La vicenda culturale e politica di Magistratura democratica
1. Il contributo di Md alla formazione di una cultura della giurisdizione / 2. Il rifiuto del conformismo / 3. La riflessione sull’interpretazione / 4. Gli apporti del marxismo e del pensiero liberale classico / 5. La valorizzazione dell’art. 3 cpv. Costituzione / 6. L’impegno sociale e professionale dei magistrati democratici / 7. La difesa dell’indipendenza e il garantismo di Md
1. Il contributo di Md alla formazione di una cultura della giurisdizione
Come è stato giustamente osservato, ci siamo tutti formati in questa vicenda, in questa storia di Magistratura democratica. Da questo dato vorrei partire tentando di dire non tanto come eravamo, ma come ci siamo formati e come abbiamo contribuito a formare una cultura della giurisdizione.
Una cultura percorsa da attenzioni, da contraddizioni, da nodi; ma tale da costituire un terreno comune di discussione.
Nell’affrontare il tema “cultura della giurisdizione e pensiero politico”, l’esistenza di un terreno comune di discussione va sottolineata come il primo contrassegno di Magistratura democratica.
Perché, come tenterò di indicarvi, sono molteplici i filoni di pensiero politico che sono confluiti in questa vicenda, che si sono incrociati. Molteplici e talora anche profondamente diversi.
E, tuttavia, il grande risultato di Magistratura democratica, uno dei contrassegni più originali del gruppo e della sua storia, è stato proprio questo: aver mantenuto la compresenza di culture e averne fatto momento di crescita collettiva.
Un’associazione a noi molto vicina e che certamente ci ha molto influenzato (come del resto noi abbiamo influenzato quella formazione), il Sindacato della magistratura francese, alcuni anni fa, aveva una sorta di divisa. I suoi aderenti ostentavano con forza uno slogan: “io sono un appartenente al sindacato prima ancora che essere un magistrato”.
Credo che posizioni analoghe vi siano state anche in Md, almeno a livello individuale. Forse qualcuno – forse molti, non saprei – ha scelto addirittura di diventare magistrato pensando a Magistratura democratica.
E, tuttavia, la vicenda di Md come entità collettiva è vicenda che si inserisce nell’ambito della storia dell’istituzione giudiziaria, all’interno della costruzione di una cultura della giurisdizione. È una vicenda, insomma, che fa parte della storia della giustizia, assai più che della storia del pensiero politico.
Una storia della giustizia che si è aperta all’esterno e che si è costruita partecipando, ovviamente, ad una più generale vicenda politica, ma attivamente interagendo con tale vicenda.
Un nesso tra giustizia e politica, lo sappiamo fin troppo bene, esiste sempre. Però assai spesso il rapporto della giustizia, delle istituzioni giudiziarie con l’insieme del sistema politico, delle idee politiche, è un rapporto passivo.
Invece ciò non è avvenuto per Magistratura democratica, che non ha avuto un rapporto passivo con il sistema politico, con le idee della politica, con il pensiero politico.
La storia di Md è anche la storia della costruzione di una cultura idonea a sorreggere il titolo IV della parte seconda della Costituzione, cioè il dettato costituzionale sulla giurisdizione. Questa parte della Costituzione è nata, infatti, senza che dietro vi fosse una cultura adeguata.
Se scorriamo gli atti dell’Assemblea Costituente troviamo che vi era un accordo generale sull’esigenza di costituire una magistratura indipendente. Era un accordo che nasceva anche, e forse soprattutto, come reazione al fascismo che, in fondo, si era limitato a gestire delle strutture burocratico-gerarchice dell’ordine giudiziario ereditate dal precedente sistema liberale e che, solo alla fine del suo ciclo, aveva ritenuto di emanare l’ordinamento Grandi, che poi costituisce soltanto un irrigidimento dell’ordinamento Ovilio.
Questa operazione era stata accompagnata da categoriche affermazioni di principio che avevano sgombrato il campo da alcune ipocrisie che avevano sempre contrassegnato il pensiero liberale. È di Grandi, in particolare, l’affermazione del netto rifiuto del principio dell’indipendenza della magistratura, qualificato come «un principio che non ha senso e non si concilia con i princìpi del nostro Stato».
Ecco, questo rifiuto esplicito dell’indipendenza della magistratura da parte del fascismo certo contribuì, insieme ad altri fattori, a determinare la spinta verso un ordinamento costituzionale della magistratura quale noi oggi abbiamo e quale – non senza qualce ragione – oggi appare da varie parti contestato.
Ma se cerchiamo di verificare che idea avevano della giurisdizione i costituenti, ci troviamo dinanzi alle più diverse concezioni. Persino una personalità come Calamandrei, che dette un grande, decisivo contributo in molti interventi, accanto a folgoranti illuminazioni, riprende una serie di categorie, di luoghi comuni propri di una concezione burocratico-gerarchica della magistratura e, comunque, di una concezione assolutamente non adeguata al disegno tracciato dall’insieme delle norme costituzionali.
Il che, tra l’altro, sia detto per inciso, mostra come, quando si discute dell’ordinamento costituzionale della magistratura, assai pochi lumi possano venire dal riferimento ai lavori dell’Assemblea Costituente; spesso, anzi, questi lavori contengono delle trappole.
2. Il rifiuto del conformismo
Pino Borrè ha indicato nella sua analisi due radici fondamentali della nascita di Magistratura democratica: il rifiuto del conformismo e la scelta, l’opzione in favore dei soggetti sottoprotetti.
Si tratta di due aspetti fortemente intrecciati perché il conformismo giurisprudenziale, giudiziario e culturale era oggettivamente un modo attraverso il quale l’istituzione giudiziaria si poneva in sintonia con gli interessi forti, era un modo attraverso il quale l’istituzione si orientava contro i soggetti deboli.
Il conformismo, del resto, non era soltanto un dato culturale, era istituzionalizzato, aveva un sostegno e un substrato normativo, organizzato, applicativo. Credo sia utile, al riguardo, leggervi poche righe dovute alla penna di uno di quei filosofi del diritto che pure hanno contribuito alla nascita del movimento di Magistratura democratica o perlomeno della temperie culturale nella quale Md ha preso le radici.
Si tratta di Umberto Scarpelli, il quale – riferendosi alla magistratura degli anni cinquanta – ha scritto:
«si trattava di una magistratura inserita in quello che chiamerei il sistema dell’istituzione giudiziaria. In questo sistema giocava tutta una serie di fattori molto rilevanti. Prima di tutto si sentiva la funzione di indirizzo e unificazione giurisprudenziale esercitata dalla Corte di cassazione. L’influenza della Corte di cassazione era forte ed effettiva perché operava, all’interno dell’istituzione, tutta una serie di fattori uniformanti ed omogeneizzanti ed anche, in un certo senso, limitanti per il singolo magistrato. Intanto, alla base c’era una matrice sociale abbastanza comune ma poi, soprattutto, giocava moltissimo la carriera.
Entrando in magistratura si sapeva che, dopo aver superato il concorso e poi l’esame per giudice aggiunto, dopo un certo numero di anni si sarebbero dovuti affrontare, e possibilmente superare, concorsi per la Corte d’appello e la Corte di cassazione.
C’era, dunque, la preoccupazione di lavorare in un certo modo, con un certo stile, un certo linguaggio, un certo rigore che potessero essere approvati dai magistrati di Cassazione, giudici dei concorsi. E anche molto importante era la funzione dei capi degli uffici; delicata funzione perché implicava la scelta dei giudici ai quali affidare certi affari piuttosto che altri.
Ora questa struttura è completamente saltata».
Scarpelli sembra dire che questo esito è negativo. Ma noi sappiamo che la struttura dell’istituzione giudiziaria, da lui così lucidamente descritta, era quella che reggeva la produzione giurisprudenziale degli anni cinquanta. La giurisprudenza del congelamento della Costituzione, dell’applicazione puntigliosa del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza e di molte delle leggi più odiose ereditate dal fascismo.
Il funzionamento dell’istituzione giudiziaria non era intaccato dal fatto che alcuni magistrati, e ve ne erano forse più di quanto comunemente si creda, erano magistrati di sinistra. Alcuni di questi magistrati hanno combattuto una battaglia, solitaria e senza frutto, all’interno dell’istituzione giudiziaria, mentre altri, pur mantenendo una grande probità, tuttavia aderivano completamente all’ideologia dell’istituzione.
Non è un caso che alcuni di questi magistrati comunisti, magistrati degnissimi, tuttavia partecipassero a tal punto della concezione tradizionale e dominante della giustizia, da essere poi iscritti all’Umi, l’Unione dei magistrati italiani.
Questo modello è entrato in crisi sul piano istituzionale con l’entrata in funzione della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura, ma soprattutto, sul piano culturale, è entrato in crisi con il disgelo della società italiana negli anni sessanta.
Del 1960 è un fortunatissimo convegno tenutosi a Firenze, organizzato da Maranini, i cui atti sono raccolti in un volume dal titolo provocatorio: Magistrati o funzionari?. Un convegno nel quale si poneva con forza e con un’attenzione molto mirata all’effettivo funzionamento della macchina giudiziaria e dei suoi meccanismi, il problema della compatibilità, con il disegno costituzionale, di un ordinamento giudiziario che in fondo delineava il magistrato come un funzionario.
Cinque anni dopo, nel 1965, a Gardone, un congresso dell’Associazione nazionale magistrati (sì, proprio l’organismo che alcuni di noi hanno sempre guardato in modo distratto) approvava, a grande maggioranza, una presa di posizione di grandissimo rilievo teorico in cui si indicava come punto di riferimento di ogni interpretazione e di ogni applicazione della legge o delle leggi, la Costituzione.
Nella deliberazione finale del Congresso si affermava che il giudice aveva il dovere di interpretare tutte le leggi in conformità con la Costituzione e, nel caso in cui ciò non fosse possibile, aveva il dovere di non applicare la legge e inviare gli atti alla Corte costituzionale.
Oggi questa affermazione può sembrarci ovvia, scontata; ma in quel momento storico ed in quel contesto istituzionale essa comportava la rottura di un grande tabù, quello della soggezione del giudice alla legge intesa esclusivamente come comando contingente del legislatore ordinario.
È sulla scia di queste acquisizioni che comincia a prendere corpo il movimento di Magistratura democratica. E il primo terreno, quindi il primo filone di pensiero forte che influenza questo movimento, è un filone di pensiero giuridico, costituito dai contributi più aggiornati in tema di interpretazione.
In proposito è opportuno ricordare uno dei documenti presentati nel Convegno ideologico di Pisa del 1971 dalla Sezione milanese (mentre si trovava al suo massimo la scapigliatura ideologica della quale si è tanto parlato), che esprime, con grande rigore, con grande lucidità, un atteggiamento che può valere ancora oggi come utile punto di riferimento per l’orientamento dei magistrati.
In esso si afferma, tra l’altro, che: «Acquisizione teorica di partenza è l’insufficienza del modello tradizionale dell’attività interpretativa, intesa come mera ricognizione di un preesistente significato normativo testuale e certo».
Il che significa che, nel 1971, era ancora questo, nonostante il Congresso di Gardone, il principale terreno di confronto e di scontro culturale.
Riprendo qui alcuni punti centrali della riflessione sull’interpretazione.
3. La riflessione sull’interpretazione
Il modello cui corrisponde il mito del giudice bouche de la loi è stato dimostrato fallace pressoché da tutto il pensiero giuridico moderno, dal normativista Kelsen al realista Ross. E l’attaccamento ad esso da parte della magistratura conservatrice non può che avere obiettivamente una funzione ideologica. Dietro l’affermazione della verità e certezza dell’interpretazione data al testo di legge, si fonda la supremazia incontrollata del depositario dell’interpretazione vera e certa. La ragione dell’autorità propria o dei propri padroni viene in tal modo sostituita all’autorità della ragione.
Si può e si deve dare per scontato, invece, che il diritto e la sua applicazione, come qualsiasi prodotto culturale storicamente determinato, non possono essere razionalmente compresi e controllati se non in connessione con il contesto che li determina, in cui e per cui hanno vita.
Il discorso giuridico risulta perciò necessariamente intriso di riferimenti ad un più ampio contesto, a situazioni, cognizioni e valori sociali di cui il diritto è espressione e funzione e con cui l’interprete deve fare i conti. Ma prese di posizione nel mondo della cultura e della storia non sono mai riducibili ad operazioni scientifiche, a possibile oggetto di verifica sperimentale o di calcolo logico. Ed è per questo, oltre che per la fluidità dell’ordinamento, che già in via di principio l’attività interpretativa non può portare a certezze di natura identica a quelle della scienza empirica, tanto meno della matematica.
Credere all’esistenza di un significato proprio delle parole, preciso e costante, come pretende l’articolo 12 delle preleggi, significa restare fermi ad una linguistica di tipo aristotelico, completamente superata dalla moderna semantica prima ancora che dalla filosofia del diritto. La realtà è che la comprensione di qualsiasi proposizione linguistica, nel discorso comune come nella legge, è sempre condizionata dal contesto in cui la comunicazione avviene e che ne integra o rivela la portata.
Per dirla con Ross:
«L’interpretazione non ha un punto di partenza linguistico indipendente, ma fin dall’inizio è determinata da considerazioni pragmatiche nella forma di senso comune. In punto di metodo il modello dell’attività del giurista non può pertanto essere la sperimentazione scientifica su di una preesistente realtà naturale, ma l’argomemtare secondo criteri di ragionevolezza più o meno consolidati. Il discorso tende alla persuasione, il pensare per problemi è la ricerca di buone ragioni atte a risolverli e a guadagnare consensi via via maggiori».
Lo schema dello Stato di diritto, così come si era formato nell’Ottocento, non inglobava questa dimensione e i problemi che essa pone e che sollecitano nuove risposte certamente difficili. Prima tra tutte quella sull’orientamento da imprimere alle scelte inevitabili che l’interprete, nei margini di elasticità dell’ordinamento, è chiamato a compiere.
La risposta che si diede a Gardone fu che le scelte vanno orientate sulla base dei principi della Costituzione. Ma questa risposta apre, non chiude il problema, perché nella Costituzione, di nuovo, è dato rinvenire una pluralità di principi che muovono in direzioni diverse. La stessa Costituzione è, a sua volta, un testo che sollecita l’interpretazione, che chiama in causa il riferimento al contesto.
Questa riflessione si svolse nel periodo che comincia con gli anni ’68-’70. Non ci sfugge che cosa quegli anni hanno rappresentato, che cosa ha rappresentato quella stagione in tutta la sua complessità, in tutte le sue contraddizioni. Non c’erano soltanto le lotte studentesche, e non solo in Italia, ma c’erano le lotte all’interno delle istituzioni religiose, la vicenda dell’Isolotto per esempio, c’erano le grandi lotte operaie, le lotte dei terremotati del Belice, le lotte dei pensionati.
Vi era una spinta enorme e c’era una rottura di tutti gli schemi della vecchia cultura. Al di là del nostro Paese vi erano le grandi lotte imperialistiche: l’offensiva del Vietnam, le piazze che si riempivano. Vi era, insomma, un clima, un contesto di radicale messa in discussione di assetti esistenti, di categorie culturali, di certezze, di modi di pensare.
E questo “contesto” non poteva non illuminare il “testo” per chi, ad un certo punto, operava la scelta di uscire dalla torre d’avorio, di assumere il punto di vista esterno, di cercare di leggere il dato normativo, fosse pure il dato costituzionale, alla luce di questa realtà. Forse stupirà qualcuno di voi, ma la formula che ci è costata tanti scontri, la necessità di sopportare attacchi, di rintuzzarli, di chiarire, la formula secondo cui «le lotte sociali sono fonte di nuova legalità» è stata usata nel Congresso di Firenze, in Magistratura democratica, da Luciano Violante.
Io non so se egli avesse fino in fondo la cognizione della profondità di questa formula.
Perché è vero che le lotte sociali sono fonte di nuova legalità, ma non nel senso rozzo in cui ciò veniva inteso dai nostri oppositori (i quali pensavano che così dicendo noi volessimo trarre, dalla lotta sociale, immediatamente la regola da applicare, che la lotta sociale in qualche modo fosse produttiva di nomos e si sostituisse quasi al Parlamento) bensì nel senso che la lotta sociale vale ad illuminare gli aspetti reconditi di norme esistenti, a liberare l’eccedenza di senso normativo racchiusa in proposizioni linguistiche normative, a farne prendere coscienza.
Enunciati normativi radicali inseriti in un testo costituzionale e poi dimenticati possono, per questa via, riconquistare senso e vigore. Chi si ricordava dell’art. 3 cpv. della Costituzione (e non solo tra i giudici, ma tra i giuristi, gli autori di trattati) sino alla fine degli anni sessanta? Ma da quel momento l’art. 3 cpv. diventa una norma dotata di grande centralità, di grande capacità euristica e lo diventa, prima ancora che nella giurisprudenza, nelle trattazioni dei dottori.
Ma tornerò sull’art. 3 cpv.
Intanto mi preme dire che, storicamente, gli apporti di pensiero hanno le loro connotazioni, le loro paternità, si iscrivono nel quadro di scuole, ma poi acquistano anch’essi una carica particolare, specifica, connotante, in funzione dei contesti in cui gli apporti vengono recuperati.
4. Gli apporti del marxismo e del pensiero liberale classico
L’atto di nascita di Md, lo ricordo soltanto ai giovanissimi, è del novembre 1969 ed è il famoso ordine del giorno con il quale Magistratura democratica criticava l’ordine di cattura emesso da un giudice istruttore di Padova nei confronti di un giornalista, Francesco Tolin, per reati di opinione.
L’ordine del giorno Tolin era, a leggerlo oggi, di una ovvietà sconcertante perché diceva semplicemente che i reati di opinione sono già, nella loro configurazione astratta, di dubbia costituzionalità e che la carcerazione preventiva doveva essere motivata da esigenze cautelari delle quali, nel caso di specie, non vi era traccia, non esistendo alcun pericolo di dispersione delle prove; con la conseguenza che la carcerazione preventiva era veramente un arbitrio.
Eppure, questa presa di posizione era segnata da una grande radicalità, proprio perché, per la prima volta, rompeva l’omogeneità del ceto dei giudici; affermava il principio della critica dei provvedimenti giudiziari anche da parte di magistrati e richiamava sul caso l’attenzione della più larga opinione pubblica.
I valori in gioco erano la libertà di manifestazione del pensiero – classico valore liberale, semmai ve ne sono – e la limitazione, l’eccezionalità della custodia cautelare, anch’esso valore liberale consacrato dalla Costituzione. Un anno dopo, una sentenza della Corte costituzionale (la sentenza n. 64 del 1970) afferma l’eccezionalità della custodia cautelare, sostenendo che essa è consentita solo nei casi in cui vi sia pericolo di fuga o pericolo di inquinamento delle prove.
Magistratura democratica in quegli anni produce, per la penna di Domenico Pulitanò, un saggio che resta ancor oggi ragguardevole: Libertà di manifestazione del pensiero e pensieri cattivi, nel quale la libertà di manifestazione del pensiero viene assunta nelle sue più dirompenti implicazioni alla luce degli apporti, dei contributi di un pensiero che non potrebbe definirsi marxista ma che era il pensiero, semmai, della cultura radicale liberale.
Certo, il marxismo è stato gran parte dell’universo, perlomeno lessicale o anche di riferimento, in cui Md è venuta poi esprimendo le sue posizioni. E perché questo? Perché quel “contesto” al quale ho fatto riferimento era segnato da fortissime spinte emancipatorie, da spinte di grande radicalità, di rivendicazione esigente di un nuovo e diverso modo di porsi dei rapporti pubblici e privati tra gli esseri umani.
E questo insieme di rivendicazioni, questo insieme di spinte trovavano necessariamente nel marxismo, in tutte le sue diverse inclinazioni (perché il marxismo è stato un universo variegato, accidentato, multiforme), uno strumento di analisi, di rappresentazione e anche di sistemazione.
Quindi il discorso marxista diventa la variegata sintassi attraverso cui parla tutto ciò che si muove nella società. Certo, c’era un’enfasi nei nostri discorsi ed era il riflesso dell’enfasi del contesto, carico di speranze e di aspettative.
Una volta assunta l’importanza del contesto, constatata la gravità della separazione tra giudici e società, è stato del tutto naturale per Md immettersi nella società, nel suo ribollire, proprio per superare la separazione. E la separatezza – come è stato ricordato – costituiva un altro contrassegno della magistratura e delle istituzioni giudiziarie, un contrassegno duro a morire perché fenomeni di questo genere attengono alla sociologia, alla cultura, al costume e sono difficilmente spiegabili in una logica geometrica o perlomeno di geometria euclidea.
Ho già ricordato il Congresso di Gardone e la grande novità del documento che lo concluse. Ho ricordato come quel documento fosse stato approvato dalla maggioranza dei congressisti; però voglio anche ricordare che Gardone, per altro verso, fu una pagina vergognosa della magistratura italiana. In quel congresso, infatti, fu impedito a Lelio Basso di prendere la parola.
Quindi c’era ancora una separazione, un voler trattare da sé, con sé, i propri problemi, un voler pensare in modo autosufficiente, rifiutando gli apporti esterni. Ecco l’esigenza di rompere la separatezza.
Su questi temi i testi di Marx offrivano grandi e feconde categorie di analisi e di interpretazione. La critica dell’uguaglianza formale trova pagine a mio giudizio insuperabili nei testi di Marx, già del giovane Marx. I suoi testi sono stati utilizzati anche per criticare il positivismo giuridico in quanto ideologia di legittimazione dello Stato al di sopra e al di fuori dello scontro di interessi, dello Stato come portatore sempre di un interesse generale. Si trattava di un positivismo giuridico che finiva per richiamare una visione hegeliana dello Stato e gli scritti di Marx contenevano gli strumenti culturalmente più appropriati per mettere in questione tale rappresentazione e per criticare la separazione “società politica/società civile”. Non nego che tutto ciò sia avvenuto con ingenuità di linguaggio, di espressione, anche con sommarietà, criticabili e del resto da noi stessi poi criticate.
Un grande apparato teorico veniva mobilitato per scoprire verità che oggi appaiono scontate. Oggi, la critica dell’uguaglianza formale, la critica del positivismo giuridico, inteso come legittimazione di uno Stato portatore di interessi generali, sono questioni in larga misura superate, almeno nel dibattito teorico. Però non bisogna dimenticare quale era l’atteggiamento della cultura giuridica dominante, in particolare della cultura giuridica dei vertici dell’Associazione nazionale magistrati.
Nel 1971, il procuratore generale presso la Corte di cassazione, aprendo la sua relazione, a fronte delle richieste, delle contestazioni che si levavano dal mondo del lavoro, da Magistratura democratica e che denunciavano l’alto numero di infortuni sul lavoro, chiamando in causa l’istituzione giudiziaria e rivendicando l’obbligatorietà dell’azione penale e i valori fondamentali da tutelare in questo campo, rispondeva in modo sprezzante, contando su un uditorio consonante: «Ma cosa vengono a chiedere costoro? In una Repubblica in cui c’è l’art. 3 cpv. della Costituzione che dice che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza ed alla partecipazione, gli ostacoli sono per questo già rimossi».
Dovevamo fare i conti con questi interlocutori, e valutare la storia di un gruppo come Magistratura democratica non è possibile se non si tiene conto anche di questo contesto. La “cultura della giurisdizione” ha dovuto formarsi superando una serie di sbarramenti, di arretratezze, di ottusità culturali.
5. La valorizzazione dell’art. 3 cpv. Costituzione
In questo clima, in questa temperie è stato del tutto naturale, quasi obbligato, che il problema della interpretazione della Costituzione e dell’orientamento da imprimere alle scelte implicate dalla lettura del testo costituzionale venisse risolto facendo riferimento all’art. 3 cpv. e che questo assumesse il rango di super-norma, di criterio ordinante dello stesso impianto costituzionale.
Una forzatura, probabilmente, anche se forse sull’art. 3 cpv. bisognerà spendere qualche parola in più. Ma se forzatura vi è stata, essa è stata condivisa dalla migliore dottrina se è vero che la qualificazione dell’art. 3 cpv. come super-norma ordinatrice è stata elaborata da Predieri, il giurista che oggi sovrintende alle privatizzazioni.
Negli anni settanta quello che si manifesta con grande evidenza è la struttura dicotomica dell’ordinamento. I codici fascisti da un lato, si diceva, la Costituzione dall’altro.
Ebbene questa struttura dicotomica, e la stessa valorizzazione dell’art. 3 cpv., trovano una sistemazione teorica suggestiva, anche se oggi potremmo pensare non del tutto convincente, nell’apporto di un grande marxista italiano, Lelio Basso. Egli era da tempo impegnato, nei suoi scritti teorici, ad elaborare una versione critica del marxismo ed in particolare nel contrastare le tesi teoriche, per esempio di Swezee, secondo cui, così come il salto dalla società feudale alla società borghese si era realizzato attraverso una lacerazione violenta e quindi aveva richiesto una rottura violenta del vecchio involucro, nello stesso modo il passaggio dalla società borghese alla società socialista richiedeva una rottura violenta.
Con grande dovizia di argomenti (era tra l’altro un grande esegeta di Marx), Basso riusciva a gestire bene questa sintassi, a trovare la citazione giusta, per sostenere, sulla base di minuziose ricostruzioni, che non necessariamente il salto dalla società borghese alla società socialista sarebbe dovuto avvenire attraverso una rottura violenta.
Insisteva molto, invece, sulla necessità di costruire, già all’interno della vecchia società, gli elementi del nuovo e, focalizzata la contraddizione fondamentale della società capitalistica, secondo il pensiero di Marx, tra carattere sociale dello sviluppo delle forze produttive e carattere privato dei rapporti di produzione, insisteva sul fatto che questo sviluppo delle forze produttive, inserendo sempre nuove esigenze di socialità, offiva al movimento operaio, e in genere al movimento dei lavoratori, elementi che potevano essere utilizzati dall’azione cosciente e volontaria degli uomini per aprire delle brecce nell’edificio della vecchia società.
Così ragionando giungeva ad indicare, nell’universo del diritto, la compresenza di elementi contraddittori, frutto appunto delle logiche diverse che si affrontano nella società: la logica sociale dello sviluppo delle forze produttive e la logica del carattere privato, esclusivo, espropriante, dei rapporti di produzione.
In particolare indicava in tutta una serie di conquiste legislative, di dati normativi, altrettanti passi in avanti della marcia del movimento dei lavoratori e riferiva le notissime pagine di Marx sul valore, per il movimento operaio, della limitazione degli orari di lavoro in Inghilterra, insistendo sul fatto che, attraverso questa lotta, una conquista puramente sociale era diventata una conquista legale e perciò uno stabile elemento di forza.
In quest’ottica l’art. 3 cpv. della Costituzione, di cui tra l’altro Basso era stato l’estensore, veniva individuato come la meta più elevata e significativa raggiunta dalle forze di progresso nel loro cammino istituzionale. Di qui la necessità, allora, di prendere coscienza e di far leva su questo elemento, per dispiegare un programma di giurisprudenza alternativa ma anche una concezione diversa del modo di intendere la legalità.
Leggo una pagina di Basso su questo tema, nella quale si dice:
«Nella nostra Costituzione di carta», voi sentite qui l’ironica polemica con tutto un settore del movimento, «c’è l’art. 3 capoverso, che non è soltanto, come spesso si legge, un comando per il legislatore futuro, questo sarebbe ancora poco. L’art. 3 capoverso dice che l’eguaglianza di cui parla il primo comma dell’articolo in realtà non esiste, che non c’è nella società, nonostante le affermazioni formali, un’uguaglianza reale. Accanto a questo tentativo di portare la norma giuridica a contatto con la realtà effettiva, il capoverso dell’art. 3 aveva anche un altro scopo, quello di far risultare, dal testo stesso della Costituzione, la profonda contraddittorietà dell’ordinamento. Quando noi leggiamo questo testo, troviamo che nella Costituzione stessa c’è una norma che dichiara la falsità delle altre norme. Come è falsa l’affermazione “la legge è uguale per tutti”, così è falso l’art. 1 della Costituzione in cui si dice che l’Italia è una Repubblica democratica. Non può essere una Repubblica democratica se, e fintanto che, i lavoratori – a causa delle loro condizioni materiali – non possono partecipare alla direzione della cosa pubblica. E non lo sarà fino a quando non avrà trovato realizzazione l’art. 3 cpv. La ragione per cui ho tenuto ad inserire questo articolo era proprio questa, che esso smentisce tutte le affermazioni della Costituzione che danno per realizzato quello che è ancora da realizzare, la democrazia, l’eguaglianza. Perché questo articolo diventi realtà devono diventare reali tutti i princìpi proclamati in astratto o anche soltanto sottintesi, come il diritto alla casa, al lavoro, all’istruzione, alla salute. E fino a quando questo non sarà avvenuto, vorrà dire che la Costituzione mente, mente nella sua affermazione che tutti i cittadini sono eguali, mente nella sua affermazione che i cittadini hanno diritto al lavoro, all’istruzione e così via. L’importanza del capoverso dell’art. 3 è che esso introduce nella Costituzione stessa il riconoscimento di questa non verità, cioè mette a nudo il valore ideologico di certe affermazioni, tende a demistificarle. La contraddizione, allora, non è più fra le leggi e la realtà, tra costituzione formale e materiale, ma è all’interno della stessa Costituzione e, a mio parere, questo è il significato più importante, un significato attuale, perché, maneggiando quest’arma della contraddizione all’interno dell’ordinamento, possiamo interpretare l’ordinamento in modo nuovo. C’è stata sempre, infatti, la tendenza ad interpretare l’ordinamento giuridico come garante dell’ordinamento sociale borghese. Si pensi, per esempio, al diritto penale. Ebbene, questo articolo della Costituzione ci dice, invece, che l’ordinamento sociale va modificato per adeguarlo all’ordinamento giuridico, per rendere questo coerente, per eliminare ogni contraddizione».
6. L’impegno sociale e professionale dei magistrati democratici
Dinanzi a questa lettura così forte dell’art. 3 non possiamo, oggi, sottrarci ad un’obiezione: che, in questo modo, tutto viene trasferito nell’impegno a modificare le condizioni materiali che negano la verità dei diritti, con il rischio di impoverire l’impegno specifico sul piano giuridico ed istituzionale.
Ed infatti la “negazione del ruolo” è stata per lungo tempo una delle costanti ideologiche che ha accompagnato Magistratura democratica; né è difficile rintracciare, nel cosiddetto “libretto giallo”, alcune pagine che negano il ruolo del giudice o che ne preconizzano addirittura la scomparsa al limite di un orizzonte lontano ed incerto nel quale le affermazioni di principio si sarebbero inverate.
È anche questa una tematica che non ci veniva solo dal marxismo, ma anche da altri filoni di pensiero. In quegli anni, in Francia, il Sindacato della magistratura francese celebrava dei congressi che avevano come tema la “morte del giudice” e si interrogavano sulla scomparsa di questo potere.
Magistratura democratica si è mossa all’interno di questa contraddizione: negazione del ruolo del giudice in prospettiva e, però, una valorizzazione del suo ruolo nell’immediato per contribuire a questa negazione in prospettiva.
Ciò che ha salvato Magistratura democratica, e ha reso feconde queste contraddizioni, è stato proprio lo specifico ancoraggio professionale alla concretezza dei problemi e alla densità del reale che la funzione professionale inevitabilmente finiva col ricacciare innanzi a ciascuno di noi.
La valorizzazione del ruolo veniva indotta innanzitutto dalle vicende repressive di quegli anni. Basta leggere le pubblicazioni dei sindacati, che dedicavano volumi interi al tema della repressione.
Basta ricordare la forte carica di polemica contro l’uso (vero e proprio colpo di coda di una vecchia magistratura) dei peggiori strumenti e dei peggiori residui della codificazione fascista, i mandati di cattura per delitti di sciopero, per delitti di danneggiamento commessi in occasione di sciopero e così via.
E poi avevamo a che fare con l’inizio della stagione delle stragi. L’impegno di Magistratura democratica per demistificare il castello costruito intorno a Valpreda è attestato da un volume: Valpreda +4, di puntigliosa ricostruzione della verità, di esercizio di strumenti propri della professione a servizio della critica. E, parallelamente, cominciava a manifestarsi l’esigenza dei controlli di legalità.
Vi era anche qualcosa di più e di diverso in quella stagione. Nel 1970 veniva emanato lo Statuto dei lavoratori.
Si poneva il problema di interpretare ed applicare una norma come l’articolo 28 dello Statuto, che punisce qualsiasi atteggiamento antisindacale del datore di lavoro. La giurisprudenza disse che potevano essere antisindacali anche quei comportamenti che rappresentavano l’esercizio di facoltà astrattamente spettanti all’imprenditore; in altri termini, qualsiasi atteggiamento tendente a limitare il diritto di sciopero.
Una norma diseguale per eccellenza, dunque, una norma che non può essere intesa, non può essere applicata se non si recuperano, nell’orizzonte delle determinazioni giuridiche, le determinazioni storico-sociali. Se, cioè, non si fa entrare, tra i significanti della norma, proprio la densità dei rapporti economici e della realtà.
È stato, credo, merito di questa cultura, di questo approccio, di questo filone di pensiero aver dato sostanza, vita allo Statuto dei lavoratori, aver rintuzzato gli attacchi al nuovo corpo normativo, aver fatto sì che quella legge abbia svolto il suo ruolo in Italia.
La valorizzazione del ruolo del giudice e della sua intrinseca politicità presenta anche un altro versante – che già negli anni settanta comincia a fare capolino – ed è il rifiuto della delega ai soggetti storici della trasformazione.
Anche qui si profilava una contraddizione. Si puntava tutto sulla trasformazione e si riconosceva che la trasformazione doveva essere l’opera di soggetti collettivi, dei partiti, della classe operaia.
Tuttavia, c’era una resistenza a delegare tutto a questi partiti. E già in alcune pagine del “libretto giallo” si trova questa resistenza che poi si esprimerà in maniera eclatante attraverso la proposta di un referendum abrogativo dei reati di opinione.
A proposito di questo referendum (che creò un forte dibattito all’interno di Magistratura democratica, tra quest’ultima e il Partito comunista, e comportò, per quella parte di Md che si impegnò su questo terreno, l’accusa di essere degli illuministi) io vorrei porre un interrogativo. Otto anni più tardi, di fronte al dilagare del terrorismo, Magistratura democratica venne chiamata ad impegnarsi in un’opera di dibattito, di confronto con le realtà dei lavoratori.
Solo a Torino si svolsero sessanta assemblee alla Fiat Mirafiori, organizzate da Md e dalla Quinta Lega Mirafiori.
Sarebbe stata possibile una iniziativa del genere, sarebbe stato possibile trovare un terreno culturale idoneo su cui sviluppare questa iniziativa (fondamentale nella difesa della democrazia e nella critica alla violenza) senza quel precedente, senza essersi abituati alla rottura del ruolo, all’immersione di una parte della magistratura nella realtà sociale?
7. La difesa dell’indipendenza e il garantismo di Md
Al di là del marxismo, altri apporti sono confluiti in questo crogiolo.
Agli inizi degli anni settanta emerge, si fa strada con forza, la critica delle istituzioni totali. Diventano allora oggetto di attenzione il carcere e il manicomio.
Viene letto Basaglia, entra in campo il pensiero di Foucault, la microfisica del potere. Nasce l’impegno nel penitenziario. Con la scoperta che la contraddizione non corre soltanto tra norme di livello costituzionale e norme ordinarie, ma si istituisce anche tra norme ordinarie e regolamenti.
È rimasta famosa l’iniziativa di Vincenzo Accattatis della disapplicazione del regolamento carcerario (allora era un regolamento), avente valore di norma secondaria, e che perciò fu “visto e disapplicato”.
I convegni sulle carceri hanno preparato la crescita della cultura che ha poi portato alla legge penitenziaria ed ha fatto emergere alla razionalità giuridica il mondo penitenziario, fino ad allora il mondo del non diritto, il mondo della violenza bruta. E di qui nasce anche l’impegno contro i manicomi.
Poi le analisi sulla criminalità dei colletti bianchi, le prime avvisaglie del pensiero ecologista e la lotta agli inquinamenti, lo scandalo dei petroli del 1974.
Si delinea l’uso della legalità come strumento di controllo del potere. E strumento di controllo del potere a livelli alti.
Non è un caso che, proprio a seguito dello scandalo dei petroli, si comincia a manifestare un nuovo fronte, ed è il fronte dell’attacco all’indipendenza della magistratura nelle sue linee costituzionali.
Il progetto di legge costituzionale “Bianco-Gargano +54” (parlamentari democristiani) è agli atti.
È a questo punto che Magistratura democratica si mobilita su questo nuovo fronte. Scopre che deve arricchire, per così dire, le proprie tematiche ed i propri fronti di azione, con una difesa dell’ordinamento costituzionale della magistratura, che prima aveva presupposto come intangibile e solo da inverare e tradurre in norme di legge ordinaria.
Ci si rende conto che l’ordinamento costituzionale è invece un dato contestato. Cresce la riflessione sui valori emancipatori, positivi dell’indipendenza del giudice, con una forte differenza, per esempio, rispetto al Sindacato francese.
Il Sindacato francese non si pone il problema dell’indipendenza della magistratura, o meglio, se lo pone di scorcio in un congresso dei primi anni settanta e lo liquida ritenendolo retaggio di un’ideologia ormai superata. Cosicché oggi i magistrati francesi si trovano a dover fare i conti con quel retaggio e ad invocarne un qualche pallido sprazzo.
In questo quadro si sviluppa la lotta per il sistema elettorale proporzionale nel Csm, si valorizza il pluralismo, collegato al tema del giudice naturale. Tanto che i contributi dati alla scoperta e all’approfondimento del concetto di giudice naturale, dalla giurisprudenza di Magistratura democratica hanno alimentato poi la migliore dottrina e la migliore elaborazione sul punto.
Poi il pensiero critico di Habermas, il Convegno del ’73 su “Giustizia e informazione”, finché emerge all’orizzonte come tema politico centrale la difesa delle libertà e delle garanzie della persona.
Una difesa che inizia già a partire dal 1974, epoca in cui l’ordinamento processuale penale comincia a manifestare segni di schizofrenia.
Fino al 1974 vi era stato un crescendo di liberalizzazione. Nel 1974 abbiamo un contraddittorio intervento legislativo. Nel 1975 la “legge Reale”.
L’impegno su questo terreno rappresenta un recupero delle migliori tradizioni del pensiero liberaldemocratico.
Si cominciano ad aprire i dissensi più forti con le grandi organizzazioni di sinistra, con il Pci.
Ponemmo allora l’accento – al di là di tutte le strumentalizzazioni – sull’importanza della garanzia giuridica.
Ed è del 1978 la polemica con Il Manifesto e con Rossana Rossanda. Quanti di voi ricordano il suo articolo intitolato Perché non siamo garantisti?
Fu l’ultima espressione di un marxismo che tentava di recuperare una sua astratta purezza e di rigettare in blocco l’insieme delle acquisizioni del pensiero liberaldemocratico in tema di garanzie: una polemica ampia, che occupò pagine e pagine del Manifesto e dalla quale, credo, qualche acquisizione duratura, anche nella cultura della sinistra, in particolare di quella sinistra rappresentata da Rossana Rossanda, sia rimasta.
Successivamente, la critica alla violenza, l’esplodere del terrorismo, la scoperta della repressione come strumento di difesa della democrazia e, insieme, l’esigenza di attuare la repressione difendendo le garanzie.
Nascono qui la tensione tra formalismo e sostanzialismo ed una riflessione matura sulla supplenza.
Quanto alla tensione tra sostanzialismo e formalismo, ci troviamo di fronte al problema del diritto promozionale e della sua estendibilità o meno al settore del diritto penale.
Già nel Congresso di Urbino era stato affermato che l’applicazione promozionale del diritto, l’art. 3 cpv. della Costituzione, come guida interpretativa, funziona in tutti i campi del diritto, ma si deve arrestare là dove sono in gioco le libertà personali.
Perché lì vigono a pieno i canoni, gli assiomi del garantismo classico.
Si avvia una difficile riflessione, che ancora oggi è aperta, su razionalità formale e razionalità sostanziale, su diritto riferito ai valori e diritto che deve tutelare alcuni valori fondamentali e può farlo solo al prezzo di un suo ricondursi agli schemi che i servi legum predicavano per tutti gli ambiti del diritto.
Infine siamo agli anni ottanta. La riflessione porta al ridimensionamento del concetto di sovranità
popolare, alla scoperta del pensiero di classici come Tocqueville, alla scoperta dei diritti fondamentali come limite anche per il sovrano, sia anche il sovrano democratico, il sovrano formato da tutti. Quindi una critica del giacobinismo, la riscoperta di testi come quello di Maritain, L’uomo e lo Stato.
Ecco, questa è la vicenda della quale siamo parte. Una vicenda che sarebbe, io credo, profondamente sbagliato voler investigare alla stregua di una pretesa coerenza, passaggio per passaggio, come se si trattasse di un’unica elaborazione teorica.
È una vicenda che ha avuto un grande spessore teorico e che ha molto dato allo sviluppo della teoria. Ma è la vicenda del costruirsi di una cultura che si scontra con una serie di problemi, malamente risolti o non risolti, spesso, nell’ambito della cultura e della realtà circostante.
I problemi di oggi, lucidamente richiamati nel contributo di Danilo Zolo[1], richiedono lo stesso impegno, la stessa passione con la quale abbiamo affrontato i nodi del passato, senza lasciarsi scoraggiare da quella che è stata chiamata la caduta delle ideologie, la caduta dei muri.
Abbiamo il compito, e lo andiamo scoprendo, di valorizzare appieno tutte le risorse che un pensiero garantista, nel senso in cui lo intende Luigi Ferrajoli, può dare alla ricostruzione di un orizzonte di civiltà, di razionalità e di emancipazione.
* Il presente saggio fa parte della raccolta curata da Nello Rossi, Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Quaderni di Questione giustizia, Franco Angeli, Milano, 1994, pp. 91-108.
1. Cittadinanza democratica e giurisdizione, ivi, pp. 80-90 [ndr].