Il processo del 7 aprile e il perché di alcuni silenzi
Per cogliere il senso complessivo, di fondo, del processo del 7 aprile 1979, e per capirne alcuni aspetti del tutto stravaganti rispetto a un normale processo penale, i molti silenzi, è necessario collocarlo in un ampio periodo, la seconda metà del Novecento, più propriamente accanto alla grande vicenda italiana, nata e anche finita in quel periodo, del tentativo di due soggetti diversi di portare il comunismo alla guida del Paese.
La sfida politica, anche fuori Padova, ma a Padova in modo esemplare, paradigmatico, è stata fra i comunisti saldamente inquadrati nelle organizzazioni storiche del movimento operaio, in particolare nel Pci, che dalla Resistenza in poi sembrava diventare sempre più forte, e i comunisti che si formavano, e così si autodefinivano, negli scontri sociali che stavano moltiplicandosi a partire dall’inizio degli anni sessanta, nelle fabbriche e nelle scuole, richiamandosi all’idea del rifiuto del lavoro. Entrambi i soggetti nelle loro manifestazioni innalzavano la bandiera rossa. La nascita dei Quaderni Rossi nel 1961 e i fatti di Piazza Statuto a Torino, del luglio 1962, segnano l’inizio di questo fenomeno, di questa sfida. Scriverà Antonio Negri qualche anno dopo: «Nostro compito è la restaurazione teorica del rifiuto del lavoro nel programma, nella tattica, nella strategia dei comunisti». Mario Isnenghi ha osservato, in proposito, che a un certo punto era maturato uno scontro risolutivo fra due sinistre: quella che ancora prendeva di richiamarsi alla “rivoluzione” e non escludeva il ricorso alla violenza, e quella che aveva smesso di farlo – involuzione o evoluzione che fosse – in nome della Costituzione e dell’ordine repubblicano. Di questo scontro Padova è stata occasionalmente il centro, la sperimentazione esemplare. Attraverso l’iniziativa del 7 aprile, le due ipotesi “per il comunismo” si sono duramente scontrate. Quella nata più di recente ha rivendicato sempre i suoi ideali. Quando la Corte d’assise di Padova e quella d’appello di Roma hanno assolto le persone indicate come i capi del partito armato, in entrambe le aule gli imputati e i loro difensori hanno intonato l’Internazionale.
La cronaca del giornale locale Il mattino di Padova diede l’idea di quel che stava succedendo, di come cominciava la battaglia, con questo breve articolo: «Tutto cominciò sabato 7 aprile 1979. Alle 10 un aereo atterrò al “Marco Polo” di Tessera. Ne discesero una cinquantina di ufficiali della ex Digos agli ordini di un vicequestore di Roma, che salirono su due pullman, destinazione Padova. Neppure mezzora dopo la città era assediata da mezzi blindati, impossibile uscirne senza incappare in un posto di blocco. L’operazione fu mastodontica: 22 ordini di cattura, 70 ordini di comparizione e un centinaio di perquisizioni domiciliari. Il blitz del sostituto Pietro Calogero cominciò così».
Va premesso, prima di affrontare il tema dei sorprendenti silenzi che hanno caratterizzato il processo, che la lunga storia del contrasto radicale fra il pubblico ministero padovano e il giudice istruttore ha il primo fondamento nella divergenza sull’esistenza o meno dell’unico partito armato comprensivo di BR, Prima Linea, Autonomia Organizzata. Perché il pm, per sostenere la sua tesi, si è basato su una lettura di documenti e avvenimenti che al giudice istruttore non è apparsa convincente. «L’AO», dice il pm, «nasce a Padova nel corso di un seminario presso la Facoltà di Scienze politiche (…) viene concepita e realizzata come una complessa organizzazione politico-militare con articolazioni estese a tutto il territorio nazionale, aventi ciascuna un organo di direzione regionale, collegate tramite questo a una struttura direttiva centrale e dotate nel proprio ambito di relativa autonomia». Dunque c’è un partito. Ebbene, il giudice istruttore letteralmente non vede tutto questo, in particolare non trova riscontri alla tesi dell’unica organizzazione estesa a tutto il territorio nazionale. E ciò ha inevitabili riflessi sull’istruttoria, e poi sui giudizi delle corti del merito, che rifiuteranno, a Padova come a Roma, il “teorema Calogero”. E tuttavia questo teorema, infondato sul piano processuale ed errato nella ricostruzione di vicende singole e collettive (Autonomia Operaia e BR hanno avuto vicende diverse, Antonio Negri e Renato Curcio hanno avuto storie diverse), ha trovato la sua forza, al di fuori dei processi, nella percezione di un fenomeno reale, e cioè che a sinistra del Pci era nato e si stava sviluppando nel Paese il tentativo, a più voci e disordinato, di cercare una nuova strada per arrivare al comunismo. Il pm interpreta tutto questo in modo schematico e semplice, ed errato. Dice e scrive: «Un unico vertice dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega Brigate Rosse e gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alla base dello Stato».
Il Pci, il 7 aprile 1979, superate tante precedenti incertezze e abbandonato il tentativo di attribuire a qualche servizio segreto l’insorgere del fenomeno, ha ormai chiara la natura politica della “lotta armata”, e ha un’occasione per infliggere a questo pericoloso concorrente un colpo micidiale. Il vecchio motto di René Renoult, “pas d’ennemis à gauche!”, viene dimenticato. Da quel momento in poi, per un lungo periodo di tempo, questo partito ha sostenuto l’inchiesta, senza tentennamenti, dal suo inizio, fino all’inizio degli anni Novanta, anche fornendo concrete collaborazioni, come l’indicazione di testimoni. Sarebbero molte le citazioni in proposito. Momenti importanti di questa collaborazione, molto valorizzati anche dai media, si sono avuti quando due aderenti al partito dichiararono al pm e alla polizia di avere riconosciuto la voce di Antonio Negri, e anche quella del giornalista Giuseppe Nicotri, come quelle di coloro che, durante il sequestro Moro, avevano telefonato alla famiglia per trattare e, infine, per annunciare la morte del sequestrato. Fatto importante e discusso, però non corrispondente alla realtà. Qualche tempo dopo, con il procedere delle inchieste in varie parti d’Italia, si sarebbe potuto infatti sapere che le voci dei due telefonisti erano quelle dei brigatisti Valerio Morucci e Mario Moretti. Ma Antonio Negri, escluso a questo punto che fosse un componente della direzione strategica delle BR (escluse le telefonate, nulla rimaneva a suo carico, quanto a BR), rimaneva comunque al centro dell’attenzione del pm Calogero con un ruolo superiore. «Appare inequivocabile che il Negri è stato in questo ultimo decennio un autentico motore della trama eversiva»: così avrebbe scritto il pubblico ministero nella sua conclusiva requisitoria. La posizione del Pci rimase ferma. Dunque “il partito” della lotta armata, comunque, esisteva ancora, e andava combattuto. In questo contesto si spiegano alcuni clamorosi silenzi di fronte ad avvenimenti del processo, altrimenti inspiegabili. È stato utilizzato, il silenzio, per difendere l’impostazione di fondo dell’inchiesta, per impedire che ne venisse intaccata la credibilità. Se è stato avviato un processo penale che deve ottenere un determinato risultato politico, non ci si può permettere di evidenziarne eventuali sbandamenti fuori dalle regole. Se del caso, si può utilizzare il silenzio.
Un fatto oggettivamente clamoroso, rimasto sconosciuto ai più, è stata la ricusazione del magistrato designato secondo le “tabelle” a presiedere la Corte d’assise di Padova, cosa mai avvenuta in precedenza a Padova. Io ne ho saputo ben poco, anche perché tutta la vicenda venne condotta riservatamente. Quel magistrato era amico o solo conoscente di qualcuno fra gli imputati? Aveva tenuto qualche comportamento rientrante nei casi di ricusazione regolati dal codice di procedura penale? No. Io non ho chiesto niente a nessuno, ho raccolto solo commenti volanti. Se ne parla nei corridoi del tribunale, tentando di capire, vi sarebbero ragioni di convenienza. Si dice che quel presidente, fuori dall’esercizio delle sue funzioni, in un colloquio informale con un collega sulle scale del tribunale, abbia espresso scetticismo sul valore dei documenti proposti a sostegno dell’accusa (“giornaletti”, li avrebbe definiti). Un cancelliere, presente al colloquio, avrebbe informato un avvocato del Pci il quale, a sua volta, ne avrebbe riferito al pm. Tutti volevano dare il proprio contributo. Lo scontro in atto fra le due ipotesi di cammino verso il comunismo poteva giustificare questi inconsueti passaggi di informazioni. Venne a parlarmene Alberto Ferrigolo, giornalista del Manifesto. Si diceva ancora – ne parlano i giornalisti – che il pubblico ministero, una volta proposta l’istanza di ricusazione, si fosse recato alla Corte d’appello di Venezia per spiegare e sostenere la sua istanza (in effetti, ancora oggi è difficile immaginarne le ragioni). A un certo punto, il presidente designato si astenne; in ogni caso, anche se l’istanza del pm fosse stata respinta, la sua immagine professionale avrebbe riportato un danno. Tutto ciò avvenne riservatamente, nessun dibattito pubblico vi è stato su questo fatto eccezionale, per la stampa del Pci non vi era nulla da eccepire.
Nel processo, che vede una iniziale discutibile divisione (le accuse a Negri di BR e del sequestro Moro a Roma vengono fatte rapidamente cadere), la vicenda del Professor Luciano Ferrari Bravo, imputato solo di associazione sovversiva fino alla contestazione dell’insurrezione, non è formalmente spiegabile. Il pm Pietro Calogero aveva trasmesso a Roma, quale sede competente, gli imputati raggiunti da una duplice imputazione, cioè anche quella di banda armata (costituzione e organizzazione delle BR). Ferrari Bravo aveva solo associazione sovversiva, come gli altri imputati trattenuti a Padova. I giudici padovani tentarono di ricuperare la sua posizione, “c’è stato un errore” dicono ai giudici romani, ma sono inutili gli incontri con Achille Gallucci e Francesco Amato – nonostante il parere del pg Ciampani, presente in un’occasione, “vedremo” è la risposta. L’impostazione di fondo, un unico partito armato, andava fortemente difesa. La realtà era che Ferrari Bravo, assistente di Antonio Negri alla Facoltà di Scienze politiche, godeva di un forte prestigio: a parte gli scritti e la collaborazione con la rivista Autonomia, non vi era nulla a suo carico ma, anche se non detto da nessuno, era considerato un dirigente del partito armato. Dunque, in silenzio, e nel silenzio del Pci e della sua stampa, venne trattenuto fino a quando, con la contestazione del reato di insurrezione, ogni discorso si chiuse. Anche per lui la competenza a trattare il processo rimaneva a Roma.
Molti imputati hanno sofferto lunghi periodi di custodia in carcere, anche di anni, prima di essere assolti. Fra di loro, quando è stato assolto da ogni imputazione con formula piena, Luciano Ferrari Bravo, che inutilmente avevo tentato di ricuperare alla mia istruttoria, aveva sofferto ben cinque anni di carcerazione preventiva. Mi sarei aspettato che un fatto così grave suscitasse numerosi commenti. Invece l’intero sistema politico è rimasto in silenzio. Di lì a qualche anno, con l’arrivo di Tangentopoli, un esercito di garantisti sarebbe entrato in campo per protestare contro gli eccessi di carcerazione preventiva, ma nel 1987, l’anno della sentenza della Corte d’assise d’appello di Roma, di fronte a quel tempo incredibile di custodia non avevano trovato nulla da ridire.
E il Csm? Incontrando per caso a Bologna Federico Mancini, docente di diritto del lavoro, mio amico e componente del Csm, mi sono sentito dire: “sono indignato per quel che ti stanno facendo”. Gli chiesi se il Consiglio avesse qualcosa da dire su quanto stava succedendo. “Proverò a sentire”. Ma la risposta del Csm fu deludente: il Consiglio rimase in silenzio, non c’era nessuno da tutelare. Furono in pochi a comprendere la gravità della situazione, e a scriverne ripetutamente. Ricordo Rossana Rossanda e Luigi Ferrajoli.
E però questo duello senza remore si avviava a una conclusione amara per entrambi i contendenti. Le Brigate Rosse, organizzazione italiana di estrema sinistra costituitasi nel 1970 per propagandare e sviluppare la lotta armata rivoluzionaria per il comunismo, di matrice marxista-leninista, il più numeroso e il più longevo gruppo terroristico di sinistra del Secondo dopoguerra esistente in Europa occidentale, hanno concluso la loro esperienza nel 1988 con un documento sottoscritto da alcuni fra i più importanti dirigenti. Nello stesso periodo si andava dissolvendo l’esperienza dell’Autonomia operaia organizzata. Il 9 marzo 1985, a Trieste, era avvenuta l’uccisione da parte di agenti della Digos e del Sisde, del militante di Autonomia Operaia, Pietro Maria Walter Greco (detto “Pedro”). Per ricordarlo, nel 1987 nacque a Padova il Centro sociale occupato “Pedro”. Peraltro, le cronache non hanno più avuto occasione di interessarsi di iniziative dell’Autonomia. Appunto, nella seconda metà degli anni ottanta è maturata la fine per entrambe le esperienze.
Nel frattempo, nel giugno 1985 falliva il referendum sul taglio della scala mobile introdotto l’anno precedente dal Governo di Bettino Craxi. Qui si può simbolicamente individuare il momento del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Dopo qualche tempo si formerà il primo Governo Berlusconi (1994), nel quale confluirono, tra gli altri, oltre gli amici del presidente, cinque esponenti della Lega di Umberto Bossi, cinque del Movimento sociale italiano e, sorprendentemente, Giuliano Ferrara, noto giornalista ex-Pci. Nel 1991 si era svolto l’ultimo congresso del Pci, il ventesimo.
Le ragioni di tutti questi silenzi? In genere, chi valutava l’inchiesta del 7 aprile come la necessaria risposta dello Stato al terrorismo li ha giustificati con l’esigenza di non creare impicci alla meritevole iniziativa di un’istituzione, la Procura della Repubblica di Padova, che con coraggio aveva svolto un suo compito, quello di contrastare la criminalità armata. Chi ha sostenuto anche politicamente quell’inchiesta, come il Pci, li ha considerati necessari, non solo nella prospettiva di riuscire a sconfiggere un pericoloso assalto alle istituzioni repubblicane, ma anche per cancellare dalla scena un temibile concorrente nella ricerca del comunismo.
* Testo redatto a partire dall’intervento del 9 novembre 2024, tenuto in occasione del Convegno dedicato ai sessant’anni di Magistratura democratica – Roma, Campidoglio, Sala della Protomoteca, 9-10 novembre 2024.