1. Un rovesciamento necessario
Quando il mondo è alla rovescia, occorre capovolgerlo perché ritorni a posto.
E’ un’idea ripresa più volte, in vario modo, specie nelle riflessioni sul Male che ha pervaso certi periodi della storia e che sembra ciclicamente riavvampare. Tra i tanti, mi piace ricordare Jella Lepman, fondatrice di Ibby (International Board on Books for Young People), ebrea emigrata in Gran Bretagna nel 1936, che torna in Germania dopo la fine della guerra, persuasa che la ricostruzione del Paese e la rinascita culturale dovesse prendere le mosse dai bambini, educandoli alla mondialità, alla pace e alla fratellanza: «Poco a poco - diceva - facciamo in modo di mettere questo mondo sottosopra nuovamente nel verso giusto, cominciando dai bambini. Mostreranno agli adulti la via da percorrere».
Questa idea del capovolgimento ben si presta a indicare la linea di fondo del libro di Tommaso Greco, La legge della fiducia, che ripensa le fondamenta del diritto a partire da un rovesciamento di prospettiva. Ed è un rovesciamento che dovrebbe servire anche a riaccostare diritto e giustizia e dunque a rendere il mondo migliore, tentare, appunto, di rimetterlo a posto.
Il punto di partenza è la constatazione di quanto sia radicata «un’idea impoverita del diritto che vede in esso solo l’autorizzazione all’uso della forza e dimentica che invece il diritto ha una dimensione relazionale che non solo viene prima di quella coercitiva, ma serve anche per giustificarla». E’ un modello, definito sfiduciario, che non solo è stato alla base del pensiero di studiosi importanti dei secoli scorsi e del Novecento, da Machiavelli a Lutero, a Hobbes a Kelsen, passando da Jeremy Bentham fino a Guastini, ma che è diffuso anche nella società. Ridurre il diritto a sanzione comporta però l’eliminazione di una sua parte importante, «non diciamo della natura, ma quanto meno dei modi del suo funzionamento».
Come funziona il diritto, dunque?
Innanzitutto, afferma Greco, rivolgendosi alle persone, al loro bisogno di relazione. Ciò comporta un’aspettativa di ciascuno sul rispetto dei criteri di comportamento dettati dalla norma e, nello stesso tempo, la responsabilità di ciascuno nell’osservanza di quei criteri. Il diritto è, in primo luogo, criterio di orientamento rispetto alle condotte dei consociati[1] e implica, in questa fase, la loro fiducia reciproca. Certo, la fiducia può essere violata e ne consegue, in modo logicamente e cronologicamente successivo, l’applicazione della sanzione.
La riflessione che Greco conduce sulla fiducia come elemento strutturale del diritto è svolta in dialogo con molti studiosi, intrecciando linguaggi e pensieri di diverse discipline, senza perdere il rigore dell’impianto filosofico. Nelle sue linee essenziali, si tratta di un pensiero che può essere compreso anche da chiunque si interroghi su questi temi, non necessariamente un giurista o altro tipo di studioso. Questo è il plus valore della ricerca che merita porre in evidenza. Nello stesso tempo, il testo si rivela prezioso per il giurista pratico, al quale offre una serie di corollari che possono orientare utilmente la sua azione nell’esercizio quotidiano del suo lavoro.
Sono conseguenze che discendono dal nucleo fondante della concezione fiduciaria, costituito da una visione antropologicamente positiva dell’essere umano, considerato capace di entrare in relazioni positive con gli altri e responsabile delle proprie azioni. Non si tratta di un buonismo superficiale, e d’altra parte, basterebbe una constatazione persino banale di quanti precetti osserviamo spontaneamente nella vita quotidiana, magari senza rendercene conto, per riconoscere che «il diritto ci chiede di fidarci l’uno dell’altro»[2], almeno in prima battuta. Questo non toglie che, in seconda battuta, il diritto intervenga con rimedi e sanzioni volte a sostenere i traditi e a reprimere i traditori. La sanzione, in questa visione, non è la norma fondante del diritto, come riteneva Kelsen, il quale, coerentemente, riteneva destinatari delle norme i funzionari che dovevano applicarle. Il diritto, afferma Greco, include strutturalmente la fiducia, la quale non risulta il semplice esito dell’esistenza del diritto[3], o una aggiunta esterna, un di più che si inserisce dal di fuori per portare un valore positivo nelle relazioni sociali[4] ma è elemento interno, essenziale per il funzionamento del diritto stesso, che ha come destinatari primari i consociati e solo in secondo piano i funzionari (magistrati e avvocati). Infatti, solo se l’aspettativa viene tradita, entra in campo l’aspetto patologico della relazione che comporta l’intervento dei giudici e la coazione. Tuttavia, l’aspettativa sul comportamento altrui esiste prima delle sanzioni e a prescindere da queste. Il diritto, afferma Tommaso Greco, include quindi, in primo luogo, la richiesta di un riconoscimento reciproco tra i soggetti della relazione.
2. Alcuni corollari del sistema fiduciario
Il termine "corollario" vuol dire "aggiunta", qualcosa che consegue a una proposizione già dimostrata[5] e i corollari che il denso libro di Greco comporta sono davvero molteplici. Mi limito ad indicarne qualcuno, tanto per dare l’idea, rinviando alla lettura del testo la scoperta di un’analisi tanto feconda[6].
Innanzitutto, nel rovesciamento che Tommaso Greco attua rispetto al modello sfiduciario trova spazio più agevolmente un sistema plurale di giustizia, non identificata solo con quella giurisdizionale e autoritativa, ma comprensiva dei modelli consensuali, che valorizzano l’autonomia privata[7]. In particolare, la mediazione, come sistema di gestione delle relazioni conflittuali, accentra l’attenzione sulle persone anziché sui funzionari, proprio perché le persone sono considerate esseri responsabili e quindi meritevoli di fiducia, secondo la visione del sistema fiduciario.
Una visione che investe poi necessariamente anche il ruolo degli avvocati e dei magistrati, segnato dall’aspetto relazionale che impone di riporre in soffitta il carattere burocratico della funzione del giudice, come quello guerresco del ruolo del difensore. Collegato alla fattualità del diritto, costantemente richiamata da Paolo Grossi più volte ricordato da Tommaso Greco, è il ritorno al diritto come ordinamento del sociale[8], prospettiva che non può non implicare l’elemento della relazione fiduciaria tra i soggetti dell’ordinamento stesso[9]. Anche la tecnica di applicazione dei princìpi, funzionale alla necessità di un diritto più flessibile per dare tutela effettiva nel caso concreto, oggi al centro del dibattito giuridico, comporta una maggiore fiducia sia tra i consociati che nel rapporto tra cittadini e istituzioni, mentre tanto più si utilizzano regole stringenti, tanta meno fiducia si immette nel sistema giuridico[10].
Altro corollario dello schema fiduciario è l’attenzione al linguaggio, perché, annota Greco[11], se la fiducia fa parte strutturalmente della norma in quanto nella maggior parte dei casi agiamo facendo affidamento sul comportamento corretto dell’altro, è indispensabile che il diritto, in gran parte linguaggio[12], non sia percepito come luogo di oscurità e di complicazione, ciò che genera sfiducia e alimenta conflitti. E’ anche questo un tema di grande attualità, che concerne non solo la legge, ma anche gli atti dei difensori e i provvedimenti del giudice, il colloquio con le parti e quindi in generale la lingua del diritto, a cui sono dedicati molti studi e incontri di formazione.
Oggi il canone di chiarezza e sinteticità, già sancito nel codice del processo amministrativo all’art. 3, 2° comma, è anche oggetto dell’art. 121 c.p.c. nel nuovo testo introdotto dal d.lgs. n. 149 del 2022 su Libertà di forme. Chiarezza e sinteticità degli atti. Questo, tuttavia, è un campo dove la cultura gioca un ruolo cruciale e collega il modo di scrivere e di parlare la lingua del diritto alla trasformazione dei ruoli tradizionali di giudici e avvocati a cui accennavamo in precedenza. Nel modello fiduciario anche la posizione delle parti è capovolta e torna al centro della scena: la parola viene loro restituita, anziché tolta in nome di una connotazione tecnica ed esoterica di ciò che avviene nel misterioso rito del processo. Questo comporta un movimento di democratizzazione del sapere giuridico, anche attraverso uno sforzo di semplificazione del linguaggio, richiesto ai professionisti del diritto, agli operatori commerciali, alle amministrazioni pubbliche, e la responsabilizzazione di tutti rispetto a un uso corretto del linguaggio[13]. In questa prospettiva si colloca un recente lavoro degli Osservatori sulla giustizia civile[14] ispirato al Manifesto per un linguaggio non ostile dell’Associazione Parole O’ Stili: con le Linee guida per un linguaggio non ostile dentro e fuori il processo[15], si cerca di favorire un linguaggio chiaro (prima condizione per la comprensione), sintetico e anche rispettoso. Occorre quindi sorvegliare il pregiudizio inconscio, consapevoli dei biases, anche impliciti, che possono influenzare il pensiero, come ci hanno spiegato le scienze e la psicologia del giudicare[16]. Le linee guida appartengono al c.d. soft law, ed è pertinente ricordare che, nel sistema fiduciario, anche regole prive di sanzione fanno parte del diritto perché del sistema giuridico fanno parte gli effetti della fiducia interpersonale[17].
Un’altra conseguenza rilevante dello schema fiduciario, infine, è l’apertura verso una concezione di legalità diversa e più feconda rispetto a quella usuale. Ridurre il diritto a coazione, sottolinea Greco, «spiega perché sia il diritto penale ad esprimere, per molti, l’essenza più vera del diritto, nella «convinzione che la pena costituisca il fondamento stesso del diritto moderno, la pietra angolare di qualsiasi forma di amministrazione della giustizia»; ma spiega soprattutto perché sia la coazione a segnare il confine tra ciò che sta dentro il diritto e ciò che ne sta fuori»[18].
Una conferma della pervasiva diffusione di questa convinzione nella nostra società potrei trarla dalla mia esperienza nelle scuole, dove i bambini e i ragazzi, già al primo incontro sui temi della giustizia, si affannano a chiedere quante pene ho inflitto, quale sia la più alta. Hanno in mente il giudice che punisce e non è strano: a parte le emozioni suscitate dai fatti penali, sfruttate abilmente dai mezzi di comunicazione di massa, bisogna riconoscere che abbiamo da tempo delegato al diritto penale il ruolo censorio delle condotte tramite la qualificazione come reato.
Della giustizia civile si parla poco, e per lo più per rassicurare gli investitori e l’economia, mentre la sua autentica funzione è di indicare i criteri della buona e giusta convivenza. È la giustizia civile che viene prima, sia perché orienta la vita di relazione attraverso una rete capillare di aspettative e correlati doveri tra i consociati nei più diversi settori, sia perché assicura la tutela effettiva dei diritti e degli interessi delle persone e così previene o ripara situazioni di squilibrio e di degrado su cui prolifera la criminalità, anche organizzata.
A questa riflessione si lega il sé civico di cui parla Tommaso Greco per sganciarlo dalla paura della sanzione. Una cultura della legalità non può saldamente stabilirsi se continuiamo a credere e sostenere che il diritto fondi la sua forza normativa solo su un efficace sistema sanzionatorio. Insistere, invece, sulla normatività della norma primaria e sulla presenza di obblighi giuridici orizzontali può favorire l’ubbidienza alle norme e farsi carico delle aspettative altrui[19]. E’ una legalità diversa, che sorge dal basso là dove i precetti creano nessi tra i consociati, e implica l’interiorizzazione e la condivisione dei princìpi su cui il precetto si fonda. Il riconoscimento delle reciproche aspettative favorisce una comunità in cui relazioni sono improntate al rispetto piuttosto che alla sopraffazione degli uni sugli altri e questo ha forti riflessi su come e quale legalità insegnare nella formazione, dai più piccoli fino agli adulti.
3. La fiducia come antidoto al mal funzionamento del diritto
Sono solo alcuni esempi degli stimoli che le riflessioni di Tommaso Greco offrono rispetto a temi cruciali del pianeta giustizia. Ve ne sono numerosi altri, sempre fruibili a diversi livelli di lettura e da diverse discipline, resi godibili anche grazie all’immediatezza e alla profondità che offrono le molteplici incursioni nella letteratura e nell’arte in generale, dal riferimento al romanzo Billy Budd di Melville, a La Peste di Camus, a Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, a Gelsomino nel paese dei bugiardi di Gianni Rodari, ai quadri di Bosch, fino al capitolo – intitolato appunto Un fiorino!- che utilizza una scena famosa del film Non ci resta che piangere (1984) con Roberto Benigni e Massimo Troisi, per illustrare con efficacia il rapporto tra regola e casi concreti[20].
C’è tuttavia un ultimo aspetto che vorrei evidenziare, perché mi pare fondamentale: il sistema fiduciario, scrive Greco, rende il diritto più sensibile alle sue degenerazioni. Un tema di grandissima attualità di fronte all’esistenza di nuovi lager, nuove guerre, nuove forme di schiavitù, tutte improntate a nuove (o vecchie) forme di de-umanizzazione[21]. D’altronde, Primo Levi ci aveva avvertito più volte, sottolineando che i lager non rappresentavano l’inizio, ma la fine di una strada maligna dove le persone avevano smesso di reagire di fronte ad atti d’odio e di violenza, erano diventate insensibili, le coscienze “sedotte e oscurate”, fino alla convinzione che tutto fosse normale[22].
Ecco, il sistema fiduciario è come un campanello che ci avverte quando qualcosa è legale, ma non è normale. Perché la ritrovata fiducia che opera normativamente dentro al diritto mette in primo piano il trattamento che noi riserviamo agli altri: «Quando il diritto diviene ingiusto, siamo noi che diventiamo ingiusti, traducendone le prescrizioni in comportamenti verso gli altri»[23]. Di contro, la fiducia può essere tanto più efficace e tanto più diffusa quanto più il diritto si fa portatore di equità e di riconoscimento, ed evita di essere fonte di discriminazione, di disparità, di sfruttamento e si fa carico della pari dignità tra tutti i soggetti[24].
In alcuni punti del libro l’autore ci indica da dove si è dispiegato questo sguardo più profondo all’interno del diritto, dove finalmente l’uomo entra « con tutta la sua umanità, e non solo con i suoi interessi e le sue paure» ed è il periodo di sconvolgimento seguito alla pandemia da Covid-19. Allora, utilizzando la tecnica del rovesciamento, concluderei queste brevi riflessioni a partire dall’inizio, cioè dall’esergo del libro di Tommaso Greco, tratto, non a caso, da un pensiero di Albert Camus, che chiama in campo alcune sorelle della fiducia, come la speranza, la solidarietà e la fraternità[25] «per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli: che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare».
[1] T. Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2021, 88 ss. Greco ricorda anche S. Natoli secondo cui il senso delle norme è in prima istanza cognitivo e orientativo, le norme servono in primo luogo a indirizzare le azioni: Natoli, Il rischio di fidarsi, Il Mulino, Bologna 2016, p.107.
[2] T. Greco, op. cit., p. IX.
[3] T. Greco, op. cit., p. 11.
[4] T. Greco, op. cit., p. 71; 88 e ss.
[5] In latino, il corollarium, diminutivo di corona, era una coroncina, spesso di metalli preziosi, offerta in dono agli attori favoriti quale premio ulteriore rispetto alla retribuzione. Il carattere di aggiunta che aveva il corollarium porta al significato attuale. In seguito, i botanici designarono con ‘corolla’ all’insieme dei petali del fiore.
[6] Per approfondimenti sui profili qui solo accennati, mi permetto di rinviare anche ad una mia recensione de La legge della fiducia pubblicata sulla rivista Giustizia Consensuale, n. 2 del 2022, p. 673 ss.
[7] Sul carattere storicamente condizionato dei sistemi di gestione dei conflitti, nella vastissima letteratura, resta illuminante il testo di O. G. Chase, Gestire i conflitti. Diritto, cultura, rituali, Laterza, Roma-Bari, 2009.
[8] P. Grossi, Ritorno al diritto, Laterza, Roma-Bari 2015; di Paolo Grossi segnalo il frutto delle sue ultime soste di raccoglimento, come dichiarato dall’A. stesso nella Premessa, raccolte nel volume Oltre la legalità, Laterza, Roma-Bari, 2020.
[9] T. Greco, op.cit., p.99 ss.
[10] T. Greco, op. cit., 117 ss. Certamente, osserva l’autore, ci vuole equilibrio tra la necessità di prendere decisioni riferite a situazioni particolari e l’esigenza della generalizzazione: p. 123 ss. Sulla centralità dell’interpretazione, da ultimo si veda N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, Giuffré, Milano, 2017. Per un approfondimento sull’uso corretto e contestuale di regole e principi, si veda da ultimo, anche per ampie indicazioni bibliografiche, G. Vettori, Effettività tra legge e diritto, Giuffré, Milano, 2020.
[11] T. Greco, op. cit., p. 82.
[12] Anche se non sempre è stato così: R. Sacco, Il diritto muto, in Riv. dir. civ., 1993, 689; dello stesso A., Il diritto muto. Neuroscienze, conoscenza tacita, valori condivisi, Il Mulino, Bologna, 2015.
[13] Come rileva P. Bellucci, «la negoziazione degli interessi presuppone – inderogabilmente – la negoziazione dei significati, fino ad arrivare a significati condivisi»: Una lingua ‘dalla parte della rosa’, in G. Berti Arnoaldi Veli (a cura di), Gli Osservatori sulla giustizia civile e i protocolli d’udienza, Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 435-43.
[14] Si veda, per tutti, il volume citato alla nota precedente.
[15] Le linee guida citate nel testo sono pubblicate anche in questa Rivista con un mio breve commento, Per un linguaggio non ostile dentro e fuori il processo. Il potere delle parole, avere cura delle parole, https://www.questionegiustizia.it/articolo/linguaggio-non-ostile
[16] T. Greco, op. cit., p. 122, ove cita una recente opera di M. Manzin, F. Puppo e S. Tomasi (a cura di), Ragione ed emozione nella decisione giudiziale, Trento, 2021. Sul tema mi permetto di rinviare anche al mio articolo, Prevedibilità, predittività e umanità nella soluzione dei conflitti, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2019, p. 395 ss. Si veda anche C. V. Giabardo, Il giudice e l’algoritmo (in difesa dell’umanità del giudicare), in Giustizia Insieme, 9.7.2020 (www.giustiziainsieme.it).
[17] T. Greco, op. cit., p. 122-3.
[18] T. Greco, op. cit., p.15; la citazione nel testo è riferita a U. Curi, Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia, Bollati Boringhieri, Torino 2019, p. 14.
[19] T. Greco, op. cit., p. 157-8.
[20] T. Greco, op. cit., p.114 ss.
[21] Mi limito a rinviare alla sentenza della Corte di assise di Milano, del 17.10.2017, imputato Matammud, dove si ricostruiscono, con il rigore della prova penale, le condizioni del campo profughi di Bani Walid, in Libia, luogo di atroci sevizie. Confermata in grado di appello, la decisione è passata in giudicato. La sentenza è facilmente reperibile in rete e commentata anche in questa Rivista, https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-matammud-un-modello-terrifico-di-gestione-dei-centri-d-accoglimento-profughi-in-libia_25-09-2018.php
[22] «Ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre», in Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 2014. E ancora, in un’intervista di Enzo Biagi andata in onda su Raiuno l'8 giugno 1982 nel programma Questo secolo, aveva affermato: «Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare». L’intervista può essere ascoltata in rete su vari canali.
[23] T. Greco, op. cit., p.152.
[24] T. Greco, op. cit., p. 75 ss.
[25] Anch’esse oggetto di riflessioni nel libro, accompagnate da ampie indicazioni bibliografiche.