Contrastare le disuguaglianze nelle relazioni contrattuali: fra diritto comune dei contratti e diritto dei contratti del mercato
Quando il contratto riflette e produce disuguaglianze sostanziali, il diritto reagisce a tutela della parte che soffre l’asimmetria con tecniche diverse, a seconda del contesto in cui la disuguaglianza si produce: nel contesto delle comuni relazioni fra privati, le disuguaglianze si possono rimediare con clausole generali concretizzate dal giudice; al contesto delle relazioni fra attori del mercato si addice meglio la normazione per fattispecie legali. Il disegno di legge delega per la riforma del codice civile sembra coerente con questo schema.
1. Il disegno di legge delega per la riforma del codice civile: ascesa o declino delle norme “a fattispecie”? / 2. Quando l’atipico prende la sua rivincita sulla fattispecie: in materia di contratto… / 3. [Segue] … e di responsabilità civile (per danno non patrimoniale) / 4. Contratto e uguaglianza: una relazione ambigua / 5. Lo strumento appropriato per le politiche di uguaglianza sostanziale: giurisdizione per clausole generali o legislazione per fattispecie? / 6. La disciplina dei contratti asimmetrici: diritto comune dei contratti e diritto dei contratti del mercato / 7. Tornando, per concludere, al disegno di legge delega
1. Il disegno di legge delega per la riforma del codice civile: ascesa o declino delle norme “a fattispecie”?
Nel suo intervento Enrico Scoditti sostiene che il disegno di legge delega per la riforma del codice civile[1] segna la vittoria delle norme a fattispecie legal-tipica (e specificamente la loro rivincita sulle clausole generali a Konkretisierung giudiziale)[2].
A me sembra che ciò sia vero per molti aspetti, ma che per altri sia vero l’opposto. Risulta senz’altro vero, per esempio, quando nel testo si incontrano previsioni dirette a tipizzare legalmente situazioni e soluzioni che tradizionalmente appartengono a “ciò che i giudici fanno” quando applicano il principio di buona fede: così, per esempio, quando l’art. 1, lettera l, esorta il futuro legislatore delegato a tipizzare un generale obbligo di informazione precontrattuale (dove poco si comprende, peraltro, l’esclusione dell’obbligo quanto alle «informazioni concernenti il valore dell’oggetto del contratto»).
Il punto è che vi s’incontrano anche previsioni di segno contrario, nel senso che finiscono per erodere gli spazi delle fattispecie legali, attirando situazioni e rapporti sotto modalità di regolazione che non sono quelle della tipicità normativa. Questo accade, in particolare, tutte le volte che le norme del disegno di legge aprono nuovi spazi (in precedenza chiusi) all’autonomia privata e specialmente al suo strumento principe che è il contratto: per la semplice ragione che il contratto, proprio in quanto atto di autonomia, costituisce generalmente parlando una via di fuga dalle fattispecie legali; rappresenta sempre in qualche misura (anche quando è un contratto “tipico”) uno spazio aperto all’atipico.
È vero che alcuni dei «principi e criteri direttivi» dettati al Governo per l’esercizio della delega a riformare il codice civile (art. 1, comma 1), e relativi alla materia contrattuale, vanno nella direzione di ricondurre a fattispecie legali situazioni che prima fluttuavano nel mare del legalmente atipico: si pensi alla lettera l, che manda al legislatore delegato di «disciplinare nuovi schemi contrattuali che vantino una sufficiente tipizzazione sul piano sociale»; alla lettera o, che lo invita a «disciplinare nuove forme di garanzia del credito, anche in considerazione delle prassi contrattuali consolidatesi nell’uso bancario e finanziario»; e infine alla lettera p, recante delega a «disciplinare le modalità di costituzione e di funzionamento del trust e degli altri contratti di affidamento fiduciario». Qui si delinea senza dubbio un itinerario che va dall’atipico (affidato alla creatività dell’autonomia privata) verso il tipico, verso la regolazione tipizzante per fattispecie legali: e alla luce di previsioni siffatte pare giustificarsi il rilievo di Enrico Scoditti, che nell’insieme delle norme del disegno di legge delega dedicate al contratto scorge il «filo comune (…) del passaggio da una disciplina per clausole generali a una disciplina per fattispecie tipizzate»[3].
In questi termini, il rilievo mi sembra però troppo generale e assoluto. Trascura la presenza di altri passaggi del disegno di legge che – con la loro apertura all’atto di autonomia, e dunque all’atipico, in aree della realtà sociale prima largamente presidiate dalle norme di legge – disegnano un tracciato di senso opposto, divergente dalla normazione per fattispecie legali.
2. Quando l’atipico prende la sua rivincita sulla fattispecie: in materia di contratto…
Con la lettera b si punta a «consentire la stipulazione tra i nubendi, tra i coniugi, tra le parti una programmata o costituita unione civile, di accordi intesi a regolare tra loro (…) i rapporti personali e quelli patrimoniali, anche in previsione dell’eventuale crisi del rapporto, nonché a stabilire i criteri per l’indirizzo della vita familiare e l’educazione dei figli». Come dire: un territorio gigantesco e rilevantissimo di relazioni sociali – l’intero campo dei rapporti di famiglia – viene affidato all’autoregolazione degli interessati, e così affrancato dall’obbedienza agli schemi legali che (nella logica della fattispecie) tradizionalmente definiscono le posizioni dei membri della comunità familiare.
Il medesimo spirito anima la lettera d: smantellando il divieto dei patti successori e consentendo la rinuncia irrevocabile ai futuri diritti di eredità, la norma prefigura una disciplina del fenomeno successorio in cui – di nuovo – l’eteroregolazione basata su norme descrittive di fattispecie legali cede all’autoregolazione liberamente (e atipicamente) costruita dagli interessati senza vincolo di sussumibilità entro schemi normativi predefiniti.
Nel diritto vigente, la sorte del rapporto contrattuale colpito imprevedibilmente da eccessiva onerosità della prestazione è stretta nell’alternativa fra due fattispecie rimediali: la risoluzione, o l’offerta unilaterale di riduzione a equità proveniente dalla parte non gravata. La lettera i rompe questa gabbia binaria, e (ferma l’opzione risolutoria) apre a mille possibili soluzioni, variamente costruibili secondo una logica che non è quella della fattispecie ma è all’opposto quella della clausola generale. Perché si prevede che le parti intraprendano la «rinegoziazione in buona fede» del rapporto squilibrato: rinegoziazione che potrà portare a tante soluzioni diverse, non definibili ex ante, quante la fantasia dell’autonomia privata saprà escogitarne (sotto l’ombrello della più classica fra le clausole generali – il principio di buona fede). E si prevede ancora che, in caso di mancato accordo, ciascuna possa «chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti»: previsione che introduce anch’essa una serie aperta di tante possibili soluzioni diverse (qui di fonte giudiziale, non negoziale) fra cui il giudice sceglierà, “concretizzando” una formula che – come quella della originaria «proporzione tra le prestazioni» – non esaurisce la sua portata su un piano puramente aritmetico, ma presenta a sua volta i contorni sfumati della clausola generale.
3. [Segue] … e di responsabilità civile (per danno non patrimoniale)
La stessa linea – una linea che, lungi da segnare il trionfo della fattispecie e la ritirata delle clausole generali, si sviluppa in senso esattamente opposto – appare sottesa expressis verbis alla lettera n, che incarica il legislatore delegato di ridisciplinare la responsabilità per danni non patrimoniali «anche disancorandola dalla necessità di una rigida tipizzazione legislativa e introducendo criteri alternativi di selezione direttamente correlati al rango costituzionale degli interessi lesi».
Dove il rinvio a «criteri (…) di selezione direttamente correlati al rango costituzionale degli interessi» non potrebbe esprimere in modo più chiaro e conclamato la volontà di sottrarre la decisione dei casi alla sussunzione di fattispecie concrete entro fattispecie normative generali e astratte, per devolverla alla Konkretisierung giudiziale di principi ad ampio o amplissimo raggio semantico.
4. Contratto e uguaglianza: una relazione ambigua
Ma torniamo al contratto: un terreno privilegiato – forse il terreno ottimale – su cui ragionare intorno alla coppia “uguaglianza e diritto civile”, che costituisce l’asse tematico di questo fascicolo.
Fra contratto e uguaglianza c’è un rapporto ambiguo, che sconta l’ambiguità insita nell’idea stessa di uguaglianza: declinabile, come noto, in termini di uguaglianza formale oppure di uguaglianza sostanziale.
L’uguaglianza formale è l’uguaglianza davanti alla legge, è la pretesa del soggetto – qui l’astratto soggetto giuridico – a essere trattato dalla legge esattamente come tutti gli altri, senza discriminazioni, senza differenze (art. 3, comma 1, Cost). Inteso così il concetto, il contratto si presenta come il regno, il paradiso dell’uguaglianza: tutti i contraenti sono giuridicamente uguali, nel senso che ciascuno ha uguale libertà giuridica di determinarsi rispetto al contratto; nessuno ha il potere giuridico di imporre a un altro di fare un contratto, o di farlo a determinate condizioni, perché la volontà di qualunque contraente pesa e vale quanto la volontà di qualunque altro. In questo senso, l’uguaglianza dei contraenti è il riflesso di una libertà negativa, di un’immunità garantita ugualmente a tutti: la libertà di non fare contratti non voluti, l’immunità da effetti contrattuali indesiderati.
Ma su questo stesso terreno si annida il seme della disuguaglianza, che porta il contratto a manifestarsi come poderoso strumento di differenziazione, diciamo pure di discriminazione (e questo a prescindere dai fattori di disuguaglianza sostanziale fra i contraenti pur giuridicamente uguali, cioè dai condizionamenti e «ostacoli di ordine economico e sociale» di cui parla l’art. 3, comma 2, Cost.). Nessuno può essere costretto a vendere il proprio bene a un compratore sgradito, tutti sono ugualmente liberi di vendere il proprio bene a chi gradiscono. Questo significa che potendo A scegliere se vendere il proprio bene a X oppure a Y, che vorrebbero entrambi comprarlo da lui, la sua scelta finisce inevitabilmente per essere discriminatoria: decidendo di vendere a X, egli discrimina Y. È la libertà di scelta del contraente, tradizionalmente concepita come fondamentale profilo della libertà contrattuale, dunque dell’autonomia privata, a generare effetti che non possono non essere discriminatori. In termini ancora più secchi: l’autonomia privata è intrinsecamente discriminatoria.
Ma la potenzialità discriminatoria dell’autonomia privata e del contratto, il loro essere potenzialmente avversi al valore dell’uguaglianza, si manifestano in modo ancora più pesante quando l’uguaglianza venga declinata nella sua accezione di uguaglianza sostanziale: quando si tratti dell’uguaglianza pregiudicata da «ostacoli di ordine economico e sociale», dell’uguaglianza che può perseguirsi solo con politiche idonee a «rimuovere» tali ostacoli, così da consentire «il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, comma 2, Cost.).
In una società di soggetti formalmente (giuridicamente) uguali, ma resi sostanzialmente disuguali dalle differenze economico-sociali, il contratto – la libertà di contratto –, nel momento in cui ne garantisce e attua l’uguaglianza giuridico-formale, al tempo stesso ne perpetua e ne acuisce le disuguaglianze sostanziali, quali continuamente si manifestano nel mercato: sia nel mercato del lavoro, sia nel mercato dei beni e dei servizi. Quelle disuguaglianze che la Repubblica ha l’obbligo costituzionale di rimuovere.
5. Lo strumento appropriato per le politiche di uguaglianza sostanziale: giurisdizione per clausole generali o legislazione per fattispecie?
Ma come, con quali strumenti, con quali tecniche di intervento?
Sul punto, la posizione di Enrico Scoditti è molto netta: «In un mondo segnato dal potente ritorno del tema della diseguaglianza e della disgregazione sociale bisogna guardarsi dall’esaltazione delle “magnifiche sorti e progressive” della giurisdizione per clausole generali e assegnarle il posto discreto che le compete. Torna oggi in campo la vecchia e blasonata legge quale strumento elettivo di riforma sociale. Se il diritto vuole marcare la propria autonomia rispetto a una fattualità dominata dalle potenze sociali e guadagnare forza deontologica rispetto alla società, non può fare a meno della principale eredità dell’illuminismo giuridico, la legge generale e astratta»[4], fondata, secondo tradizione, sul disegno di fattispecie.
Non posso dire altro, se non che sono fondamentalmente d’accordo. Dirmi d’accordo fa tutt’uno con l’esprimere qualche riserva sulla linea sottesa al «Manifesto per la giustizia sociale nel diritto europeo dei contratti», elaborato e diffuso nel 2004 a cura di uno study group formato da 18 accademici provenienti da tutta l’Europa[5]. Lì, infatti, l’approccio è per così dire più “ecumenico”, e quindi meno netto, meno incisivo, meno penetrante. Posto che l’obiettivo è estendere e intensificare i contenuti di giustizia sociale nella pratica delle relazioni contrattuali, l’attuazione di esso viene infatti affidata indistintamente all’insieme delle istituzioni euro-unitarie (Parlamento europeo, Commissione, Consiglio, Corte di giustizia), senza differenziare quelle con funzioni normative da quelle con funzioni giurisdizionali; e, altrettanto indistintamente, al complesso della strumentazione presente nell’arsenale dell’ordinamento europeo (regolamenti, direttive, principi “para-costituzionali” come quella della Cedu e della Carta di Nizza), senza differenziare fra norme a fattispecie e principi da applicarsi mediante concretizzazione e/o bilanciamento giudiziale.
La selezione degli strumenti e degli agenti più appropriati in vista degli obiettivi di giustizia presuppone la capacità di distinguere fra gli ambiti e le finalità della regolazione. A differenza del «Manifesto» europeo, Enrico Scoditti si mostra consapevole dell’esigenza di una distinzione siffatta: là dove contrappone politiche di «tutela nel mercato» (perseguibili con l’applicazione giudiziale di clausole generali) e politiche di «tutela dal mercato» (più efficacemente realizzabili con norme legislative a fattispecie).
6. La disciplina dei contratti asimmetrici: diritto comune dei contratti e diritto dei contratti del mercato
Per quanto mi riguarda, mi è capitato di proporre una distinzione non antagonista, ma un po’ diversa, che nell’immaginare la disciplina dei rapporti contrattuali asimmetrici, diretta per fini di giustizia alla tutela della parte “debole”, la divide in due grandi regioni: quella compresa nel diritto comune dei contratti, definito dagli artt. 1321 ss. cc, e quella contenuta nel diritto dei contratti del mercato, cui danno corpo le numerose e variegate normative di market regulation. Rappresentavo questa distinzione come segue:
«Nel diritto comune dei contratti non esistono né consumatori né professionisti; esistono bensì contraenti deboli e contraenti forti. I primi sono deboli in quanto vittime di quelli che mi piace chiamare “fallimenti dell’autonomia privata”: cioè vittime di fattori che intaccano le condizioni soggettive per un regolare ed efficace esercizio dell’autonomia, dando luogo a pregiudizievoli asimmetrie che penalizzano il soggetto colpito nella sua relazione con controparte. Si tratta di fattori perturbanti, e di asimmetrie, che si manifestano su basi individuali e occasionali, non standardizzate né socialmente tipiche; e che si presentano come socialmente patologici rispetto alle fisiologiche condizioni soggettive di corretto esercizio dell’autonomia privata. A loro volta, i secondi sono contraenti forti proprio perché si trovano di fronte una controparte indebolita, e sono quindi in condizione di approfittare della sua debolezza.
È chiaro di cosa stiamo parlando: deficit psico-fisici (incapacità di agire), minorazioni delle potenzialità di cognizione e autodeterminazione (vizi della volontà, stati di pericolo o bisogno). Ed è altrettanto chiaro quali siano i rimedi tipici che il diritto dei contratti appresta a favore del contraente reso debole dall’incidenza di questi fattori di asimmetria: azioni di annullamento e di rescissione».
E proseguivo così: «Nel diritto dei contratti del mercato incontriamo invece i “fallimenti del mercato”, che sono in definitiva una sottospecie qualificata dei fallimenti dell’autonomia privata: (…) si connotano per il fatto di dipendere dalla struttura oggettiva del mercato, il quale – essendo strutturalmente esposto a fallimenti – per questo pone alcuni dei suoi attori in posizione di forza e altri in posizione di debolezza nei rapporti reciproci.
In ragione di ciò, a differenza dei generici fallimenti dell’autonomia privata, gli specifici fallimenti del mercato hanno natura non di patologia ma di fisiologia sociale; non toccano singoli individui su basi di occasionalità, bensì investono stabilmente intere classi di soggetti; e li investono in ragione non di specifiche menomazioni soggettive, ma delle posizioni di mercato in cui essi si trovano oggettivamente collocati», come s’intende facilmente pensando a datori di lavoro e lavoratori, imprese e consumatori, franchisor e franchisee, preponenti e agenti, debitori e creditori commerciali, etc. Orbene, alle asimmetrie che il mercato crea, «il diritto dei contratti costruito dalle discipline di regolazione del mercato risponde offrendo al contraente debole un arsenale di strumenti ben caratterizzati: recessi di pentimento; obblighi di condotta (specie informativi, ma non solo) e vincoli di contenuto a carico del contraente forte, presidiati essenzialmente col rimedio della nullità, che a sua volta si frastaglia nelle diverse tipologie di nullità speciali»[6].
Per ricollegarmi al contesto tematico in cui si svolge questo contributo, devo aggiungere qui che mentre nel diritto comune dei contratti, teso a proteggere i contraenti resi deboli da asimmetrie (disuguaglianze) patologiche dipendenti da fallimenti dell’autonomia privata, abbondano le clausole generali affidate alla concretizzazione giudiziale, nel diritto dei contratti del mercato, che protegge i contraenti deboli per asimmetrie (disuguaglianze) create dai modi fisiologici di organizzazione e funzionamento del mercato, domina invece il modello delle norme legislative a fattispecie.
7. Tornando, per concludere, al disegno di legge delega
In chiusura, ci si può domandare se le previsioni del disegno di legge delega per la riforma del codice civile, là dove segnano quella che ho chiamato poco fa la rivincita dell’atipico (e delle clausole generali) sulle norme a fattispecie tipica, siano coerenti oppure dissonanti rispetto allo schema delineato nelle pagine che precedono.
Rispondo che mi pare di registrare una coerenza di fondo, indicata dal fatto che le aree in cui il progetto di riforma dà spazio all’atipico e alle clausole generali, erodendo quello della disciplina per fattispecie (accordi di regolazione dei rapporti familiari, patti sulle successioni, rapporti contrattuali resi squilibrati da sopravvenienze imprevedibili), appartengono tutte al diritto comune dei contratti e non al diritto dei contratti del mercato.
[1] Atti parlamentari, XVIII legislatura, Senato della Repubblica, n. 1151.
[2] E. Scoditti, Ripensare la fattispecie nel tempo delle clausole generali, in questo fascicolo.
[3] E. Scoditti, Ripensare la fattispecie, op. ult. cit.
[4] E. Scoditti, Ripensare la fattispecie, op. ult. cit.
[5] Aa.Vv., Social Justice in European Contract Law: a Manifesto, in European Law Journal, vol. 10, n. 6/2004, pp. 653 ss.
[6] V. Roppo, Behavioural Law and Economics, regolazione del mercato e sistema dei contratti, in Rivista di diritto privato, vol. 18, n. 2/2013, pp. 168-170. Per una trattazione più ampia e articolata, cfr. V. Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, ora in Id., Il contratto del duemila, Giappichelli, Torino, 2011 (terza ed.), pp. 65 ss., e Parte generale del contratto, contratti del consumatore e contratti asimmetrici (con postilla sul “terzo contratto”), ivi, pp. 91 ss.