Magistratura democratica

Principio di eguaglianza e libertà nel diritto privato delle persone

di Claudio Scognamiglio

La costituzionalizzazione del diritto privato porta sempre più spesso il privatista a riflettere su un principio, qual è quello di eguaglianza, che è fondativo della Carta costituzionale italiana e che, nelle sue reciproche interazioni con il principio di libertà, rappresenta uno snodo di particolare importanza nella costruzione dello statuto normativo della persona.

1. Eguaglianza e libertà: premesse terminologico-concettuali / 2. Eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale: il controllo di ragionevolezza da parte della Corte costituzionale italiana / 3. La “costituzionalizzazione” del diritto privato / 4. Eguaglianza, dignità e dignità sociale / 5. Libertà, eguaglianza e discriminazione attraverso il prisma dei problemi dell’esperienza concreta / 6. Una breve conclusione

 

1. Eguaglianza e libertà: premesse terminologico-concettuali

I due valori della libertà e dell’eguaglianza si richiamano l’uno con l’altro nel pensiero politico e nella storia. Sono radicati entrambi nella considerazione dell’uomo come “persona”. Appartengono entrambi alla determinazione del concetto di persona umana, come essere che si distingue o pretende di distinguersi da tutti gli altri esseri viventi»[1].

Queste, naturalmente, non sono parole di chi scrive, ma di uno dei più grandi filosofi italiani del diritto e della politica del XX secolo, Norberto Bobbio, da lui poste ad esordio di un suo contributo, che reca nel titolo gli stessi lemmi cui è intitolato questo scritto. Si tratta di formulazioni dalle quali emerge con chiarezza la stretta connessione dell’argomento dell’eguaglianza (e di quello della libertà) con quello che si può ben definire il termine di riferimento essenziale dell’intero discorso del giurista – la persona umana – e, in particolare, proprio con l’argomento che si è ritenuto di porre quale oggetto di questo scritto: il diritto privato delle persone, nel prisma dei principi di libertà e di eguaglianza. E qui dispiega subito tutta la sua suggestione l’affermazione contenuta nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, secondo la quale «Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti» e «le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune»: cosicché la storia del concetto di eguaglianza in senso formale si delinea, sin da quel momento, come affermazione della «eguaglianza dei diritti (…) ma possibilità di distinguere tra uomo e uomo e tra situazione e situazione a condizione che la distinzione sia fondata sull’utilità comune»[2].

Utilizzando ancora come indicazione introduttiva per il discorso le parole di Bobbio, «l’uomo come “persona” o, per essere considerato come persona, deve essere, in quanto individuo nella sua singolarità, libero, in quanto essere sociale, deve essere con gli altri individui in un rapporto di eguaglianza»[3]: ed ecco dunque che la prospettiva di indagine delineata ci permette di cogliere, in tutta la sua ricchezza, la dimensione della persona, sia nella sua essenza individuale sia nella sua dinamica relazionale, che costituisce – del resto – la specificità dell’esperienza giuridica. Infatti, la libertà può essere definita come «una qualità o proprietà della persona (…) e quindi i suoi diversi significati dipendono dal fatto che questa qualità o proprietà può essere riferita a diversi aspetti della persona, prevalentemente alla volontà o all’azione», mentre «l’uguaglianza è puramente e semplicemente un tipo di relazione formale, che può essere riempita dei più diversi contenuti»[4].

È di nuovo il pensiero di Bobbio che richiama la nostra attenzione su un altro aspetto del discorso che stiamo svolgendo. Infatti, egli – sia pure dalla prospettiva dello studioso delle dottrine politiche e del pensiero giuridico e non dall’angolo visuale del privatista – pone l’accento sul fatto che il binomio libertà/eguaglianza, risalente al momento fondativo stesso della modernità (la Rivoluzione francese), vede spesso sostituito il secondo termine di esso con quello di “giustizia”, destinato a sua volta ad essere talora anteposto al valore della libertà, in relazione al contesto storico di riferimento[5]. In questo ordine di idee, la riflessione interseca appunto anche il concetto di giustizia, proprio perché si tratta di una nozione che, nella storia del pensiero politico e giuridico, finisce per sovrapporsi a quella di eguaglianza. Infatti, nell’ambito dei significati classici di giustizia, così come delineati nel pensiero di Aristotele, accanto a quello di giustizia come legalità, viene in considerazione l’altro, che la identifica precisamente con eguaglianza e che rende necessario che «ognuna delle parti abbia assegnato il proprio posto secondo ciò che le spetta, il che è l’applicazione del principio suum cuique tribuere, massima espressione della giustizia come eguaglianza»[6].

Ben si può dire, dunque, una volta di più nel solco della fondamentale lettura proposta da Norberto Bobbio, che «la libertà è il valore supremo dell’individuo rispetto al tutto, mentre la giustizia è il bene supremo del tutto in quanto composto di parti», con il corollario che «la libertà è il bene individuale per eccellenza e la giustizia è il bene sociale per eccellenza (in questo senso virtù sociale, come diceva Aristotele)»[7].

Qui si innesta un altro aspetto assai importante del discorso che stiamo svolgendo e che apre a un orizzonte perfino più ampio la già densa problematica ad esso sottesa. Infatti, è proprio la lettura del principio di eguaglianza che lo accosta al valore della giustizia a rendere evidente che, nell’evoluzione giuridico-costituzionale, l’applicazione del principio di eguaglianza ha superato ben presto i termini più circoscritti in cui era stato inizialmente collocato, come affermazione del mero divieto di privilegi personali tale da lasciare intatta la discrezionalità del legislatore di modellare come differenti le varie situazioni della vita reale[8]. Muovendosi in questa prospettiva, la Corte costituzionale italiana ha ben presto argomentato l’orientamento secondo il quale il principio di eguaglianza si risolve nel dovere del legislatore di disciplinare in modo eguale situazioni in fatto eguali e – reciprocamente – in modo non arbitrariamente differente situazioni in fatto diverse, così attribuendo a se stessa «il compito di valutare la diversità in concreto delle situazioni prefigurate dal legislatore e l’adeguatezza sostanziale della disciplina dettata per ciascuna di esse»: in questa prospettiva, come è stato osservato, «il precetto dell’eguaglianza tende, se non accompagnato da altre prescrizioni normative, a confondersi con l’esigenza di giustizia sostanziale (o di equità) la cui valutazione ultima sarebbe riconosciuta in capo al giudice costituzionale»[9].

 

2. Eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale: il controllo di ragionevolezza da parte della Corte costituzionale italiana

L’evoluzione del concetto di eguaglianza fin qui tratteggiata è la stessa che ha condotto all’introduzione, nelle carte costituzionali del XX secolo, del valore dell’eguaglianza in senso sostanziale. L’introduzione del valore della giustizia sostanziale nell’impianto delle Carte costituzionali ha portato con sé la conseguenza secondo la quale «l’obiettivo del legislatore di realizzare l’eguaglianza sostanziale, attraverso disposizioni derogatorie di quella formale, azioni positive, quote ecc., viene fatto oggetto dello scrutinio di ragionevolezza e di bilanciamento tra i due commi dell’art. 3» ed «il secondo comma dell’art. 3, nel considerare l’eguaglianza di fatto, o, per meglio dire, gli ostacoli di fatto che si oppongono all’eguaglianza dei cittadini, non soltanto impone, come è evidente, al legislatore un’opera volta alla loro rimozione, ma anche finisce col proiettare l’attenzione del giudice costituzionale, quando è chiamato a risolvere questioni attinenti al principio di eguaglianza, sui risultati concreti e fattuali che le norme impugnate, magari anche indipendentemente dalla loro formulazione, ovvero proprio perché formulate in modo troppo generale, determinano nei rapporti della vita associata»[10].

Da questo punto di vista anche il discorso del privatista non può fare a meno di confrontarsi con il criterio di ragionevolezza, inteso naturalmente, nell’ambito di problemi dei quali ci stiamo occupando in questa sede, in termini affatto diversi rispetto a quelli che lo studioso del diritto privato ha avuto modo di saggiare negli ultimi decenni, nel solco dell’uso della clausola di reasonableness nel common law ovvero dell’emergere di essa nei progetti di diritto privato europeo. In questi settori, infatti, la ragionevolezza si delinea come un criterio di valutazione della fattispecie concreta demandato dal legislatore al giudice ordinario, e che – come una sorta di clausola generale, sia pure non specificamente codificata dal legislatore – si presta al recepimento di valori (in particolare, e appunto, quello della sensatezza delle azioni e delle scelte umane) a loro volta non immediatamente desumibili dal dato normativo[11].

Al contrario, e quando se ne parla nel quadro della riflessione sul principio di eguaglianza, il criterio di ragionevolezza, così come costruito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, si caratterizza per la sua stretta connessione con la verifica circa il rispetto da parte del legislatore del principio di eguaglianza. Come è stato puntualmente osservato dalla migliore dottrina costituzionalista, «la ragionevolezza diviene nella giurisprudenza sul principio di eguaglianza il punto di arrivo del bilanciamento dei valori costituzionali, per cui è legittima la distinzione allorché essa risponda ad esigenze derivanti in modo esplicito od implicito da altre norme costituzionali o da valori espressi dalla Carta fondamentale, non è legittima e viola il principio di uguaglianza quando vi contrasta»[12].

 

3. La “costituzionalizzazione” del diritto privato

Il discorso fin qui svolto potrebbe sembrare eccessivamente sbilanciato sul versante dei referenti costituzionali dei principi di libertà ed eguaglianza e sganciato, dunque, da un’analisi sufficientemente puntuale del modo in cui gli stessi si possono concretizzare nell’ambito del discorso del privatista. Tuttavia, a ben vedere, non è così, per una duplice ragione.

Infatti, e questa prima notazione è evidente, sono proprio le carte costituzionali a contenere la formalizzazione, al massimo grado, nella costruzione delle gerarchia delle fonti, dei valori della libertà e dell’eguaglianza: cosicché è inevitabile soffermarsi su quei referenti normativi. Ed è, del resto, significativo della circostanza che l’enunciazione del principio di eguaglianza sia riservata alle fonti costituzionali, il fatto che proprio nel momento in cui l’ordinamento dell’Unione europea si è dotato di quello che vorrebbe essere, sia pure in maniera fortemente contrastata e controversa, un testo di rango costituzionale, e cioè la Carta dei diritti fondamentali della stessa, sia stato infine esplicitato il principio di eguaglianza attraverso le previsioni degli artt. 20-26 della Carta dei diritti. In precedenza, al contrario, nel quadro dell’ordinamento comunitario, il principio di eguaglianza veniva desunto, in assenza di un’esplicita affermazione del medesimo, sulla base di un’interpretazione sistematica da parte della Corte di giustizia dei divieti di discriminazione dai quali sono costellati i Trattati[13].

La seconda ragione della quale si faceva poc’anzi cenno è quella che ci rimanda alla cd. costituzionalizzazione del diritto privato, fenomeno da tempo oggetto di riflessione da parte della dottrina civilistica italiana[14], e descritto da quest’ultima nei termini dell’insieme e delle metodologie e delle tecniche elaborate, «a partire dalla metà del secolo scorso, con la finalità di permeare il sistema civilistico dei principi fondamentali racchiusi nella Costituzione del 1948»[15]. In effetti, la costituzionalizzazione del diritto privato, soprattutto nelle sue prime manifestazioni, si è configurata come animata al tempo stesso da una «spinta oppositiva contro la neutralità del diritto privato» e dalla «spinta propulsiva costituita dal riconoscimento dell’efficacia precettiva e non meramente programmatica delle norme costituzionali, definite quali “disposizioni di principio”, cioè norme principio che non si differenziano dalle norme regola per la struttura ma per l’efficacia (…) il loro modo di applicazione non è la tecnica logico formale della sussunzione ma la logica tecnico-pratica del bilanciamento dei beni o degli interessi protetti»[16]. In altre parole, e come pure è stato ricordato, «elemento identificativo della prima costituzionalizzazione è (…) l’attribuzione ai principi costituzionali di un’immediata efficacia precettiva, che si accompagna, tuttavia, all’idea di una peculiarità delle norme principio che consente loro solo di pervadere il contenuto delle altre norme, attraverso l’interpretazione conforme, o di orientare in chiave assiologica le clausole generali»[17].

Ricondotto il discorso sul piano della costituzionalizzazione del diritto privato e, dunque, dei rapporti tra le norme costituzionali che, nei singoli ordinamenti, enunciano i valori della libertà e della eguaglianza e il modo in cui esse sono tradotte in regole di condotta dal legislatore ordinario, si delinea subito uno stretto rapporto tra uno dei due valori oggetto del nostro discorso – quello della eguaglianza – e un altro principio costituzionale dotato di una forte capacità di pervadere le regole di diritto privato: il principio di dignità, che – com’è noto – assume un rilievo centrale sia nella Costituzione italiana (dove esso, nella sua declinazione di dignità sociale, è senz’altro ricollegato al principio di eguaglianza)[18], sia nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che al principio di dignità, nelle sue diverse articolazioni, dedica un intero titolo, il I, con i cinque articoli che lo compongono[19]. Infatti, e come è stato notato anche di recente in dottrina all’interno di un discorso sulla legislazione antidiscriminatoria nell’ordinamento italiano, la finalità dei divieti di discriminazione è di evitare la «lesione del fondamentale principio costituzionale che disegna la società come comunità di uomini ordinata secondo la pari dignità sociale»[20]: cosicché si giunge all’affermazione, da ultimo condivisa dalla letteratura in materia, secondo la quale «l’uguaglianza tende a realizzare la pari dignità sociale (che è nozione diversa dalla parità di trattamento) ed è volta a rimuovere tutto ciò che ostacoli la realizzazione della libertà dei cittadini, mirando così a costruire, in ultima analisi, la giustizia sociale e distributiva. In questa prospettiva, l’uguaglianza è quel fine cui l’ordinamento giuridico si orienta per garantire non una mera redistribuzione dei beni, ma una ben più ampia garanzia della partecipazione concreta ed effettiva ai rapporti di diritto civile»[21].

 

4. Eguaglianza, dignità e dignità sociale

Il valore o principio di dignità, del quale abbiamo appena sottolineato la stretta connessione con il principio di eguaglianza, si presenta a sua volta caratterizzato da una ricchissima varietà di possibili significati, che l’elaborazione culturale del medesimo ha consentito di sviluppare[22].

Dignità come responsabilità, dignità come libertà, dignità come valore inalienabile e incomprimibile dell’uomo, di ogni uomo in quanto tale, dignità da ricercare e tutelare negli altri, oltre che in se stessi: sono queste le suggestioni che ci provengono dalla riflessione filosofica e da quella giuridica, dal momento in cui il concetto ha acquisito anche una curvatura specificamente giuridica. E se questo è l’arco di significati che il concetto di dignità è destinato a evocare, ben si comprende come proprio ad esso si sia guardato con interesse, se non con speranza, come a un concetto dotato di carattere “fondativo” nel momento in cui si è trattato di individuare una categoria che fosse in grado di ripristinare normativamente la centralità del valore dell’uomo dopo la negazione di esso ad opera delle dittature del XX secolo e dei due conflitti mondiali: proprio nella dignità, infatti, è parso possibile riconoscere un «criterio in grado di assicurare la coesistenza di diverse culture, ideologie e religioni nel comune impegno di tutela dei diritti dell’uomo al di là delle appartenenze nazionali»[23].

La ricognizione dell’emergere, in questa prospettiva, della categoria della dignità nelle fonti normative post-belliche, e nel solco di alcune anticipazioni in testi costituzionali precedenti alla Seconda guerra mondiale, è stata più volte operata in termini esaustivi nella recente dottrina[24]; saranno, dunque, sufficienti brevi cenni ai dati normativi di maggiore rilevanza nella specifica prospettiva del nostro discorso.

Si può brevemente rammentare che – dopo le anticipazioni contenute, sul punto del riconoscimento del principio di tutela della dignità umana, nella Costituzione finlandese del 1919 e nella Costituzione di Weimar, ispirate a una lettura in chiave sociale del medesimo, e in quella irlandese del 1937, chiaramente influenzata, al contrario, da una lettura cattolica[25] – la giuridificazione del principio di dignità trova un riconoscimento definitivo dapprima nel Preambolo della Carta Onu del 1945 e, quindi, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. In particolare, quest’ultimo testo normativo sancisce, all’art. 1, il principio che «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti», così confermando, anche da questo angolo visuale, lo stretto legame tra dignità ed eguaglianza, ed innesta poi, agli artt. 22 e 23, il riconoscimento della dignità sulla garanzia dei diritti sociali attraverso l’affermazione del diritto di ogni individuo alla realizzazione «dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità» nonché del diritto di ciascun lavoratore «a una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana».

L’intima connessione tra l’uso del concetto di dignità e l’esigenza di ripristino della centralità e intangibilità del valore della persona risulta confermata dal rilievo che è proprio la Carta costituzionale della Repubblica federale tedesca (e cioè del Paese che più direttamente aveva conosciuto l’orrore della negazione radicale della dignità umana) a utilizzare in maniera particolarmente pervasiva il concetto di dignità umana[26]. Infatti, e come è stato rilevato[27], la dignità diventa, nella Costituzione tedesca, una sorta di Grundnorm dell’intero sistema giuridico, con i caratteri della norma giuridica oggettiva e non già del diritto soggettivo, come tale soggetta al giudizio di bilanciamento con altri interessi pure dotati di riconoscimento costituzionale: l’art. 1, comma 1, del Grundgesetz stabilisce infatti che «La dignità dell’uomo è intangibile. Rispettarla e proteggerla è obbligo di tutto il potere statale», ed il comma 2 soggiunge che «Il popolo tedesco professa perciò i diritti umani inviolabili e inalienabili come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo»[28].

Una notazione terminologica consente, poi, di cogliere il particolare valore fondativo che la dignità assume, nell’ambito della Costituzione tedesca, anche rispetto ai diritti fondamentali: e infatti, mentre questi ultimi sono definiti come «inviolabili e inalienabili», la dignità è senz’altro «intangibile» («unantastbar»), così restando sottratta anche a quel giudizio di comparazione o di bilanciamento con altri interessi, in ipotesi dotati di protezione a un livello analogo di gerarchia delle fonti, cui invece i diritti fondamentali possono essere assoggettati. I due commi dell’art. 1 del Grundgesetz rendono, poi, evidente l’esistenza di un rapporto di derivazione, all’interno di quel testo normativo, tra la dignità e i diritti fondamentali, nel senso che proprio il fatto che l’uomo possegga una dignità tale da contraddistinguerlo rispetto a ogni altro essere vivente (e sottratta, secondo quanto si desume dall’art. 79, comma 3, del Grundgesetz, a ogni possibilità di modifica o revisione costituzionale) fonda altresì, in capo a lui, la titolarità di diritti fondamentali[29].

Concludendo sull’immagine della dignità umana che emerge dal Grundgesetz, si deve concordare con quella lettura della stessa che vi ravvisa una diretta derivazione con la dottrina giusnaturalista moderna, così restando collegato il tema del rispetto della dignità umana a quello della rinascita del diritto naturale[30].

Diversi sono, invece, i caratteri che la dignità assume all’interno della Costituzione italiana del 1948: e infatti il riferimento alla dignità sociale, contenuto nell’art. 3 Cost., letto in collegamento con l’enunciato racchiuso nell’art. 4, comma 2, rende evidente che l’ordinamento modellato dalla Costituzione repubblicana riconosce, quale unico titolo di dignità, «il lavoro che consente ai cittadini il pieno sviluppo della loro personalità, e con ciò della loro dignità»[31]. In altre parole, il discorso sulla dignità all’interno della Costituzione italiana del 1948 è imperniato sulla dimensione sociale della dignità: in questo stesso senso, possono essere richiamati anche gli altri due luoghi di quel testo normativo all’interno dei quali il termine “dignità” viene utilizzato come attributo (l’esistenza libera e dignitosa alla realizzazione della quale deve essere funzionale la retribuzione corrisposta al lavoratore cui ha riguardo l’art. 36) ovvero come sostantivo (la dignità umana come limite all’esercizio delle attività economiche private, che non debbono recar danno ad essa, all’interno dell’art. 41, comma 2, Cost.). Non è del resto casuale che, a livello della legislazione ordinaria italiana, la dignità compaia proprio nel cd. Statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970, n. 300) intitolato, tra l’altro, alla tutela della dignità dei lavoratori: così come, sia nell’ambito della concretizzazione giurisprudenziale, sia all’interno della riflessione dottrinale – almeno nella seconda metà del secolo scorso –, lo spazio più significativo sia stato occupato proprio dalla materia del diritto del lavoro.

 

5. Libertà, eguaglianza e discriminazione attraverso il prisma dei problemi dell’esperienza concreta

Appare a questo punto opportuno, al fine di dare maggiore concretezza alle osservazioni fin qui svolte, proporre – anche sulla base dell’esperienza giurisprudenziale – alcuni casi nei quali tipicamente i valori della libertà e dell’eguaglianza (e, per la connessione rispetto a quest’ultima che ormai dovrebbe essere chiara, della dignità) entrano, per così dire, “in risonanza”.

Un primo caso è quello suggerito da un’ancora recente ordinanza della Corte di cassazione italiana[32], la quale ha disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea sottoponendo a quest’ultima, tra le altre e per quello che interessa ai nostri fini, la questione «se rientri nell’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria predisposta dalla direttiva 2000/78/CE, secondo l’esatta interpretazione dei suoi artt. 2 e 3, una dichiarazione di manifestazione del pensiero contraria alla categoria delle persone omosessuali, con la quale, in un’intervista rilasciata nel corso di una trasmissione radiofonica di intrattenimento, l’intervistato abbia dichiarato che mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi della collaborazione di dette persone nel proprio studio professionale, sebbene non fosse attuale né programmata dal medesimo una selezione di lavoro». In questa vicenda processuale[33], che si era conclusa nel primo grado e in appello con una condanna del soggetto che aveva rilasciato le dichiarazioni in questione al risarcimento del danno in favore di un’associazione rappresentativa di avvocati a tutela dei diritti delle persone LGBTI, entrano tipicamente in conflitto un aspetto della libertà della persona – quello di manifestare il proprio pensiero, sia pure esprimendo idee che appaiono ormai decisamente superate dall’evoluzione della sensibilità giuridica, morale e culturale – e un profilo di tutela dell’eguaglianza, appunto nella prospettiva della necessità di evitare differenziazioni quanto agli orientamenti sessuali dei quali ciascuna persona sia portatrice. E una tutela antidiscriminatoria imperniata sulla sola dimensione dell’autonomia contrattuale – e cioè circoscritta alla dinamica della costituzione di un rapporto contrattuale tra le parti – dimostra i propri limiti, come attesta la scelta della Corte di cassazione di sottoporre alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale sopra richiamata.

Altre due ipotesi – questa volta suggeriteci da altrettante pronunce della Cgue – si riferiscono alla questione, controversa e ricca di implicazioni in società multietniche quali sono ormai, in larga maggioranza, quelle degli Stati dell’Unione europea, della legittimità del licenziamento di lavoratrici solite indossare il velo islamico sul posto di lavoro. Si tratta, in particolare, dei casi Achbita[34] e Bougnaoui[35], entrambi decisi il 14 marzo 2017: nel primo dei due, la Corte ha statuito un principio di diritto in base al quale poteva ritenersi legittimo il licenziamento della lavoratrice che portava il velo sul posto di lavoro, e questo sulla base di un’interpretazione della dir. 2000/78/CE in forza della quale sarebbe lecita l’interruzione del rapporto di lavoro nel caso di una regola aziendale che faccia divieto, sia pure in maniera generica, di indossare segni esteriori rimandanti a convinzioni religiose, politiche o filosofiche, in relazione a una politica di neutralità adottata dall’imprenditore.
Nel secondo caso, invece, la Corte di giustizia, sempre – e ovviamente – muovendosi nell’ambito normativo della direttiva sopra menzionata, ha ritenuto illegittimo il licenziamento, affermando che «la volontà di un datore di lavoro di tenere conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da un dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di detta disposizione».

L’esito solo apparentemente contraddittorio di queste due decisioni, adottate contestualmente e in applicazione di un medesimo dato normativo di riferimento, dimostra quanto sia complesso bilanciare valori di libertà che, sul piano della concretizzazione dei medesimi, entrano in conflitto: la libertà di un lavoratore di portare un segno che manifesti anche esteriormente il proprio credo religioso, la libertà del datore di lavoro di organizzare nel modo da lui ritenuto più congruo rispetto ai bisogni della clientela la propria attività imprenditoriale e la libertà del cliente di quel datore di lavoro di scegliere di non avere a che fare (sia pure sulla base di convinzioni soggettive deprecabili) con persone che quella religione scelgano di professare in maniera così esplicita e anche sul luogo di lavoro. Conflitto che, in casi del genere e in relazione alla soluzione che al medesimo si intenda dare, rischia di mettere a repentaglio anche il valore della eguaglianza, nella misura in cui un lavoratore possa essere trattato differentemente rispetto ad altri – fino al punto di andare incontro alla perdita del posto di lavoro – solo per avere espresso apertamente un aspetto importante, qual è certo il credo religioso, della propria personalità.

L’esperienza del diritto del lavoro, questa volta nell’ambito della giurisprudenza italiana, ci offre un altro esempio in cui il valore della libertà e quello dell’eguaglianza entrano in gioco: e non è un caso che sia proprio la materia del rapporto di lavoro a metterci a disposizione un materiale così ampio di riflessione, visto che è il lavoro, sulla base di quanto desumiamo dall’impianto dei principi costituzionali[36], che costituisce il fondamento stesso dell’ordine repubblicano e che rappresenta «il criterio di riconoscimento dei cittadini che ne fanno parte e, al tempo stesso, di selezione tra i cittadini per distribuire costi e benefici connessi con la loro appartenenza a tale societas». Pertanto, il lavoro «non potrà che essere (…) valore fondamentale e (…) criterio direttivo dell’attività legislativa»[37]. In particolare, il caso sul quale intendo richiamare l’attenzione è quello deciso dalla Corte d’appello di Torino[38], relativo al mancato riconoscimento della qualifica di direttore di una testata giornalistica a una cittadina peruviana dotata di un permesso di soggiorno di lungo periodo. Il giudice d’appello, riformando la decisione del tribunale, ha ritenuto che un’interpretazione costituzionalmente conforme della legge ordinaria – in assenza di ragionevoli esigenze di segno opposto, come accade ad esempio in materia di esercizio diretto o indiretto dei poteri pubblici – impone una lettura del dato normativo che intenda il termine “cittadino” come “consociato”, così evitando ricostruzioni del precetto normativo che produrrebbero ingiustificate disparità di trattamento. E qui si innesta un discorso che, soprattutto nel momento presente in Italia, si fa particolarmente delicato e importante, e che la giurisprudenza della Corte costituzionale ha avuto da tempo modo di svolgere: infatti, come appunto affermato più volte dalla Corte[39], la circostanza che la Costituzione italiana, sia al primo che al secondo comma dell’art. 3, riferisca l’eguaglianza espressamente ai cittadini non implica affatto che gli stranieri possano essere oggetto di irragionevoli discriminazioni sia nei confronti dei cittadini italiani sia nei confronti di altri stranieri. Cosicché, da questo punto di vista, si impone, anche sul versante del diritto privato e pure per gli stranieri extracomunitari, la conclusione – di particolare importanza proprio per i diritti della persona – secondo la quale, relativamente «ai diritti che la Costituzione riconosce a “tutti” perché fanno parte del patrimonio della persona e con riguardo a quelli discendenti da trattati internazionali, l’eguaglianza opera come criterio di ragionevolezza che impedisce di trattare gli stranieri, senza una ragione costituzionalmente valida, in modo deteriore rispetto ai cittadini»[40].

 

6. Una breve conclusione

Il discorso fin qui svolto deve volgersi ora a una conclusione, che – lo si sarà già inteso – non può che essere problematica e provvisoria, e dunque sollecitare la discussione, più che ambire a stabilire punti fermi.

La breve ricognizione dei referenti del problema a livello costituzionale e del modo con cui essi sono concretizzati nell’elaborazione giurisprudenziale pare confermare che, nell’esperienza giuridica del tempo presente, che è ormai quasi banale descrivere nel segno della complessità (per l’articolazione del sistema delle fonti, per l’ingresso sempre più potente delle fonti sovranazionali, per la stessa densità dei fenomeni socio-economici da regolare), il giurista, e in particolare il privatista, sono chiamati in maniera ormai costante a maneggiare il linguaggio dei principi e dei valori costituzionali e a operare un bilanciamento tra di essi: proprio per questo è ancora più importante riflettere sull’interazione dei principi di libertà ed eguaglianza nell’opera di costruzione dell’essenza stessa della persona.

 

[1] Così N. Bobbio, Eguaglianza e libertà, Einaudi, Torino, 1995 (rist. 2009), p. VII.

[2] Così F. Sorrentino, Eguaglianza formale, in Costituzionalismo.it, n. 3/2017 (parte I), p. 1 (www.costituzionalismo.it/download/Costituzionalismo_201703_642.pdf). 

[3] Cfr.  N. Bobbio, op. cit., p. VII.

[4] Così ancora N. Bobbio, ivi, p. 4.

[5] Nota acutamente N. Bobbio, ivi, p. VII, che «la precedenza dell’una o dell’altra parola dipende anche dal contesto storico. Le vittime di un potere oppressivo chiedono prima di tutto di essere liberi. Rispetto ad un potere arbitrario invocano giustizia. Di fronte ad un potere dispotico, che sia insieme oppressivo ed arbitrario, la richiesta di libertà non può andare disgiunta da quella di giustizia».

[6] Ivi, p. 7.

[7] Cfr. ancora, ivi, p. 8.

[8] Sul punto, cfr. C. Esposito, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in Id., La Costituzione italiana – Saggi, Cedam, Padova, 1954, pp. 25 ss.; F. Sorrentino, Eguaglianza formale, op. cit., p. 7.

[9] Cfr. F. Sorrentino, ivi, p. 8.

[10] Così F. Sorrentino, ivi, p. 19.

[11] Il dibattito sull’uso della clausola generale di ragionevolezza nel diritto privato è molto vivo negli ultimi anni. Il contributo più ricco in argomento è sicuramente quello di S. Patti, Ragionevolezza e clausole generali, Giuffrè, Milano, 2013, in particolare pp. 13 ss.

[12] Così, con chiarezza esemplare, F. Sorrentino, Eguaglianza formale, op. cit., p. 22, il quale precisa che «applicando il criterio di ragionevolezza, la norma impugnata cade, se la differenza di disciplina rispetto al tertium comparationis sia ingiustificata, resta in piedi allorché vi siano valori costituzionali in forza o in nome dei quali la distinzione possa giustificarsi».

[13] Cfr., sul punto, F. Ghera, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, Cedam, Padova, 2003, in particolare pp. 221 ss., dove si sottolinea come, già a partire dalla fine degli anni settanta del XX secolo, la Corte di giustizia ha avuto modo di affermare che il principio di eguaglianza «impone di non trattare in modo diverso situazioni analoghe, salvo che la differenza di trattamento sia obiettivamente giustificata».

[14] Ragioni di sintesi impongono di limitare i riferimenti bibliografici, nell’economia del testo scritto dell’intervento a questo seminario, a E. Navarretta, Costituzione, Europa e diritto privato. Effettività e Drittwirkung ripensando la complessità giuridica, Giappichelli, Torino, 2018.

[15] Così E. Navarretta, ivi, p. XIV.

[16] Così E. Navarretta, ivi, p. 5, nel solco del pensiero di L. Mengoni, anch’egli ivi citato.

[17] In questo senso, ancora una volta, E. Navarretta, ibid., la quale pone l’accento sulla differente posizione assunta da P. Perlingieri, nella misura in cui questi «reputa le norme costituzionali “norme eguali alle altre”, giungendo ad un’impostazione che i tedeschi avrebbero qualificato come Drittwirkung diretta ed immediata».

[18] L’art. 3 della Costituzione, come si è già rammentato, esordisce affermando che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge (…)».

[19] Gli artt. da 1 a 5.

[20] Cfr. L. Sitzia, Pari dignità e discriminazione, Jovene, Napoli, 2011, p. 17.

[21] Così M. Ciancimino, La discriminazione contrattuale: profili rilevanti per la tutela della persona. Note a margine di un recente dibattito dottrinale, in Dir. fam., n. 2/2018, p. 670.

[22] Ci si permetta, sul punto, il rinvio al nostro Dignità dell’uomo e tutela della personalità, in Giust. civ., 2014, pp. 67 ss.

[23] In questi termini, G. Resta, Dignità, in S. Rodotà e P. Zatti (a cura di) Trattato di biodiritto, vol. I, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 259-285.

[24] Cfr., in particolare, G. Resta, ivi.

[25] Cfr., per i riferimenti, G. Resta, ivi.

[26] Si vedano, per un’ampia illustrazione delle coordinate all’interno delle quali il principio di dignità è utilizzato nell’ambito del Grundgesetz, G. Resta, Dignità, op. ult. cit., e P. Becchi, Il principio dignità umana, Morcelliana, Brescia, 2009, pp. 30 ss.

[27] In tal senso, in particolare, P. Becchi, op. ult. cit., p. 31.

[28] Va peraltro considerato che, sia pure con curvature di volta in volta diversamente modellate, e sulle quali non è possibile soffermarsi in questa sede, il concetto di dignità è presente nella gran parte delle costituzioni entrate in vigore nella seconda metà del XX secolo: cfr., sul punto, i cenni di G. Resta, Dignità, op. cit., nonché, con specifico riferimento alla Costituzione spagnola, F.F. Segado, La dignità della persona come valore supremo dell’ordinamento giuridico spagnolo, in Riv. crit. dir. priv., n. 1/2007, pp. 31 ss.

[29] Si veda ancora, per queste notazioni, P. Becchi, Il principio, op. cit., pp. 32-33.

[30] Sul punto, di nuovo, P. Becchi, ibid.

[31] Ivi, p. 36.

[32] Il riferimento è a Cass., 20 luglio 2018, n. 19443.

[33] Sulla quale cfr. F. Bilotta, La discriminazione diffusa e i poteri sanzionatori del giudice, in Resp. civ. prev., n. 1/2018, pp. 69 ss.

[34] Cgue [GS], C-157/2015, 14 marzo 2017, Samira Achbita e Centrum c. G4s Secure Solutions NV.

[35] Cgue [GS], C-188/2015, 14 marzo 2017, Asma Bougnaoui e Association de défense des droits de l’homme c. Micropole SA.

[36] È scontato il riferimento all’art. 4.

[37] Cfr. F. Sorrentino, Eguaglianza formale, op. cit., p. 10.

[38] Cfr. Corte appello Torino, 16 gennaio 2017, n. 86.

[39] Cfr., per gli opportuni riferimenti, F. Sorrentino, Eguaglianza formale, op. cit., pp. 30 ss.

[40] Ivi, p. 32.