale des Greffes che ha sede a Digione (7 immobili per una superficie di oltre 25.000 m2 capaci di ospitare 370 allievi) prepara le varie categorie di cancellieri attraverso un percorso di formazione iniziale in gran parte residenziale di 18 mesi, assicura la formazione continua di cancellieri, cancellieri capi e direttori di cancelleria, professionisti di alta qualità; in Spagna ormai da molti anni il processo civile è completamente dematerializzato e si svolge unicamente in forma orale con supporto di videoregistrazione.
5. Se analizziamo i singoli punti, possiamo cogliere alcune linee di fondo attorno alle quali riunire le proposte.
1) Sottrarre alla giurisdizione anche chi ha già adito una Corte e così estendere a tutta Italia un progetto fiorentino per aiutare il giudice ad effettuare rinvii in mediazione. La ricerca di soluzione condivise dalle parti è sempre un buon obbiettivo, ma l'uso della mediazione come meccanismo deflattivo si è da tempo rivelato inefficace. Se l'ufficio giudiziario è ben organizzato ed ha carichi sostenibili, il giudice è il primo artefice di quella ricerca di soluzione concordata e accettata dalle parti attraverso il tentativo di conciliazione.
2) «Si devono ampliare le competenze delle sezioni specializzate d’impresa, includendo materie particolarmente complesse relative al diritto dell’economia»; «La Scuola Superiore della Magistratura (SSM) dovrebbe programmare e gestire uno o più corsi all’anno …riservati agli aspiranti dirigenti, ricorrendo a docenti e testimoni provenienti dall’esterno con la previsione, al termine del corso, di un esame con un serio giudizio attitudinale …» e nominare dirigenti con comprovata capacità gestionale. Si tratta a ben vedere di una mera rivisitazione di vecchie proposte del mondo dell'economia e dell'impresa che, fin dai tempi del progetto Mirone, cercano di sottrarre le cause "serie", quelle che toccano gli interessi economici, alla giurisdizione ordinaria, specializzando e creando giustizie a due velocità a seconda degli interessi protetti. Quanto poi alle idee sulla formazione, ricordato che i corsi per dirigenti e aspiranti tali hanno ormai una storia venticinquennale, che ad essi partecipano docenti di management (ma non più manager privati; si ricorda ancora uno di questi che nell'imbarazzo generale incitava i partecipanti a pensare al fine, che giustifica i mezzi…), certamente si può fare più e meglio. Ma questo non può che accompagnarsi ed essere funzionale a un disegno chiaro di riforma della dirigenza degli uffici giudiziari: scegliendo tra un sistema di doppia dirigenza ed un sistema di court management amministrativo, optando tra una selezione per titoli e un corso-concorso gestito da CSM e SSM, tra un dirigente primus inter pares con compiti tabellari e un dirigente che svolge sia funzioni di amministrazione che di gestione dell'amministrazione.
3) «I giudici le cui sentenze vengono annullate dalla Cassazione o totalmente riformate in appello in una percentuale superiore al 40 per cento della media nazionale, si dovrebbero veder negato il giudizio di idoneità quadriennale». Paladini della certezza del diritto ad ogni costo (le oscillazioni giurisprudenziali, si sa, sono poco apprezzate dagli investitori e dagli stakeholders economici), i propositori giungono a proporre una punizione per il giudice, se non il "licenziamento", che segue di diritto a due valutazioni di professionalità negative.
Indispensabile qui richiamare gli standard europei in materia di valutazioni di professionalità e garanzia di indipendenza dei giudici elaborati dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d'Europa e che riempiono di contenuti la Raccomandazione n. 12/2010 del Consiglio d'Europa:
Opinione n. 6/2004 sul processo equo: «36. Alcuni paesi considerano la percentuale di decisioni riformate in appello come un indicatore. Una valutazione obiettiva della qualità delle decisioni giudiziarie può essere uno degli elementi della valutazione professionale di un giudice (ma anche in questo contesto si deve tener conto del principio dell'indipendenza di ciascun giudice all'interno del sistema giudiziario e del fatto che l'inversione di una decisione in appello è un risultato giudiziario tra gli altri, e non un segno di cattiva condotta professionale da parte del giudice del processo). Tuttavia, il CCJE ritiene inopportuno rendere la percentuale di decisioni riformate in appello l'unico indicatore o un indicatore necessariamente importante per valutare la qualità dell'attività giudiziaria. Tra gli aspetti da prendere in considerazione in relazione a questo problema, il CCJE sottolinea una specificità del sistema giudiziario fondato su "procedure": la qualità dell'esito di un caso dipende molto dalla qualità delle fasi procedurali precedenti (avviate da polizia, procuratori, avvocati o parti), che rende impossibile valutare l'attività giudiziaria senza valutare ogni contesto procedurale».
Parere n. 11/2008 sulla qualità delle decisioni giudiziarie: «74. Il basso numero di impugnazioni e il numero di impugnazioni respinte possono essere entrambi indicatori di qualità oggettivamente determinabili e relativamente affidabili. Tuttavia, il CCJE sottolinea che il numero di ricorsi e il tasso di riforma non riflettono necessariamente una qualità carente delle decisioni prese. Infatti, la riforma può semplicemente esprimere una diversa valutazione di una questione difficile da parte del giudice d'appello, che può essere contraddetta se il caso è portato davanti a un giudice superiore».
Opinione n. 17/2014 sulle valutazioni di professionalità: «Nel valutare la qualità di una decisione resa da un giudice, i valutatori dovrebbero tenere conto della metodologia applicata dal giudice nel suo lavoro nel suo complesso, e non limitarsi a valutare gli aspetti legali delle singole decisioni. Questi dovrebbero essere determinati esclusivamente dal processo di appello. I valutatori devono considerare tutti gli aspetti di un buon lavoro giudiziario, comprese le conoscenze giuridiche, le capacità di comunicazione, la diligenza, l'efficienza e l'integrità. A tal fine, i valutatori dovrebbero considerare tutti gli aspetti del lavoro di un giudice nel contesto di tale lavoro. Per questo motivo, il CCJE continua a considerare problematico basare i risultati della valutazione sul numero o sulla percentuale di decisioni riformate in appello, a meno che il numero e le ragioni del rovesciamento non dimostrino chiaramente che il giudice non ha le necessarie conoscenze giuridiche e procedurali…».
Questa opinione è condivisa dalle Raccomandazioni di Kiev adottate dall'OSCE nel 2010 e dai Rapporti della RECG, Rete Europea dei Consigli di Giustizia/ENCJ.
In questi tempi difficili, dominati dalle difficoltà indotte sul sistema giudiziario dall'emergenza sanitaria e dallo "scandalo dello Champagne" (dal nome dell'hotel dove si riunivano membri del CSM e politici per discutere di nomine di dirigenti in uffici chiave), i principi costituzionali, il modello costituzionale di magistratura, gli standard internazionali devono rimanere la nostra stella cometa.
Come il Comitato Consultivo ricorda (Op. n. 11), «60. La valutazione della qualità delle decisioni giudiziarie deve essere effettuata innanzitutto alla luce dei principi fondamentali sanciti dalla CEDU. Non deve essere effettuata esclusivamente alla luce di considerazioni di natura economica o di gestione delle procedure. L'uso di alcuni metodi derivati dal mondo economico deve essere considerato con cautela. Il ruolo del sistema giudiziario è, infatti, soprattutto quello di applicare la legge e di darle efficacia e non può essere analizzato in termini di efficienza economica».
La proposta dell'Osservatorio può leggersi qui
https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-Come%20ridurre%20i%20tempi%20della%20giustizia%20civile.pdf
Il rapporto della CEPEJ può essere consultato qui
https://rm.coe.int/rapport-avec-couv-18-09-2018-en/16808def9c
Le opinioni del CCJE possono leggersi qui
https://www.coe.int/en/web/ccje/ccje-opinions-and-magna-carta
Maria Giuliana Civinini, Presidente del Tribunale di Pisa
Giuliano Scarselli, ordinario di diritto processuale civile, Università di Siena; avvocato