Magistratura democratica

Sessant’anni di Md. Un pensiero critico nel cuore delle istituzioni

di Nello Rossi

 

 

La lingua, si sa, può essere un membro indisciplinato, 
ma il silenzio avvelena l’anima

E. Lee Masters, Antologia di Spoon River 

 

1. Premessa / 2. Md: ripensarsi alla luce del tempo per riprendere slancio / 3. Md: riflettere sulle antiche e recenti tensioni interne / 4. Md: essere una permanente istanza critica nel mondo del diritto

 

1. Premessa

La storia dei “primi sessant’anni” di Magistratura democratica – con la sua fecondità intellettuale, le sue indiscutibili asprezze, i suoi interni travagli – è quella di un gruppo di magistrati che non ha mai rinunciato a criticare l’esistente, sociale e giuridico, facendo leva sulla profonda adesione ai principi della Costituzione e su di un potente specialismo giuridico.

A questa attitudine al pensiero critico non è il caso di abdicare oggi, quando esso è, se mai, ancora più necessario che in passato. Certo, sul versante della libertà di pensiero e di critica si moltiplicano le ragioni di inquietudine: le ripetute intimazioni ministeriali rivolte ai magistrati a non criticare le leggi; alcune sguaiate aggressioni verbali nei confronti di autori di indagini o provvedimenti sgraditi, indegne, nei contenuti e nei toni, dell’elevata funzione parlamentare; le campagne mediatiche che esortano al silenzio, al conformismo e, in ultima istanza, all’obbedienza; il preannuncio di riforme pensate per intimidire e reprimere.

Di fronte a tutto questo, l’errore peggiore sarebbe quello di arretrare sui principi di libertà, di dignità, di indipendenza che devono connotare il mestiere del magistrato, immaginando che concessioni su questi terreni possano far cessare la martellante pressione in atto sulla magistratura. Non ci si può illudere che sarebbe così. Dapprima si reclama il silenzio, ma, una volta ottenuto il silenzio, si vorrà l’obbedienza e, raggiunta l’obbedienza, si pretenderà l’ossequio incondizionato al potere, in un rosario amaro da sgranare non solo per i magistrati ma anche – e forse più – per i comuni cittadini, che solo da magistrati indipendenti e non da timorosi burocrati possono sperare di avere giustizia.

Altre sono le virtù che devono essere praticate dai magistrati: la parola misurata, l’equilibrio del giudizio e, con essi, il self restraint istituzionale e il rispetto del primato della Costituzione e delle norme ad essa conformi. In una parola, l’obbedienza “solo alla legge” – e quindi la disobbedienza, in nome della legge, a poteri diversi da essa – e il riconoscere nella Costituzione “il solo padrone”, come ci è stato insegnato in Md dai nostri fratelli maggiori.  

 

2. Md: ripensarsi alla luce del tempo per riprendere slancio

Una forza viva non si commemora. 

Piuttosto, coglie l’occasione di una data, di un anniversario per ripensare se stessa e riprendere slancio. 

È questo il senso che si è voluto dare alla “festa”, tutta culturale e politica, per i sessant’anni di Magistratura democratica[1]. Festa celebrata a Roma, tra le statue e i busti della Sala della Protomoteca nel Palazzo del Campidoglio, ma con lo sguardo rivolto alle più disadorne stanze dei palazzi nei quali si amministra la giustizia quotidiana. 

Il denso programma della parte rievocativa della festa, che dà corpo al numero 4/2024 della Rivista trimestrale, non ha bisogno di particolari presentazioni o chiose. 

Scorrendo titoli e nomi, si vede che sono stati ripercorsi snodi e passaggi della complessa vicenda di Magistratura democratica che conservano una intatta carica di attualità e rimandano a temi e problemi dell’oggi: dall’impegno sui temi dell’ambiente all’attenzione ai problemi di genere; dal rapporto del giudice con la città alla tormentata questione delle critiche dei magistrati ai provvedimenti giudiziari, un tempo bollate come “interferenze”; dalla scelta del garantismo alla linea tenuta nel contrasto al terrorismo, sino al costante impegno del gruppo nel dar vita a una stampa colta e vivace. 

Come era pressoché inevitabile, data la ricchezza delle esperienze di Magistratura democratica, vi sono state anche lacune ed omissioni. 

È mancato, ad esempio, un capitolo dedicato allo straordinario apporto dei magistrati aderenti a Md al diritto del lavoro, che da solo meriterebbe un’iniziativa di studio, di riflessione e di comparazione con le problematiche dell’oggi. 

Lo stesso vale per il carcere e il diritto penitenziario, nel quale i magistrati del gruppo – si pensi solo ad Alessandro Margara e a Igino Cappelli – sono stati innovatori rivoluzionari, assolutamente indimenticabili. 

Così come non è stato riservato lo spazio necessario al ruolo – forte e incisivo – svolto negli ultimi decenni da magistrati appartenenti a Magistratura democratica in seno all’Anm. Ruolo segnato dalle presidenze di Elena Paciotti e di Edmondo Bruti Liberati e, successivamente, di Luca Poniz e di Giuseppe Santalucia, e dai segretariati generali di Salvatore Senese, Franco Ippolito, Claudio Castelli, Lucio Aschettino, di chi scrive e di Giuseppe Cascini. 

Naturalmente queste considerazioni non tolgono nulla al valore e alla bellezza della festa di compleanno, ma se mai stimolano a procedere oltre sulla via della riflessione e della ricostruzione del passato per valorizzarne adeguatamente tutti i molteplici aspetti e trarre indicazioni sulle scelte del presente. 

In quest’ottica, accanto ai contributi dell’oggi, Questione giustizia sceglie di pubblicare in questo numero della Trimestrale gli scritti di eccezionali compagni di vita: Marco Ramat, Pino Borrè, Salvatore Senese, Carlo Verardi. Giuristi e intellettuali che hanno dato decisivi contributi al patrimonio di idee di Md e che purtroppo non sono più tra noi, anche se vivono nel ricordo affettuoso di quanti li hanno conosciuti e nel pensiero dei più giovani che li hanno solo letti. 

 

3. Md: riflettere sulle antiche e recenti tensioni interne

Demonizzata e spesso brutalmente calunniata dalla stampa e dall’opinione pubblica di destra, e coinvolta nelle più drammatiche e conflittuali vicende del Paese, Magistratura democratica ha conosciuto, nel corso della sua storia, anche forti tensioni al suo interno. 

Per due volte – nel 1969, prima, e nel 2020, poi – è stata scossa da dolorose scissioni. 

Molte e impressionanti le analogie formali tra la separazione del 1969 e quella del 2020, mentre diversissime sono state le motivazioni e differenti i contesti in cui le cesure sono maturate. 

In entrambi i casi, più che di scissioni si è trattato di vere e proprie “secessioni” (di una parte assai ampia) del gruppo dirigente che si è allontanato, ritenendo troppo radicale la visione dei problemi della giustizia o troppo identitaria la posizione nell’associazionismo giudiziario di Magistratura democratica. 

Nel 1969, la lacerazione e la separazione nel gruppo (nato nel 1964) si consumarono sul tema divisivo dell’ordine del giorno – approvato il 30 novembre 1969 dall’assemblea di via Galliera a Bologna – di critica per l’arresto del professore padovano Francesco Tolin, direttore responsabile della rivista Potere Operaio

Ma la spinta decisiva alla rottura fu data, come ricordano Giovanni Palombarini e Gianfranco Viglietta nel loro libro sulla storia di Magistratura democratica, dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, che segnò «una frattura nella storia della Repubblica, in quella della sinistra storica, in quella dei movimenti nati nel ’68»[2]

Il 20 dicembre 1969, all’Albergo Minerva di Roma, nei pressi del Pantheon, vi fu una riunione nella quale si chiese ai firmatari dell’ordine del giorno Tolin di fare marcia indietro, rinunziando a forme di critica dell’attività giudiziaria. 

Il motivato rifiuto opposto da Ramat a tale richiesta diede il via alla scissione. 

Uscirono allora da Md Adolfo Beria D’Argentine, Carlo Moro e altri significativi esponenti, allarmati dalla radicalità delle posizioni assunte da alcune sezioni e da Marco Ramat, Luigi De Marco, Generoso Petrella e altri. 

Nel libro Storia di un magistrato, Ramat ha rievocato, in toni accorati, gli accadimenti della giornata e il senso di isolamento che ne seguì: «Uscimmo, fummo soli. Il crocchio con gli altri dei nostri a poco a poco si dissolse; gli altri erano romani, erano stati con noi dalla mattina alla sera, ora tornavano a casa, in città, macchina dietro macchina… Io stavo a Firenze; De Marco a Bari, Petrella a Milano. Forse qualcuno ci diede un passaggio per il vecchio centro. Poi a cena in una piccola trattoria dietro il Pantheon. Credo che ciascuno di noi la ricorderà anche nell’ultimo giorno di vita (…) Ad una città come Roma pronta al Natale, e quindi non solo a noi estranea ma compatta in una sua solidarietà intimistica e gelosa, noi tre fummo costretti ad opporre la nostra solidarietà. Tre Md; freddo di fuori e freddo di dentro. Mi ricordavo il tempo di guerra quando intorno ad un po’ di brace ci si stringeva serrati per godere di tutto il poco calore che dava»[3].

Allora, però, essere soli nella corporazione non significò essere soli nella società e la solitudine fu rapidamente superata dai crescenti consensi di Md tra i giovani magistrati e dalle sintonie con i movimenti sociali, in quegli anni in impetuosa avanzata. 

Nella più recente scissione avviata nel dicembre 2020, hanno progressivamente lasciato Md, per realizzare una piena fusione con i Movimenti per la giustizia nella nuova compagine di Area, i consiglieri superiori e la maggior parte dei componenti del Comitato direttivo centrale dell’Anm, tutti eletti nelle liste unitarie di Area, che riuniva Md e Movimenti. 

Il primo atto di distacco fu la lettera del dicembre 2020, con cui venticinque magistrati aderenti al gruppo diedero le dimissioni, lamentando la perdita da parte di Md della «capacità di intercettare e convogliare le spinte al cambiamento» presenti nella magistratura e «la formidabile accelerazione del gruppo dirigente di Md rispetto alla scelta di abbandonare il percorso verso Area». 

Al primo gruppo di dimissionari si unirono poi progressivamente molti altri iscritti, tra cui consiglieri superiori e dirigenti dell’Anm. 

Alle critiche dei dimissionari, Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, segretaria e presidente di Md, replicarono affermando in un comunicato:

«Crediamo in una magistratura progressista che, in quest’epoca di accresciute diseguaglianze e di moltiplicate povertà, sappia declinare di nuovo, accanto a progetti di efficienza e di organizzazione, la volontà di inverare il progetto costituzionale di difesa dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più svantaggiate: poveri, migranti, malati, disabili, “matti”, donne, persone discriminate per il loro orientamento sessuale o per la loro identità di genere». 

All’esito di questa vicenda, chi è rimasto in Md ha avvertito di nuovo la gelida sensazione dell’essere soli, questa volta aggravata da un contesto sociale e politico assai meno vitale e aperto di quello della fine degli anni sessanta. 

Ed è in un questo clima difficile che il gruppo ha ripreso il cammino e si sta oggi misurando con le asprezze di una durissima stagione politica: la sistematica delegittimazione, le continue minacce all’indipendenza, gli insidiosi progetti di snaturamento del governo autonomo della magistratura e di alterazione in senso autoritario degli equilibri tra i poteri. 

Nel nuovo e più solitario percorso intrapreso, un dato va tenuto fermo: le diversità di orientamento emerse e gli strascichi dolorosi che accompagnano ogni separazione, personale o politica, non devono oscurare la consapevolezza che la consonanza sui principi di fondo e l’unità di azione della magistratura progressista sono un bene collettivo, non della sola magistratura ma di tutti i democratici, e vanno perciò preservate e ricercate in tutte le congiunture istituzionali e politiche. 

 

4. Md: essere una permanente istanza critica nel mondo del diritto

Futura in gremio Iovis sunt: “Gli eventi futuri sono nel grembo di Giove”. 

E infatti mai come adesso è stata forte l’incertezza sul futuro assetto della giurisdizione, sui destini della magistratura e sulle trasformazioni del governo autonomo dei magistrati, oggetto di un disegno di legge di revisione costituzionale che il Governo si propone di portare avanti a tappe forzate. 

L’incertezza è poi accresciuta dal contemporaneo perseguimento di un’altra proposta di riforma costituzionale (quella del “premierato elettivo”) destinata a incidere in profondità sul Governo, sul Parlamento e sul complessivo equilibrio dei poteri. 

In questo contesto, Magistratura democratica e Questione giustizia non intendono abdicare al ruolo di forza critica di proposte di riforma di impronta nettamente autoritaria. 

Critica necessaria e doverosa tanto sul versante del premierato elettivo quanto sul fronte del governo della magistratura, il cui assetto si intende stravolgere completamente sotto l’etichetta, ormai divenuta parziale e ingannevole, della separazione delle carriere. 

Da un lato, infatti, va denunciata la volontà del Governo di promuovere una impressionante concentrazione di potere nelle mani di un premier elettivo “onnipotente” – prima di tutto sulla “sua” maggioranza – e “pigliatutto” perché in grado di esercitare, nel medio periodo, un’influenza decisiva anche sulla provvista degli organi di garanzia costituzionale. 

Dall’altro lato, va messo in luce l’intento della maggioranza di destra di mortificare il governo autonomo della magistratura non solo creando due Consigli separati per giudici e pubblici ministeri e dando vita a una distinta corte disciplinare, ma incrinando irrimediabilmente la rappresentatività di tali organismi, affidando alla cecità del sorteggio la provvista dei loro membri togati. 

Su questi temi, cruciali per la vita delle istituzioni e per la salute della nostra democrazia, la Rivista si è più volte espressa con analisi critiche puntuali e argomentate. E continuerà a farlo, seguendo l’iter dei provvedimenti in cantiere e dedicando alle progettate controriforme un prossimo numero della Trimestrale. 

Prima di questo appuntamento ve ne sarà, però, un altro egualmente significativo. 

Parlo del progetto ambizioso di studiare il diritto penale prodotto dalla destra al governo nella prima metà della legislatura in tutti i suoi diversi aspetti: l’incredibile proliferazione di reati e di aggravanti nei confronti dei marginali, dei protestatari, dei migranti; l’abrogazione e la riscrittura di reati del potere come l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze; gli interventi sulla disciplina del processo; le innovazioni introdotte nella disciplina del carcere; le molte omissioni di attenzione su questioni spinose che sono l’altra faccia di interventi legislativi spesso sconsiderati, propagandistici o semplicemente stupidi. 

Insomma, dovranno mettersi l’animo in pace quanti continuano a mostrare irritazione per le critiche alle leggi provenienti dai magistrati e vorrebbero che tacessero. 

Sui terreni dell’analisi spassionata del diritto e dell’esame critico delle leggi e dei provvedimenti giudiziari non si può arretrare di un passo, pena la perdita di ogni dignità professionale e del diritto a essere parte del mondo dei giuristi. 

Il che non può avvenire e non avverrà. 

 

Gennaio 2025

 

 

1. Il compito non facile di “pensare” e organizzare questo evento, concepito come trait d’union tra l’esperienza storica del gruppo e le problematiche del presente, è stato assunto e svolto con intelligenza e passione da Riccardo De Vito e Glauco Zaccardi.

2. Così G. Palombarini e G. Viglietta, La Costituzione e i diritti. Una storia Italiana. La vicenda di Md dal primo governo di centro sinistra all’ultimo governo Berlusconi, ESI, Napoli, p. 77. 

3. M. Ramat, Storia di un magistrato. Materiali per una storia di Magistratura Democratica, Manifestolibri, Roma, 1986, pp. 27-28.