Magistratura democratica

Le donne, la magistratura, la Sezione romana

di Elisabetta Cesqui

1. La magistratura, Md, la Sezione romana / 2. Le donne

 

1. La magistratura, Md, la Sezione romana

Md compie 60 anni, e questa mia è solo una testimonianza senza nessuna pretesa di organicità. 

Sono stata in magistratura per 43 anni, in Md anche di più e sento ancora di appartenervi. 

La conoscevo dall’università, ero allieva e assistente volontaria di Stefano Rodotà e c’era continuità tra le attività dei corsi e i temi di confronto dentro Md. Inconsapevolmente, già da questo primo approccio, ero incappata nella straordinaria specificità di Md, che è quella dell’apertura all’esterno. Una volta entrata in magistratura era perciò naturale entrare in Md.

Il segno distintivo e il fascino di Md mi sembrava stesse nell’impegno di quei magistrati per passare dai diritti scritti sulla carta, per quanto una Carta preziosa come quella fondamentale della Repubblica, alla realizzazione in concreto della promessa in essa contenuta, quella che per Lelio Basso era l’affermazione dei diritti non solo in favore dei soggetti più deboli, ma attraverso la spinta che questi imprimevano alla società.

Alla fine degli anni settanta Umberto Romagnoli, nel commentario Scialoja-Branca, sottolinea ancora il nesso tra la potenza espansiva e inclusiva dell’art. 3 e le dinamiche in moto nella politica e nella società secondo «un modello di società prefigurata che è quello della democrazia reale, dell’antigoverno del popolo a cui appartiene la sovranità ed il rifiuto del modello della democrazia formale, cioè della democrazia senza dèmos» e citava un passo di Lelio Basso: «quando i lavoratori italiani hanno fatto uno sciopero generale in tutto il Paese per ottenere delle riforme legislative atte ad assicurare una casa decente e a buon mercato, io ho potuto sostenere che essi, con la loro forza e la loro lotta, riscriveranno nella realtà quegli articoli della Costituzione, che noi, all’indomani della guerra avevamo scritto soltanto su un labile pezzo di carta». Le cose poi non sono andate sempre così e la forza di autolegittimazione delle istanze dei lavoratori organizzati ha subìto le conseguenze dei mutamenti economici che hanno cambiato le forme stesse del lavoro, e di quelli sociali e politici che hanno messo in crisi tutto il sistema dei corpi intermedi, ma certo in quegli anni quella prospettiva era reale e affascinante al tempo stesso.

Ma per quanto possano essere tortuosi i sentieri della Storia, rimane ferma l’idea della Costituzione come progetto, e del progetto come indicazione di una direzione. La Costituzione, infatti, non è tanto – come generalmente si dice – il frutto di un compromesso, una sorta di verbale di conciliazione tra le tre componenti culturali (liberalismo, cattolicesimo democratico e marxismo) che avevano alimentato la resistenza al fascismo e la ricostruzione, quanto il frutto della capacità di mettere a fattor comune i valori di ciascuna di esse per la costruzione di un progetto originale. Valerio Onida lo definisce il «residuo buono» della tradizione del pensiero politico sette-novecentesco filtrato attraverso il crogiolo dell’esperienza della Seconda guerra mondiale, e richiama Dossetti, che parla in questo senso «dell’impronta di uno spirito universale e in qualche modo trans-temporale». Si tratta, forse, di una visione un po’ mistica e illuminista al tempo stesso, ma certo aiuta ad evitare la trappola del cercare chi ha vinto e chi ha perso tra i tre filoni di pensiero che l’hanno animata e svuota di contenuto anche l’accusa, più volte rivolta ai magistrati progressisti, di valorizzare solo la componente marxista (indicata come “comunista”) del pensiero costituzionale. Per questo possiamo dire che la nostra è una costituzione antifascista e progressista. Il presidente del Senato Ignazio La Russa, in una recente intervista a Repubblica del 21 ottobre 2024, mentre auspica – sia pure rimanendo nel vago – una modifica costituzionale «che faccia maggior chiarezza nel rapporto tra politica e magistratura», sembra aver preso atto, a malincuore, della possibilità di definire la Costituzione “antifascista”, ma non accetta la sua qualificazione di Costituzione “progressista”. All’intervistatore, che gli fa notare che per “progressista” deve intendersi «che tende alla realizzazione dei principi fondamentali che enuncia», replica piccato: «Non sia criptico. Per me, se dice progressista, intende progressista. Che, nel senso comune, oltretutto, vuol di dire “di sinistra”». Al contrario, proprio perché è una Costituzione progressista – che indica dei principi (l‘uguaglianza, l’inclusione, la libertà di manifestazione del pensiero, il lavoro come valore fondante della Repubblica) e segna la direzione per dare ad essi attuazione –, Dossetti nel 1994, all’indomani della prima affermazione elettorale di Forza Italia, fonda i comitati a difesa della Costituzione, che poi nel 2006 caricheranno sulle loro spalle il peso maggiore della battaglia referendaria contro la riforma costituzionale. Un’esperienza e una mobilitazione alla quale siamo nuovamente chiamati, ora che nuove sfide referendarie sull’autonomia, sul premierato e sulla giustizia sembrano, con maggiore o minore certezza, delinearsi all’orizzonte. Una mobilitazione che dovrà in qualche modo farsi carico dell’impoverimento del dibattito pubblico determinato dalla rozzezza di argomentazioni come quelle sopra riportate, veicolate dalla seconda carica dello Stato e capaci, con la loro martellante reiterazione, di aprire più di una breccia nel comune sentire. Prospero, nella Tempesta, dice: «siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni»; Md è fatta della stessa materia di cui è fatta la Costituzione. Questo spiega la permanente vitalità di Md a sessant’anni della sua nascita. Ma, se questo è il suo connotato distintivo, è anche il suo destino e al tempo stesso la sua dolce condanna. Fino a quando la realizzazione di quel progetto richiederà l’impegno individuale di ciascun interprete del diritto e quello collettivo attraverso l’elaborazione di una riflessione comune per la sua realizzazione, Md non potrà sottrarsi ad esso. L’apertura alla società è condizione essenziale di questo stretto rapporto col progetto costituzionale e, in fin dei conti, è sulla critica e sui limiti dell’apertura di Md all’esterno che si sono consumati gli scontri più aspri all’interno dell’associazionismo (le vecchie polemiche sul collateralismo, sulla natura o meno di Md come soggetto politico generale, sulla supplenza giudiziaria, sulla interferenze). Intorno a questo nodo, nel 2021 si è riscontrata la necessità che, rispetto al processo di trasformazione di Area, Md conservasse e recuperasse la sua piena soggettività associativa. Quest’ultimo è stato un passaggio assai difficile e sofferto che, però, ci consente oggi di essere qui. Non so quanti di noi ci avrebbero scommesso al giro di boa dei cinquant’anni, per i quali – non a caso – non vi fu nessun festeggiamento. Md ha messo davvero in gioco la sua stessa sopravvivenza e va riconosciuto – e lo ricordo anche con riferimento alla questione di genere – che dobbiamo il superamento di questo scoglio alla lucidità politica, alla ostinazione per tenere unito il gruppo e alla inesauribile pazienza di Mariarosaria Guglielmi. 

Per me i primi anni furono di straordinario coinvolgimento, effervescenti e tragici al tempo stesso. Poi, via via, l’effervescenza è sfumata, ma è rimasto intatto il senso di appartenenza.

Allora ti poteva capitare di tutto… Ad esempio, di partecipare (in nome della Sezione romana) a un incontro alla Camera dei deputati (era la prima volta che ci mettevo piede) con gli antimilitaristi e gli obbiettori di coscienza, e trovare nell’austera stanza di riunione molti dei partecipanti che facevano discorsi serissimi con uno scolapasta in testa. Così come ti capitava di vivere le riunioni tese e, a volte, laceranti della Sezione romana, che era la più radicale e indisciplinata d’Italia. Basterà qui evocare, per la sua componente “di sinistra” – proprio quella più radicale e indisciplinata – i nomi di Gabriele Cerminara, Franco Marrone, Francesco Misiani, Luigi Saraceni, per farsi un’idea di quanto impegnative potessero essere quelle riunioni. Per di più, questo avveniva nella sede giudiziaria più contigua e sensibile alle pressioni del potere politico, che era percepibile e incombente nella vita quotidiana degli uffici. 

Ricordo interminabili riunioni nelle quali, riflettendo un contrasto diffuso nel Paese, si contrapponevano le istanze espresse in maniera più forte dai soggetti istituzionali della sinistra, i sindacati, il partito: il «soggetto storico della trasformazione» e le posizioni più estreme del movimentismo e dell’antagonismo per le quali qualcuno parlava di «libero dispiegarsi delle dinamiche sociali» e che ponevano il problema della risposta non solo politica, ma anche giudiziaria alle forme violente di contestazione politica e al terrorismo. Erano gli stessi temi attorno ai quali si era sfiorata la scissione al Congresso di Rimini del 1977, scissione che fu evitata, come ricorda Giovanni Palombarini in Giudici a sinistra, anche grazie al lavoro di ricucitura di Franco Ippolito ed Edmondo Bruti Liberati. 

C’era, in quelle riunioni, un gran dispiegarsi di intelligenza e passione perché, al di là di contrapposizioni che oggi sembrano assai datate anche nel linguaggio con cui si esprimevano – e che per questo ho voluto ellitticamente richiamare –, vertevano attorno al tema centrale di come dovesse declinarsi, a fronte della legislazione penale speciale, il garantismo penale (nel 1978 c’era stato il referendum sulla “legge Reale”, che aveva visto posizioni molto differenziate all’interno della stessa sinistra e un momento di forte critica da parte del Pci nei confronti di Md), e perché tutti gli altri temi attorno ai quali si discuteva erano centrali nel rapporto tra la giurisdizione e la società ed erano quelli del lavoro, del diritto alla casa, della speculazione edilizia, dell’inquinamento, che nell’attività della sezione lavoro e della V e IX sezione della Pretura si confrontavano con la loro concreta tutela e la loro quotidiana violazione. Garantismo e giurisprudenza alternativa hanno oggi nel linguaggio comune un significato totalmente stravolto: il primo come scudo di protezione di imputati eccellenti contro i processi nella pubblica amministrazione; il secondo come torsione della giurisdizione per fini politici. Ma già nel 1977 Luciano Violante, in occasione del Congresso di Rimini, riferendosi ad alcuni documenti dell’autonomia organizzata, avanzava la preoccupazione che del garantismo potessero farsi scudo le organizzazioni terroristiche, metteva in guardia Md dal pericolo di cadere in quella trappola e la invitava a concentrarsi sui temi dell’ordinamento giudiziario e della riforma dei codici. Ma garantisti, senza ripiegamenti, lo eravamo allora e lo siamo rimasti oggi.

Capitava, poi, che fatti terribili ti segnassero profondamente e indirizzassero le tue scelte professionali, come fu per me l’uccisione di Mario Amato e il successivo impegno nel gruppo di magistrati della Procura che si occupava dell’eversione di destra.

Non fu risparmiato niente: procedimenti penali, interrogazioni parlamentari (penso a quella dell’On. Claudio Vitalone, ex-magistrato dello stesso ufficio, per sapere quali accertamenti fossero stati fatti sui collegamenti tra alcuni magistrati romani - i soliti radicali indisciplinati della sinistra della Sezione romana - e le formazioni terroristiche), schedatura dei servizi, procedimenti disciplinari e violentissime polemiche pubbliche. 

Ma, se ci ripenso oggi, la cosa più preziosa di quei primi anni è stato l’incontro con magistrati capaci di un esercizio “alto” della giurisdizione. Infatti, frequentando i magistrati di Md, non solo ti colpiva il carisma di alcuni di loro, ma il modo in concreto con il quale esercitavano la giurisdizione. L’esercizio “alto” della giurisdizione richiede una grande competenza tecnica, ma anche una relazione piena con la realtà sociale e “un animo colto”, alimentato da buone letture e curiosità intellettuale – come diceva Marco Ramat, il contrario del «magistrato di clausura», che come le suore vive chiuso nel chiostro e protetto da ogni contaminazione, senza che questo però lasci dubbi su quale possa essere la sua scelta al momento del voto. D’altra parte, Pietro Ingrao, che al Congresso di Giovinazzo del 1981 definì Md «uno strano animale», era colpito, come ricordava ancora Giuseppe Cotturri nel 2015, proprio dalla particolare declinazione con la quale, dentro Md, attraverso la competenza professionale veniva filtrato l’impegno politico (il rapporto, come ebbe a dire, «tra politicità generale e competenze»). 

Quello che, se non ho imparato, ho almeno visto mettere in pratica è che, se sei tecnicamente attrezzato e hai un “animo colto”, l’applicazione del diritto al caso concreto nella “direzione” del progetto costituzionale viene fuori come una cosa semplice e restituisce provvedimenti chiari qualunque sia la materia trattata. Le domande di fondo sono sempre le stesse: chi ha veramente subito il torto? Chi ha necessità della tutela? Cosa ti dice di fare la legge interpretata secondo i principi costituzionali? Sono state rispettate le regole del processo, e queste che strada tracciano per arrivare alla decisione? Alla fine sembra quasi facile e, quando non si può andare oltre, ci si ferma o si va alla Corte costituzionale, o alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Se leggiamo una sentenza di Renato Rordorf è facile capire cosa voglio dire, così come era facile capire quale fosse la via maestra se ti capitava, come a me, di fare l’uditore con Gianfranco Viglietta. Se i principi sono saldi, anche se il ragionamento è complesso, le parole alla fine sono chiare. La parola chiara ha in sé un valore democratico perché è quella che consente al destinatario della decisone di comprenderne e di accettarne il contenuto. Per questo è così importante l’attenzione che Md ha da sempre rivolto ai temi della comunicazione, intesa sia come comprensibilità che come conoscibilità dei provvedimenti, temi nei quali ha sempre colto lo stretto nesso tra la legittimazione della giurisdizione, amministrata in nome del popolo, e l’indipendenza dei giudici, sottoposti solo alla legge.

Md non ha né il monopolio né il copyright di questo modello di magistrato e, nel corso della vita professionale, ne ho conosciuti e frequentati moltissimi altri di tutti gli orientamenti; ma è in Md nei primi anni che ho incontrato i miei Lorenz. In questa giornata non possiamo non pensare a Renato Greco, che ci ha appena lasciato.

E siccome è una festa, oggi voglio parlare solo del lato positivo del karma di Md. Per parlare dei limiti, per i rimproveri e le critiche, ci saranno altre occasioni. 

 

2. Le donne

Nel grande processo di trasformazione della società la questione di genere è stato un fattore positivo di straordinaria portata, ma non la ricordo, in allora, come centrale nel dibattito interno alla Sezione romana e a Md in generale. 

Per quanto mi riguarda personalmente, specie all’inizio, non ho vissuto nella prospettiva di genere la mia esperienza professionale. Questo deriva da un errore di fondo: mi sembrava di non averne bisogno. Una volta che l’anonimato del concorso mi aveva permesso – senza pagare prezzi particolari per il fatto di essere donna – non tanto di sfondare il soffitto di cristallo, quanto di saltare la staccionata e di entrare nel recinto di una vita professionale sotto molti aspetti culturalmente privilegiata, mi sembrava che il più fosse fatto. Credevo che quella necessità, che tutte condividevamo, di fare tutto meglio degli altri e di fare sempre tutto senza mai tirarsi indietro attenesse, paradossalmente, più a profili di insicurezza personale che a una questione sostanziale di straordinaria portata sociale e politica. Solo col tempo me ne sono poi resa pienamente conto. Allo stesso modo, pensavo che l’aneddotica maschilista che costella la storia professionale di ciascuna di noi servisse soprattutto per riderci sopra e ricavarne al massimo un qualche senso di superiorità, nella convinzione che non fosse in grado di alzare barriere e di scavare fossati. 

Al contrario, la conferma di una perdurante prevaricazione di genere risulta evidente dalla ostinata preclusione all’accesso delle donne alle funzioni direttive, evidente fin dall’inizio nonostante un avvio lento dell’incremento della presenza delle donne tra i vincitori di concorso (nei primi anni solo il 4-5%, per passare al 10-20% solo dopo gli anni settanta e superare poi il 50% non solo dei vincitori di concorso, ma di tutti i magistrati in servizio; ad oggi [9 novembre 2024 - ndr], le donne sono 5070 e gli uomini 3841). Anche se allora a molti di noi, giovani magistrati, le aspettative di carriera sembravano semplici ambizioni soggettive di secondaria importanza, non ci volle molto a capire come la dirigenza degli uffici fosse determinante per l’attuazione di indirizzi di progresso e quanta importanza avessero i profili ordinamentali e organizzativi. Ancora oggi il gap è scandaloso: sebbene le donne siano il 57% dei magistrati in sevizio negli uffici giudiziari, solo il 39% delle posizioni direttive giudicanti e il 24% di quelle requirenti è coperto da donne. 

Il ritardo con il quale, anche dentro Md, è maturata la consapevolezza della questione di genere come nodo che riguarda in modo diretto la sfera personale e lavorativa delle persone – almeno secondo la mia percezione di allora – è un caso interessante di sdoppiamento della coscienza politica, perché molte di noi, come donne, partecipavano attivamente alle manifestazioni del movimento femminista ed Md, come gruppo, è stato in grado di esprimere una dirigenza politica di donne di primissimo livello, come Elena Paciotti, Rita Sanlorenzo e – come ho già ricordato – Mariarosaria Guglielmi. 

Il raggiungimento della parità comporta un processo lento e difficile, come difficile è stata la sua semplice affermazione formale. Giustamente Gabriella Luccioli, in occasione del 60° anniversario dell’ingresso delle donne in magistratura, ricorda come fosse diffusa e radicata la resistenza di molti degli stessi Padri costituenti all’accesso delle donne a tutte le funzioni pubbliche, e quale panorama “desolante” di pregiudizi e di arroganza traspaia dalle discussioni che portarono poi all’approvazione faticosissima del primo comma dell’art. 51 (poi integrato nella parte finale nel 2003), così come ricorda l’arrocco – protratto fino alla sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 1960, che dichiarò l’illegittimità dell’art. 7 della legge n. 1176/1919 – di coloro che osteggiavano l’apertura alle donne dietro la formulazione ambigua della chiusa dello stesso primo comma dell’art. 51: «Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», come se il Costituente avesse rimesso al legislatore ordinario piena discrezionalità nell’individuare le ipotesi di esclusione.

Lo stesso Legislatore costituente, che era volato altissimo nella formulazione dell’art. 3, fatica di più quando, poi, il principio di uguaglianza uomo/donna si specifica nell’accesso agli uffici pubblici e nella parità salariale (art. 37, prima parte). Maria Federici, che tenne fermo il punto quando si trattò di evitare che limiti di genere fossero ventilati nella stesura dell’art. 106 (accesso in magistratura), nella seduta del 10 maggio 1947, nella quale si discuteva di parità salariale, dice: «questo articolo è il riflesso vivo delle gravi ingiustizie che ancora si registrano nella vita italiana. Di qui a pochi anni noi dovremo addirittura meravigliarci di aver dovuto sancire nella Carta costituzionale che a due lavoratori di diverso sesso, ma che compiono lo stesso lavoro, spetti la stessa retribuzione». Con amarezza, dobbiamo oggi constatare che quel principio, sebbene sia stato introdotto in Costituzione, non riesce ancora a trovare attuazione.

Ancora molto c’è da fare, ma non ha più senso, se non per misurare il tratto di strada già percorso, ricordare i paradossali richiami di Fanfani alla incapacità delle donne di attingere alla «rarefazione del tecnicismo» che le alte magistrature comportano, o agli insegnamenti della “scuola di Charcot” richiamati dall’On. Molè per sostenere una sorta di incompatibilità anatomo-fisiologica della donna all’attività decisionale, quanto meno nel periodo del ciclo. 

Quando ho cominciato a riflettere sul progressivo aumento della presenza delle donne avevo una preoccupazione indotta dal fatto che, nell’esperienza storica, il lavoro femminile si è sempre esteso per capillarità negli spazi che gli uomini lasciavano liberi, privilegiando altri terreni. Il timore era che, man mano che le donne prendevano piede, la funzione giurisdizionale ne risultasse in qualche modo svilita e penalizzata. Era una preoccupazione sbagliata, non perché negli anni non vi sia uno sforzo costante, a volte – come ora – intenso di ridimensionamento e mortificazione della funzione giudiziaria, ma perché sono sicura che la situazione di difficoltà attuale non dipende dall’accresciuta presenza delle donne. Le donne, infatti, possono rivendicare orgogliosamente di aver interpretato «con disciplina ed onore» (art. 54 Cost.) la loro funzione, senza arretramenti e subalternità e senza nessuna diminuzione del contenuto tecnico-giuridico delle decisioni. Se posso spiegarmi con un esempio, sfido chiunque a sostenere il contrario dopo aver letto una sentenza scritta da un giudice come Stefania Di Tomassi. 

Le donne (per quanto sia arbitrario generalizzare e ogni generalizzazione si esponga al ridicolo della smentita puntuale) hanno con le regole un approccio più pragmatico e meno conflittuale; hanno più l’attitudine, che sollecitava Lorenza Carlassare, di mettere in discussione le prassi consolidate e le interpretazioni tralaticie (l’attitudine a chiedersi: “Ma dove sta scritto? Perché avete fatto sempre in questo modo?”); nelle organizzazioni complesse sono più collaborative; hanno con il potere – e l’esercizio di un potere è coessenziale alla giurisdizione – un rapporto di minore identificazione e personalizzazione e, soprattutto, un approccio non proprietario come quello degli uomini.

Le donne hanno infine imparato – e lo hanno insegnato anche agli uomini – ad essere persone a tutto tondo e non bassorilievi che negano quelle dimensioni di sé che possono essere colte come un segno di debolezza. 

È stato soprattutto il pensiero delle donne che ha fatto capire come l’uguaglianza non stia nel negare le differenze, ma nel riconoscerle, tenendo conto, come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli, che il contrario dell’uguaglianza non è la differenza, ma la discriminazione. 

Allora la domanda vera non è quanto sia numerosa la presenza delle donne, ma cosa abbia significato nella sostanza. Penso che le donne abbiano portato nel quotidiano esercizio della giurisdizione una visione più fattiva e meno conflittuale, ma non per questo meno solida nei contenuti; che abbiano, insomma, fatto “bene” alla magistratura. 

Le conquiste delle donne possono essere lente, ma credo che siano frutto di un processo inesorabile. Abbiamo purtroppo perso l’illusione dell’irreversibilità del progresso delle democrazie e dobbiamo seriamente temere della loro stessa sopravvivenza, nelle forme consegnateci dalle ideologie ottocentesche e novecentesche. Allo stesso modo abbiamo perso l’illusione che, con cadute e incertezze, potesse essere irreversibile, quantomeno nei sistemi democratici, il processo di pace. L’arretramento nella lotta alle disuguaglianze e alle discriminazioni e quello sul piano dei diritti nel mondo del lavoro è preoccupante e potrebbe essere irrecuperabile, ma per quanto riguarda le donne le cose sono diverse. Si tratta di un cambiamento non solo politico, sociale ed economico, quindi in qualche misura contingente, ma di un mutamento antropologico, che ha interessato il modo di essere, la natura delle persone e non solo delle donne. Anche gli uomini infatti stanno, sia pure più lentamente, subendo una trasformazione significativa. È vero che questo vale soprattutto per il mondo occidentale (la lotta delle donne iraniane al grido di “Donna, vita e libertà” ci restituisce un quadro ben diverso) e che, nel nostro mondo, la messa in discussione del diritto all’aborto aggredisce alla radice il principio di autodeterminazione, ma tutto questo non smentisce la natura del cambiamento, ci avverte solo della necessità di un impegno costante per realizzarlo compiutamente.

 

 

*  Testo redatto a partire dall’intervento del 9 novembre 2024, tenuto in occasione del Convegno dedicato ai sessant’anni di Magistratura democratica – Roma, Campidoglio, Sala della Protomoteca, 9-10 novembre 2024.