La critica dei provvedimenti giudiziari. Dal caso Tolin al caso Tortora e all’attualità
1. Le vicende degli ultimi anni, e quelle delle ultime settimane in particolare, confermano che chi esercita il potere ricerca consensi e non ama critiche. Chi poi manca di cultura democratica e costituzionale, non riesce neppure a tollerarle; non considera normale l’esistenza delle istituzioni di garanzia e della libera stampa, tanto meno sopporta critiche al suo operato. Se questo avviene nel 2024, dopo 76 anni di vigenza della Costituzione repubblicana, non è difficile immaginare quanto fossero intollerabili le critiche negli anni sessanta, tanto più che il potere, qualunque potere, era assolutamente refrattario ad accettare il pluralismo culturale, sociale e politico.
Soltanto il potere legislativo era stato più volte oggetto di critiche da parte di un’opinione pubblica (peraltro molto ristretta) nel corso dell ‘800 e dei primi decenni del ‘900. La curvatura totalitaria del ventennio fascista aveva poi impedito ogni tipo di critica al Governo, se non a prezzo di rilevanti rischi per la libertà e l’incolumità dei dissenzienti.
Il potere meno abituato alla critica pubblica era quello giudiziario, per il quale qualsiasi critica, diversa da quelle paludate delle riviste giuridiche per addetti ai lavori, costituiva una assoluta e indigesta novità.
Se vogliamo essere davvero laici, nel momento in cui discutiamo di controllo e di critica all’esercizio del potere, dobbiamo tenere conto che il potere (quale che sia, politico, economico, giudiziario) ha un connotato tendenzialmente insofferente alla critica.
2. È con questa consapevolezza che va affrontata la questione delle critiche dei magistrati ai provvedimenti giudiziari, questione esplosa con il cd. “ordine del giorno Tolin”. Fu in tal modo denominato dalla stampa un documento, approvato da una assemblea di Md a Bologna il 30 novembre 1969, in occasione di un ordine di cattura facoltativo, disposto dalla Procura di Roma nei confronti di Francesco Tolin per i reati di apologia di reato e istigazione a delinquere, in relazione a un articolo comparso sul periodico Potere Operaio, di cui Tolin era direttore responsabile[1].
Il documento, che non menzionava neppure il nome di Tolin, «di fronte a ripetuti recenti casi che hanno messo in pericolo in vari modi la libertà costituzionale del pensiero», esprimeva «profonda preoccupazione» per l’emergere di un «disegno sistematico, operante con vari strumenti e a diversi livelli, teso a impedire la libertà di opinione» e chiedeva l’impegno dei «poteri pubblici dello Stato, ciascuno nell’ambito delle proprie attribuzioni», a «rimuovere le origini di tale fenomeno, mediante riforme legislative (abrogazione dei reati politici di opinione)»; concludeva con la richiesta all’Anm di indire un convegno nazionale per dibattere tali temi.
Quel documento ebbe grande risonanza anche perché non c’erano precedenti di tal genere in epoca repubblicana, risalendo al ventennio fascista l’ultimo arresto di un direttore di giornale. Seguirono discussioni, polemiche e attacchi a Md da parte dello schieramento più conservatore. Lo scontro tra i vari gruppi associativi fu intenso, ma non apparve dirompente fino alle bombe di Piazza Fontana (12 dicembre 1969). Nel clima di sconcerto seguito alla strage e nel quadro di una massiccia campagna di ordine nel Paese e in magistratura, quel documento fu assunto come la pietra dello scandalo perché venne ritenuto capace di rappresentare una interferenza in un processo in corso. I più esagitati giunsero persino ad addebitare a Md la responsabilità morale della strage. Presero le distanze dal documento di Md anche magistrati che lo avevano approvato nell’assemblea bolognese[2].
La questione delle critiche ai provvedimenti giudiziari da parte di magistrati (che nel linguaggio della destra vennero sempre qualificate come “interferenze”) esplose nel dicembre del 1969, ma era stata oggetto di una circolare del Csm del 1966. Questa, senza neppure un cenno all’art. 21 Cost. e alla ben nota sentenza n. 9/1965 della Corte costituzionale[3], «consentiva al magistrato di esprimere pubblicamente il proprio giudizio solo per quanto attiene al problema giuridico di una pronuncia giurisdizionale, con esclusione di ogni valutazione inerente al merito e soltanto quando fosse stata pronunciata almeno la sentenza di primo grado»[4].
La pubblicazione del cd. “odg Tolin” – che violava quella circolare, non soltanto estranea alle competenze del Csm, ma anche illegittima, perché priva di ogni base giuridica – fu l’occasione o, meglio, il pretesto per isolare Md, in quanto esso in realtà manifestava una divisione ben più profonda. Il tema di fondo della questione, come sottolinea Antonella Meniconi «era quello della repressione dei reati di opinione (cioè della libertà di stampa), anche se l’approvazione del documento di Md venne visto a destra come un tentativo di condizionamento dell’attività giudiziaria (il processo era ancora in corso e oggetto di grande attenzione da parte dei giornali)»[5].
Si ruppe la giunta associativa, ma l’Anm fu capace di organizzare un interessante congresso a Torino (settembre 1973) dedicato a “Giustizia e informazione”, che vide la partecipazione anche di molti giornalisti e costituzionalisti e i cui atti furono pubblicati, nel 1975, da Laterza in un bel volume della collana “Biblioteca di Cultura”, la cui lettura, a cominciare dall’introduzione del Prof. Nicolò Lipari, consiglio soprattutto ai giovani per avere un’idea realistica sia delle questioni dibattute in quegli anni sia del livello dei contributi che alla discussione associativa fornivano giuristi come Barile, Dall’Ora, Fiore, Pizzorusso...
Ovviamente in quel congresso si discusse molto delle critiche ai provvedimenti giudiziari, con specifico riferimento a quelle provenienti da magistrati e da gruppi di magistrati, ossia da Magistratura democratica, unico gruppo ad averle fatte.
Con l’eccezione di qualche posizione reazionaria[6], il tema fu affrontato con serietà e impegno. I più conservatori – così come aveva fatto la circolare del Csm nel 1966 – tentarono di individuare una distinzione tra sentenze definitive e procedimenti ancora in corso, ritenendo legittime le critiche soltanto in relazione alle prime, per il rischio – nei procedimenti in corso – che potessero costituire forme di pressione e di intimidazione e, perciò, di attacco o condizionamento all’indipendenza. Ma, in tal modo – si replicò dal fronte progressista –, la critica veniva ridotta a una lamentazione per il fatto compiuto[7]!
La questione fu affrontata con approfondite e tuttora valide argomentazioni nella relazione di Pulitanò (relatore designato da Md), nelle comunicazioni di Senese, di Accattatis, di Bruti Liberati e negli interventi di Onorato, e dei Proff. Barile, Fiore e Pizzorusso.
3. Da quel congresso la posizione di Md uscì costituzionalmente legittimata come espressione di libertà di manifestazione del pensiero sia dei singoli magistrati, sia – in forza del rapporto tra gli artt. 21 e 2 Cost. – dei gruppi di magistrati, quali formazioni sociali ove si svolge la personalità dei singoli.
Ciò nonostante, fu mantenuto in vita l’accordo tra le altre correnti associative, che avevano stipulato una conventio ad escludendum di Md in una sorta di “preambolo programmatico” che subordinava la legittimazione a partecipare alla giunta dell’Anm a due condizioni: non praticare la critica ai provvedimenti giudiziari; non avere contatti con l’esterno della magistratura[8] – i due connotati specifici che avrebbero accompagnato, con alterne vicende, tutta la storia di Magistratura democratica.
Su sollecitazione di Magistratura indipendente, che aveva proposto la qualificazione della cd. interferenza dei magistrati come illecito disciplinare, il Ministro della giustizia (con circolare n. 77 del 14 novembre 1972) riprese la vecchia circolare del Csm, ribadendo che il diritto di critica dei magistrati doveva limitarsi al problema giuridico, sempreché fosse intervenuta una sentenza di primo grado[9].
Le posizioni conservatrici, indifferenti a problemi di costituzionalità, avevano motivazioni profonde, ma del tutto anacronistiche. La corporazione, che già sopportava a fatica che l’opinione pubblica potesse criticate le sentenze così come criticava le leggi, non poteva tollerare che le mura della “cittadella giudiziaria” potessero essere incrinate dall’interno. Tanto meno poteva accettare che fossero messe in discussione l’apoliticità e la neutralità tecnica dell’interpretazione giurisdizionale, che ancora costituivano componenti importanti della tradizionale ideologia giuridico-istituzionale.
Le critiche di Md disvelavano l’inconsistenza e la falsità di tali feticci, i quali in realtà, consapevolmente o meno, coprivano la consonanza politica con la cultura dominante delle forze di maggioranza: questa fu l’inaccettabile “eresia” di Md, che aveva così consumato – come scrisse Borrè – «uno scisma dentro la cittadella della giurisdizione»[10].
Fu la travagliata vicenda giudiziaria che seguì la strage di Piazza Fontana a incaricarsi di rendere evidente la necessità della critica tempestiva e informata dei magistrati alle attività di pm e di giudici, prima che si realizzasse un danno irreparabile e definitivo.
Le tante critiche provenienti da una pluralità di parti nei confronti della “verità ufficiale” sulla pista anarchica, che si era tentato di imporre nei giorni successivi al 12 dicembre 1969, frantumarono certezze granitiche sulla neutralità giudiziaria. Non mancarono azioni penali e disciplinari nei confronti di giornalisti e di magistrati che avevano pubblicato inchieste e documenti critici[11], rendendo evidente la parzialità, politicamente finalizzata, di tanti interventi giudiziari nell’odissea processuale relativa alla strage.
Come esempio emblematico di approfondita, documentata ed efficace critica alle attività e ai provvedimenti giudiziari in corso, merita di essere ricordato, anche per la grande amicizia che ci ha legato per tutta la vita al suo curatore, il libro Valpreda +4[12], redatto da magistrati della sezione romana di Md, coordinati da Luigi Saraceni. Pochi sanno che a quel lavoro collaborò lo scrittore Ugo Pirro[13], il famoso sceneggiatore di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (di Elio Petri) e de Il giardino dei Finzi-Contini (di Vittorio De Sica). Rimane memorabile la sollecitazione contenuta nella introduzione di Giuseppe Branca (già presidente della Corte costituzionale nel biennio 1969-1971): «Bisogna che leggiate attentamente questo libro: se non altro apprenderete come non devono essere condotte le istruttorie penali».
4. Erano queste le attività che la destra, interna ed esterna alla magistratura, definiva “interferenze” sui procedimenti giudiziari. Definizione squalificante e fuorviante, successivamente rivolta anche nei confronti della rivista Quale giustizia, proprio perché essa analizzava sistematicamente e, quando necessario, criticava efficacemente i provvedimenti giudiziari di merito e di legittimità, così contribuendo alla più compiuta informazione dell’opinione pubblica e, soprattutto, a evitare usi distorti degli strumenti penali e processuali.
Nonostante il trascorrere del tempo e i tanti mutamenti intervenuti nel costume sociale e anche in quello dei magistrati, non mutarono comportamenti e reazioni delle componenti più corporative del mondo giudiziario.
Per necessità di sintesi, ci limitiamo a ricordare il caso emblematico e ancora lacerante di Enzo Tortora, arrestato il 17 giugno 1983 con l’accusa di associazione camorristica e traffico di droga. Sono noti, e tuttora oggetto di forti polemiche, la dolorosa vicenda di Tortora e il clamoroso errore giudiziario della Procura e del Tribunale di Napoli, che per anni riempirono giornali e notiziari televisivi, per lo più con acritiche ripetizioni di accuse calunniatrici.
Si ricorda meno che l’innocenza di Tortora venne riconosciuta dalla Corte d’appello di Napoli e dalla Cassazione e soprattutto si dimentica che non mancò la voce di Magistratura democratica a contestare sia la torsione degli strumenti processuali adoperati sia la chiusura corporativa della magistratura che rigettò ogni critica a quel clamoroso errore, giustamente definito «frutto avvelenato della disattenzione, della superficialità, dello spirito burocratico con cui si accusa e si giudica»[14].
Le argomentate critiche, espresse dalla dirigenza di Md in una affollatissima conferenza stampa a Castel Capuano nel marzo 1989, suscitarono reazioni veementi di altri gruppi e portarono alle dimissioni della giunta dell’Anm. Erano trascorsi 17 anni dal 1972, ma anche in quella occasione la maggioranza dell’Anm non poté tollerare che dall’interno della magistratura venissero formulate critiche alle attività giudiziarie e alla gestione degli uffici. Scattò immancabilmente la coazione a ripetere: la corporazione reagì ancora una volta con l’accusa di indebita interferenza. Secondo la logica di sempre, per la maggioranza associativa Md aveva perso legittimazione a dirigere l’Anm, avendo violato un cardine fondamentale della corporazione!
Non mancarono certamente altri episodi di critica di Md a provvedimenti giudiziari, e tuttavia – come nel 1992 puntualizzò Giuseppe Borrè – «ciò avvenne raramente, in casi gravi ed emblematici, e fu il trauma più forte provocato dalla nuova cultura di Md, che ci pose per lungo tempo ai margini del sodalizio associativo della magistratura e che è forse ancora oggi una ferita non chiusa»[15].
Ferita aperta al punto che l’auspicio ricorrente del gruppo di Magistratura indipendente fu realizzato dall’ordinamento giudiziario Berlusconi-Castelli con legge 25 luglio 2005, n. 150: l’art. 3.1., lett. f, previde espressamente come illecito disciplinare «la pubblica manifestazione di consenso o di dissenso in ordine ad un procedimento in corso quando, per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio è espresso, sia idonea a condizionare la libertà dei decisione nel procedimento medesimo». Come è noto, quella previsione non entrò mai in vigore perché fu abrogata dall’art. 3.3., lett. d della l. 24 ottobre 2006, n. 269, approvata dopo le elezioni del 9 aprile 2006 da una maggioranza politica di diverso orientamento.
5. In democrazia la sfera pubblica d’informazione, di discussione e di critica è uno degli strumenti sociali per il controllo del potere in ogni suo ambito, quello politico e quello economico, quello di governo e quello legislativo e, ovviamente, quello giudiziario. Per essere efficace e non ridursi a esercizio di memoria o a lagnanza per il fatto compiuto, tale controllo non può limitarsi ai risultati dell’esercizio del potere, ma deve poter investire anche il suo svolgersi, mettendo in conto probabili forti reazioni di chi quel potere esercita, il quale verosimilmente denuncerà di essere vittima di attentato istituzionale per pregiudizio politico e opposizione preconcetta.
Anche se risulta urticante agli attuali governanti, il diritto di critica è elemento essenziale della vita democratica quale componente della libertà di espressione e, come ha più volte affermato la Corte costituzionale, spetta a tutti, anche ai magistrati, singoli o associati. Sarebbe d’altronde ben strano che dall’esercizio di tale diritto fosse escluso il magistrato dal momento che l’ordinamento richiede proprio a lui di esercitare un ruolo critico nei confronti della stessa legge, al fine di escludere ogni dubbio di incostituzionalità o di contrasto con la normativa dell’Ue ovvero, in caso di dubbio, di investire della questione la Corte costituzionale e, se del caso, esercitare il potere di rinvio pregiudiziale alla Corte sovranazionale.
Ovviamente, come ha stabilito la stessa giurisprudenza costituzionale, la libertà di manifestazione del pensiero per la generalità dei cittadini non è senza limiti, «purché questi siano posti dalla legge e trovino fondamento in precetti e principi costituzionali, espressamente enunciati o desumibili dalla Carta costituzionale», come il principio di imparzialità e quello di indipendenza, che «vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento» e il cui «equilibrato bilanciamento (…) non comprime il diritto alla libertà di manifestare le proprie opinioni, ma ne vieta soltanto l’esercizio anomalo e cioè l’abuso» (Corte cost., n. 224/2009).
Il problema non è se, ma come si può criticare. Vale per le dichiarazioni di gruppo ciò che vale per il singolo magistrato, come non si stanca di ripetere Nello Rossi nei suoi interventi su Questione giustizia, «quando è un magistrato a prendere la parola o a scrivere per il grande pubblico, il cittadino ha il diritto di attendersi che il suo potenziale accusatore o giudice parli e argomenti in modo chiaro e comprensibile; che partecipi al discorso pubblico come un attore razionale, capace di ascolto degli argomenti altrui e di repliche meditate; che non prorompa nell’urlo fazioso, nell’invettiva, nella semplificazione magari brillante ma brutale e fuorviante»[16].
Con tali doverose avvertenze, dobbiamo ribadire ciò che affermò Salvatore Senese in quel lontano convegno dell’Anm del 1973, cioè che la critica pubblica dei provvedimenti giudiziari da parte di magistrati adempie una duplice funzione: per un verso, «svolge nel contesto sociale la preziosa funzione di incentivatore del controllo e del dibattito pubblico sulla giustizia», apportandovi un contributo di sapere e competenza anche tecnica; per altro verso, «anche all’interno dell’ordine giudiziario essa svolge una funzione estremamente utile in quanto contrasta la tendenza latente in ogni istituzione a considerarsi come autosufficiente e richiama insistentemente i magistrati all’elementare principio democratico che vuole tutte le istituzioni controllate dall’opinione pubblica»[17].
Come ha sottolineato recentemente Luigi Ferrajoli, «la critica pubblica anche da parte dei magistrati dei provvedimenti dei giudici, come fattore di responsabilizzazione e democratizzazione della funzione giudiziaria, è stata uno dei motivi animatori dell’azione di Md delle origini: la forma più efficace, e forse proprio per questo avversata, nella quale può farsi valere la responsabilità sociale dei magistrati»[18].
Si deve piuttosto riconoscere come, a volte, quel connotato originario e originale, l’attività di critica dei provvedimenti, sia rimasto un ricordo storico, anche quando, nel silenzio quasi generale, la critica da parte di Md sarebbe stata assolutamente doverosa e necessaria per contribuire a immettere nel discorso pubblico un punto di vista diverso da quello dominante e fuorviante. Basti pensare, per venire a tempi più recenti, al processo cd. “trattativa”, ove non soltanto la voce critica di Md è mancata, ma addirittura sono state attorniate da gelido silenzio, quando non fatte oggetto di astiosa critica, quelle poche voci (tra cui quella di Giovanni Fiandaca, di Nello Rossi, di Giovanni Palombarini e di chi scrive queste note) che si erano levate per manifestare il loro sconcerto per la singolare pre-incriminazione di una figura adamantina come quella di Giovanni Conso e che, più in generale, avevano per tempo sollecitato vigilanza sulle esorbitanze e sulle derive populiste dell’azione penale e del successivo procedimento.
Certamente ragioni molteplici (ma non tutte condivisibili) hanno determinato l’appannamento della dimensione critica di Md. Rimane il fatto che a volte essa non ha saputo contrastare un offuscamento del ruolo e dell’immagine di garanzia generale, connotato proprio della giurisdizione, omettendo di criticare casi non infrequenti di soggettivo protagonismo di pubblici ministeri, usi distorti degli strumenti processuali e della coercizione personale, trasformazioni delle modalità di espiazione della pena in un’intollerabile pena supplementare come l’utilizzazione abnorme del 41-bis, condanne a pene spropositate e feroci, come quella inflitta dal giudice di primo grado al Sindaco di Riace, Mimmo Lucano.
È venuta così a mancare una voce critica competente, informata e credibile; uno stimolo e un pungolo per la magistratura e per i magistrati, che si sono sentiti sempre “coperti” dalla corporazione; un contributo di conoscenza e di sapere alla società civile per arricchire il dibattito pubblico sulla giustizia; un esercizio di pluralismo capace di riportare dialettica di idee e di valori nella vita dell’Anm.
Per tale ragione, dobbiamo anche oggi raccogliere e fare nostra l’accorata sollecitazione di Pino Borrè alla “vigilanza”, a non stancarci di assolvere il compito di tutela e di guardiania «intransigente dei valori fondamentali; di denuncia aperta e aspra di ciò che li pone in pericolo; fino alla resistenza, se la gravità del caso lo richiede. (…) La vigilanza democratica è la ragione per cui siamo nati e il traguardo al quale dobbiamo ancora guardare per il futuro».
* Testo redatto a partire dall’intervento del 9 novembre 2024, tenuto in occasione del Convegno dedicato ai sessant’anni di Magistratura democratica – Roma, Campidoglio, Sala della Protomoteca, 9-10 novembre 2024.
1. Per una dettagliata analisi, vds. M. Ramat (a cura di), Storia di un magistrato. Materiali per una storia di Magistratura democratica, Manifestolibri, Roma, 1986, p. 22, ove è pubblicato il manoscritto del documento, redatto dallo stesso Ramat. Il testo dell’“odg Tolin” è riportato anche in A. Pizzorusso (a cura di), L’ordinamento giudiziario, Il Mulino, Bologna, 1974, p. 33, nonché parzialmente in E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Bari, 2018, p. 123.
2. E. Bruti Liberati, op. ult. cit., p. 123; V. Zagrebelsky, La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi, in Storia d’Italia. Annali - n. 14, Legge Diritto Giustizia, Einaudi, Torino, 1998, p. 771; G. Palombarini e G. Viglietta, La Costituzione e i diritti. Una storia italiana. La vicenda di Md dal primo governo di centro-sinistra all’ultimo governo Berlusconi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2011, pp. 76-77.
3. Secondo cui «la libertà di manifestazione del pensiero è tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione, una di quelle anzi che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato (…). Ne consegue che limitazioni sostanziali di questa libertà non possono essere poste se non per legge (riserva assoluta di legge) e devono trovare fondamento in precetti e principi costituzionali».
4. La circolare del Csm n. 6910 del 22 aprile 1966, avente ad oggetto «Dichiarazioni alla stampa e alla televisione dei magistrati», fu redatta dalla IV Commissione referente, approvata dal plenum nella seduta del 31 marzo e trasmessa dal Comitato di Presidenza ai presidenti e ai procuratori generali delle corti d’appello. È pubblicata in N. Lipari (a cura di), Giustizia e informazione. Atti del VX Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati, Laterza, Bari, 1975, pp. 283-284.
5. A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 123.
6. Secondo M. Cicala, Md era «parte (…) di uno schieramento politico, già (…) potentissimo e che in un prossimo futuro potrebbe giungere al potere», nei cui principi programmatici non rientrava il rispetto dell’indipendenza della magistratura – vds. N. Lipari (a cura di), Giustizia e informazione, op. cit., p. 404.
7. Si sarebbe così rafforzata – osservò ironicamente il Prof. Carlo Fiore – la tendenza del «giurista teorico ad essere (…) un archivista del diritto e non un attivo operatore della giustizia», aggiungendo «[g]uai se, per esprimere il proprio punto di vista, il giurista dovesse attendere il giudicato o, addirittura, il consolidarsi degli orientamenti della Cassazione; diventeremmo tutti storici del diritto e, nel frattempo, prassi giudiziarie, magari errate, magari perniciose (si pensi a interpretazioni restrittive in tema di libertà personale) si consoliderebbero sempre più» – in N. Lipari, op. ult. cit., pp. 418-419.
8. G. Palombarini e G. Viglietta, La Costituzione e i diritti, op. cit., p. 97.
9. Ibid.
10. G. Borrè, Le scelte di Magistratura democratica, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Franco Angeli, Milano, 1994, p. 41, nonché in L. Pepino (a cura di), L’eresia di Magistratura democratica. Viaggio negli scritti di Giuseppe Borrè, Franco Angeli, Milano, 2001, p. 233.
11. Va ricordato, tra l’altro, che il pg della Cassazione avviò un procedimento disciplinare per la presa di posizione dell’esecutivo di Md sul processo Pinelli e per il documento critico sul processo Valpreda redatto dell’esecutivo milanese dell’Anm.
12. Valpreda +4. Anatomia e patologia di un processo, La Nuova Italia, Firenze, 1973.
13. G. Palombarini e G. Viglietta, La Costituzione e i diritti, op. cit., p. 96.
14. N. Rossi, Md e il caso Tortora. Ma l’errore interroga tutti i magistrati, in Questione giustizia online, 29 giugno 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/md-e-il-caso-tortora-ma-l-errore-interroga-tutti-i-magistrati).
15. G. Borrè, Le scelte, op. cit., p. 233.
16. N. Rossi, Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2018, pp. 245-254 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/568/qg_2018-4_25.pdf).
17. S. Senese, La critica dei provvedimenti giudiziari da parte dei magistrati, in N. Lipari (a cura di), Giustizia e informazione, op. cit., p. 252.
18. L. Ferrajoli, Giustizia e Politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, Laterza, Bari, 2024, p. 275.