Il 14 luglio 2017 si sono concluse le prove scritte del concorso in magistratura bandito l’anno precedente. In consonanza con un auspicio che era stato autorevolmente espresso su questa Rivista[1], e non solo, le tracce proposte hanno evidenziato un respiro meno settoriale e specialistico rispetto a quelle estratte nel decennio precedente. Al posto di istituti caratterizzati da un elevato grado di tecnicismo (come l’avvalimento plurimo negli appalti pubblici, o la negoziazione di strumenti finanziari “aleatori”, o il rapporto tra l’accesso abusivo ad un sistema informatico e la rivelazione di segreti d’ufficio) i candidati si sono potuti misurare su questioni di ampio respiro e assai ampia applicazione: i beni pubblici indisponibili, le conseguenze economiche della crisi della coppia ed i rapporti tra la scriminante della legittima difesa e la rissa.
Tale scelta è stata, come detto, già difesa, e con dovizia di eccellenti argomenti. Non stupirà, dunque, se chi scrive ritiene che sia (auspicabilmente) utile farlo per esprimere un parere differente, e sottoporre al dibattito un approccio altro alla questione.
Tale approccio vorrebbe essere, prima di tutto e soprattutto, costituzionale. La Costituzione non tace sul concorso in magistratura, e non tace, più in generale, sullo spirito che dovrebbe animare il reclutamento dei servitori dello Stato.
È ovvio, in questo senso, prendere le mosse dal primo comma dell’art. 106 Cost., secondo il quale alla magistratura si accede per concorso. C’è da chiedersi se tale articolo, come pure i resoconti dell’Assemblea costituente potrebbero lasciare intendere, rappresenti semplicemente l’esito di un dibattito, che, seppure breve, ebbe modo di svolgersi, sull’opportunità di reclutare i magistrati togati in modi diversi (e l’esito di tale dibattito trova un riflesso nel secondo comma dell’art. 106 Cost., che autorizza il legislatore a prevedere metodi di reclutamento “non concorsuali” per i magistrati onorari, circoscrivendo le attribuzioni loro conferibili, e nell’ultimo comma, che prevede la nomina per meriti insigni direttamente a magistrato di Cassazione).
Il primo comma dell’art. 106 Cost. dovrebbe però essere anche letto in relazione agli artt. 97, ultimo alinea (sull’accesso ai pubblici uffici per concorso) e 34, terzo e quarto comma (sul diritto dei capaci e meritevoli di accedere ai gradi più alti degli studi, se del caso mediante provvidenze da attribuirsi per concorso).
Insomma, se la Repubblica è fondata sul lavoro e, come ho illustrato, sulla meritocrazia – e su di una meritocrazia “intransigente” – è lecito avanzare l’ipotesi che il meccanismo concorsuale che caratterizza il reclutamento magistratuale (che prelude, nell’intenzione del Costituente, all’inserimento dei vincitori in un corpo autoregolantesi, attraverso un Consiglio superiore eletto per la maggior parte dai magistrati così reclutati) debba interpretarsi come una delle più fedeli trasposizioni nell’ordinamento italiano di quel principio del “puro” merito che così grande fortuna ha avuto, ed ancora ha, nel plasmare l’identità costituzionale del repubblicanesimo francese – che tante suggestioni, a sua volta, ha trasmesso ai nostri costituenti – fondata sulla assoluta imparzialità della République nei confronti di chiunque, e sull’avanzamento sociale legato (per lo meno nella sfera del pubblico impiego e dell’istruzione) esclusivamente al merito ed alla sua dimostrazione in prove del tutto neutre ed indifferenti alla provenienza dei candidati.
Non si tratta di tessere l’elogio dell’elitismo, tutto il contrario. La Repubblica, ed il Costituente, si attendono molto dai magistrati. Sanno che la loro è una funzione delicata, che la domanda di giurisdizione è pressante, e che fornire una risposta puntuale (e non legittimata da nient’altro se non dall’obbedienza alla legge e dalla preparazione tecnica e culturale dei magistrati stessi) è cruciale per la salute dello Stato, per il “buon andamento” (oggi si direbbe: per la “competitività”) del settore pubblico e per il progresso della comunità nazionale (o, come si direbbe oggi, per il “successo del sistema-Paese”).
Se questo è il punto di partenza, la base costituzionale dalla quale è indebito distaccarsi, da ciò discendono alcuni corollari, che proverò a calare nella realtà del concorso in magistratura odierno:
I) Il concorso discrimina, separa, premia e (per ineludibilità logica) punisce. L’unica necessità, assoluta ed imprescindibile, è che faccia tutto questo senza guardare in faccia nessuno, senza privilegiare nessuno se non per i suoi meriti. Il concorso non è, dunque, il luogo dedicato a lasciare “respirare” la sensibilità espressiva dei candidati. È anche questo, ma subordinatamente ad uno scopo: misurare, e quantificare (con un voto) l’attitudine ad essere magistrati di individui che aspirano a superarsi nella “bravura” (per quanto, umanamente, la si possa misurare), nella capacità di rispondere puntualmente, coerentemente ed esaustivamente al quesito posto dalla commissione. E, si è costretti a ripeterlo, nel fare non soltanto “bene”, ma “meglio degli altri”. Tutti possono “esprimersi” (s’épanouir). Pochi possono “vincere” (réussir).
II) Un dato è difficilmente eludibile: se è vero che, poco dopo la seconda guerra mondiale, le tracce del concorso erano considerevolmente generaliste, bisogna altresì rimarcare che la situazione era imparagonabile a quella odierna. I candidati erano solo di sesso maschile (e lo sarebbero restati per vent’anni); avevano tutti la maturità classica (e sarebbe stato così fino al 1969); ed erano veramente pochi, se paragonati ai concorrenti attuali. Nel primo concorso al quale ebbero accesso le donne (a metà degli anni ‘60 del 1900), i consegnanti furono qualche centinaio. Oggi possono superare i tremila. Che gli stessi temi possano selezionare oggi così come selezionavano nei tardi anni ‘40 del 1900, è arduo da immaginare. Se si avesse il coraggio di assegnare oggi il tema di diritto amministrativo del 1947 («nozione dell’atto amministrativo e sue principali classificazioni») consegnerebbero, presumibilmente, quasi tutti i candidati presentatisi a sostenere le prove. E le operazioni di correzione occuperebbero un tempo intollerabile per la funzionalità dell’apparato giudiziario (e per la dignità dei concorrenti, della commissione e del concorso).
III) Se la selezione, ed una selezione “feroce” – e tale è, e non può non essere, una selezione che esclude quasi nove candidati su dieci, solo tra i consegnanti – è giusta, necessaria e “costituzionale” è inevitabile che i vincitori siano, nell’Italia di oggi, dei “mostri” (quanto meno di fortuna, se non proprio di bravura o di sterili abilità mnemoniche); di questo non c’è da avere timore, però: i commissari sono magistrati, docenti universitari ed avvocati di grande esperienza e preparazione, ed è da escludersi che possano farsi ingannare da un mediocre idiot savant, così come è categoricamente da escludersi che non siano in grado di valutare, nei candidati, la maggiore o minore abilità nel concepire ed esporre argomentazioni giuridiche di maggiore o minore raffinatezza, quale che sia il tema sul quale tali candidati sono chiamati a misurarsi (e non è affatto detto che un tema che richieda la trattazione di istituti molto specialistici non consenta ai partecipanti di mettere in risalto le proprie capacità di ragionamento giuridico quanto e più di un tema “prevedibile” o “istituzionale”).
IV) Quanto al timore che delle tracce troppo settoriali avvantaggino soggetti caratterialmente inclini all’edonismo intellettuale ed all’arrivismo, tanto più in una congiuntura nella quale, per il deserto occupazionale che circonda i giovani, il concorso in magistratura appare come una delle poche prove in cui un brillante laureato in legge possa emergere e guadagnarsi (addirittura!) uno stipendio decoroso ed un ruolo sociale non eccessivamente subalterno, mi sentirei anche in questo caso di richiamare i principi costituzionali. E di affermare, senza nessuna falsa ipocrisia, che la Repubblica ha bisogno esattamente di questo: di un concorso che sia percepito allo stesso tempo come grandemente selettivo e come assolutamente imparziale. Ad una grande selettività, se accompagnata da una riconosciuta imparzialità, corrisponderà inevitabilmente un elevato riconoscimento sociale dei vincitori, tanto più in un Paese il quale, riguardo a molte altre carriere, è percepito, a torto o a ragione (ma le percezioni sono importanti, ed i giudici lo sanno bene, per doveri deontologici), come scarsamente meritocratico. Il fatto che altre carriere, una volta aperte a brillanti giovani laureati, oggi non offrano quasi più nulla non è colpa della magistratura, né dei MOT, né di chi prende parte al concorso.
V) Sia, inoltre, consentita una notazione personale, che però credo che ogni MOT potrà confermare: nonostante il fatto che il mio ingresso in magistratura sia avvenuto neppure due anni fa, durante il tirocinio ho avuto modo di constatare come i miei affidatari si siano più di una volta dovuti confrontare con problematiche estremamente sofisticate, con dilemmi tecnici di particolare difficoltà, con istituti del diritto particolarmente innovativi, con un mondo il cui progresso, insomma, non si è arrestato alle porte del Tribunale o della Procura della Repubblica. Un tema che richieda di applicare la sistematica generale del diritto ad istituti innovativi, specialistici, settoriali, contribuisce a trasmettere al futuro MOT un messaggio che, ritengo, è bene che questi sia pronto a cogliere immediatamente, ovverosia che esercitare la giurisdizione significa affrontare molto, molto spesso problemi nuovi, o varianti nuove di problemi già conosciuti, e che le nuove realtà (economiche, finanziarie, sociali, tecniche, scientifiche, etiche e morali) non rimarranno fuori dai nostri fascicoli per lungo tempo, ed è nostro obbligo confrontarci con esse, e rispondere con competenza alle domande di giustizia che esse sollevano nella comunità.
Nella meritocratica République che, come ho sostenuto, ci ha trasmesso, almeno per quanto riguarda i fondamenti etici del sistema di accesso alla nostra categoria, i principi basilari del valore e dell’imparzialità nel valutarlo, i concorsi per l’accesso all’École nationale de la magistrature (così come quelli per l’ENA, per Sciences Po, per l’École polytechnique, per l’École normale supérieure e per le altre principali grandes écoles) sono rinomati per la loro “crudeltà”, e la preparazione ad essi richiede, a volte, anni, avendo dato persino vita ad una tradizione di esigentissime classes préparatoires, dove lo studio “matto e disperatissimo” ad altro non è finalizzato se non ad incrementare le chances di superare le trasparenti, ma “feroci”, prove d’accesso a scuole che formeranno donne e uomini spesso destinati a svolgere compiti di grande responsabilità, e sulla cui abilità tecnica tutto il Paese deve potere fare affidamento.
Non solo non dovremmo vergognarci di affermare che l’Italia potrebbe giovarsi grandemente di una ritrovata adesione al binomio trasparenza-assoluto rigore nella valutazione del merito. Probabilmente renderemmo un grande servigio alla Repubblica fondata sul lavoro se proclamassimo che tale opportunità è una delle poche speranze di sfuggire ad un declino che, prima che economico, è culturale. E, se non esiste cultura senza spirito critico, né l’una né l’altro sono concepibili senza nozioni ed abilità tecniche. Il progresso segue sentieri apparentemente tortuosi, in special modo nei Paesi che sembrano avere smarrito la propria strada.
[1] G. Scarselli, Sui temi che si assegnano per le prove scritte ai concorsi per la magistratura, in questa Rivista on line, 16 maggio 2017, http://www.questionegiustizia.it/articolo/sui-temi-che-si-assegnano-per-le-prove-scritte-ai-concorsi-per-la-magistratura_15-05-2017.php