I primi passi di Md: la Sezione Toscana negli anni ’60
1. La nascita di Magistratura democratica ha certamente coinvolto molti magistrati di varie Regioni italiane.
A prima vista, non sembrava che ci fossero spazi per un nuovo raggruppamento di magistrati. I primi anni sessanta avevano visto l’Associazione nazionale magistrati impegnata nella tranquilla gestione dell’esistente. Non che mancasse il dibattito e il confronto tra le correnti, che esistevano ormai da tempo e che contavano un discreto numero di iscritti. Gli obiettivi perseguiti dall’Anm erano certamente importanti per la categoria, ma fino ad allora non avevano avuto di mira il rinnovamento dell’intero ordine giudiziario alla luce dei principi costituzionali. La corrente più forte e organizzata, Terzo Potere, era nata nel 1957 sulla spinta di un’esigenza di rinnovamento che, agli inizi, non riuscì a tradursi in convincenti proposte riformatrici. Ma ebbe un forte seguito sotto la guida di Salvatore Giallombardo, magistrato di grande valore e di intensa umanità: l’azione della corrente divenne convincente e, anzi, dirompente quando Giallombardo fondò i Comitati per la giustizia, che ebbero grande successo. La corrente minoritaria in quegli anni era quella di Magistratura Indipendente: saldamente attestata su posizioni conservatrici, era guidata da Nicola Serra, un magistrato sardo da tempo trasferitosi a Firenze. Aveva il consenso dei molti colleghi che non amavano l’impegno pubblico dei magistrati, nella convinzione che la riservatezza e il silenzio fossero l’abito necessario per il decoro e la reputazione della magistratura.
C’era un’altra organizzazione di magistrati, nata nel 1960 col nome di Unione delle Corti, ad opera dei soli giudici di Cassazione, francamente reazionaria. Nel 1961 lasciò l’Anm, in forte contrasto con la linea della maggioranza assumendo il nome di “Unione Magistrati Italiani” (UMI), e i più insolenti tra noi giovani la chiamavano “Unione Monarchica Italiana”, con riferimento alle sue non più attualissime finalità. La corrente, non molto folta, raccoglieva le toghe più tradizionaliste, per lo più appartenenti alla Corte di cassazione, sotto la guida del Procuratore generale torinese Giovanni Colli. Lo scontro ideale tra le correnti si era fatto aspro, soprattutto per l’aria nuova che veniva dalle proposte di Terzo Potere e dal lucido attivismo di Giallombardo. Fu questo clima di novità, la sensazione che qualcosa si stesse davvero muovendo dentro l’ordine giudiziario, che indusse pochi magistrati (non tutti giovanissimi e taluno, anzi, già conosciuto e autorevole) a riunirsi al “Collegio Irnerio” di Bologna il 4 e 5 luglio 1964. Con una mozione di sette pagine ciclostilate, votata da 29 dei colleghi presenti, nasceva la nuova corrente di Md in seno all’Associazione nazionale magistrati. Curiosamente, per una serie di motivi del tutto casuali, tra i colleghi intervenuti al Collegio Irnerio non c’era nessun magistrato della Toscana. In quella assemblea non c’era neppure Marco Ramat.
2. Eppure Marco, forse più di tutti quelli presenti, aveva provato a scuotere l’inerzia della magistratura di quel tempo. Di più, nei primi anni ’60 aveva cominciato a immaginare un assetto della magistratura strutturato secondo i principi della Costituzione.
Ramat, prima sul Ponte, poi sul Mondo e, contemporaneamente, sulla Nazione di Firenze (dove si firmava con lo pseudonimo di Libero Barberis) e sull’Astrolabio, scriveva articoli che denunciavano i tratti più illiberali e gli inutili formalismi della funzione giudiziaria. Per quanto la nuova corrente annoverasse personaggi di spicco e di grande valore, capaci – come si vide in seguito – di elaborazioni di notevole spessore, nessuno come Marco era stato in grado di individuare e sollevare i temi di un radicale rinnovamento della magistratura e della giurisdizione in Italia. Nessuno più di lui sarebbe stato in grado di disegnare le linee programmatiche della corrente appena nata. Questa sua maturità di pensiero derivava senza dubbio dalla continua ricerca sui temi della giustizia che, come abbiamo visto, conduceva da qualche anno con impegno su giornali quotidiani e su varie riviste. Per queste ragioni può apparire sorprendente che Ramat non fosse presente al Collegio Irnerio, ma quell’assenza (di cui, che io ricordi, non ha mai fornito una motivazione o una giustificazione) non lo turbò, o non lo dette a vedere. Capì subito che quella era l’occasione buona, tanto che poco dopo, il 26 settembre del 1964, scrisse sul Mondo un articolo (su cui tornerò) dal titolo «Il magistrato democratico», che, commentando la nascita di Md a Bologna, la definiva un rimedio «contro il vuoto ideologico nella magistratura italiana». E credo che sia interessante seguire brevemente il percorso dell’elaborazione di Marco sui temi della giustizia, soprattutto perché la sua capacità di individuare i nodi essenziali del rinnovamento in nome del quale era nata Md permise di definire concretamente obiettivi, programmi e perfino parole d’ordine che hanno in seguito rappresentato il volto più convincente dell’azione di Md, almeno fino alla scissione del dicembre 1969.
Dirò subito che non mancavano gli uomini di spicco tra i fondatori di Md. C’era, ad esempio, Dino Greco, giudice a Milano, già noto per i suoi saggi di sociologia giudiziaria; c’era Riccardo Pacifici, Sostituto procuratore a Bologna, che era stato membro del Csm; c’era Federico Governatori, Pretore a Bologna, già conosciuto per aver sollevato la questione di legittimità costituzionale della legge istitutiva del Csm. Insomma, non mancavano le intelligenze e la capacità di analisi sui temi della giustizia in Italia. E altre intelligenze si aggiunsero ben presto al gruppo iniziale: penso, per esempio, a Luciano Violante a Torino, Gianni Palombarini a Padova, Antonio Porcella a Cagliari, Salvatore Mannuzzu a Sassari, Mimmo Pulitanò a Milano e Igino Cappelli a Napoli. Sono i primi nomi che mi vengono in mente, ma certamente ve ne furono altri di pari bravura e autorevolezza.
Se Marco dunque assunse di fatto il ruolo di guida dell’azione del gruppo, la ragione va cercata nelle indagini che da qualche anno egli veniva facendo sul rapporto tra giustizia e cittadini, tra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato e sulla difficoltà di cambiare la giustizia solo attraverso la politica.
3. Dapprima, tuttavia, l’attenzione di Ramat non era rivolta ai temi più generali che sopra ho indicato. Aveva iniziato presto, poco più che ventenne, a scrivere sul Ponte, la rivista fiorentina di Piero Calamandrei sostenuta dagli amici azionisti, protagonisti della Resistenza al fascismo, tra i quali figuravano il padre di Marco, Raffaello Ramat, Carlo Furno, Enriques Agnoletti e altri noti intellettuali fiorentini. Il primo articolo, del 1953, portava il titolo Il danno e le beffe, seguito da una quindicina di recensioni varie, scritte fino alla fine del 1957. Dal 1958 in poi, l’approccio di Marco ai temi della giustizia cambiò. Entrato in magistratura, si fece subito notare per le sue qualità. Il suo interesse era tutto rivolto alle caratteristiche e alle implicazioni del processo penale. Cominciò a scrivere sulla Nazione, il quotidiano fiorentino della conservazione, con lo pseudonimo di Libero Barberis. La sua prima rubrica, Note giudiziarie, era dedicata a commentare decisioni e sentenze su fatti che avevano avuto eco sui mezzi di informazione o su casi singolari di cronaca quotidiana. Naturalmente, affrontava anche i temi rilevanti di attualità giuridica e sociale: la “legge Merlin”, i progetti di amnistia, il reato di adulterio (che già strideva con il sentire medio della borghesia), la questione dei limiti della legittima difesa e del diritto di uccidere. La collaborazione intensa con La Nazione durò fino alla fine del 1966, poi diventò meno puntuale dal 1967 e si chiuse con il 1968. I tempi erano ormai mutati: era arrivato, appunto, il ’68 con la sua enorme carica di novità e di rottura.
4. Ma Ramat in quegli anni non scriveva solo per La Nazione. Scriveva regolarmente per Il Ponte su temi quasi sempre di carattere giuridico, con riferimenti costanti alla Costituzione. Con quella rivista Marco manterrà i rapporti, continuando a scrivervi fino ai suoi ultimi giorni.
In quegli anni, certamente dal 1961 al 1966, Ramat scriveva anche su Resistenza, una testata che si occupava soprattutto di contrastare il rinascente neofascismo e di denunciare i fenomeni di sopravvivenza di leggi e prassi propri del regime fascista. E si capisce che, in quelle pagine, Marco fu chiamato a scrivere della richiesta, allora molto sentita, di mettere fuori legge il MSI, oppure della applicazione della legge Scelba del 1952, scarsamente operante, allora come oggi; oppure ancora sulla prescrizione dei crimini nazisti. Ma forse gli scritti che più ci aiutano a capire il ruolo svolto da Marco nei primi cinque anni di vita di Magistratura democratica, sono quelli pubblicati sull’Astrolabio e sul Mondo. Sul primo comparvero, dal 1963 fino al 1969, puntuali interventi sui temi di fondo del nostro sistema giudiziario: dal reclutamento dei giudici ai privilegi della polizia, dal “sonno del legislatore” sui temi della giustizia ai rapporti tra i giudici e lo Stato, fino ai rapporti tra il processo e le ideologie correnti. È il caso di sottolineare una curiosità: nel numero dell’Astrolabio del 6 febbraio 1966, l’articolo di Ramat compare con il titolo «Magistratura. Quale giustizia?». Non fu un caso, credo, perché oltre tre anni dopo, in casa di Federico Governatori, durante la lunga discussione nella quale non trovavamo l’accordo sul titolo da dare alla nascente rivista di Md, ricordo che Marco se ne uscì con la proposta che non trovò obiezioni: “chiamiamola Quale giustizia”.
5. Per capire fino in fondo il percorso e lo sviluppo del pensiero di Marco nelle prime esperienze del suo mestiere di giudice, mi pare necessario scorrere alcune delle pagine scritte durante al sua collaborazione al Mondo di Pannunzio, che durò ininterrottamente dal 1961 fino alla chiusura della testata, avvenuta nel 1967.
Le prime riflessioni sono tutte dedicate al senso del “giudicare” e al rapporto del giudice con le parti del processo. In particolare, all’impatto che la sentenza ha sulle persone, imputati e parti offese, e sulla società nel suo insieme. Ad esempio (La confessione del giudice, Il Mondo, 17 gennaio 1961), Ramat nota che la motivazione scritta della sentenza raramente riflette davvero le ragioni profonde della decisione e il sentimento del giudice, non è mai la confessione vera del suo percorso logico e sentimentale: «Non posso e non voglio azzardare affermazioni assolute, ma temo proprio che di questi vari aspetti della dissociazione tra la realtà e l’apparenza legale (…) quello giudiziario della motivazione ufficiale diversa dalla motivazione vera, sia il più pericoloso e il più ingiusto di tutti gli aspetti e forse addirittura temo che esso sia di esempio a tutti gli altri e quindi, in un certo senso, causa di tutti gli altri». E ancora: «Tutti sappiamo che la giustizia in genere, e le cose giudiziarie in specie, non godono di buona fama nel mondo. Le letterature di ogni epoca sono piene di accuse verso la giustizia, accuse che i tecnici del diritto hanno il difetto di non prendere troppo sul serio con la scusa che provengono da non tecnici e da profani; invece proprio per questa provenienza tali accuse sono più fondate e più dovrebbero indurre a meditazione. Perché la giustizia non è fatta né per i giuristi né per i giudici, ma per coloro che devono riceverla e subirla; è la giustizia che ha il dovere di farsi capire da costoro, non questi ad avere il dovere di capire la giustizia. Ma per farsi capire è necessario dire la verità. Tutte quelle accuse verso la giustizia che ci giungono dalla letteratura hanno forse questa unica, profonda radice: un’accusa di ipocrisia, un’accusa di non dire tutto e di dire male».
Nello stesso articolo, una speciale attenzione era poi dedicata al tema della motivazione delle sentenze: «la motivazione deve essere la confessione del giudice. Nessun altro termine mi sembra esprimere meglio la posizione psicologica e morale nella quale dovrebbe trovarsi il giudice quando scrive la motivazione; siccome la verità della sentenza è solo la verità raggiunta dal giudice, non sarebbe mai possibile agli altri comprendere il perché di quella verità e di quella giustizia se non attraverso l’esame dell’animo del giudice stesso. Perché questo esame avvenga sul serio occorre prima di tutto che il giudice vi si sottoponga, lo accetti, vi si prepari e lo sostenga».
6. La lunga citazione ha il pregio di mostrarci alcuni tratti della formazione di Marco che lo accompagneranno lungo tutto il corso della sua attività di giudice e nella milizia in Md. Innanzitutto, la consapevolezza del fatto che il potere del giudice è un “potere terribile” che incide fortemente nella sfera privata delle persone e nel tessuto sociale: un potere, dunque, in cui il cammino della “coscienza” del giudice deve lasciare traccia dell’iter della decisione, che spesso invece viene motivata con argomenti giuridico-formali che non riflettono il sentimento vero del giudice. In secondo luogo, la necessità di adottare un costume giudiziario che parli non ai giuristi o agli esperti, ma a coloro nei cui confronti il processo civile o penale produce i suoi effetti. Marco fu tra i pochi a dare, fin dalle prime prove giudiziarie, un senso di compiuta democrazia al principio costituzionale secondo cui «la giustizia è amministrata in nome del popolo», nel senso di escludere che il giudice potesse essere il celebrante di un rito incomprensibile per il “popolo” cui era destinato.
Da quella trincea Marco non si è mai mosso: pretendeva dagli avvocati, con garbata ironia, un linguaggio meno aulico, chiedeva al legislatore di non nascondere i comandi della legge dietro incomprensibili fumisterie, rifiutava di usare formule per adepti nei suoi scritti, anche in quelli di carattere tecnico-giuridico. In una magistratura chiusa e sospettosa di ogni novità, il linguaggio oscuro e curiale era ancora la regola (e, purtroppo, anche oggi molti mostrano di non avere appreso l’antica lezione di Marco Ramat). Alle argomentazioni di Marco, e anche di qualcuno di noi, si rispondeva che il diritto e la giustizia sono anche riti che abbisognano di una certa tecnica, la tecnica del diritto, appunto. E Marco replicava: «Se (…) è vero, come io credo, che la tecnica della giustizia abbraccia tutto il complesso dei modi e degli stili umani che concorrono alla formazione delle sentenze, allora questo è un problema tecnico, il più tecnico che si possa immaginare. Al tempo stesso è un problema che, per essere della giustizia, è anche di tutti gli uomini: lo sforzo di oggi deve essere quello di fondare un “umanesimo giudiziario” capace di assorbire senza tradirli tutti gli aspetti vivi della realtà, per raggiungere una giustizia fatta dagli uomini e per gli uomini. La frattura tra il diritto e la realtà, fra la giustizia e gli uomini, che soffoca e rende incomprensibile gran parte della giustizia di oggi e di ieri, può essere superata solo da questo umanesimo» (La confessione del giudice, op. cit.).
7. Questo nuovo “umanesimo giudiziario” era per Marco la prospettiva che, frontalmente, contrastava con quella che già allora gli appariva un guasto antico e insuperabile: l’isolamento del giudice e l’isolamento della giustizia. Non solo l’isolamento quasi fisico dei giudici avvolti nei loro paramenti e chiusi nelle loro stanze, ma la loro assenza dal dibattito civile, dalla vita sociale e (figurarsi!) dalla vita politica. Ma anche l’isolamento della giustizia dalla gente comune: l’attività giudiziaria ordinariamente vissuta come una disgrazia che ti può capitare, governata da una casta chiusa e poco trasparente, lontana dai bisogni reali della gente comune. Quando capitava che, in ambienti molto ristretti, si deplorasse questa lontananza della giustizia dalla vita della comunità, la risposta dei benpensanti era che l’isolamento era la conseguenza necessaria e inevitabile dell’indipendenza della magistratura.
Proprio nei primi anni ’60, così, Marco comincia a riflettere: «In realtà indipendenza della magistratura e isolamento della giustizia sono due concetti assolutamente diversi e, per certi aspetti, opposti, incompatibili. Il giudice che non alza gli occhi dal codice, come se in quelle formule fosse rivelata la verità; il giudice che non guarda nulla intorno a sé, che non sente, che non soffre le vicende sociali dalle quali prendono luce e sapore le vicende giudiziarie, non è un giudice indipendente; e non lo è per due motivi: non lo è prima di tutto perché la indipendenza del giudizio la si acquista non eludendo le scelte, ma impegnandovisi, non chiudendosi ai problemi ma aprendovisi; è indipendente colui che sceglie, tra più soluzioni possibili, quella che sembra giusta alla sua coscienza critica (e ciò presuppone conoscere valutare proprio le soluzioni più possibili); se il giudice si isola non è indipendente, ma indifferente, che è una cosa molto diversa» (La critica e il giudice, Il Mondo, 28 gennaio 1964). E, sull’equivoco concetto di indipendenza del giudice, aggiungeva: «Non è poi indipendente il giudice isolato, perché finirà, volente o nolente, cosciente o no, con l’ascoltare una voce sola: quella dell’ambiente ufficiale nel quale vive, la voce dell’ambiente “del potere”, che è una voce non disinteressata, come superficialmente si potrebbe credere, ma dotata di un preciso orientamento conservatore, per il semplice ineluttabile fatto che l’ambiente ufficiale è, in un paese come il nostro, alle soglie della democrazia, un ambiente che fa parte delle strutture social-psicologiche predemocratiche, di strutture della società come è, e che vuol restare com’è, non della società che sarà e che dovrà essere» (ivi).
Era forse ancora troppo presto perché la corporazione immobile dei giudici e forse, più in generale, dei giuristi potesse comprendere che solo una profonda rivoluzione interna dell’apparato giudiziario l’avrebbe salvata dall’isolamento. Ramat vide con grande lucidità il divorzio tra politica e cultura giuridica negli anni che precedettero e seguirono la Seconda guerra mondiale: «Uno storico del futuro che, quale unico documento di quegli anni avesse a disposizione le riviste giuridiche, a malapena e solo di straforo apprenderebbe che in quel periodo avvennero cose così gravi, prima durante e dopo il massacro. I giuristi sono rimasti uguali, apparentemente impassibili, sempre dediti con la medesima cura, con il medesimo stile, alle stesse questioni, allo stesso valore sorpassato» (Il giurista astratto, L’Astrolabio, 23 ottobre 1963).
8. C’era un altro equivoco che da molto tempo, nell’asfittico dibattito italiano sulla giustizia, consentiva di scambiare per indipendenza del giudice la sua indifferenza alle diverse condizioni personali e sociali dei cittadini e, in una parola, a una visione “politica” della società. Anzi, questa distaccata indifferenza alle oggettive differenze e diseguaglianze sociali veniva ritenuta un requisito essenziale per garantire l’imparzialità del giudice.
Oggi, in un momento in cui una politica addirittura più imbarbarita di quella di quel tempo ha posto il problema della imparzialità nel modo più rozzo possibile (come nel “caso Apostolico” e in quelli seguenti), non è inutile conoscere la lucida distinzione che Ramat faceva tra il giudice indifferente e il giudice imparziale: «L’imparzialità è un requisito essenziale del giudice in quanto tende a garantire che il giudizio non sia influenzato da posizioni critiche e da preconcetti consolidati; la indifferenza invece è augurabile che non sia di nessun giudice, perché equivale a disinteresse, a insensibilità, ad astrazione del giudice dalla vita che si esprime nel processo e che deriva direttamente dall’ambiente sociale nel quale vive il giudice stesso. È chiaro, quindi, non soltanto che il giudice non indifferente non tradisce la garanzia di imparzialità che giustamente gli si richiede, ma che al contrario è solo il giudice non indifferente che può offrire questa garanzia; per convincere che questo non è sottile gioco di dialettica, basta pensare che un giudice indifferente (ammesso che lo si trovi e io spero di no), cioè insensibile, non è in grado di recitare il ruolo istituzionalmente assegnatogli di interprete della coscienza sociale perché non esce mai da se stesso: perciò il giudice indifferente è proprio l’opposto del giudice imparziale perché mentre quest’ultimo è capace di ascoltare e di capire le più diverse e opposte voci, il primo ascolta e capisce solo se stesso e quindi porterà nel processo soltanto la propria deformazione personale, precostituita e inimitabile e perciò parziale nel senso più angusto del termine» (La legalità e la giustizia, Il Mondo, 13 febbraio 1962).
Non si dimentichi che quelli erano i giorni del processo Eichmann e che della imparzialità dei giudici chiamati a decidere si discuteva molto. Non solo di questo. Anche, e forse più, della dubitabile legalità del processo contro Eichmann e della certezza del diritto posta in dubbio dal fatto che il criminale nazista veniva processato come esecutore di ordini certamente legittimi per il diritto del tempo. E Marco, riferendosi alla prefazione di Alessandro Galante Garrone a un volume da poco pubblicato dall’Editore Einaudi, colse subito lo strappo che il giudizio in corso portava al valore della certezza del diritto; uno strappo reso possibile e necessario solo di fronte a un processo “rivoluzionario”, «perché rompe l’ordine del diritto in nome dell’ordine della giustizia (così come avvenuto e come sempre avverrà per qualsiasi rivoluzione), riconoscendo retroattivamente e dall’esterno che gli atti compiuti dall’imputato derivano da ordini ingiusti e dalle leggi alle quali costui doveva non prestare obbedienza; perché è un processo che si conclude sulla affermazione di un principio morale esattamente contrapposto a quello giuridico preesistente, e cioè che colui al quale vengono impartiti ordini abominevoli (ma legali) deve rifiutarne la esecuzione anche se il rifiuto lo esponga gravissime sanzioni» (ivi).
9. I primi anni ’60 sono anche quelli in cui molto si discute della carriera dei giudici, ma se ne discute per lo più solo tra giudici. Inutile dire che la maggioranza di essi erano per la selezione che consentisse ai migliori di progredire nella carriera fino alla Cassazione. I pochi erano per l’abolizione di ogni carriera, come sembrava indicato nella Costituzione. Si obiettava che la soppressione della carriera avrebbe voluto dire l’appiattimento dei giudici – di tutti i giudici, anche i migliori –, non più motivati allo studio e ai progressi della giurisprudenza. Fu l’occasione per un nuovo e deciso intervento di Marco Ramat: «Il giorno in cui questo appiattimento sarà raggiunto, sarà un bel giorno per tutti, dentro e fuori la magistratura: per i giudici e per i cittadini. Vorrà dire che sarà spezzata la sino ad ora imperante tendenza giudiziaria verso la mitica tecnica del diritto puro e che si sarà posta la condizione necessaria affinché la giustizia guadagni nella considerazione civica la posizione da troppo tempo perduta, riavvicinando i monconi della frattura secolare tra il diritto e l’uomo» (Mitologia giudiziaria, Il Mondo, 5 marzo 1963).
Oggi che molte cadute della magistratura italiana possono tranquillamente attribuirsi a questa smania dei più di arrivare a un incarico direttivo o semidirettivo, non è rimasto altri che Luigi Ferrajoli a ricordarci che il male peggiore è stato proprio non distinguerci solo per diversità di funzioni. E mi è parso di sentire l’eco di alcune recenti parole di Luigi quando mi sono imbattuto in quelle di Marco, scritte più di sessant’anni fa: «Nego (…) legittimità e giustificazione (ai fini che qui interessano) del desiderio, della smania del primeggiare, del volersi a tutti costi distinguere dagli altri con segni esteriori. Questa forma di ambizione non mi sembra degna dell’uomo né, quindi, del giudice: che alcuni o molti di noi possano nutrirla dentro di sé, è un fatto degno della massima attenzione, ma in sede diversa: in sede psicologica, se non proprio psicanalitica, dove si potrà stabilire che tale ambizione rappresenta il “compenso” di qualche “frustrazione” infantile. Ma non potrei mai acconsentire che essa venga istituzionalizzata nell’ordinamento giudiziario di un paese civile. E se proprio per qualcuno questa ambizione è invincibile, bisognerà che trovi sfogo fuori dal terreno giudiziario» (ivi).
10. Sono tanti i temi su cui Ramat è intervenuto: addirittura con un ritmo frenetico nei cinque anni tra il 1959 e il 1964, anno della nascita di Md. Come se, più o meno consapevolmente, mettesse pazientemente in fila i nodi della politica della giustizia, quelli che forse si potevano affrontare con un gruppo “nuovo” di magistrati. I temi affrontati non si contano: dalla creazione del giudice unico (allora non c’era il giudice monocratico in tribunale), che avrebbe, a giudizio di Marco, triplicato la produttività dei magistrati; all’abolizione della carriera, vista anche come rimedio al formalismo giudiziario imperante; alla necessità di un nuovo codice penale (e, nello stesso tempo, di giudici “nuovi”); alla necessità di una “specializzazione spinta” dei giudici (vista da Marco con qualche sospetto); fino alla discussione sui frequenti provvedimenti di amnistia e di indulto che caratterizzavano quel periodo; fino alla questione dell’obiezione di coscienza durante il servizio militare di leva, che vedeva in quei giorni Padre Ernesto Balducci imputato di istigazione a delinquere e che esploderà poi con la Lettera di Don Lorenzo Milani ai cappellani militari della Toscana e, ancor più, con la Lettera ai giudici che dovevano giudicarlo per apologia di reato. Credo che tra i tanti argomenti, tutti delicatissimi, relativi al buon andamento della giustizia, Marco sia stato tra i primi a trattare della funzione sociale della pena dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Lo ha fatto non solo con riferimento al carcere e ai tanti problemi interni alla detenzione dei carcerati (problemi, e grossi, c’erano anche allora, anche se il numero dei detenuti era meno della metà di quello odierno), ma occupandosi del sistema della pena in relazione al percorso rieducativo fissato in Costituzione. Il che voleva dire procedere a una riforma complessiva del processo penale, dall’indagine all’esecuzione della pena: «Chiedere che il giudice sia messo in grado di fare solamente sul serio i processi seri vuol dire quindi in primo luogo chiedere l’applicazione onesta e precisa della legge vigente, pur con tutte le sue carenze. Ma poi si deve considerare la pena nel suo aspetto costituzionale di tendenza alla rieducazione del condannato, aspetto che era sconosciuto al legislatore del ’30; e in questa prospettiva la pena giusta da irrogare non è soltanto quella determinata, tra il minimo e il massimo previsti, in base agli elementi indicati dall’articolo 133 codice penale, ma è anche, e soprattutto, quella ritenuta idonea a promuovere, se non proprio a portare a compimento, la rieducazione del condannato. Qui c’è il buio più pesto, il problema anzi neppure si pone in sede giudiziaria, sia per l’abitudine di far gravare sulla legge ogni responsabilità, sia perché il giudice non può risolverlo in quanto non sa, né può sapere» (Il lavoro del giudice, L’Astrolabio, 10 gennaio 1964).
11. Proprio in piena estate del 1964, come abbiamo ricordato, nasceva a Bologna la nuova corrente di “Magistratura democratica” e Marco, quel giorno, non c’era. Ma come? Non erano proprio quelli trattati lungamente da Marco i temi intorno ai quali fu costruita la mozione che lanciava la nuova corrente? Non erano quelli i temi che Marco aveva indagato con acume, discusso, sostenuto e diffuso per tanti anni con i suoi scritti? Certo che erano quelli, e Marco se ne rese conto immediatamente. Lasciò passare l’estate (d’estate, allora, i magistrati avevano due mesi di ferie e gli uffici erano deserti fino al 15 di settembre) e poi decise di commentare sul Mondo del 29 settembre 1964 la nascita di Md. Oggi siamo in grado di dire con chiarezza che, dopo quell’evento, cambiò tutto per Marco: l’attività quotidiana, la partecipazione alla vita pubblica, l’attività dentro l’Anm, il linguaggio. Tutto fu misurato e piegato all’attività e alle necessità della nuova corrente appena nata. Lo si può vedere fin dall’inizio del suo articolo di presentazione ai lettori della nuova Md: «Il limite più rigoroso e spesso più mortificante che prova il giudice nella sua funzione è quello di non poter mai, come giudice, mettersi in contatto politico con il popolo. Imprigionato nella tenace ragnatela delle tradizioni culturali, sociali e psicologiche che ne definiscono la figura, il giudice che in questo momento storico sente la inadeguatezza e la ingiustizia di tali tradizioni, prova il bisogno, ogni tanto, di abbandonare il proprio abito di compostezza, il proprio linguaggio di sapiente cautela, il proprio passo misurato per concedersi lo sforzo di parlare chiaro ed aperto a tutti di sé e della propria istituzione. (…) Cose che, peraltro, in sé non sarebbero né esplosive né sovversive, ma che ugualmente non si possono dire perché non starebbe bene che un giudice le dicesse; forse nessun ambiente come quello della magistratura ha maggiormente questa atmosfera di salottino in penombra, di salotto buono di borghesia fin de siècle, dove non si può parlare di figli naturali o di aborti. La parola più tabù per la magistratura è “politica”. Magistratura e politica stanno, a parole, fra loro come l’acqua santa e il diavolo; per un magistrato la politica è come il sesso nell’epoca vittoriana, il peccato per eccellenza, e neanche dovrebbe essere nominato» (Il magistrato democratico, Il Mondo, 29 settembre 1964). È stato come far saltare un tappo d’una bottiglia per troppo tempo agitata: «il magistrato che non faccia della politica dovrebbe non soltanto essere lontanissimo dall’attivismo di partito, ma ugualmente lontano anche da ogni interesse, da ogni partecipazione morale e intellettuale al mondo politico nel quale vive. Un piccolo o medio burocrate intento a riempire pagine alla mezza luce del suo tavolino, indifferente alle stagioni umane, uguale in ogni tempo politico: questa è la figura esemplare del magistrato politico secondo il qualunquismo annidato nella concezione che detesta ogni partecipazione del giudice alla politica» (ivi). Nessuno, mi pare, aveva usato un linguaggio così esplicito durante le due giornate al Collegio Irnerio, e certo non se ne trova traccia nella mozione finale. Occorrerà attendere il Congresso di Gardone del 1965 per registrare questa lucida consapevolezza della politicità della giurisdizione e del nuovo e non più rinviabile ruolo del giudice. Per Marco non ci sono dubbi: tenere i magistrati lontani dalla politica significa «un tentativo di perpetuare un qualunquismo di base nella magistratura corrispondente ad un disegno, o quantomeno ad una concezione, che è invece di preciso carattere politico. Come sempre, si caccia “la politica” per mezzo “della politica”; si sfonda una porta ormai aperta (salvo per chi vuol chiudere gli occhi) quando si mette in evidenza il collegamento esistito ed esistente tra l’assetto politico generale e l’atteggiamento della magistratura. È pertanto una concezione falsamente politica quella che predica l’apoliticità dei magistrati nei termini sopra delineati: meglio sarebbe definirla questa concezione come applicazione di quel paternalismo che cerca di opporsi a tentativi di autonoma e democratica maturazione politica così al di fuori come all’interno dell’ordine giudiziario. Ed è proprio questa angusta concezione che suscita nel magistrato restio a riconoscervisi e ad adeguarvisi il desiderio di parlare in libertà di sé e della propria funzione; è contro questa concezione, non contro il giusto divieto di attivismo di partito, che le voci in libertà vorrebbero parlare» (ivi). La sua critica all’immobilismo dell’Associazione magistrati nel suo complesso diventa radicale: «Fino ad oggi anche la vita associativa della magistratura ha rispettato senza alcuna apprezzabile eccezione il tabù della politica. Chi in maggiore o minore misura ha partecipato alla vita associativa “di base” della magistratura ne ha riportato l’impressione di un’afosa e scolorita ansia sui problemi delle retribuzioni o delle promozioni: che non sono affatto problemi trascurabili, se visti in una luce più forte, in una prospettiva appena più ampia del personale interesse alla giornata. Mai mi è accaduto di partecipare ad un’assemblea dove si discutesse di qualcosa di diverso e di più importante (o in modo più importante anche se delle solite due eterne questioni delle retribuzioni e delle promozioni). La stessa nostra indipendenza, la famosa indipendenza della magistratura, è finita con il diventare presso tanti di noi uno slogan in nome del quale poi è, o sembra, più facile avanzare rivendicazioni economiche senza che minimamente si sia cercato mai di scoprirne o di definirne il contenuto. Et pour cause, perché difatti andare a cercare il contenuto attuale e concretamente positivo al di là della formula dell’indipendenza della magistratura vuol dire attuffarci in quel campo politico ampiamente e sanamente inteso dal quale l’imperante concezione burocratico-qualunquista del magistrato vuol tenerci e ci tiene lontani» (ivi).
12. Nel presentare ai lettori della rivista e al pubblico di non specialisti la novità di Md, il punto di partenza di Ramat è perentorio: «C’è dunque un gran voto ideologico nella magistratura italiana, un difetto di introspezione, una indifferenza su che cosa siamo, un facile apparcamento in vecchie o nuove parole d’ordine». Per riempire questo vuoto serve la proposta della nuova Md sui seguenti temi: «Struttura del potere giudiziario, indipendenza esterna e interna della magistratura, organizzazione della funzione giudiziaria». Cioè una completa riscrittura delle norme e degli assetti che regolano l’amministrazione della giustizia in Italia. Una riscrittura che si è resa necessaria perché una frattura ha lacerato la società italiana, provocata dalla Resistenza e dalla nascita della Costituzione.
Dunque, il punto di partenza della nuova Md è proprio questa «frattura tra comunità e Stato (...); punto d’arrivo questa specifica funzione mediatrice del giudice nel cammino di attuazione costituzionale. Fra questi due punti ideali corre un arco lungo il quale Magistratura democratica colloca le sue proposte di soluzione con accenti nuovi rispetto ad ogni precedente formulazione delle medesime. Accenti che, a chi scrive, sono particolarmente graditi, sembrandogli che diano organico riconoscimento ad alcune sue vecchie istanze fino ad ora poco prese in considerazione come se si fosse trattato di svolazzi puramente letterari o psicologici» (Il magistrato democratico, op. cit.). Quest’ultima considerazione rivela lo stato d’animo di Marco in quei giorni, soprattutto perché espressa da un uomo riservato e poco propenso a reclamare primogeniture ideali. Egli vedeva, tra le righe della mozione della corrente appena costituita, il segno della sua elaborazione sui temi più sensibili della giustizia, vi ritrovava l’eco di alcune sue battaglie che gli erano sembrate inutili o inascoltate. E lo faceva notare con sobrietà, citando alcuni passaggi della mozione di Md che facevano riferimento ad alcuni dei temi che, negli ultimi anni, erano stati da lui svolti con maggiore impegno: «Così l’accenno alla motivazione della sentenza: “appare inoltre opportuno prospettare la modifica delle forme e del momento della pubblicità della motivazione, al fine di rendere quest’ultima più aderente alle esigenze di un rapporto nuovo da instaurarsi tra giudicante, giudicato e sovranità popolare”; qui finalmente ci si accorge della vastità del problema dello stile giudiziario, che non è soltanto forma esteriore ma anche abito mentale radicato parallelamente ad un certo modo di intendere la funzione, ad un certo modo di essere uomo e giudice. Così l’accenno alla “necessità della più ampia e profonda democratizzazione dell’esercizio della funzione giudiziaria, affinché la sovranità popolare sia posta sempre in grado di esercitare il suo controllo, e affinché si impedisca al magistrato di essere e di sentirsi avulso dal corpo sociale, chiuso nella torre eburnea di un esclusivo tecnicismo o, peggio ancora, posto al di sopra del corpo sociale stesso, quale facente parte di una casta depositaria di un potere a sé stante”: dove ci si rende ben conto del fatto che il tecnicismo esasperato, il quale domina la nostra vita giudiziaria, non è altro che l’immancabile frutto di una concezione del giudice e del giudicare elusiva dell’impegno costituzionale cui è chiamata una giustizia esercitata in nome del popolo» (ivi).
L’articolo sul Mondo si conclude con un appello che non è rivolto solo ai Magistrati: «Il manifesto lanciato da “Magistratura democratica” andrebbe letto e meditato da tutti coloro che hanno a cuore la giustizia. Non mi stancherò mai di ripetere che il disinteresse di fondo degli ambienti politici verso le cose della giustizia è giustificato per quegli ambienti che hanno da temere l’indipendenza della magistratura (…) ma, per converso, scandalosamente colpevole per gli ambienti opposti, per i quali la nostra consapevole indipendenza sarebbe non meno preziosa che per noi magistrati». E ancora, più direttamente e inequivocabilmente: «Magistratura democratica ha lanciato il suo appello dentro e fuori dell’ordine giudiziario. Insisto sul fuori: sarebbe infatti illusorio sperare che la coscienza costituzionale (…) perseguita da “Magistratura democratica” per tutto l’ordine giudiziario si possa raggiungere se nessuna forza politica ci darà una mano, con coerenza e senza mediocri secondi fini».
Sta in questa condivisione della sfida lanciata da Md l’assunzione piena dell’impegno di farne parte. Da quel momento, Marco è stato membro inevitabilmente autorevole della nuova di corrente progressista dei magistrati.
13. Da quel momento non perse tempo: si mise a lavorare per la corrente con una lena e una capacità che, in pochissimi mesi, ne fecero un leader da tutti riconosciuto. Un giorno di aprile 1965, pochi mesi dopo Bologna, ci convocò: me e pochi altri giovani. A cena, in casa di Michele Corsaro, nacque la Sezione Toscana di Md. Al gruppo aderirono molti magistrati, con un entusiasmo che ci fece capire quale fosse l’urgenza di aggredire la cappa di conservazione che avvolgeva la magistratura e la giustizia.
Se Marco ci apparve subito come colui che poteva guidare autorevolmente non solo il gruppo toscano, ma tutta l’azione di Md, non fu un caso. Si buttò a testa bassa nel lavoro di organizzazione della corrente: prese contatti con Luigi De Marco a Bari, con Arnaldo Cremonini e Federico Governatori in Emilia, con Dino Greco a Milano. Con De Marco ci fu subito un’intesa che si tramutò presto in solida amicizia, destinata a durare fino alla morte di Marco. Con Federico Governatori i rapporti erano meno facili, ma resi fecondi dalla reciproca stima. Con Greco aveva meno confidenza, ma lo stimava per le sue analisi e i contatti tra i due erano frequenti. Furono principalmente questi (ma c’erano altri colleghi con i quali Marco si sarebbe trovato presto in sintonia, Ottorino Pesce a Roma più di tutti) gli aderenti a Md con i quali Marco formulò un programma capace di “lanciarne” l’azione.
Occorre anche dire che Marco, in quegli anni, non guardava solo all’interno di Md. Aveva capito che il cervello più lucido, capace di impostare e di ottenere qualche risultato, era Salvatore Giallombardo, che guidava Terzo Potere. Vorrei azzardare che, forse, Marco si fidava di Giallombardo più che di alcuni colleghi di Md. Certo è che le battaglie comuni nella seconda parte del decennio registrarono un accordo completo tra Giallombardo e Md. In Terzo Potere non tutti condividevano fino in fondo la linea avanzata, ma realistica di Giallombardo: c’erano sensibilità diverse, Principe, Quiligotti, Micelisopo. Erano colleghi che facevano sentire voci talora contrastanti. Era il grande prestigio di Giallombardo che riusciva a riportare ad unità le varie posizioni.
14. I risultati, in quegli anni, non mancarono. Anzi, alcuni furono tali da cambiare il volto della magistratura in Italia, fino ad allora fortemente gerarchizzata: magistrati di tribunale, magistrati di corte d’appello, magistrati di Cassazione rigidamente separati, con possibilità di accesso al grado superiore solo per concorso. Era ancora la rigida separazione tracciata dal vecchio ordinamento giudiziario, in contrasto inevitabile col dettato costituzionale. Una lunga battaglia di democrazia che si concluse con la “legge Breganze” del 1966, che consentiva il passaggio a magistrato di corte d’appello per anzianità. Rimaneva riservato al superamento di un concorso l’ingresso in Cassazione. Ma anche l’ultimo sbarramento cadde nel 1973 con la cd. “Breganzona”, la legge che applicò il meccanismo dell’anzianità anche per l’accesso in Cassazione. Si trattò di un passo avanti, reso possibile da una nuova consapevolezza delle correnti dell’Anm, in contrasto aperto con la corrente dell’UMI decisa a conservare i privilegi della carriera. Era il risultato della mobilitazione e della lotta portate avanti da magistrati come Giallombardo, Bianchi d’Espinosa, Beria d’Argentine, De Marco, Ramat e, naturalmente, tanti altri. Ma era soprattutto il risultato di una visione tutta rivolta a dare gambe e attuazione ai principi contenuti nella Costituzione.
Non fu questa l’unica novità, anche se certamente era quella che maggiormente incideva sull’organizzazione e sulla cultura dell’ordine giudiziario. Basti pensare che, nel 1963, arrivò il bando di concorso per la magistratura che, per la prima volta, prevedeva l’ingresso delle donne. Fu il punto di arrivo di una elaborazione che non vide protagoniste solo le associazioni dei magistrati, ma che certamente fu arricchita anche dal dibattito tra le correnti.
15. Intanto il gruppo toscano non era più composto solo dai cinque che si erano trovati a cena da Michele Corsaro. Si era irrobustito con colleghi prestigiosi: erano arrivati Pierluigi Onorato e Sandro Margara a Firenze, poi a Prato Luigi Ferrajoli, a Livorno Gianfranco Viglietta e Lino Monteverde, a Pisa Vincenzo Accattatis, Federico Vignale, Paolo Funaioli. Nel 1970 arriverà anche Salvatore Senese, che, dopo la morte di Giallombardo, aveva lasciato la corrente Terzo Potere. Ogni tanto, alle nostre riunioni di Pisa arrivava anche Pino Borrè. Si può solo immaginare il livello del dibattito di quegli anni nella Sezione Toscana: di un’altezza e di una profondità che si coglie ancora oggi leggendo il famoso “libretto giallo” di Ferrajoli, Senese e Accattatis, uscito nel 1971, che restituisce fedelmente le diverse “anime” che si confrontavano nella Sezione. Ma lo scontro (molto vivace, per la verità) tra i “massimalisti” e i “riformisti” all’interno della corrente Toscana rimase sempre un dialogo costruttivo, che arricchì l’intero discorso di Md. Certo, molti contrasti erano dovuti anche a differenze di cultura, di ideologia politica e di temperamento personale. Ma posso testimoniare che ci tenne insieme una solidarietà di fondo che non dimenticò mai che il “nemico da battere” era fuori di noi, e si identificava soprattutto in quel groviglio complesso che teneva insieme il potere politico e la parte più conservatrice e retriva della magistratura. Con la crescita imponente del gruppo toscano cresceva anche l’avversione nei nostri confronti. Ci accusavano di voler fare politica attraverso le sentenze. Ma a noi della politica non importava nulla: ci importava, invece, la denuncia della neutralità del diritto e della giurisdizione, ci premeva di indicare il senso intimamente politico della giustizia. Nessuno di noi pensava di fiancheggiare i partiti o di farsene condizionare. Ma lo scontro con i vertici giudiziari fu durissimo. Ogni nostra uscita pubblica creava sconcerto tra i colleghi più timorati. Venivano tollerate solo le iniziative che si conciliavano con il rispetto degli assetti di potere esistenti.
Arrivò il momento nel quale qualcuno di noi disse o scrisse qualche parola di troppo: fu l’inizio di una repressione dapprima limitata ai procedimenti disciplinari, che poi si estese a una vera e propria persecuzione penale. Ricordo di essere stato sottoposto a un procedimento disciplinare, nel 1967, per non avere vigilato sulla registrazione di una sentenza civile nei registri di cancelleria della mia pretura mandamentale. Il mio difensore fu Luigi De Marco, che con la sua ironia meridionale dimostrò come quella incolpazione fosse strumentale e poco giustificata.
Dal 1968, con gli sviluppi del movimento degli studenti e della contestazione operaia, divennero inevitabili i procedimenti disciplinari per quelli di noi che cercavano di motivare le proprie decisioni facendo valere direttamente nelle sentenze i principi della Costituzione. Fu un inizio incerto, ma fondamentale, di uno stile giudiziario che poi trovò spazio nella cd. “giurisprudenza alternativa”. Esso consisteva nell’interpretare le norme secondo un sistema di valori costituzionali compatibile con la lettera della legge esistente. Quando questa compatibilità ci pareva dubbia, la questione della legittimità costituzionale della norma veniva rimessa alla Corte costituzionale. Questo esercizio non fu raro tra i colleghi fiorentini, tanto che il primo a sollevare una questione di legittimità costituzionale fu Nino Caponnetto, che certamente a quei tempi non poteva dirsi un “magistrato democratico”. Il fastidio cresceva quando indicavamo i legami più o meno palesi tra il potere politico e i capi degli uffici giudiziari. La parte più retriva, che faceva capo al Procuratore generale Calamari, non poteva certo sopportare che dalle nostre denunce emergesse inesorabilmente una giustizia di classe. Questo, soprattutto, indispettiva i colleghi che ogni giorno incontravamo nei nostri corridoi: che si attribuisse loro la responsabilità, magari per involontaria insipienza, di decisioni giudiziarie che premiavano i forti e colpivano i più deboli.
16. Com’è avvenuto anche da altre parti, in Toscana Md è cresciuta insieme a un imponente movimento, che le ha consentito di esercitare un’indiscutibile egemonia tra le correnti della magistratura. Md mostrava di saper intercettare i nuovi bisogni e, soprattutto per l’impegno di Marco, fece allora una esplicita, lucida scelta di campo a favore delle classi subalterne, che abbiamo tenuta ferma fino ad oggi.
La Firenze degli anni ’60 era quella del Sindaco La Pira, di Don Lorenzo Milani e di Padre Balducci: fin dagli anni ’50 era fiorita una cultura cattolica progressista, che in un recente libretto scritto con Tomaso Montanari abbiamo definito “disobbedienza profetica”. Nel volgere di pochi anni c’è stata la lezione di Padre Turoldo, la cultura della pace di Padre Balducci, la disobbedienza agli ordini ingiusti che Don Milani definiva «una virtù», il lavoro in fabbrica del primo prete operaio italiano, Don Bruno Borghi, che lavorava alla fonderia del Pignone non per evangelizzare gli operai, ma per spronarli alla lotta di classe contro il padrone. E, infine, era la Firenze di Don Mazzi, che all’Isolotto provocherà uno strappo duraturo nella Chiesa, e non solo in quella fiorentina.
Questa fioritura non ha riguardato soltanto i cattolici e la Chiesa, ha fortemente influenzato la cultura italiana del tempo. Non si trattava di questioni interne al cattolicesimo, erano anzi temi eminentemente laici: la questione operaia, i rapporti con la politica, l’obbedienza ai poteri costituiti. Al dibattito, naturalmente, partecipava anche Md. E lo faceva con le forme consuete di quel tempo. Quanti interventi di Md nei convegni sindacali, quanti dibattiti organizzati insieme a “Democrazia e Giustizia”, il gruppo fiorentino che vedeva la presenza di numerosi avvocati e magistrati. Questa insistente partecipazione al dibattito pubblico era generalmente accettata dalla maggior parte dei magistrati come l’inevitabile affermarsi della libertà di manifestazione del pensiero e di partecipazione alla vita sociale. Se ripenso alla recente polemica sul concetto di imparzialità del giudice, concludo che abbiamo fatto molti passi indietro. Non tutti i colleghi estranei a Md avrebbero, negli anni ’60, sostenuto con sicurezza le tesi che oggi sembrano diffuse nel ceto politico e condivise perfino dal Ministro Nordio: che, cioè, la partecipazione del magistrato alla vita pubblica, o addirittura a una sola manifestazione, ne comprometta l’imparzialità. Certo, anche allora si discuteva molto sui nostri interventi pubblici: il linguaggio, l’oggetto e le occasioni dei dibattiti sollevavano qualche polemica. I nostri interventi non piacevano al Pg Calamari che, ad un certo punto, si decise a inviare ai nostri dibattiti un funzionario dell’ufficio politico della Questura perché riferisse quel che dicevamo. E fu un diluvio di incriminazioni per vilipendio della magistratura e di procedimenti disciplinari. Bastava poco per attirarsi i fulmini della repressione da parte dei vertici giudiziari.
Pier Luigi Onorato fu denunciato per vilipendio per aver detto, in un comizio agli Uffizi, che i lavoratori venivano continuamente sottoposti a processo, mentre i colletti bianchi quasi mai. Ricordo di essere stato denunciato per vilipendio dell’ordine giudiziario per aver distribuito, nell’atrio della Corte d’appello fiorentina, un volantino con l’invito a un dibattito dedicato al rapporto tra “magistratura e padroni”. Colleghi che sarebbero diventati illustri, come Piero Vigna o Giulio Catelani, appena ricevuto il foglio, ne facevano nervosamente una palla di carta e lo gettavano via senza leggerlo, mentre io timidamente dicevo: ma prima di buttarlo via, leggilo! Vero è che il titolo del dibattito era: “Giustizia di classe”, ma la cosa che in quell’occasione più scandalizzava i colleghi era che un magistrato facesse “volantinaggio”. In effetti, non si era mai visto un giudice distribuire pubblicamente volantini. Era la rottura della casta, era la fine della separatezza e del “doveroso riserbo” che a lungo aveva caratterizzato la nostra vita giudiziaria.
La repressione del dissenso in Toscana non risparmiò nessuno. Furono ripetutamente denunciati per vilipendio o sottoposti a procedimento disciplinare: Marco Ramat, Pierluigi Onorato, Sandro Margara, Vincenzo Accattatis e perfino il mitissimo e pacifico Paolo Funaioli. Accattatis fu addirittura rimosso dal suo incarico alla sorveglianza, con un incredibile provvedimento del Csm, senza alcun procedimento disciplinare.
17. Direi che in Toscana, nei decenni che vanno dalla fine degli anni ’60 all’inizio dei ’70, ci fu anche una preziosa contaminazione tra Md e le tante sigle della “contestazione”. Per la prima volta i giudici abbandonavano il palazzo e si mischiavano ai movimenti della società civile. Una testimonianza del nostro impegno di quel tempo si trova nello scambio di lettere tra Marco Ramat e me (pubblicato il 4 giugno 2019 su Questione giustizia con il titolo Magistratura democratica di ieri e di oggi): Marco rimproverava me e Silvio Bozzi di non essere assidui nel lavoro della segreteria di Md e di dedicare troppo tempo ad altre attività esterne. E io rispondevo che i nostri impegni sociali tra la gente comune erano il segno della fine dell’isolamento dei magistrati. Marco aveva ragione a lamentare la scarsa dedizione alla segreteria di Md, anzi avrebbe dovuto rimproverare anche altri colleghi molto impegnati e non meno colpevoli di me e di Bozzi. Bozzi e Onorato, ad esempio, frequentavano il “Cenacolo” di Padre Balducci ed erano attivi nella rivista Testimonianze. Io andavo su a Fiesole solo la domenica per sentire le prediche di Padre Balducci, ma tutti i pomeriggi della settimana mi dedicavo a un doposcuola istituito con i ragazzi di Don Milani subito dopo la sua morte.
Insomma, i più impegnati di noi si davano da fare nei mille rivoli del movimento, non eravamo più il corpo separato degli anni ’50. I temi della giustizia si mischiavano con quelli dell’eguaglianza e dei diritti sociali, in un intreccio che avrebbe cambiato la magistratura e, in qualche modo, anche la percezione che la generalità dei cittadini ne aveva.
Naturalmente eravamo presenti anche nelle vicende più contrastate della vita cittadina: dalle occupazioni delle fabbriche alle lotte sindacali, a quelle per l’aborto o per l’abolizione dei reati di opinione, ai casi sempre più frequenti di repressione giudiziaria. Citerò solo la vicenda – emblematica – dell’Isolotto, che non fu solo uno scontro tra un gruppo di fedeli e la Curia. Metteva in gioco altre questioni, talmente rilevanti sul piano civile e sociale che perfino Marco, di solito restio ad occuparsi di temi che non fossero interamente laici, si lasciò coinvolgere fino a collaborare, insieme a me e a Onorato, alla pubblicazione del libro Isolotto sotto processo (Laterza, 1971).
Quella dell’Isolotto è una vicenda esemplare quanto al coinvolgimento di Md nelle lotte di quel tempo. Da un lato, il Pm Piero Vigna contestava a sacerdoti e laici il reato di turbamento di funzione religiosa; dall’altro, Onorato e io nelle assemblee dicevamo che quell’accusa era priva di fondamento. Anzi, in un mio intervento aggiunsi che il reato vero che la magistratura intendeva perseguire era la decisione dei fedeli di partecipare alla vita religiosa, politica e sociale. Questa era la ragione vera per la quale la magistratura si era intromessa in una questione che apparentemente riguardava solo la Chiesa e i suoi fedeli.
Che Marco Ramat si occupasse dell’Isolotto non piaceva ai moderati dell’Anm, ma nemmeno a qualche appartenente ad Md. Lo stesso Marco ha lasciato scritto nei suoi Spiccioli: «L’ala più conservatrice, Magistratura Indipendente, dà fiato alle trombe censurando alcuni atteggiamenti esterni assunti da esponenti di Md. Ad esempio, mi devo difendere, in una riunione del comitato centrale dell’Anm, per aver partecipato ad un dibattito pubblico alla comunità dell’Isolotto a Firenze, quella costituita intorno al prete “ribelle” Don Enzo Mazzi, dove si discuteva proprio delle incriminazioni che avevano colpito il sacerdote e alcuni tra i suoi più stretti collaboratori, per offesa alla religione dello Stato e per altri reati: resistenza ecc. Dovetti difendermi, pochissimo sostenuto dalla maggioranza del “gruppo parlamentare” di Md».
Era chiaro da molti segni che la maturazione e le posizioni assunte da Md in Toscana preoccupavano molto l’ala più conservatrice della magistratura. Quando si seppe che non solo Marco Ramat, ma anche Pierluigi Onorato e io eravamo attenti e vicini all’esperienza dell’Isolotto, la reazione del Procuratore Calamari fu durissima. Il Consiglio giudiziario di Firenze doveva, in quei giorni, esprimersi sulla mia nomina a magistrato di tribunale: parere necessario per la decisione del Csm, tradizionalmente sempre favorevole, nei lustri precedenti, per tutti i magistrati italiani.
Ma quella volta Calamari sostenne con decisione che non potevo essere promosso al grado di giudice di tribunale perché, in una pubblica assemblea, avevo manifestato solidarietà agli imputati per la vicenda dell’Isolotto. Il Consiglio giudiziario fu tutto d’accordo, salvo Sandro Margara, unico esponente di Md. Fu Margara a salvarmi, pretendendo che la motivazione del parere negativo espresso da Calamari, condivisa dal Consiglio giudiziario, fosse espressamente contenuta nel verbale della seduta. Per fortuna il Csm (di cui faceva parte Adolfo Beria d’Argentine) ritenne che il mio intervento tenuto all’assemblea dell’Isolotto fosse da considerare solo una libera manifestazione di opinione, garantita dall’art. 21 della Costituzione.
18. Complessivamente, “l’autunno caldo” fu un periodo caldissimo per i magistrati toscani di Md. Non eravamo isolati: associazioni, sindacati e gruppi culturali di varia tendenza avevano proficui rapporti con noi. Insomma, esercitavamo un’egemonia culturale tra i colleghi che non era alla portata della ben più numerosa compagine di Magistratura Indipendente. Un’egemonia che divenne incontestabile quando Md cominciò a lavorare a stretto contatto con il gruppo Democrazia e Giustizia, formazione promossa dagli avvocati fiorentini alla quale partecipavano molti rappresentanti della cultura toscana.
Durante gli anni ’68 e ’69, il dibattito e le occasioni pubbliche di confronto promosse insieme da Md e Democrazia e Giustizia furono tante e molto affollate. Per la prima volta, credo, il dibattito sui problemi della giustizia in Italia entrò nelle riunioni sindacali, nei circoli culturali della sinistra e nelle “case del popolo” toscane.
Quanto fosse vivo il dibattito sulla giustizia in quei giorni si vide in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 1969. Alla cerimonia ufficiale, in Palazzo Buontalenti, Magistratura democratica decise di non partecipare, convocando per il pomeriggio, insieme a Democrazia e Giustizia, una “contro-inaugurazione” nella “Sala Luca Giordano” di Palazzo Medici Riccardi. Arrivarono oltre 600 persone ad ascoltare i nostri interventi di risposta a distanza al discorso reazionario tenuto durante la mattina dal Pg Calamari.
Il decennio volgeva ormai al termine: era in corso un vasto e drammatico conflitto sociale che avrebbe avuto gravi ripercussioni negli anni seguenti. Il 30 novembre del 1969 a Bologna fu votato l’“ordine del giorno Tolin”, che conteneva un’esplicita critica alla conduzione di un processo penale ancora in corso. La scrittura a mano dell’ordine del giorno è quella di Marco Ramat, ma è certo che alla sua stesura parteciparono anche Pesce, De Marco, Greco, Palombarini e Petrella. L’approvazione dell’ordine del giorno non provocò sul momento la scissione all’interno di Md. Ma pochi giorni dopo, il 12 dicembre, ci fu la bomba di Piazza Fontana, con l’arresto di Valpreda e la caccia agli anarchici. Si raccontava e si scriveva che le bombe erano di sinistra. L’ordine del giorno Tolin divenne la prova inconfutabile che qualcuno a sinistra stava con le bombe degli anarchici e certo, tra di essi, ci doveva essere anche qualcuno di Md. E l’ordine del giorno Tolin divenne per alcuni, anche al nostro interno, la prova che la rottura corporativa di Md significava anche la rottura della legalità repubblicana.
Il resto della storia è noto: quando fu scoperta la pista nera di Freda e Ventura, si capì che l’arresto dell’anarchico Valpreda era una mossa dei servizi segreti deviati. Milano era in subbuglio, il questore suggerì che il processo per la strage di Piazza Fontana non poteva essere celebrato a Milano per ragioni di sicurezza e la Cassazione trasferì il processo a Catanzaro per “legittima suspicione”. La reazione dei democratici e dell’antifascismo militante fu durissima: il processo veniva trasferito a Catanzaro per sottrarlo al controllo attento dell’opinione pubblica. A Firenze il clima politico era molto teso. L’ANPI convocò un’assemblea cittadina di mobilitazione. Al Palazzo dei Congressi, strapieno di pubblico, al tavolo degli oratori c’era Pietro Secchia per il Pci, alcuni sindacalisti, rappresentanti toscani dei partiti di opposizione e, per Md, Marco Ramat ed io. Secchia tenne un discorso durissimo. Quando toccò a me, dissi senza mezzi termini che la decisione della Cassazione di spostare il processo Valpreda a Catanzaro era un chiaro favore ai fascisti. Marco intervenne a sua volta, con un discorso appena più pacato. Gli applausi per Magistratura democratica durarono a lungo. Ma in sala c’era quello che allora si chiamava l’«Ufficio Politico della Questura» (c’è ancora, ma non si chiama più così), il quale annotò a suo modo il contenuto del mio discorso. Il Pg Calamari mi denunziò subito per vilipendio della magistratura e nello stesso tempo fu promosso il parallelo procedimento disciplinare. Ma il Pg di Ancona, cui erano stati “rimessi” gli atti per competenza, dichiarò subito che non poteva trattarsi di vilipendio della Magistratura, perché l’offesa non era rivolta all’intero ordine giudiziario, ma (semmai) a una singola sezione della Corte di cassazione.
Il procedimento penale si concluse celermente con un’archiviazione. Rimaneva in piedi il procedimento disciplinare. Fu necessaria una battaglia lunga quattro anni per dimostrare, attraverso le testimonianze di chi c’era, che le parole da me pronunciate, pur severe nei confronti della Cassazione, non erano quelle rozzamente offensive indicate nel rapporto di polizia.
In seguito ci sarebbero state altre iniziative repressive e disciplinari, ma l’episodio del Palazzo dei Congressi fiorentino chiuse una stagione di implacabile repressione condotta dal Procuratore fiorentino Mario Calamari con il sostegno della foltissima corrente di MI.
Poi Md ebbe la sua scissione. Adolfo Beria d’Argentine lasciò la corrente con molti colleghi, dando vita a una nuova formazione all’interno dell’Anm.
Magistratura democratica resse bene alla scissione e, anzi, prese nuova lena. Ma questa è un’altra storia.