Il 27 aprile del 1937 moriva Antonio Gramsci. In occasione dell'anniversario della sua morte, ripubblichiamo questo articolo apparso sul n. 2/2014 di Questione Giustizia
1. «Caduto per caso nell’aula di un Tribunale»
Nel 1916 il venticinquenne Antonio Gramsci è giornalista dell’Avanti!. Sull’edizione torinese del quotidiano socialista tiene una rubrica («Sotto la Mole») di scritti e commenti sul costume, la società, le istituzioni.
Il 2 agosto 1916 compare un suo articolo intitolato «Pregiudicati» [1].
Antonio Gramsci si dichiara «caduto per caso nell’aula di un Tribunale». Non gli crediamo, ovviamente: l’istituzione giudiziaria non poteva sfuggire alla sua critica e alla sua denuncia della passività e del conformismo e alla sua iniziativa per un nuovo impegno morale prima ancora che politico.
Presente con attenzione, dunque, in un’aula dove si tengono processi per direttissima, egli dichiara, dopo avere assistito alla trattazione di alcuni processi, che vorrebbe avere «robusti polmoni per soffiare contro queste montagne di carta stampata che lasciano sulla fronte dei pazienti, che sfilano alla sbarra, il marchio che li manda per sempre alla geenna dei bassifondi: pregiudicato!»
I processi che Gramsci descrive potrebbero essere ai nostri occhi contemporanei di magistrati attenti alle statistiche e agli obiettivi di cui all’art. 37, un esempio di produttività:
«Trenta minuti di discussione, quattro processi per direttissima, quattro condanne, quattro nuovi pregiudicati. Anche i loro nomi sono ignoti ai giudici fino all’ultimo momento decisivo. La preoccupazione maggiore è di sbrigarsela in fretta, di poter uscire dall’aula fetida, di respirare. Nessun senso di responsabilità. Il pubblico ministero che, secondo i sacri principi dell’89, tutela la collettività e deve parlare in nome di tutti per il diritto che tutti hanno di vivere tranquilli, chiacchiera con un vicino; quando viene il suo turno domanda un nome, scorre un rapporto di polizia, ricorda un articolo del codice, e bolla. Il suo dovere, secondo lui, è di condannare sempre. La polizia ha già condannato; contraddire alla polizia richiederebbe uno sforzo, domanderebbe una persuasione.
E il caldo non consente sforzi, la fretta e la conversazione interessante col vicino non lasciano tempo alla persuasione di formarsi. La collettività lo paga, e lautamente, per essere tutelata; suppone in lui quel minimo di simpatia umana necessaria per non cacciare in prigione il primo venuto, per non creare di un onesto, che può anche aver fallito per un momento, un pregiudicato, un refrattario che ormai non penserà più che all’ingiustizia subita, che ormai, obbligato dal marchio infamante a vivere in margine, sarà preso dall’ingranaggio e diventerà il delinquente nato, a soddisfazione dell’antropologia criminale».
La tensione che provoca la riflessione, o piuttosto l’indignazione del giornalista e politico, si coglie immediatamente.
É la tensione tra la necessità o il desiderio dei magistrati di trattare quegli affari semplici e la sostanza della vita delle donne e degli uomini imputati, che da quei magistrati vengono trattati.
Si noti: Gramsci non fa questione, in questo caso, di origini della devianza, di cause sociali del delitto, di clemenza verso rei proletari.
É altro il tema: è l’intollerabilità della leggerezza nel comminare una sanzione.
In un passaggio successivo dell’articolo egli non a caso equipara nella sferzante critica, i «melodrammatici inquisitori», magistrati anche allora evidentemente autoreferenziali nell’ammantarsi della gloria presunta di grandi casi e della loro stessa enfasi in udienza, ai «commedianti in toga», magistrati produttivisti anche allora immersi nelle – ed emersi dalle – carte sapientemente evase.
La conclusione, per chi scrive di giustizia penale quasi un secolo fa, è che «persuasi che una giustizia veramente possa esistere» si debbano rifiutare «queste parodie che alle menti leggere sembra[no] dover essere tutta la giustizia, la sola giustizia possibile».
Cambiati i tempi, evolute le procedure, ma fagocitati dal diritto penale settori sempre più ampi delle attività umane, un redivivo Gramsci potrebbe oggi trovare materia per la sua polemica non solo nelle aule dei processi per direttissima.
La minuta quotidianità ci dice che molte richieste ed emissioni di decreti penali (l’inquietante quasi-ossimoro di una condanna senza processo), molte citazioni dirette a giudizio, altro non sono che la riproduzione della sequenza descritta da Gramsci: un nome, un rapporto di polizia, un articolo del codice.
Il vezzo che molto spesso accompagna la proclamata necessità di una standardizzazione estrema nella trattazione degli affari semplici – che rischia di significare abbandono della profondità della giurisdizione – si sostanzia nel proclamare di doversi dedicare a questioni più importanti e urgenti.
2. La durata più ragionevole del processo penale
Certamente il numero degli affari che al pubblico ministero e al giudice si impone di trattare può sembrare superiore alle forze.
Ma se ci deve essere in campo penale un principio regolatore che rende affrontabile il carico di attività giudiziaria, lo si dovrà rinvenire nel corollario logico dell’art. 111 della Costituzione: se l’esito prevedibile del processo è il proscioglimento, la durata più ragionevole è quella che coincide con nessun dibattimento ovvero nessun processo.
Dunque: l’esercizio dell’azione penale e il passaggio al giudizio (dall’udienza preliminare) poiché protraggono nel tempo la sottoposizione del cittadino al potere dello Stato di giudicarlo, si giustificano solo quando corrispondono alla concreta possibilità di pervenire alla sua condanna (e di dare effettiva e non solo conclamata risposta alle richieste di giustizia provenienti dalla collettività e dalle persone offese).
La domanda che il pubblico ministero prima e il giudice poi si devono ineludibilmente porre è: potrà, nel seguito del processo l’accusa essere sostenuta con successo? e cioè dare luogo, come «progetto», a una «realizzazione» consistente in una sentenza definitiva di condanna?
Questa impostazione, se coerentemente seguita, è tale da consentire di superare una riduttiva visione del procedimento penale come inarrestabile sequenza di atti governata da un principio di obbligatorietà dell’azione penale che da garanzia di eguaglianza dei cittadini rischia di divenire occasione di deresponsabilizzazione dei magistrati.
D’altro canto l’art. 112 della Costituzione necessita di una nuova lettura che lo collochi in relazione con le modifiche dell’articolo 111 – in particolare con la sottolineata terzietà del giudice [2] – con l’emergenza storica del principio di efficienza nell’impiego delle risorse di giustizia e – lo si delineerà sinteticamente più oltre – con il configurarsi di un possibile nuovo diritto del cittadino.
Il valore dell’obbligatorietà dell’azione penale si deve semmai coniugare con la necessità di un’attenta considerazione del principio di completezza delle indagini preliminari. Da intendere come dovere del pubblico ministero il cui inadempimento sia sanzionato a due livelli: processuale, con l’attivazione degli strumenti di non prosecuzione oltre (costituiti dagli artt. 125 disp. att. cpp, 425 cpp, 129 cpp) [3], a cui corrisponda una contrazione degli strumenti suppletivi del giudice (previsti con diversa caratura negli artt. 421-bis, 422, 441, quinto comma, 506 e 507 cpp); extraprocessuale, nella valutazione della professionalità in relazione non a cieche quantità «statistiche» di «affari trattati», ma a una vera statistica di efficienza finale nell’esercizio dell’azione penale.
L’«umana tendenza ad evitare il compimento di lavoro superfluo» autorevolmente evocata in questa materia [4], che potrebbe rivelarsi strumento di razionalizzazione nell’uso dello strumento del processo penale, cessa di esserlo quando si intraveda la non superfluità del «mandare avanti» numeri – soprattutto di affari penali semplici e dunque, spesso, di cittadini ridotti a numeri – perché questo garantisce dati spendibili nelle onnipresenti e onnirichieste statistiche.
3. Processi utili, persone reali
In una mutata prospettiva e sulla base delle differenti premesse ipotizzate, è anche possibile percepire un criterio di lettura unificante degli istituti introdotti dalla l. 28 aprile 2014, n. 67.
L’ampliamento della differenziazione del sistema sanzionatorio con la messa alla prova e la nuova disciplina del processo in assenza, sono, entrambi, istituti che corrispondono a uno sforzo di orientamento personalistico del processo penale di cognizione, già da tempo conosciuto nell’esecuzione penale.
Si celebrino processi utili, a persone reali, da sanzionare, se ne ricorrono le condizioni, in maniera individualizzata [5].
La stessa impostazione potrebbe offrire un criterio per affrontare il tema sensibile dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali.
Non dunque criteri di selezione che privilegino procedimenti penali «più importanti» secondo criteri desunti dal diritto penale sostanziale o da criteri latamente processuali: ma – premesso che visto dalla prospettiva del cittadino che lo vive ogni procedimento penale è ugualmente importante – si può pensare a una restrizione adeguata dell’impiego di risorse di giustizia penale in funzione della comparazione rigorosa tra ragionevole prospettiva finale di condanna e costo dell’invasione della vita del cittadino sottoposto a procedimento penale (o comunque in esso coinvolto): il criterio di priorità risiede nell’interpretazione fondata su questa base delle norme – a partire dall’art. 125 disp. att. cpp – che consentono la non prosecuzione oltre. Suscettibili di evolvere da: «è prevedibile il proscioglimento» a «non è ragionevolmente prevedibile la condanna» [6].
Si consideri che l’eccesso di domanda di giustizia penale verrebbe intercettato non da provvedimenti generali di natura amministrativo-organizzativa ma da singoli provvedimenti giurisdizionali motivati e dunque corrispondenti all’esigenza di spiegazione razionale e verificabile, secondo modelli legali.
La questione non è confinata al tema dell’efficienza del sistema. Lo spunto che le riflessioni di Gramsci ci forniscono è attuale perché viviamo in un’epoca in cui il processo di affermazione di nuovi diritti fa «apparire sbiadita una dimensione dei diritti riferita unicamente ad un soggetto astratto, ad un individuo disincarnato […] Questo processo ha via via fatto emergere una persona «inviolabile», da rispettare in ogni momento e in qualsiasi luogo» [7].
L’intersezione tra diritto allo svolgimento della propria personalità (art. 2 della Costituzione), dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che limitano di fatto la libertà del cittadino (art. 3, secondo comma), tutela della salute, intesa in senso ampio di benessere fisiopsichico, come fondamentale diritto del cittadino (art. 32, primo comma), limite all’esigibilità di prestazioni personali (art. 23) [8], diritto dell’individuo alla propria integrità psichica (art. 3, primo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 7 della Carta), genera il diritto del cittadino alla non interferenza nella sua vita quotidiana da parte dei pubblici poteri se non in quanto fondata e strettamente necessaria, in particolare se prodotta da richieste o censure direttamente provenienti da quei poteri; con una correlativa necessità di riconoscere la lesione di quel diritto nel caso in cui la richiesta o censura del potere pubblico nei confronti del cittadino si riveli non fondata e non strettamente necessaria [9].
Non un iperliberale laissez-faire, ma un progressista laissez-vivre.
Per limitarci all’oggetto specifico di queste riflessioni: l’evitabile protrazione nel tempo della sottoposizione del cittadino al potere dello Stato di giudicarlo viola il diritto del cittadino alla non interferenza.
Per declinare il tema in una quasi brutale – e retorica – domanda: incide maggiormente sulla serenità di vita di un associato per delinquere l’esecuzione di un'ordinanza con una contestazione a catena o su quella di un incensurato la notifica di un decreto penale i cui presupposti siano stati poco attentamente valutati?
Solo nel primo caso, poi, si è sviluppata una giurisprudenza, anche costituzionale [10] a tutela dei diritti individuali, più facilmente invece trascurati [11] negli affari penali semplici.
Si impone l’assunzione dei principi espressi nelle norme costituzionali e sovranazionali più sopra citate, ma anche nell’articolo 27 della Costituzione, come premessa per considerare la definizione dell’affare non un fine, ma un mezzo: perché – è il quasi ovvio complemento kantiano – il fine è il cittadino indagato o imputato o persona offesa.
Il singolo cittadino, non i numeri che ci rendono strutturalmente indaffarati, non le emergenze vere o presunte che ci allontanano dagli affari semplici per innalzarci in un sottilmente gratificante altrove.
Qui ci viene incontro un autore più datato.
Ammonisce Marco Aurelio (Pensieri, Libro I, 12) di «non affermare più volte e senza assoluta necessità, a voce o per iscritto, di essere troppo occupato, evitando così continuamente, con il pretesto di affari urgenti, i doveri che ci impongono le nostre relazioni con coloro che ci stanno accanto (περιεστωτα)».
Ai nostri indagati, ai nostri imputati, alle persone offese, che «ci stanno accanto» ci lega l’esigenza di «simpatia umana» (il συμπάϑειv) a cui ci richiama Gramsci.
E per quanto ciò possa sfuggire a noi, pratici del diritto, la gran parte di loro quando ci ascolta in un’aula o si vede notificare un atto a nostra firma ambisce a credere che quel magistrato li abbia considerati persone, non il numero in più di una statistica.
***
PREGIUDICATI
Testo comparso nella rubrica «Sotto la Mole», dell’edizione torinese de «L’Avanti!» ripubblicato in: «Piove, governo ladro! – Satire e polemiche sul costume degli italiani», a cura di Antonio A. Santucci, Editori Riuniti, 1996.
Non abbiamo molta simpatia per il romanticismo francese. Le gonfiezze, le prediche sociali di Victor Hugo ci lasciano discretamente indifferenti. Sterili diatribe, esse distruggono, ma non costruiscono neppure dell'arte. Prodotto di un feticismo sentimentale per il «popolo» non lasciano solco nelle coscienze, non lasciano stimoli alla fantasia creatrice. Eppure, caduti per caso nell'aula di un tribunale, ripensiamo alle enormi, titaniche sfuriate del romantico francese contro la giustizia dei suoi tempi, e vorremmo avere i suoi robusti polmoni per soffiare contro queste montagne di carta stampata che lasciano sulla fronte dei pazienti, che sfilano alla sbarra, il marchio che li manda per sempre alla geenna dei bassifondi: pregiudicato!
Trenta minuti di discussione, quattro processi per direttissima, quattro condanne, quattro nuovi pregiudicati. Anche i loro nomi sono ignoti ai giudici fino all'ultimo momento decisivo. La preoccupazione maggiore è di sbrigarsela in fretta, di poter uscire dall'aula fetida, di respirare. Nessun senso di responsabilità. Il Pubblico ministero che, secondo i sacri principî dell'89, tutela la collettività e deve parlare in nome di tutti per il diritto che tutti hanno di vivere tranquilli, chiacchiera con un vicino; quando viene il suo turno domanda un nome, scorre un rapporto di polizia, ricorda un articolo del codice, e bolla. Il suo dovere, secondo lui, è di condannare sempre. La polizia ha già condannato; contraddire alla polizia richiederebbe uno sforzo, domanderebbe una persuasione.
E il caldo non consente sforzi, la fretta e la conversazione interessante col vicino non lasciano tempo alla persuasione di formarsi. La collettività lo paga, e lautamente, per essere tutelata; suppone in lui quel minimo di simpatia umana necessaria per non cacciare in prigione il primo venuto, per non creare di un onesto, che può anche aver fallito per un momento, un pregiudicato, un refrattario che ormai non penserà più che all'ingiustizia subita, che ormai, obbligato dal marchio infamante a vivere in margine, sarà preso dall'ingranaggio e diventerà il delinquente nato, a soddisfazione dell'antropologia criminale.
Non abbiamo simpatia per il romanticismo francese. Eppure desidereremmo che uno di quei grandi retori, di quei feticisti del «popolo» inchiodasse alla gogna nel volume che corre fra le mani di tutti il tipo di questi barbassori del diritto, di questi irresponsabili che vengono assunti alla cattedra seguendo il pregiudizio che la collettività possa davvero essere difesa da loro. Perché pensiamo che noi non possiamo subito dare una sanzione punitiva a tanta leggerezza. Perché vorremmo, ma sarebbe pretendere troppo, che la furia di popolo spazzasse via queste montagne di carta bollata, questi commedianti in toga, odiosi non meno dei melodrammatici inquisitori di felice memoria.
E allora ci basterebbe che per effetto del libro romantico, essi fossero inseguiti, vociati per le vie come i gesuiti dai lunghi cappelli a tegola delle vecchie incisioni. Perché, persuasi che una
giustizia veramente possa esistere, la nostra irritazione morale potesse trovare sfogo contro queste parodie che alle menti leggere sembra dover essere tutta la giustizia, la sola giustizia possibile.
Antonio Gramsci, 2 agosto 1916
[1] Pubblicato, insieme ad altri interventi dello stesso periodo in Antonio Gramsci, Piove, governo ladro! Satire e polemiche sul costume degli italiani, Editori Riuniti, Roma, 1996, a cura di Antonio A. Santucci, pp. 53 ss.
[2] Sul punto, ampiamente: Francesca Ruggieri, voce Azione penale, in Enc. Dir. Annali, III, 2010, pp. 136-138.
[3] Si tratterebbe in definitiva di una rilettura costituzionalmente orientata di queste norme, sulla cui interpretazione la giurisprudenza di legittimità è peraltro tuttora restrittiva: si vedano, tra le più recenti: C. cass., II, n. 2250 del 14 novembre – 5 dicembre 2013; C. cass., II, n. 211 del 28 gennaio – 5 febbraio 2014, quanto all’art. 425 cpp; C.cass., III, n. 3914 del 5 dicembre 2013 – 29 gennaio 2014 quanto all’art. 129 cpp.
Considerazioni diverse e più avanzate vengono utilmente offerte da Luca Semeraro, Un’interpretazione alternativa dell’art. 425 cpp, Questione Giustizia on-line http://www.questionegiustizia.it/doc/Una_interpretazione_alternativa_art.425_cpp.pdf. Pur senza rifarsi a visioni agonistiche del processo, un mutamento culturale potrebbe tenere conto di quanto si prevede nei sistemi di common law, dove si consente alla difesa, dopo il prosecution case dell’accusa, di richiedere un no case to answer in accoglimento del quale il giudice può pronunciare l’acquittal, ponendo immediatamente fine al processo.
[4] E. Fassone, La declaratoria immediata delle cause di non punibilità, Milano, Giuffré, 1972, p. 34.
[5] Un’opzione già esplicitamente recepita nell'Ordinamento penitenziario (in particolare nell’art. 13 l. 26 luglio 1975, n. 354).
[6] É per ora estranea a previsioni normative esplicite un’ulteriore evoluzione in «condanna effettivamente eseguibile»: le future prassi applicative della messa alla prova e le interferenze con la sospensione condizionale della pena potrebbero offrire qualche spunto in tal senso.
[7] Stefano Rodotà, I nuovi diritti che hanno cambiato il mondo, La Repubblica, 26 ottobre 2004 (anche in: http://www.privacy.it/rodo20041026.html).
[8] Anche in questo caso intese in senso ampio: non solo come prestazioni positive coattive, ma anche come forme di interferenza dei poteri pubblici nella vita dei cittadini. Nella seduta 9 novembre 1946 la prima Sottocommissione della Commissione per la costituzione discusse del tema (con interventi di Basso, La Pira, Dossetti) valutando il possibile contrasto con l'affermazione della libertà e della dignità della persona umana e i limiti al potere statuale di limitare l'autonomia della persona umana http://www.nascitacostituzione.it/02p1/01t1/023/index.htm.
[9] La formulazione del diritto in termini negativi consente una copertura semantica più prudente rispetto alla costruzione, più ardua, in termini positivi, di un diritto del cittadino a una vita serena.
[10] Corte Cost. sent. n. 408 del 24 ottobre-3 novembre 2005.
[11] Un opinabile «trascurare» che forzando l’etimologia si potrebbe far derivare non dal –curare, che in latino ebbe più significati, evoluti nel tempo, bensì dal transcurrere, passar via di fretta; osservando che il ciceroniano neglegere, per trascurare, mostrarsi indifferente, genera l’epiteto (neghittoso) che talora pudicamente si assegna al magistrato divenuto inconsapevole del propri doveri.