Attualità di un’eresia. Per il compleanno di Magistratura democratica
1. Non tenterò di scrivere un pezzo di storia di Magistratura democratica (non ne ho lo spazio e, soprattutto, non ne sarei capace), ma proverò a cogliere, negli albori di un percorso di 60 anni, alcuni spunti e indicazioni utili ancora oggi. Ce ne sono. Molti. Ed emergono chiari, dai momenti alti e anche dagli errori.
Parto da un fatto: Md è stata ed è – per usare la definizione coniata da Pietro Ingrao nel Congresso di Giovinazzo del 6-8 novembre 1981[1] – uno strano animale, «un animale complesso», che vive in un doppio habitat: quello della giurisdizione e quello della società. Di quella stranezza v’è traccia già nel fatto che ha non una ma due date di nascita: il 4 luglio 1964, quando, nel Collegio “Irnerio” di Bologna, 27 magistrati ne sottoscrissero la mozione costitutiva[2], e il 20 dicembre 1969, quando, all’abbandono di gran parte del suo gruppo dirigente, seguì l’inizio di una nuova vita.
All’atto della nascita del 1964 gli obiettivi del gruppo erano chiari: portare nelle aule giudiziarie l’aria della Costituzione[3] e capovolgere l’organizzazione burocratica e piramidale dell’ordine giudiziario, realizzando l’uguaglianza delle funzioni dei magistrati[4]. Obiettivi di grande momento, ché, in quegli anni, la Costituzione era ben lontana dall’essere punto di riferimento univoco per giudici e pubblici ministeri[5] e la carriera era un potentissimo strumento di conformazione[6]. Gli obiettivi vennero in buona parte raggiunti negli anni successivi. È del 1965 il Congresso di Gardone dell’Anm, nella cui mozione conclusiva[7], approvata non senza contrasti, si parlò, per la prima volta in un’assise di giudici, di applicazione diretta dei princìpi costituzionali; ed è del 1966, con la cd. “legge Breganze”, la prima tappa dell’abolizione della carriera (che si compirà, poi, con la legge n. 831 del 1973). Furono cambiamenti di portata storica, che misero le basi per un diverso ruolo della giurisdizione e ad essi Magistratura democratica diede un contributo decisivo come componente più determinata e consapevole, ancorché non unica, dell’Anm.
Ma nel dicembre del 1969 i vecchi equilibri saltarono e ci fu la seconda – e più vera (almeno per me, sulle orme di Pino Borrè[8]) – nascita di Md. Il detonatore fu un evento all’apparenza minore: il cd. “ordine del giorno Tolin”, approvato a Bologna dall’assemblea nazionale di Magistratura democratica il 30 novembre 1969. Si trattava di un documento di critica degli orientamenti di polizia e magistratura nei confronti della libertà di informazione, che avevano indotto alcune tipografie milanesi e romane a rifiutare, per timore di processi penali, la stampa di documenti, tra gli altri, dell’Associazione giuristi democratici e dei Giovani liberali (e in cui il nome di Francesco Tolin, direttore responsabile di Potere Operaio, arrestato qualche giorno prima per reati di opinione su ordine della Procura della Repubblica di Roma e processato per direttissima, non era neppure citato)[9]. Il documento, esplicito e netto, era peraltro moderato nei toni e, a ben guardare, qualche intervento critico di giudici su procedimenti in corso già c’era stato in mesi e anni precedenti. Ma alcuni fatti esterni fecero precipitare gli eventi.
Ci fu anzitutto, il giorno successivo, la lettura del documento da parte dei difensori nell’udienza del processo a carico di Tolin davanti al Tribunale di Roma, con un seguito di polemiche e recriminazioni, acuite dalle dimissioni dall’Associazione magistrati del pubblico ministero del processo, Vittorio Occorsio.
Ma giocò, soprattutto, il clima politico circostante, descritto qualche anno dopo da Marco Ramat con straordinaria intensità: «Era il 12 dicembre 1969. Quello stesso pomeriggio ci fu la strage di Piazza Fontana, con il contorno delle bombe romane. Chi non ha vissuto di persona i giorni immediatamente successivi, non potrà mai, da quanto possa leggere e rileggere, rendersi conto di quello che succedeva. (…) Una lacerazione spaventosa. Una convinzione generale che Valpreda e Pinelli fossero i colpevoli. Un disorientamento della sinistra. (…) Corre trascinante l’idea, se non di una responsabilità diretta della sinistra intera, di una sua responsabilità oggettiva: le bombe di Milano sono di sinistra, sono la conseguenza, anzi l’acme dell’autunno caldo; sono il frutto inevitabile della pianta velenosa, quando si permetta che cresca e metta i fiori. Furore ci fu dentro la magistratura. L’ordine del giorno Tolin, datato solo 12 giorni prima, è il segnale preciso che “dentro” c’è qualcuno che sta dall’altra parte; qualcuno che sta insieme non proprio con le bombe anarchiche (…) ma con la sinistra, con la eversione oggettiva e latente costituita da tutta la sinistra. (…) Ecco i sovversivi, ecco gli eversori. Noi. Perché, parrà strano ma era così, fino ad allora era stato un canone indiscusso che tra i cardini dello Stato democratico vi fosse l’assoluto divieto di critica (…) sull’attività giudiziaria. (…) Nessuna critica politica sul giudice, mentre sta facendo il processo. L’aver violato questo divieto costituiva dunque attentato allo Stato democratico, allo stesso modo delle bombe di Milano; si vedeva una corrispondenza totale tra le bombe e quella nostra violazione, come una specie di divisione di ruoli, tra dentro e fuori le istituzioni, tra i due fatti e i relativi protagonisti. E se Magistratura democratica avesse tenuto duro sull’ordine del giorno Tolin, avrebbe autenticamente confermato proprio questa corrispondenza e questa sua complicità eversiva»[10].
In quel clima, il 20 dicembre, all’esito in un aspro confronto interno sulla opportunità/necessità di fare marcia indietro rispetto alla posizione assunta sul “caso Tolin”, Magistratura democratica si spaccò[11]. Ne uscì quasi tutto il gruppo dirigente: se ne andarono, in particolare, l’intera rappresentanza nel Consiglio superiore e sette dei dieci eletti nel Comitato direttivo dell’Associazione nazionale magistrati[12]. Ma Magistratura democratica tenne. Restò ferma sulle sue posizioni e sulla sua denuncia e già nelle elezioni associative di pochi mesi dopo riportò 554 voti (più della metà di quelli ante-scissione). Cominciò così una nuova storia, in cui il gruppo ridefinì il proprio ruolo.
Di questa vicenda mi occupo qui: per il fatto soggettivo di averla intensamente vissuta (fino al novembre 2010) e per quello oggettivo della sua importanza nella storia dell’istituzione giudiziaria (e non solo). Nell’impossibilità, per ragioni di spazio, di una più ampia trattazione[13] mi limiterò a toccare tre profili, presenti in nuce già in quel dicembre 1969: la fuoruscita dalla logica della corporazione, l’acquisita consapevolezza della politicità della giurisdizione e la convinzione della centralità delle garanzie come regole del processo. Sono profili che – a differenza di altri, contingenti e travolti dai successivi sviluppi – mantengono un’attualità stringente. Alcuni loro sviluppi li sottolineerò, altri stanno nel dibattito politico di questi giorni...
2. L’ordine del giorno Tolin, con le polemiche e lo scontro politico che lo accompagnarono, fu l’occasione della “seconda nascita” di Magistratura democratica, ma la ragione profonda di quella svolta non sta, ovviamente, in pressioni esterne. A determinarla fu una scelta consapevole: da parte di chi rimase e da parte di chi se ne andò. Per i primi, in particolare, la dimensione interna alla corporazione era diventata una via troppo stretta e improduttiva: «occorreva consumare uno scisma all’interno della cittadella della giurisdizione. (…) Rompere miti antichi, autorevoli, mai posti in dubbio. E, al tempo stesso, “disvelare” che non tutti i diritti erano tutelati in modo uguale, che l’accesso alla giustizia non era affatto uguale per tutti; e, viceversa, che esistevano, nella giurisdizione repressiva, sacche di impunità, essendo la repressione pressoché esclusivamente indirizzata a fasce di devianza marginale o contro il dissenso politico»[14]. In sintesi, si sentiva la necessità di essere contro: contro il permanente assetto burocratico della magistratura e contro un sistema giudiziario che – nonostante la Costituzione – continuava a produrre, per i più deboli, emarginazione e ingiustizia.
La critica dell’esistente fu radicale e altrettanto innovatore fu il progetto di cambiamento. Entrambi videro accomunate Md e Psichiatria democratica[15], anch’essa impegnata nel tentativo – utopia, lo definì F. Basaglia nella seconda edizione de L’Istituzione negata – di trasformare in senso egualitario ed emancipatorio l’istituzione più di ogni altra totale e separata, preposta alla cura/controllo della follia[16]. Fu un “assalto al cielo” che si estese negli anni successivi – lo dico per dare a chi non lo ha vissuto un’idea del clima politico dell’epoca – a istituzioni pur strutturalmente aliene da ogni forma di democratizzazione, come la polizia[17] e addirittura l’esercito[18]. Riuscì, quell’assalto, solo in parte, ma ha lasciato, nel settore della giustizia, acquisizioni importanti:
a1) la svolta del 1969 segnò, per Magistratura democratica, l’abbandono della dimensione sindacale e il transito nella sfera politico-culturale. L’Associazione nazionale magistrati cessò di essere il riferimento principale, diventando semplicemente uno dei settori di intervento del gruppo[19] e, da allora, l’autonomia dal contesto associativo non è più stata messa in dubbio, neppure nei momenti di maggior collaborazione con gli altri gruppi. Coerentemente con la nuova dimensione, Md mise in campo, fin dall’inizio, una produzione culturale inedita nella magistratura: Quale giustizia (il cui n. 1 risale al gennaio-febbraio 1970) ospitò scritti dei giuristi più accreditati dell’epoca e fu la prima rivista a pubblicare e criticare la giurisprudenza di merito; alcuni convegni del gruppo – penso a quelli sul ruolo del diritto e sul diritto del lavoro – sono stati pietre miliari nel settore; i congressi di Md sono stati frequentati da intellettuali e politici molto più che da esponenti di altri gruppi associativi. Ciò, oltre a produrre la fuoruscita dalle dinamiche corporative, incentivò, almeno nei primi anni, la coesione del gruppo e una elaborazione collettiva[20] di cui v’è traccia, tra l’altro, nella mancata indicazione degli autori nei commenti alla giurisprudenza su Quale giustizia. Questa connotazione si è nel tempo attenuata, ma non è del tutto scomparsa;
a2) la vicenda che portò alla nascita del gruppo ne determinò anche l’imprinting: la tensione verso una presenza culturale (auspicabilmente) egemonica più che la ricerca del consenso elettorale. La cosa fu chiara da subito: chi, nel dicembre del 1969, lasciò Md lo fece – talora dichiarandolo espressamente – non perché considerasse “sbagliato” l’ordine del giorno Tolin, ma perché preoccupato per il succedersi di proteste e dimissioni e timoroso di perdere seguito tra i colleghi; chi rimase era, invece, convinto che una modifica dello stato delle cose richiedesse gesti di rottura, anche contro i desiderata della maggioranza dei magistrati[21]. Nessun atteggiamento elitario e nessun minoritarismo in ciò, ma la convinzione che il motore del cambiamento stia, più che nel numero, nella forza delle idee. Convinzione che ebbe, negli anni, significative conferme: anche nella vita del Consiglio superiore che ha realizzato le maggiori innovazioni del corpo giudiziario nella consigliatura 1981-1986, con una rappresentanza di Md di soli tre componenti, capaci peraltro di un’egemonia culturale mai più successivamente raggiunta[22]. Superfluo dire che quell’opzione non fu indolore e che spinte contrarie hanno, negli anni, attraversato il gruppo: nel 1978 ci fu chi, pur rimasto in minoranza, venne attratto dal progetto, nato in Terzo Potere e in Impegno per la Costituzione, di costituire un’aggregazione moderata (subito definita “correntone”) in grado di acquisire i consensi della maggioranza della magistratura[23]; e non è forse nato da un’analoga impostazione il progetto di Area che ha, improvvidamente, coinvolto Md tra il Congresso di Napoli del 2010 e il 2020? Si tratta di spinte che hanno caratterizzato anche la politica tout court: fallimentari, ma ostinatamente perseguite;
a3) la nuova Md nacque a seguito di un’interferenza e ciò è rimasto – seppur con alterne vicende – una sorta di “marchio di fabbrica”. L’ordine del giorno Tolin, lungi dall’essere considerato un incidente di percorso (come avrebbero voluto gli scissionisti del ‘69), tracciò un percorso[24]. Fu il massimo dell’eresia, la negazione del principio di tutte le burocrazie secondo cui i panni sporchi si lavano in famiglia, una cosa inaudita per dei magistrati. Ma fu uno strumento fondamentale per manifestare, all’interno e all’esterno, che la giurisdizione non è un’attività meccanica ma una scelta, che spesso ne esistono altre possibili, che in un sistema democratico la critica specifica e argomentata è la necessaria integrazione dell’indipendenza della magistratura. La pratica si è rarefatta col passar del tempo: in parte perché la sacralità della giurisdizione è venuta meno nella società e l’attività giudiziaria è, oggi, oggetto di un continuo dibattito pubblico che coinvolge diversi soggetti; in parte per una forma di autocensura, sviluppatasi soprattutto negli anni del berlusconismo, nei quali – anche come reazione ad attacchi gratuiti e delegittimanti – Md si è, a volte, associata a posizioni corporative che considerano ogni critica (pur argomentata) un’aggressione o un atto di lesa maestà. Non è stato un bene perché ha trasmesso all’opinione pubblica l’immagine di una magistratura omogenea anche nelle cose indifendibili, offuscando la visibilità stessa di una magistratura diversa;
a4) la svolta del dicembre 1969 non restò senza conseguenze nella magistratura e nell’establishment politico e mediatico. Md venne estromessa dal governo associativo con toni da crociata[25]. Magistratura indipendente arrivò a convocare a Roma, a fine gennaio, un’assemblea con all’ordine del giorno la “pubblica deplorazione” di Magistratura democratica, organizzando pullman di magistrati dalle sedi periferiche per assicurarne la riuscita[26]. Più in generale – come scriverà G. Borrè[27] nel 1992 –, la scelta «ci pose per lungo tempo ai margini del sodalizio associativo della magistratura e forse è ancora oggi una ferita non chiusa»; addirittura, fino al primi anni del nuovo millennio, rimase in vita, per i dirigenti storici di Md, una sorta di conventio ad excludendum dagli incarichi direttivi[28]. All’esterno, l’establishment e la destra arrivarono – come si è già ricordato – ad adombrare una contiguità di Md con gli autori della strage di Piazza Fontana[29] e accuse non diverse hanno costellato, anche nel prosieguo, la storia del gruppo[30]. Irresponsabilmente, come ovvio, ma anche con scarso acume politico, ché le prese di posizione di Md di quegli anni contribuirono, in realtà, ad avvicinare alla giurisdizione settori della società da sempre diffidenti od ostili nei suoi confronti[31], tanto che, con uno sguardo retrospettivo, si può dire che esse ebbero un ruolo inclusivo e, dunque, funzionale alla tenuta del sistema democratico. Ciononostante, la diffidenza e l’ostilità permangono nel ventre molle della società e della politica, a giudicare dal fatto che, a fronte di qualsivoglia frizione sociale che coinvolge la giurisdizione, è immancabile l’evocazione di una responsabilità di Md.
3. Si è sinora parlato essenzialmente di metodo, ma le novità introdotte da Md furono, ovviamente, soprattutto di contenuto. Anche qui mi limito ad alcuni cenni:
b1) il primo – e più dirompente – profilo dell’opera di demistificazione del nuovo gruppo fu la denuncia della falsa neutralità della giurisdizione e della magistratura. Irrompendo sulla scena, Md disse senza mezzi termini (e talora anche in modo provocatorio) che “il re era nudo”, che la politicità è un carattere indefettibile della giurisdizione, che gli orientamenti conservatori e spesso reazionari della giurisprudenza erano per lo più scelte e non vincoli di legge, che la vera politicizzazione era quella dei giudici sedicenti “apolitici”[32]. Esemplare fu la rivista Quale giustizia: veicolo della giurisprudenza alternativa che si andava affermando ma, ancor più, galleria degli “orrori” che si consumavano in preture e tribunali nei confronti delle classi subalterne e dei dissenzienti. Il carattere lato sensu politico della giurisdizione è oggi evidente e riconosciuto dalla maggioranza degli studiosi e degli osservatori. Potremmo dire che affermarlo è quasi una banalità. Ma, agli albori degli anni settanta, sostenerlo fu dirompente. Quando Franco Marrone, il 2 maggio del 1970 a Sarzana, disse che i magistrati sono “servi dei padroni” affermò – con un linguaggio discutibile – una cosa difficilmente contestabile[33], ma ciò che ne ne seguì fu un processo per vilipendio della magistratura persino nei confronti di chi solidarizzò con lui[34]. E ciò mentre le iniziative penali politicamente orientate venivano addirittura rivendicate da magistrati che si proclamavano “apolitici”[35];
b2) in quel contesto, il tentativo di Md fu quello di realizzare un modello altro di magistrato: indipendente, inserito nella società, partecipe del dibattito pubblico, capace di dialogo con la politica (con «la grande politica della Costituzione», non anche con «la politica di partito, contingente, da cui deve restare estraneo»[36]), attento ai bisogni delle classi subalterne (destinatarie degli interventi “promozionali” imposti dall’art. 3 cpv. della Carta fondamentale). Un modello descritto da Borrè con parole di straordinaria lucidità ed efficacia: «[In forza dell’art. 101 Costituzione] i magistrati (dico i magistrati e non i giudici perché congiuntamente considero anche l’art. 112 Costituzione) “sono soggetti soltanto alla legge”. È una norma che non significa ritorno ai vecchi miti dell’onnipotenza della legge e del giudice “bocca della legge”, perché l’accento, in essa, cade sull’avverbio “soltanto”, e dunque, prima ancora che la fedeltà alla legge, essa comanda la disobbedienza a ciò che legge non è. Disobbedienza al pasoliniano “palazzo”, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici e dunque libertà interpretativa. Quindi pluralismo, quindi legittima presenza di diverse posizioni culturali e ideali all’interno della magistratura»[37]. Evidente il ribaltamento della concezione funzionariale di magistrato allora (e non solo allora) dominante. Con una precisazione. Che Magistratura democratica sia stata (sia), culturalmente parlando, “la sinistra” della magistratura è noto e da sempre rivendicato[38]. Ma ciò non ha niente a che vedere con un presunto intento di sostituire la tradizionale egemonia della destra sulla magistratura con una egemonia della sinistra (o, addirittura, dei suoi partiti). La realtà è assai diversa e gli obiettivi di Md ben più ambiziosi e più profondamente innovativi: legati non a contingenti spostamenti dei rapporti di forza ma a un modo diverso, alternativo di concepire la magistratura e la giurisdizione nel sistema politico. Anche qui, 55 anni dopo, siamo ancora a metà del guado. Ma, nel periodo in cui Md ha allentato la tensione ideale sul punto, la situazione della magistratura ha subìto una drammatica involuzione, conforme a quanto denunciato anni prima, con singolare preveggenza, da G. Zagrebelsky: «Se solo per un momento potessimo sollevare il velo e avere una veduta d’insieme, resteremmo probabilmente sbalorditi di fronte alla realtà nascosta dietro la rappresentazione della democrazia. Catene verticali di potere, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro gli uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell’economia e della finanza, dell’università, della cultura, dello spettacolo, dell’innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni eccetera, che secondo i propri principi dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità»[39]. Sembra la descrizione della situazione portata alla luce nel 2019 dall’affaire Palamara[40];
b3) la critica della pretesa neutralità del diritto portò con sé – come si è detto – l’affermazione che l’interpretazione è scelta: nelle modalità e nei contenuti. Di qui il pluralismo interpretativo e il rifiuto della concezione del giudice “bocca della legge”. E, per converso, la scoperta dell’art. 3 cpv. Costituzione e la giurisprudenza alternativa, ovvero «la promozione di scelte giudiziarie nelle quali si affermi la prevalenza degli interessi funzionali all’emancipazione delle classi subalterne, cui del resto la Costituzione accorda specifica tutela, sugli interessi ad essi virtualmente contrapposti e che non sono protetti da analoga garanzia costituzionale»[41]. Anche qui con una precisazione: il costante richiamo, stringente ed esplicito, alla Costituzione come riferimento fondamentale per l’interpretazione[42] fa giustizia di ogni confusione tra giurisprudenza alternativa e “diritto libero” (la cui pratica è stata da taluno, fantasiosamente, associata a Md, ma che è stata sempre contestata con chiarezza, fin dagli anni più caldi, dai suoi esponenti[43]). Alla giurisprudenza alternativa si accompagnò un marcato interventismo, soprattutto da parte dei pretori (subito definiti “d’assalto”), a tutela degli interessi collettivi e in reazione alla tradizionale inerzia delle procure nei confronti della criminalità dei potenti[44]. Fu una svolta fondamentale, che ha inciso profondamente e positivamente sull’effettività dell’azione penale e della stessa giurisdizione. Stanno lì anche le basi di una cultura e di una pratica che consentirono alla magistratura di affrontare con professionalità e rigore, anni dopo, le prove difficili del contrasto alle mafie, al terrorismo e a Tangentopoli. Non sempre, certo, l’interventismo giudiziario è stato esente da vizi, che non sfuggono a uno sguardo retrospettivo laico. A volte, essi sono stati colti e denunciati da Md già nel momento del loro verificarsi[45], ma altre volte così non è stato, e forzature ed eccessi hanno fatto breccia in settori del gruppo o ad esso vicini. È accaduto anche in tempi recenti, in cui si è verificato un pericoloso slittamento dell’azione penale e della giurisdizione in campi non loro. Due esempi per tutti: il processo a carico di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, in cui alla contestazione, da parte della Procura di Locri, di reati specifici (per lo più evanescenti, come accertato, infine, dalla Corte d’appello di Reggio Calabria) si è accompagnata un’attività istruttoria di anni, con enorme dispendio di mezzi, finalizzata a delegittimare, riconducendolo a una (inesistente) fattispecie di associazione per delinquere, un modello di accoglienza; e, poi, l’attività repressiva del movimento di opposizione alla nuova linea ferroviaria Torino-Lione in Val Susa, condotta dalla Procura della Repubblica di Torino alla stregua di una operazione di ordine pubblico, come dimostrato per tabulas dalla costituzione, nell’ufficio, di un apposito pool preposto alle indagini prima ancora dell’esplodere della contestazione (sic!), così attribuendo a indagini e processi una curvatura squisitamente preventiva propria dell’autorità amministrativa assai più che della giurisdizione. Si tratta – lo ripeto – di forzature e sviamenti nati anche nella cultura di Md, ma ben lontani dalla sua impostazione originaria, che non possono restare senza un’attenta riflessione critica.
4. C’era infine, nell’ordine del giorno Tolin, un tratto allora inusuale ma destinato, nei decenni successivi, ad acquisire un ruolo determinante: quello della centralità delle regole nel processo (in particolare, quello penale). Si affacciava, in altri termini, il tema del garantismo. Anche qui alcune considerazioni, a cavallo tra passato e presente:
c1) essere custodi credibili delle regole implica assoluta lealtà nei confronti delle stesse e non tollera né scorciatoie in vista del risultato, né forzature sostanzialistiche. Sempre, ovviamente; ma a maggior ragione col crescere dei poteri della magistratura, delle aspettative dell’opinione pubblica e della percezione di sé di giudici e pubblici ministeri. L’essenza del garantismo è semplice: «assolvere in mancanza di prove quando l’opinione comune vorrebbe la condanna o condannare in presenza di prove quando la medesima opinione vorrebbe l’assoluzione»[46]. Nessuna sottovalutazione della funzione di accertamento propria del processo penale e nessun cedimento a strategie processuali ostruzionistiche o alla «strumentalizzazione cavillosa delle forme giuridiche a fini di sabotaggio delle funzioni sostanziali di tutela proprie della giurisdizione»[47], ma anche nessuna concessione a chi vorrebbe trasformare il processo penale in strumento di governo repressivo della società. Questa impostazione – già implicita nell’ordine del giorno Tolin – venne esplicitata da Md con particolare nettezza nel Congresso di Rimini del 1977 (intervenuto mentre il Paese viveva drammatiche conflittualità sociali ed era più che mai attivo il terrorismo politico di destra e di sinistra), la cui mozione finale, dopo aver fermamente condannato le diverse forme di violenza in atto, proseguiva con l’affermazione che «nella specifica attività professionale Md deve impegnarsi a garantire un completo e libero dispiegarsi delle legittime dinamiche sociali nascenti dalla crisi, anche se ritenute contraddittorie rispetto alle strategie prevalenti nel movimento operaio. Ciò non significa né aderire né immedesimarsi con tali lotte, ma semplicemente consentire che le istanze da esse espresse giungano alle sedi politiche cui compete la responsabilità di mediarle e non siano preventivamente rimosse o bloccate da interventi repressivi istituzionali». Anche su questo punto ci sono stati, negli anni, dei cedimenti. È accaduto, in particolare, quando, a fronte di fenomeni come il richiamo strumentale al principio di obbligatorietà dell’azione penale, l’abuso della custodia cautelare, la dilatazione abnorme del concorso di persone nel reato, l’improprietà delle contestazioni (tese a stigmatizzare la pretesa gravità dei fatti più che a dare la veste giuridica corretta), l’uso spregiudicato del processo a mezzo stampa, ci sono stati silenzi o, addirittura, capovolgimenti della pratica delle interferenze attraverso improvvide attestazioni di correttezza[48]. Quel periodo sembra superato, almeno in Md, ma lo sdoganamento di disinvolte forzature istruttorie ha inevitabilmente lasciato segni e ferite;
c2) come la pratica della giurisprudenza alternativa, così il richiamo alla necessità di un rigoroso garantismo è stato – ed è – ragione di scontro dentro e fuori la magistratura. C’è, in particolare, chi – in una prospettiva critica verso Md – ha sostenuto esservi incompatibilità tra interventismo e garantismo. Ancora una volta il rilievo è smentito dai fatti. Lo dimostra, tra l’altro, la circostanza che Md seppe esprimere – come si è detto – critiche garantiste anche nei confronti di un’azione giudiziaria come quella di Tangentopoli, pur sempre sostenuta a fronte di critiche strumentali e delegittimanti. Aggiungo che la necessità del garantismo come regola e limite ineludibile dell’intervento giudiziario è stata, da Md, affermata e affinata proprio nei momenti difficili come gli anni bui del terrorismo[49];
c3) il garantismo – qui un ulteriore punto dell’analisi di Md, ripreso dall’insegnamento di L. Ferrajoli[50] – non è solo un vincolo nel processo e un limite strutturale dell’intervento penale, ma è l’ancoraggio fondamentale della legittimazione della magistratura (nei momenti alti come in quelli di disgrazia), da altri cercato, impropriamente, nel consenso della pubblica opinione. Il garantismo, in altri termini, prima ancora che una tecnica è una filosofia. Questa consapevolezza è stata illuminante nella storia di Md, inducendola a un permanente distinguo rispetto a impostazioni che, pur collocandosi sotto le sue insegne, ne costituiscono in realtà negazione. È il caso delle posizioni che pretendono di vincolare alle regole la sola giurisdizione, proclamando contestualmente l’onnipotenza della maggioranza, l’incontrollabilità della politica, l’assenza di limiti per il mercato: questo garantismo strumentale, diretto a depotenziare la magistratura (che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico), nulla ha a che vedere con un sistema di stretta legalità. E non dissimile è quella sorta di garantismo selettivo, che gradua le regole in base allo status sociale dell’imputato, auspicando codici distinti per i “galantuomini” e per i “briganti”: le garanzie o sono veicolo di uguaglianza o si degradano a strumento di sopraffazione e privilegio. Non si può dire che la lezione non sia attuale...
5. Al termine di questo breve viaggio nella nostra piccola storia, non posso omettere un cenno, pur inevitabilmente minimo, al presente. Md è nata e ha consumato la sua eresia in anni di sommovimenti politico-culturali e di riforme che hanno cambiato il Paese, in un periodo di grande partecipazione e tensione ideale nel quale era forte la presenza della sinistra. Tutto questo ne ha favorito la nascita e il consolidamento. Oggi la situazione è profondamente e drammaticamente diversa. I venti di destra soffiano impetuosi ed è in atto un tentativo di restaurazione di quell’ancien régime contro cui Md è nata. Nella società, nella politica, nella giustizia. Ciò pone una domanda che non può essere ignorata: c’è ancora spazio per l’eresia o è una storia finita e bisogna “tirare i remi in barca” attestandosi nella difesa dell’esistente (o, almeno, di una sua parte)? La mia risposta è che di quell’eresia c’è più che mai bisogno, come in quella fine del 1969 (quando iniziò la stagione delle stragi di Stato) e in molti altri successivi momenti difficili. Certo, il cambiamento del contesto impone la ricerca di nuove strade, la disponibilità a navigare in mare aperto, la capacità di misurarsi con le riforme istituzionali e ordinamentali in cantiere (e che ci saranno, anche se è ancora parzialmente indeterminato il come), l’intelligenza di promuovere nuove alleanze con l’avvocatura e il mondo ampio dei giuristi (rifiutando il corporativismo e l’autoreferenzialità sempre in agguato), l’ostinata lungimiranza di guardare ai movimenti che ancora animano la società. Consapevoli che la strada maestra resta l’eresia, perché l’omologazione e il passaggio nel campo dell’ortodossia non si confà a chi vuole un mondo diverso e più giusto. Anche a costo di essere temporaneamente emarginati e non compresi. È una strada possibile. E, dopo anni di incertezza, ne vedo solide basi nell’attuale Magistratura democratica. Per accompagnare questo percorso, vi consegno un messaggio di Franco Basaglia, risalente al 1979, quando il periodo eroico di Md e di Psichiatria democratica si stava chiudendo ed era passato poco più di un anno dalla legge n. 180. Basaglia, in un intervento che può ora leggersi in Conferenze brasiliane[51], disse parole che in allora potevano sembrare sorprendenti, ma che erano, in realtà, profetiche e restano un insegnamento quanto mai attuale anche al di là della psichiatria: «La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare».
1. L’intervento può leggersi in G. Cotturri e M. Ramat, Quali garanzie, De Donato, Bari, 1983, pp. 481 ss.
2. La mozione, diventata poi il documento di presentazione del gruppo per le elezioni associative del 1964, può leggersi al seguente link: www.magistraturademocratica.it/data/doc/3014/programma-md-elezioni-anm-1964.pdf.
3. «La grande e innovatrice portata della Costituzione, il suo più profondo e autentico significato politico, sta poi nel fatto che ai principi fondamentali del nuovo regime non si volle attribuire il valore di vaghe idealità, ma, al contrario, la natura e l’efficacia di vere e proprie norme giuridiche, vincolanti, per il futuro, ogni potere statuale ed ogni contingente maggioranza politica (…). In particolare, la garanzia giurisdizionale della magistratura si estrinseca non solo attraverso il controllo preliminare di conformità della legge ai principi del nuovo regime, tradotti in norme giuridiche primarie, ma anche, e con maggiore efficacia, nella assunzione degli stessi a canoni interpretativi, sotto forma di principi generali dell’ordinamento giuridico» (mozione 4 luglio 1964, cit.).
4. «Si segnala l’indefettibile esigenza [della] eliminazione dell’attuale assetto gerarchico-piramidale, ricalcato sul modello dell’organizzazione amministrativa, e ottenuto sia con l’abusiva entificazione dei suddetti momenti e delle suddette ripartizioni, sia con l’attribuzione delle varie attività processuali, così spersonalizzate ed oggettivate, ad organi precostituiti e stabili, disposti sui gradini di una scala, culminante nella Corte di Cassazione da un lato, nel Ministro della giustizia dall’altro. (…) Ne conseguirà, logicamente, la distribuzione dei magistrati su una linea orizzontale, che a ciascuno riconoscerà, e per intero, la titolarità della funzione, ancorché frazionato ne risulti in atto il mero esercizio» (mozione 4 luglio 1964, cit.).
5. Tale condizione era, in parte, naturale posto che gran parte dei magistrati e la totalità dei dirigenti degli uffici si erano formati e avevano svolto la loro attività in periodo fascista ed erano, dunque, impregnati di una cultura a dir poco pre-costituzionale.
6. Questa l’icastica descrizione della situazione effettuata, anni dopo, da Franco Cordero: «Influiva su tale sintonia [con il sistema di potere politico ed economico – ndr] il fatto che ogni magistrato in qualche modo dipendesse dal potere esecutivo quanto a carriera; i selettori erano alti magistrati col piede nella sfera ministeriale; tale struttura a piramide orientava il codice genetico; l’imprinting escludeva scelte, gesti, gusti ripugnanti alla bienséance filogovernativa; ed essendo una sciagura l’essere discriminati, come in ogni carriera burocratica, regnava l’impulso mimetico» (Id., I poteri del magistrato, in Indice penale, n. 1/1986, p. 31).
7. Nella mozione, che può leggersi in A. Pizzorusso, L’ordinamento giudiziario, Il Mulino, 1974, p. 31 (nota), si afferma, tra l’altro: «Spetta al giudice, in posizione di imparzialità e indipendenza nei confronti di ogni organizzazione politica e di ogni centro di potere: 1) applicare direttamente le norme della Costituzione quando ciò sia tecnicamente possibile in relazione al fatto concreto controverso; 2) rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino ad essere ricondotte, nel momento interpretativo, al dettato costituzionale; 3) interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale».
8. G. Borrè, Le scelte di Magistratura democratica, relazione introduttiva al seminario “Giudici e democrazia”, organizzato da Magistratura democratica a Frascati nel novembre 1992, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Franco Angeli, Milano, 1994, pp. 41 ss., poi anche in L. Pepino (a cura di), L’eresia di Magistratura democratica. Viaggio negli scritti di Giuseppe Borrè, Franco Angeli, Milano, 2001, pp. 231 ss.
9. Questo il testo completo del documento: «Md, di fronte ai ripetuti recenti casi che hanno messo in pericolo in vario modo la libertà costituzionale di manifestazione del pensiero ed hanno provocato allarme ed apprensione nell’opinione pubblica e nella stampa, la quale ultima ha giustamente rilevato che i provvedimenti adottati hanno creato un clima di intimidazione particolarmente pesante verso determinati settori politici ai quali sono perciò negate quelle libertà, esprime la propria profonda preoccupazione rispetto a quello che non può apparire che come un disegno sistematico operante con vari strumenti e a vari livelli, teso a impedire a taluni la libertà di opinione, e come grave sintomo di arretramento della società civile; chiede che i poteri dello Stato, ciascuno nell’ambito delle proprie attribuzioni, si impegnino con decisione per rimuovere le origini di tale fenomeno, mediante riforme legislative (abolizione dei reati politici di opinione) e cambiamento di indirizzo dell’azione svolta, con particolare riguardo all’attività di vigilanza della pubblica sicurezza sull’esercizio delle tipografie; chiede che l’Associazione nazionale magistrati indìca, nel più breve tempo possibile, un convegno nazionale per dibattere i temi di questo ordine del giorno».
10. M. Ramat, Una piccola storia in una grande storia, introduzione a M. Ramat (a cura di), Storia di un magistrato. Materiali per una storia di Magistratura democratica, Manifestolibri, Roma, 1986, p. 25.
11. La vicenda della scissione è analiticamente raccontata da M. Ramat nello scritto citato alla nota precedente e in Gli “spiccioli” di Magistratura democratica. La nascita di MD, in S. Mannuzzu e F. Clementi (a cura di), Crisi della giurisdizione e crisi della politica. Studi in memoria di Marco Ramat, Franco Angeli, Milano, 1988, pp. 316 ss. Varie testimonianze di suoi protagonisti si trovano in S. Pappalardo, Gli iconoclasti. Magistratura democratica nel quadro della Associazione Nazionale Magistrati, Franco Angeli, Milano, 1987. Per un più ampio inquadramento della vicenda, cfr. G. Palombarini, Giudici a sinistra. I 36 anni della storia di Magistratura democratica: una proposta per una nuova politica della giustizia, ESI, Napoli, 2000, pp. 70 ss.
12. I fuorusciti costituirono il gruppo “Giustizia e Costituzione”, che assunse poi la denominazione “Impegno Costituzionale” e, successivamente, si fuse con la vecchia corrente Terzo Potere, dando vita a “Unità per la Costituzione”.
13. Per qualche maggior approfondimento, rinvio a L’attualità di un’eresia. Contributi per una storia di Magistratura democratica, in L. Pepino (a cura di), L’eresia di Magistratura democratica, op. cit., pp. 11 ss. (poi pubblicato sul n. 1/2002 di Questione giustizia e oggi consultabile nel sito di Md: www.magistraturademocratica.it/data/doc/3014/storia-md-livio-pepino.pdf).
14. Così G. Borrè, Le scelte di Magistratura democratica, op. cit.
15. La data di nascita di Psichiatria democratica si colloca più in là, nell’ottobre del 1973, ma i fermenti che portarono alla sua costituzione sono coevi a quelli della nascita di Magistratura democratica. Basti ricordare che è del 1968 la prima edizione de L’istituzione negata, curata da F. Basaglia e pubblicata da Einaudi, che ne è, in qualche misura, il fondamento teorico.
16. Questione aperta, ché lo stesso Basaglia, nella seconda edizione de L’istituzione negata appena citata, si interrogava sul fatto se ciò fosse possibile oppure se si trattasse di «una nuova utopia che si tramuta in una nuova ideologia», con il solo effetto (tanto consolatorio quanto sterile) di «consentirci di sopportare il tipo di vita che siamo costretti a vivere».
17. Il frutto che resta, mai maturato appieno, è la sindacalizzazione e militarizzazione della polizia, realizzate diversi anni dopo con la legge 1° aprile 1981, n. 121.
18. Sulle proteste e i tentativi di democratizzazione nelle Forze armate si può vedere da ultimo, con note di riferimento, M. Di Giorgio, Il braccio armato del potere. Storie e idee per conoscere la polizia italiana, Nottetempo, Milano, 2024, pp. 134 ss.
19. Non per questo se ne trascurò l’importanza, ché, anche in epoca risalente, autorevoli esponenti di Md (come Salvatore Senese, Elena Paciotti, Franco Ippolito, Edmondo Bruti Liberati e Nello Rossi) assunsero cariche associative di rilievo, compresa la presidenza e la segreteria.
20. Esemplare di questo atteggiamento è un aneddoto raccontato da M. Ramat nella già citata Piccola storia e riferito al primo segretario della rinnovata Md, Generoso Petrella: «Montava in Md (…) il “momento collettivo”; una volta, chiacchierando a tavola, in una delle tante occasioni di ritrovo, mi venne da esprimere il rammarico che tutto questo pensare “insieme”, tutto questo fare “insieme” era sì importante e bello, ma alla fine sottraeva a ciascuno di noi il gusto, la capacità di esprimersi personalmente, di ricercare individualmente, e così avevamo una ricchezza non sfruttata. “Codesto (e quando Generoso cominciava col dire codesto significava solennità, gravità del discorso), codesto è un modo arcaico, egoista di pensare; è un modo intellettualistico che per fortuna, caro mio, abbiamo superato o da superare”».
21. Le testimonianze di alcuni dei protagonisti della vicenda, dell’una e dell’altra parte, possono leggersi nel già ricordato libro di S. Pappalardo, Gli iconoclasti, op. cit., pp. 225 ss.
22. Di quella stagione dell’autogoverno si può avere un’idea attraverso gli scritti di Salvatore Senese, che ne fu protagonista, nel Consiglio superiore, insieme a Edmondo Bruti Liberati e a Franco Ippolito. Si vedano, in particolare, Il Consiglio superiore della magistratura: difficoltà dell’autogoverno o difficoltà della democrazia?, in Questione giustizia, n. 3/1983, pp. 477 ss. e Per un forte rilancio dell’autogoverno: uscire dall’ambiguità delle formule, ivi, n. 1/1984, pp. 15 ss.
23. Vds., sul punto, G. Palombarini, Giudici a sinistra, op. cit., p. 131.
24. La pratica delle interferenze ebbe inizialmente una certa frequenza, fino a diventare oggetto di satira: in Alto gradimento, trasmissione radiofonica di successo dei primi anni settanta, accadeva non di rado che la voce stridula di Max Vinella interrompesse uno dei conduttori (Renzo Arbore e Gianni Boncompagni) con l’affermazione «Ci arriva in questo momento un comunicato di Magistratura democratica»...
25. Esemplare, anche in questo caso, la ricostruzione di M. Ramat ne Una piccola storia (op. cit., p. 27): «Nella riunione del Comitato Centrale associativo, il 21 dicembre, fummo presi metaforicamente a sassate. Dimissionaria la giunta, ordini del giorno contro di noi approvati dalla maggioranza, con astensione da parte dei nostri ex. Margadonna (Terzo Potere) tuonava discorsi da Piazza Venezia».
26. Personalmente ho il ricordo vivido, pochi giorni dopo il mio ingresso in magistratura, di un’assemblea associativa torinese in cui Magistratura indipendente lanciò l’iniziativa. Superfluo dire che fu, per me, la spinta decisiva (se mai ce ne fosse stato bisogno) ad aderire a Md.
27. Le scelte di Magistratura democratica, op. cit., p. 43.
28. Anche qui faccio ricorso a un ricordo o, meglio, a un’esperienza personale. Quella della nomina, nel novembre 2008, quando ero componente del Consiglio superiore, del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione in cui Vitaliano Esposito venne, incredibilmente, preferito a Giovanni Palombarini e a Salvatore Senese. Riporto – a titolo di documentazione – alcuni passaggi del mio intervento di allora nel plenum del Consiglio: «Dico senza timore di smentite ciò che in quest’aula tutti sanno (al di là delle parole di circostanza). Tra i due candidati oggi proposti, non c’è paragone. Se fossero tolti dai fascicoli personali i nomi dei loro titolari, individuare quello più ricco e autorevole sarebbe un gioco da bambini o un esempio di scuola. (…) La ragione [della scelta di Esposito] – anche questo lo sappiamo tutti – è, lo dico soppesando le parole, il riemergere (o, meglio, il perdurare) di una convention ad excludendum, per gli incarichi di maggior rilievo, nei confronti di candidati espressi da Magistratura democratica, da quel gruppo – a cui mi onoro di aderire – che, per usare parole di Giuseppe Borrè, ha consumato una eresia nella magistratura, prendendo sul serio la Costituzione repubblicana sia in termini di indipendenza reale della magistratura sia in termini di eguaglianza di tutti davanti alla legge. Di questa eresia Salvatore Senese è stato ed è una delle espressioni più alte. Escluderlo, dopo avere accantonato in commissione Giovanni Palombarini (anch’egli esponente autorevolissimo di quella cultura) e votare Esposito, anche da parte di lo aveva ritenuto inidoneo all’incarico di procuratore generale aggiunto e nonostante le ombre sulla sua figura, in termini di indipendenza e di capacità professionale (…), pretermettere – dicevo – Senese, dopo avere accantonato Palombarini – nonostante le loro doti e attitudini specifiche da tutti riconosciute – ha un unico significato: voler cancellare la rappresentanza di una parte della magistratura, voler cancellare una parte della nostra storia, voler trasformare questo Csm da “casa di tutti” in organo di governo esclusivo della maggioranza».
29. M. Ramat (in Una piccola storia, op. cit., p. 27) ricorda un volantino del Movimento Sociale in cui i «sedicenti magistrati democratici» erano indicati come «mandanti morali della strage anarchica».
30. Accuse, evidentemente infondate, a Magistratura democratica di fiancheggiamento di gruppi eversivi (sic!) sono state, negli anni, ricorrenti. Si vedano sul punto, per esempio, G. Palombarini, Il processo del 7 aprile nei ricordi del giudice istruttore, Il Poligrafo, Padova, 2014, pp. 23 ss. e, da ultimo, P. Narducci, I fiancheggiatori, in Questione giustizia online, 4 dicembre 2024 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-fiancheggiatori).
31. Come non ricordare, a proposito di tali sentimenti, canzoni di Fabrizio de André come Il gorilla o pagine come quelle del racconto di Italo Calvino sul disprezzo – ricambiato – del giudice Onofrio Clerici per i suoi quotidiani “clienti”? – Vds. Impiccagione di un giudice, in Id., Ultimo viene il corvo, Einaudi, Torino, 1949, racconto già apparso nel 1948 su Rinascita, con il titolo Il sogno di un giudice.
32. Il senso autentico della “politicizzazione” – come denunciò Md – lo aveva chiarito la sua coniugazione durante il fascismo, iniziata con l’affermazione del Guardasigilli Rocco che la magistratura «non deve far politica di nessun genere; non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista» (Camera dei deputati, 10 giugno 1925) e culminata, appena quattro anni dopo, nella considerazione dello stesso Rocco che «lo spirito del Fascismo è entrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti». Fino ad arrivare al 1939, quando i più alti magistrati del Regno – come ricorda Piero Calamandrei – si radunarono in divisa a Palazzo Venezia, compiacendosi di fronte al riconoscimento del Ministro di avere finanche superato «i limiti formali della norma giuridica» per «obbedire», quando si era trattato di difendere i valori della Rivoluzione, «allo spirito e alla sostanza rinnovatrice della legge», applaudendo ripetutamente le parole del duce e lasciando quindi la sala «al canto di inni della Rivoluzione».
33. Basti pensare all’icastica definizione dello storico del diritto inglese F. Maitland, secondo cui i giudici delle corti erano stati storicamente «i servitori del re», o alla previsione dell’art. 68 dello Statuto albertino (andato in soffitta appena vent’anni prima), secondo cui «la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in nome suo dai Giudici che Egli istituisce» (maiuscole nel testo originale).
34. Fu il caso di Luigi De Marco, Marco Ramat, Generoso Petrella e Mario Barone, rei di aver dichiarato in un pubblico dibattito di condividere l’affermazione di Marrone. Il processo nei loro confronti, davanti alla Corte di assise di La Spezia, si concluse solo sei anni dopo, il 9 dicembre 1976, dopo un tormentato iter e un passaggio alla Corte costituzionale, con una assoluzione generale «perché il fatto non sussiste».
35. Esemplare l’intervista di Giovanni Colli (esponente di primo piano dell’Umi e allora Procuratore generale a Torino) a Gabriele Invernizzi, pubblicata su L’Espresso il 24 ottobre 1971: «Ah, vedo bene che Lei ha capito, si è accorto che io sono un politico. E in effetti Calamari [Procuratore generale di Firenze – ndr] ha fatto tanto chiasso su Sofri e gente come lui, ma alla fine Sofri in galera ce l’ho messo io. Perché vede, in realtà non si tratta mai di leggi ma di rapporti di forza».
36. Così M. Ramat, Gli “spiccioli” di Magistratura democratica. La nascita di MD, op. cit., p. 318.
37. G. Borrè, Giudici e democrazia, op. cit.
38. Non a caso, Giudici a sinistra (op. cit.) è il titolo che Giovanni Palombarini ha dato alla sua storia dei primi trentasei anni di Magistratura democratica.
39. Id., Contro la dittatura del presente, Laterza/La Repubblica, Bari/Roma, 2014.
40. Sul punto rinvio, per brevità, al mio La magistratura, il Consiglio superiore, la questione morale, Il Ponte, luglio-agosto 2019.
41. Così L. Ferrajoli, Orientamenti della magistratura in ordine alla funzione politica del giudice interprete, in Quale giustizia, n. 17-18/1972, p. 563.
42. È significativo che uno degli editoriali del primo fascicolo di Quale giustizia, firmato da Marco Ramat, abbia come titolo, riferito alla Costituzione: Un solo padrone (presente nella sezione finale di questo numero – «I nostri eccezionali compagni di vita»).
43. Cfr., per tutti, Luigi De Marco, allora presidente del gruppo, nel 1972: «Noi respingiamo fermamente l’accusa, che ci viene mossa, di fare del diritto libero. (…) Non solo non aderiamo alla concezione del diritto libero nella forma, ma neghiamo anche la libertà dei contenuti, perché affermiamo che il diritto dev’essere sempre vincolato agli indirizzi egualitari della Costituzione, dai quali il giudice non si può mai distaccare senza violare il suo più elementare dovere, che è quello di essere fedele alla legge in quanto questa deriva la sua validità dalla Costituzione. (…) A nostro giudizio basta seguire acriticamente la giurisprudenza tradizionale, ancorché formatasi secondo la legge, ma in un contesto costituzionale diverso da quello vigente, quando non vi era ancora stata la Resistenza, la Repubblica e la Costituzione, per fare veramente del diritto libero, fare del diritto, cioè, che prescinde dalla legge fondamentale attuale, che è la Costituzione» (intervento conclusivo della “Giornata della Giustizia”, Torino, 4 marzo 1972, in Quale giustizia, n. 15-16/1972, p. 365).
44. Non va dimenticato – per citare un solo caso – che, ancora nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 1973, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, Ugo Guarnera, poté permettersi di dire, senza proteste di rilievo, che «nella produzione degli infortuni e delle malattie professionali non si può prescindere da un certo grado di ineludibilità» e che «i cosiddetti omicidi bianchi, come tutti sanno, generalmente non hanno a che fare con la materia dei reati».
45. Mi riferisco, per esempio, al seminario “Il processo penale nella stagione di Tangentopoli”, tenutosi a Sasso Marconi il 21-23 ottobre 1994, nelle cui conclusioni – tratte da me, come segretario del gruppo – si faceva esplicito riferimento a «errori o forzature» consistenti in «sopravvalutazioni di chiamate in correità prive di riscontri, sospette reiterazioni di misure per fatti temporalmente omogenei, motivazioni tautologiche o riferimenti alla necessità di atti di indagine poi non compiuti, formalistico accantonamento di prognosi pacifiche di concedibilità della sospensione condizionale della pena etc.» (cfr. Notiziario di Magistratura democratica, n. 11/1994 – nuova serie).
46. Così L. Ferrajoli, Per una storia delle idee di Magistratura democratica, in Nello Rossi (a cura di), Giudici e democrazia, op cit., p. 73, significativamente nel seminario ideologico di Md di Frascati, del novembre 1992.
47. Così, esplicitamente – mi permetto di ricordarlo –, la mia relazione per l’XI Congresso nazionale di Magistratura democratica (Napoli, 29 febbraio-3 marzo 1996), Compiti della politica. Doveri della giurisdizione, in Questione giustizia, n. 4/1995, pp. 772-773.
48. Un esempio per tutti – che mi è particolarmente presente per esserne stato involontario protagonista – riguarda ancora la repressione del movimento No Tav in Val Susa da parte della Procura della Repubblica di Torino, retta allora da un magistrato notoriamente impegnato (almeno in passato) in Md. A seguito della emissione, in un clima mediatico di caccia alle streghe alimentato dalla stessa Procura, di oltre 20 misure cautelari in carcere per resistenza e violenza a pubblico ufficiale, segnalai, in un articolo sul Manifesto del 29 gennaio 2012 (Gli arresti non tornano), i miei dubbi, in particolare in ordine alla prognosi, ad esse sottostante, di impossibilità di concedere, in caso di condanna, la sospensione condizionale della pena. Dubbi – aggiungo ora – non infondati, ché alcune delle misure vennero annullate dalla Cassazione e, all’esito (ormai) definitivo del processo, molte sono state – a fianco delle assoluzioni – le concessioni del beneficio. Ma tant’è. Allora la mia presa di posizione suscitò l’aspra reazione del Procuratore della Repubblica, amplificata dai media cittadini, e la sezione piemontese di Magistratura democratica – caso forse unico nella storia del gruppo – ritenne di intervenire a sostegno delle misure con un comunicato in cui si legge che «l’andamento delle indagini, l’ordinanza cautelare del gip e le decisioni del tribunale del riesame dimostrano che non sono fondate le critiche secondo cui la magistratura torinese avrebbe avviato una “operazione” che intende contrastare il movimento No Tav e si sarebbe mossa con sudditanza ad esigenze di ordine pubblico, mentre consentono di affermare che essa ha operato in modo trasparente all’interno di una realtà difficilissima al fine di accertare responsabilità individuali per fatti di reato specifici, così adempiendo al mandato che la Costituzione affida alla giurisdizione».
49. Mi riferisco alle centinaia di incontri nelle fabbriche e nelle scuole organizzati allora da Md. Mi piace ricordarne uno, organizzato a Torino il 3 maggio 1979 con i Consigli di fabbrica Fiat Mirafiori, Lancia e Rivalta e il Coordinamento del sindacato di polizia, concluso da P. Ingrao, allora presidente della Camera, con un’accurata analisi dei contenuti del garantismo, seguita dalla netta affermazione che «se [vi] rinunciassimo daremmo la vittoria a questi nostri nemici, e non gliela vogliamo dare questa vittoria» (Lotta al terrorismo e trasformazione dello Stato, fascicolo speciale di Esperienze sindacali, 1979, p. 66).
50. Si veda, tra gli infiniti scritti di Ferrajoli sul punto, la relazione nel più volte citato seminario ideologico di Frascati del 1992: Per una storia delle idee di Magistratura democratica, op. cit., pp. 55 ss.
51. F. Basaglia, Conferenze brasiliane [1979], Raffaello Cortina, Milano, 2000, pp. 142-143 (nuova ed.: 2018).