Magistratura democratica

Come sono nati i pretori d’assalto

di Gianfranco Amendola

Sono entrato in magistratura nel 1967 a 25 anni e, dopo un tirocinio di sei mesi, sono stato assegnato alla Pretura di Roma come uditore con funzioni di pretore. Premetto che all’epoca non avevo alcun interesse alla politica, tanto meno di sinistra, provenendo da una famiglia di media borghesia dove si leggeva Il Tempo e, al massimo, come tanti, in epoca scolastica avevo manifestato per Trieste. Durante il tirocinio senza funzioni, tuttavia, con l’affidamento a vari giudici, mi sono reso subito conto che i migliori, sia come rispetto dei valori costituzionali sia come preparazione e attaccamento al lavoro sia come comportamento verso il pubblico e i colleghi, erano alcuni magistrati quasi tutti iscritti alle correnti progressiste in un’epoca in cui la corrente di maggioranza era MI (d’ispirazione centrista), che, peraltro, esprimeva la maggior parte dei dirigenti, i quali esercitavano di fatto un fortissimo potere gerarchico, specie verso i colleghi “inferiori” e più giovani, come il sottoscritto. 

E ben presto ne feci le spese. Infatti, nel 1968 fui costretto a rinviare un procedimento penale in fase di dibattimento in quanto, nonostante i solleciti, l’ufficiale giudiziario di Tivoli (luogo di residenza dell’imputato) ometteva di far pervenire a Roma la relata di notifica del decreto di citazione. Quindi, al limite della prescrizione, disposi l’apertura di un procedimento penale a carico di questo ufficiale giudiziario per omissione di atti ufficio, rinviando poi alla Pretura di Tivoli per il prosieguo. Il fatto fu portato a conoscenza del procuratore della Repubblica di Roma, il quale lo segnalava al procuratore generale della Corte di appello di Roma, aggiungendo che «già in precedenza il dott. Amendola aveva manifestato una particolare fiscalità nei confronti dei collaboratori del giudice, senza peraltro compiere un’indagine preventiva, serena ed oculata, concorrendo ad aumentare, per la pubblicità cui è soggetta l’attività giudiziaria, il discredito verso il funzionamento della giustizia» (ci si riferiva alle mie segnalazioni formali le tante volte che dovevo rinviare per mancanza nel fascicolo di atti essenziali, quali il certificato penale o, appunto, la notifica del decreto di citazione). Di ciò venni a conoscenza, in via gerarchica, tramite il pretore dirigente cui inviai subito ampia relazione di spiegazioni, evidenziando tra l’altro che, a mio sommesso avviso, l’eguaglianza davanti alla legge impone di trattare un ufficiale giudiziario alla stessa stregua di un imputato comune. Ma non fu sufficiente perché nel 1969 il presidente della Corte di appello di Roma inviava una nota al presidente del Tribunale in cui, pur premettendo che ero un «magistrato particolarmente attaccato al dovere», lo invitava a rivolgermi una «ferma esortazione ad impiegare maggiore ponderazione ed equilibrio nello svolgimento delle funzioni giudiziarie», aggiungendo che si limitava all’ammonimento perché aveva tenuto conto della mia «giovane età ed inesperienza dovuta al breve periodo si servizio». Insomma, avevo «mancato per eccessivo zelo».

Proprio in quei giorni avevo in corso un procedimento contro un famoso professore universitario di medicina legale, sempre per omissione di atti di ufficio, e, quindi, ricevuto l’ammonimento dal presidente del Tribunale, chiesi di potermi astenere in quanto, dopo quel richiamo specifico proprio per il reato di cui all’art. 328 cp, potevo non «apparire nelle condizioni di serenità per giudicare». Il fatto fu riportato dalla stampa e allora, senza nessuna sollecitazione da parte mia, 57 colleghi inviavano una richiesta al procuratore generale della Cassazione affinché esercitasse azione disciplinare contro il presidente della Corte di appello il quale, senza averne il potere, aveva operato una «illecita ed intollerabile intrusione sindacatoria» nel merito della mia attività giurisdizionale. 

Per tutta risposta il pg della Cassazione, sempre nel 1969, iniziava un procedimento disciplinare a carico mio e di tutti i firmatari per aver compromesso, con il nostro comportamento, il prestigio dell’ordine giudiziario. Ed è, a questo punto, appena il caso di aggiungere che i firmatari (fra cui ricordo, in particolare, Ernesto Rossi, Gianfranco Viglietta, Salvatore Senese, Vincenzo Accattatis, Pierluigi Onorato, Luigi Ferrajoli, Marco Ramat, Corradino Castriota, Giangiulio Ambrosini, Mario Barbuto, Beniamino Deidda, Giovanni Placco, Marco Pivetti, Gabriele Cerminara, Franco Misiani, Luigi Saraceni, Ottorino Pesce, Ottorino Gallo, Franco Marrone, Riccardo Morra, Nuccio Veneziano, Franco Amato, Generoso Petrella, Domenico Pulitanò) erano, per la maggior parte, di Md e alcuni sono oggi presenti a questa nostra festa di anniversario. 

Per la cronaca, il procedimento si celebrò al Csm e si concluse nel febbraio del 1972 con l’assoluzione di tutti perché i fatti non sussistono e non costituiscono illecito disciplinare. 

Tuttavia, per me non era finita perché, a quel punto, il pg della Cassazione presentò, nel settembre 1972, ricorso (solo) nei miei confronti (il “manovratore” della vicenda), ma le sezioni unite confermarono la mia sentenza di assoluzione. 

È in questo quadro anche temporale, quindi, che vanno viste le circostanze per cui la stampa iniziò a parlare di “pretori d’assalto”.

Dico subito che io non ho mai pensato di essere un “pretore d’assalto” né ho mai pensato che un magistrato dovesse “assaltare” qualcuno o qualcosa. Doveva e deve solo, come è ovvio, interpretare e applicare la legge nel rispetto dei principi costituzionali e in nome del popolo italiano, con la piena consapevolezza che questo deve essere il suo unico faro. Tuttavia, mio malgrado, fu proprio per una mia indagine che, nel 1970, la stampa iniziò a parlare di “pretore d’assalto”. In realtà nacque tutto per caso: nell’estate di quell’anno, infatti, essendo il pretore romano più giovane per anzianità, fui officiato a restare al lavoro durante il periodo feriale (dell’epoca: due mesi estivi) rivestendo anche, quindi, per quel periodo funzioni che solitamente venivano esercitate dai dirigenti. Caso volle che quell’estate la stampa iniziò, con grande clamore, a sollevare il problema dell’inquinamento del mare romano, soprattutto di Ostia, che appariva in molti punti maleodorante e sporco, chiedendo che si accertasse se c’erano pericoli per la balneazione. Tuttavia non c’erano dati disponibili e utilizzabili, per cui le autorità locali, temendo per il turismo, si affrettarono a dichiarare che questo allarmismo era totalmente ingiustificato. Anzi, il sindaco dell’epoca di Roma (democristiano) proprio per fugare ogni dubbio, si fece fotografare dalla stampa mentre, sorridente e soddisfatto, faceva il bagno a Ostia. Ma questo non fu sufficiente e i giornali iniziarono a riportare interviste a medici per evidenziare i pericoli per la salute dovuti alla balneazione in un mare inquinato, chiedendo a gran voce un credibile intervento chiarificatore delle autorità. In questa situazione, proprio perché si paventavano pericoli per la salute pubblica in piena stagione balneare, in assenza di qualsiasi iniziativa amministrativa, mi sembrò doveroso (ero “dirigente” pro tempore, il pretore capo era in ferie e lo avvisai) aprire un fascicolo di indagine “per atti relativi” con numerosi ritagli di giornali. Convocai i Carabinieri e i tecnici del laboratorio di igiene e, con loro, programmai di effettuare subito, con una lancia dei CC, una serie di campionamenti ed analisi per verificare lo stato dell’inquinamento, accertando – pur se con tutte le riserve tecniche – un pesante inquinamento del Tevere (il tratto romano dell’Aniene risultò totalmente senza vita) e di parte del litorale. Comunicai subito i risultati alle autorità competenti che, a quel punto, provvidero immediatamente, dandomene notizia, a vietare la balneazione in tutto il litorale limitrofo allo sbocco del Tevere e di altri (innumerevoli) fossi e marrane. E fu proprio così che venne fuori il “pretore d’assalto”, in un’epoca in cui i pretori lavoravano sulla base di denunce e segnalazioni ma non iniziavano, di regola, indagini “di ufficio”. Tanto più che analoghi interventi furono intrapresi dai pretori di Genova e di Milano.

Ovviamente, mi posi da subito il problema di identificare quali reati fossero astrattamente ipotizzabili e, consapevole che il nostro è un Paese dove nel tempo si sono susseguite migliaia di leggi e leggine che nessuno conosce e ricorda, lavorando la sera di ritorno dalle ispezioni in barca accertai che, se pure non vi erano leggi direttamente riferibili alla tutela dall’inquinamento, esistevano tuttavia numerosi (oltre 40) testi e disposizioni che, se pure indirettamente e se pure con altri oggetti di tutela, erano utilizzabili per combattere anche l’inquinamento delle acque. 

La prima di queste leggi che applicai, con centinaia di decreti di condanna, fu, ad esempio, la legge sulla pesca del 1931, che riporto appresso: 

«Regio decreto 8 Ottobre 1931, N. 1604
Approvazione del testo unico delle leggi sulla pesca

Art. 6

È proibita la pesca con la dinamite e con le altre materie esplodenti nonché con l’uso della corrente elettrica come mezzo diretto di uccisione o di stordimento, ed è vietato di gettare od infondere nelle acque materie atte ad intorpidire, stordire od uccidere i pesci e gli altri animali acquatici.
(omissis)

Art. 33

Per le infrazioni all’art. 5 si applica l’ammenda da lire 200 a lire 1.000, per quelle all’art. 6, primo comma, si applicano, congiuntamente od alternativamente, l’arresto da 10 giorni a 6 mesi e l’ammenda da lire 500 a lire 2.000, per quella all’art. 6, secondo comma, l’ammenda da lire 200 a lire 1.000, infine per quelle all’art. 7 l’ammenda da lire 500 a lire 1.000» (c.vo aggiunto).

E di certo non si può negare che chi inquina infonde nelle acque materie atte a intorpidire o uccidere i pesci anche se, in realtà, la norma è nata non per proteggere la purezza delle acque di per sé, né la salute dei bagnanti, ma l’ittiofauna (cioè i pesci) per i riflessi economici che la sua distruzione può comportare. Ma, astrattamente, essa è applicabile comunque, anche se mi trovai in difficoltà a esercitare l’azione penale quando (reato impossibile) i pesci erano già tutti morti per inquinamento (è il caso dell’Aniene). 

Esempi analoghi possono essere fatti in molti altri campi, dalle bonifiche agli impianti elettrici, dalla sanità alle opere pubbliche…

Allo stesso modo, mi resi conto che erano anche applicabili alcune norme generali del codice penale, quali adulterazione di acque, danneggiamento e, soprattutto, l’art. 674 cp:

«Getto pericoloso di cose

Chiunque getta o versa in luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone. Ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a 1 mese o con l’ammenda fino a euro 206».

… ricevendo, peraltro, l’avallo della Cassazione, che lo riteneva applicabile per il contrasto all’inquinamento amosferico, elettromagnetico e idrico. Cfr., tra le tante,

– Cass. pen., sez. III, 28 settembre 2005, n. 38936, Riva, inedita:

«La fattispecie tipica del reato in questione configura un’ipotesi di reato di pericolo, rappresentato dall’idoneità potenziale della cosa versata a molestare o imbrattare le persone in modo anche se minimo, percettibile, ed ai fini della configurabilità di essa non è richiesto alcun effettivo nocumento alle persone, in dipendenza della condotta contestata, essendo appunto sufficiente l’attitudine di questa a cagionare effetti dannosi, attitudine che non deve essere necessariamente accertata mediante perizia, ben potendo il Giudice fondare il proprio convincimento su elementi probatori di natura diversa, quali le dichiarazioni testimoniali di coloro che si siano dimostrati in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti, oggettivamente percepiti delle immissioni .

Il limite della “normale tollerabilità”, valicato il quale le immissioni e/o emissioni diventano moleste, con conseguente pericolo per la salute pubblica la cui tutela costituisce la “ratio” della norma incriminatrice, è quello indicato nell’art. 844 c.c.»;

– Cass. pen., sez. III, 6 novembre 2014, n. 49213, Ingianni:

«Il reato di getto o versamento pericoloso di cose, previsto nella prima parte dell’art. 674 cod. pen., è configurabile sia in forma omissiva che in forma commissiva mediante omissione (cosiddetto reato omissivo improprio) ogniqualvolta il pericolo concreto per la pubblica incolumità derivi anche dalla omissione, dolosa o colposa, del soggetto che aveva l’obbligo giuridico di evitarlo (fattispecie relativa a fuoriuscita di liquami da una fossa settica)».

Utilizzai, quindi, subito anche l’art. 674 cp per l’inquinamento delle acque di Roma, ma intanto il legislatore si accorgeva dell’esistenza di inquinamenti e, pur se con i suoi tempi, interveniva. 

E così, dalla seconda metà degli anni settanta, anche per impulso comunitario, comparvero i primi testi speciali quali la “legge Merli” per le acque (1976), il dPR n. 915/1982 per i rifiuti e il dPR n. 203/1988 sull’inquinamento atmosferico da industrie. Non è questa la sede per approfondire la qualità di tale normativa “speciale”, successiva all’“assalto” dei pretori, ma si tratta comunque di leggi che, in buona parte, restarono disapplicate anche e soprattutto per carenza delle pubbliche strutture e degli apparati di controllo (che evidentemente non volevano “assaltare”); tanto più che, sotto il profilo sanzionatorio, esse erano presidiate, di regola, con sanzioni penali di tipo contravvenzionale, quasi sempre oblabili.

Nel 1997, poi, si apre la stagione dei testi unici su alcuni inquinamenti, culminata nell’emanazione del d.lgs n. 152/2006 (Testo unico ambientale), che in verità è di difficile applicazione anche perché, nel tempo, ha subito numerosissime aggiunte e modifiche (quasi sempre peggiorative), spesso contenute in decine di articoli e commi bis, ter, etc., a volte lunghi pagine e pagine, che ne rendono difficile non solo la comprensione ma anche la semplice lettura sistematica, oltre che – ed è la cosa più importante – la loro applicazione[1].

Un solo esempio: si legga l’art. 101, che si occupa della questione fondamentale relativa ai criteri generali della disciplina degli scarichi. Ebbene, al comma 1 si enuncia la regola («Tutti gli scarichi sono disciplinati in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi idrici e devono, comunque, rispettare i valori limite di emissione previsti nell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto»), al comma 2 si dice che, «ai fini del comma 1», le Regioni possono stabilire limiti meno restrittivi per buona parte degli inquinanti; al comma 10 si arriva all’apoteosi che, con accordo di programma, si possono stabilire «limiti agli scarichi in deroga alla disciplina generale». 

Cfr. l’art. 101 d.lgs n. 152/2006 («Criteri generali della disciplina degli scarichi»):

«1. Tutti gli scarichi sono disciplinati in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi idrici e devono, comunque, rispettare i valori limite di emissione previsti nell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto.

2. Ai fini di cui al comma 1, le regioni, nell’esercizio della loro autonomia, tenendo conto dei carichi massimi ammissibili, delle migliori tecnologie disponibili, definiscono i valori-limite di emissione, diversi da quelli di cui all’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto, sia in concentrazione massima ammissibile sia in quantità massima per unità di tempo in ordine ad ogni sostanza inquinante e per gruppi o famiglie di sostanze affini. Le regioni non possono stabilire valori limite meno restrittivi di quelli fissati nell’allegato 5 alla parte terza del presente decreto:

a) nella tabella 1 relativamente allo scarico di acque reflue urbane in corpi idrici superficiali;

b) nella tabella 2 relativamente allo scarico di acque reflue urbane in corpi idrici superficiali ricadenti in aree sensibili;

c) nelle tabella 3/A per i cicli produttivi ivi indicati;

d) nelle tabelle 3 e 4, per quelle sostanze indicate nella tabella 5 del medesimo allegato. 

(…)

10. Le autorità competenti possono promuovere e stipulare accordi e contratti di programma con i soggetti economici interessati, al fine di favorire il risparmio idrico, il riutilizzo delle acque in scarico ed il recupero come materia prima dei fanghi di depurazione, con la possibilità di ricorrere a strumenti economici, di stabilire agevolazioni in materia di adempimenti amministrativi e di fissare, per le sostanze ritenute utili, limiti agli scarichi in deroga alla disciplina generale, nel rispetto comunque delle norme comunitarie e delle misure necessarie al conseguimento degli obiettivi di qualità».

Ma non basta, perché, se si tratta di scarico in pubblica fognatura, «ferma restando l’inderogabilità dei valori-limite di emissione di cui alla tabella 3/A dell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto e, limitatamente ai parametri di cui alla nota 2 della tabella 5 del medesimo allegato 5, alla tabella 3, gli scarichi di acque reflue industriali che recapitano in reti fognarie sono sottoposti alle norme tecniche, alle prescrizioni regolamentari ed ai valori-limite adottati dall’ Autorità d’ambito competente in base alla caratteristiche dell’impianto ed in modo che sia assicurata la tutela del corpo idrico ricettore nonché il rispetto della disciplina degli scarichi di acque reflue urbane definita ai sensi dell’articolo 101, commi 1 e 2» (art. 107, comma 1). Formulazione già di per sé incomprensibile, specie per un non addetto ai lavori, ma che sembra comunque parlare di «limiti inderogabili» della tabella 3, e tuttavia rinvia – si noti bene – alla «nota 2 della tabella 5 dell’Allegato 5», secondo cui «purché sia garantito che lo scarico finale della fognatura rispetti i limiti di tabella 3, o quelli stabiliti dalle regioni, l’ente gestore può stabilire, per i parametri della tabella 5, ad eccezione di quelli indicati sotto i numeri 2, 4, 5, 7, 14, 15, 16 e 17, limiti di accettabilità i cui valori di concentrazione superano quello indicato in tabella 3». 

Insomma, le deroghe dei limiti inderogabili.

Cfr. l’art. 107 («Scarichi in reti fognarie»):

«1. Ferma restando l’inderogabilità dei valori-limite di emissione di cui alla tabella 3/A dell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto e, limitatamente ai parametri di cui alla nota 2 della tabella 5 del medesimo allegato 5, alla tabella 3 gli scarichi di acque reflue industriali che recapitano in reti fognarie sono sottoposti alle norme tecniche, alle prescrizioni regolamentari ed ai valori-limite adottati dall Autorità d’ambito competente in base alla caratteristiche dell’impianto ed in modo che sia assicurata la tutela del corpo idrico ricettore nonché il rispetto della disciplina degli scarichi di acque reflue urbane definita ai sensi dell’articolo 101, commi 1 e 2».

«Tabella 5. Sostanze per le quali non possono essere adottati limiti meno restrittivi di quelli indicati in tabella 3, per lo scarico in acque superficiali (1) e per lo scarico in rete fognaria (2), o in tabella 4, per lo scarico sul suolo:

1 Arsenico

2 Cadmio

3 Cromo totale

4 Cromo esavalente

5 Mercurio

6 Nichel

7 Piombo

8 Rame

9 Selenio

10 Zinco

11 Fenoli

12 Oli minerali non persistenti e idrocarburi di origine petrolifera non persistenti

13 Solventi organici aromatici

14 Solventi organici azotati

15 Composti organici alogenati (compresi i pesticidi clorurati)

16 Pesticidi fosforati

17 Composti organici dello stagno

18 Sostanze classificate contemporaneamente “cancerogene” (R 45) e “pericolose per l’ambiente acquatico” (R50 e 51/53) ai sensi del D. Lgs 3 febbraio 1997, n. 52 e succ. modif. 152/1999: di cui, secondo le indicazioni dell’agenzia internazionale di ricerca sul cancro (IARC), è provato il potere cancerogeno.

(1) Per quanto riguarda gli scarichi in corpo idrico superficiale, nel caso di insediamenti produttivi aventi scarichi con una portata complessiva media giornaliera inferiore a 50 m3, per i parametri della tabella 5, ad eccezione di quelli indicati sotto i numeri 2, 4, 5, 7, 15, 16, 17 e 18 le Regioni e le Province autonome nell’ambito dei piani di tutela, possono ammettere valori di concentrazione che superano di non oltre il 50% i valori indicati nella tabella 3, purché sia dimostrato che ciò non comporti un peggioramento della situazione ambientale e non pregiudica il raggiungimento gli obiettivi ambientali.

(2) Per quanto riguarda gli scarichi in fognatura, purché sia garantito che lo scarico finale della fognatura rispetti i limiti di tabella 3, o quelli stabiliti dalle regioni, l’ente gestore può stabilire, per i parametri della tabella 5, ad eccezione di quelli indicati sotto i numeri 2, 4, 5, 7, 14, 15, 16, e 17, limiti di accettabilità i cui valori di concentrazione superano quello indicato in tabella 3».

Appare quindi evidente che, mentre con le norme vecchie, anche se non mirate a combattere gli inquinamenti, si poteva fare qualche “assalto”, oggi, in realtà, ben poco di più si può ottenere, pur avendo a disposizione testi specificamente destinati a questo scopo[2]

Però una buona notizia c’è e vale la pena di ricordarla, soprattutto perché riguarda la Costituzione, dove non si parlava di ambiente, anche se, con ammirevole determinazione, la Corte costituzionale più volte ne aveva sancito la tutela, specie basandosi sul diritto alla salute (art. 32) e sul diritto alla tutela del paesaggio (art. 9). 

In proposito:

– Corte cost., 28 maggio 1987, n. 210:

«[L’ambiente include] la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue componenti), la esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale e, in definitiva, la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni»;

– Corte cost., 30 dicembre 1987, n. 641: 

«L’ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 della Costituzione) per cui essa assurge a valore primario ed assoluto.

[L’ambiente è un] bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela, ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità»;

– Corte cost. 1° giugno 2016, n. 126:

«È noto che, sebbene il testo originario della Costituzione non contenesse l’espressione ambiente, né disposizioni finalizzate a proteggere l’ecosistema, questa Corte con numerose sentenze aveva riconosciuto (sentenza n. 247 del 1974) la preminente rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell’uomo (art. 32) e alla protezione dell’ambiente in cui questi vive (art. 9, secondo comma), quali valori costituzionali primari (sentenza n. 210 del 1987)».

E, ancor prima, vale la pena di ricordare la bellissima sentenza Corasaniti delle sezioni unite della Cassazione, sulla valenza assoluta del diritto alla salute: 

Cass., sez. unite, 6 ottobre 1979, n. 5172:

Il bene della salute (…) è assicurato all’uomo come uno ed anzi il primo dei diritti fondamentali anche nei confronti dell’Autorità pubblica, cui è negato in tal modo il potere di disporre di esso (...). Nessun organo di collettività, neppure di quella generale e, del resto, neppure l’intera collettività generale con unanimità di voti potrebbe validamente disporre per qualsiasi motivo di pubblico interesse della vita o della salute di un uomo o di un gruppo minore».

Ebbene, con la legge n. 1/2022 anche l’ambiente è entrato in Costituzione, e nel migliore dei modi. Ecco le modifiche (in corsivo nel testo di seguito riportato):

«Art. 9

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni.

La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali»;

«Art. 32

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»;

«Art. 41

L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali».

In sostanza, dopo la riforma del 2022: 

1) la tutela dell’ambiente viene equiparata alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione;

2) insieme, accomunate alla tutela dell’ambiente, compaiono anche la tutela della biodiversità e quella degli ecosistemi; 

3) queste tre nuove tutele sono qualificate dal richiamo (anche) all’interesse delle future generazioni;

4) aumentano i limiti alla libertà dell’iniziativa economica privata, che non solo non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, ma (ora, in modo inequivocabile) neanche alla salute e all’ambiente;

5) in più, per l’attività economica pubblica e privata, si aggiunge che la legge deve indirizzarla e coordinarla a fini non solo sociali ma anche ambientali;

6) contestualmente si sancisce anche la tutela degli animali senza, però, attribuirle diretta rilevanza costituzionale, ma rinviandone l’attuazione alla legge ordinaria[3]

Finalmente, quindi, un “assalto” riuscito[4], anche se poi, nella realtà, molte volte si continua a ragionare e ad agire senza tener conto di questa rilevante modifica costituzionale[5].

È proprio vero che «chi ha capito e non fa niente non ha capito niente». E questo vale anche per i magistrati. Fortuna che Md c’è ed è in ottima salute, anche se ha sessant’anni. Auguri. 

 

 

*  Testo redatto a partire dall’intervento del 9 novembre 2024, tenuto in occasione del Convegno dedicato ai sessant’anni di Magistratura democratica – Roma, Campidoglio, Sala della Protomoteca, 9-10 novembre 2024.

1. Si noti che il testo iniziale constava di 318 articoli e 45 allegati, ma già dopo 12 anni aveva subito 762 modifiche (72 ogni anno), risultando così composto da 397 articoli con 105 nuovi (-bis, -ter, etc.) articoli e 26 articoli abrogati. In più, a singoli articoli sono stati e vengono ancora aggiunti numerosi nuovi commi.

2. Purtroppo anche la legge n. 68 del 2015, che pure meritoriamente ha introdotto i delitti contro l’ambiente, presenta gravi punti deboli in tema di applicazione. Si pensi solo, a titolo di esempio, al delitto di disastro ambientale, che consiste (oltre all’offesa per la pubblica incolumità) in un danno rilevante o irreversibile per l’ambiente e l’ecosistema, beni oggi direttamente tutelati dall’art. 9 della Costituzione, e che tuttavia viene punito solo se cagionato «abusivamente»; ipotizzando, pertanto, che qualcuno possa attentare a beni costituzionalmente protetti, agendo non «abusivamente» e, quindi, in modo legittimo e consentito. 
In proposito, così come per approfondimenti e richiami su tutta la normativa penale di tutela ambientale, ci sia consentito rinviare al nostro Diritto Penale Ambientale, Pacini Giuridica, Pisa, 2024.

3. Per comprendere a pieno la portata innovativa di queste modifiche, occorre leggerle e considerarle non separatamente, ma nel loro insieme. Se, infatti, è certamente vero che la tutela della biodiversità e degli ecosistemi deve intendersi ricompresa nella tutela dell’ambiente, è altrettanto vero che aver elencato insieme la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, accomunandole tutte attraverso il richiamo (anche) all’interesse delle future generazioni, fornisce dell’ambiente un quadro complessivo di ampio respiro sociale e politico, che racchiude in sé sia l’elemento naturalistico (con particolare riferimento alla biodiversità e agli ecosistemi) sia tutti gli altri elementi che, direttamente o indirettamente, sia oggi sia per il futuro, possono incidere sulla vita e sulla qualità della vita dell’uomo. 
In tal modo, quindi, non solo si confermano le migliori conclusioni della giurisprudenza costituzionale, ma si inserisce la novità del richiamo all’interesse delle future generazioni, altamente qualificante al fine di interpretare nel suo giusto valore l’ambito di applicazione di tutta la riforma. 
Peraltro, a proposito dell’art. 41, la lettura complessiva delle modifiche apportate alla Costituzione porta a ritenere che esse, in sostanza, hanno anche introdotto il cd. principio dello “sviluppo sostenibile”, oggi tanto di moda (pare che ormai sia tutto “sostenibile”), chiarendo opportunamente che, poiché l’attività economica deve essere indirizzata e coordinata dalla legge «a fini sociali e ambientali» (e cioè, ex art. 9 novellato, tenendo conto anche dell’interesse delle future generazioni), la “sostenibilità” deve essere valutata e perseguita con riferimento alla tutela dell’ambiente e della collettività nel suo complesso e con un occhio al futuro, e non, come spesso si intende, alle esigenze dell’economia e del profitto immediato.
Quanto ai rapporti con il paesaggio, la nuova formulazione degli artt. 9 e 41 porta a concludere che la tutela dell’ambiente, riguardando la complessiva qualità della vita, non può essere perseguita a scapito della tutela del paesaggio.

4. E peraltro perfettamente aderente all’Enciclica Laudato si del 2015, ove si legge testualmente: 
«L’autentico sviluppo umano possiede un carattere morale e presuppone il pieno rispetto della persona umana, ma deve prestare attenzione anche al mondo naturale e “tener conto della natura di ciascun essere e della sua mutua connessione in un sistema ordinato” (…).
L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti. Chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti. Se non lo facciamo, ci carichiamo sulla coscienza il peso di negare l’esistenza degli altri (…).
La protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente. Ancora una volta, conviene evitare una concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese o degli individui. È realistico aspettarsi che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni?».

5. Basta pensare alle vicende dell’ILVA di Taranto. Per alcuni primi approfondimenti sulla vicenda ILVA prima della modifica della Costituzione, si rimanda al fascicolo di Questione giustizia (ed. cartacea, Franco Angeli, Milano) n. 2/2014, Il diritto alla salute alla prova del caso ILVA (il sommario è consultabile in dettaglio al seguente link: www.francoangeli.it/riviste/rivista-fascicolo?IDRivista=37&lingua=En&Anno=2014).
Per alcune prime osservazioni, vds. anche il nostro ILVA, salute, ambiente e Costituzione, in Industrie ambiente, febbraio 2013. Da ultimo, per la dimostrazione che ben poco è cambiato, si rinvia al nostro Il primo decreto legge sull’ambiente del nuovo governo. Al peggio non c’è mai fine, in Lex ambiente, 13 gennaio 2023.