Le “variabili” della crisi e la “costante” del principio di uguaglianza
1. Un numero della Rivista concepito e composto prima dell’emergenza e della crisi
Come è naturale, dati i tempi di programmazione di una Rivista trimestrale, questo numero è stato concepito e composto prima dell’emergenza.
Nell’intervallo temporale della pubblicazione, le difficoltà derivanti dall’epidemia hanno investito tutti gli aspetti della vita sociale, mettendo in tensione i principi di libertà e di uguaglianza che fondano la nostra civiltà giuridica.
Il disciplinamento sociale necessario per fronteggiare il contagio ha posto innanzitutto spinose questioni di libertà. E ha dato vita a un confronto a tratti aspro nel quale si sono mescolati, nel nostro come in altri Paesi, interrogativi e pensieri seri – sulle fonti dei comandi impartiti alla popolazione, sulla validità delle soluzioni adottate, sui limiti invalicabili delle limitazioni delle libertà fondamentali – e proclami di libertà insensati e astrusi.
Sino allo spettacolo estremo di uomini in armi dinanzi ai parlamenti di alcuni Stati americani invocanti la liberazione dai lockdown, mentre il Presidente Donald Trump definiva i manifestanti «good people».
Se possibile ancora più aspro si preannuncia il confronto sulla crisi economica conseguente all’epidemia quando – dopo la fase febbrile del primo sostegno agli individui e alle imprese – si tratterà di decidere dell’equa distribuzione, nel medio e lungo periodo, dei pesi e dei sacrifici derivanti dalla congiuntura economica.
Poiché non tutto potrà essere risolto dagli interventi della mano pubblica, è prevedibile la nascita di una complessa “conflittualità della crisi”, destinata a coinvolgere i mondi della produzione, della distribuzione, del lavoro.
Parliamo di conflitti giuridici individuali – di volta in volta tra datori di lavoro e lavoratori, locatori e conduttori, produttori e consumatori – destinati a trasferirsi almeno in parte dalla realtà sociale nelle aule di tribunale, dando vita a un contenzioso con caratteristiche assolutamente inedite.
Anche se sarà il legislatore a dover fissare i principali punti di riferimento e le coordinate generali entro cui incanalare la specifica conflittualità giuridica del periodo di crisi, ai giudici toccherà il compito, difficilissimo, di risolvere i singoli casi e di individuare equilibri accettabili tra soggetti confliggenti che recheranno “tutti” su di sé, anche se in maniera disuguale, il segno della crisi.
Senso della realtà, sensibilità sociale e la “costante” dei principi generali di uguaglianza, solidarietà, dignità, saranno spesso l’unica bussola sulla quale orientarsi nelle innumerevoli “variabili” della crisi economica e della sua particolarissima litigiosità.
È per questo che siamo convinti che proprio le riflessioni sulla “costante” dell’uguaglianza nel diritto civile ospitate in questo numero possano aiutare quanti operano nella giurisdizione a svolgere con più strumenti intellettuali e con accresciuta consapevolezza il lavoro, nuovo e complesso, che li aspetta.
2. La permanente attenzione della Rivista al tema dell’uguaglianza
È la seconda volta, nel giro di tre anni, che questa Rivista pone al centro della sua riflessione il tema dell’uguaglianza e delle disuguaglianze.
Nel 2016, con un atto di umiltà intellettuale di cui può essere fiera, Magistratura democratica chiamò a intervenire nel suo XXI Congresso – svoltosi a Bologna e intitolato «Disuguaglianze. Compiti della giurisdizione» – sociologi, politologi, economisti, filosofi, per ricevere dall’esterno del mondo dei giuristi apporti di conoscenza e di analisi sulla fisionomia e sulle dimensioni della moderna disuguaglianza.
Chiese allora un aiuto per penetrare le nuove forme della disuguaglianza, nella convinzione che tale sforzo di comprensione costituisse la premessa necessaria per meglio definire i compiti dei magistrati tanto nell’affermazione rigorosa del principio di eguaglianza dinanzi alla legge quanto nell’opera di rimozione degli ostacoli all’eguaglianza sostanziale che si manifestano nel processo e nella realtà che nel processo si esprime e si riflette.
E dai lavori di quel congresso nacque il numero 2 del 2017 della Rivista, Le nuove disuguaglianze, nel quale figurano, accanto ai contributi di tanti magistrati, scritti di Paolo Guerrieri, Elena Granaglia, Nadia Urbinati. Un numero significativamente dedicato a Stefano Rodotà, giurista geniale, per decenni ispiratore e compagno di strada del gruppo dei magistrati di orientamento democratico.
Oggi la Rivista ritorna a ragionare dell’imperativo dell’uguaglianza con lo sguardo rivolto al diritto civile, chiamando a raccolta – grazie all’iniziativa e alle cure di Enrico Scoditti – molte delle migliori intelligenze del mondo giuridico e tenendo insieme riflessioni generali e approfondimenti specialistici, come nella migliore tradizione del diritto civile.
Impossibile, naturalmente, ripercorrere qui passo per passo il complesso itinerario intellettuale disegnato dai diversi contributi di studio.
Saranno come sempre i lettori, chinandosi ad osservare le singole tessere, a ricostruire o creare, interagendo con gli autori, i tratti del mosaico animato nato dalla riflessione collettiva.
A noi preme invece sottolineare il senso e il valore della continua attenzione che al tema dell’uguaglianza, in tutte le sue declinazioni, dedicano una parte significativa della magistratura italiana e Magistratura democratica in particolare.
All’origine di questo atteggiamento non stanno solo i principi giuridici che all’uguaglianza attribuiscono rilievo essenziale nel quadro di una società democratica.
Vi è anche l’acuta percezione che le molteplici disuguaglianze che si annidano in tutti gli ambiti della vita umana e sociale – e di cui i giudici sono spesso i primi osservatori e testimoni – debbono essere costantemente “svelate” e “rivelate”, identificate e nominate, riconosciute e portate alla luce, se si vuole evitare che esse continuino ad apparire naturali e indiscutibili e siano sopraffatte e occultate dalla coltre del senso comune, divenendo invisibili.
Se il superamento di ogni disuguaglianza è sempre il frutto di un conflitto tra privilegiati ed esclusi, tra una cerchia più o meno ampia di uguali e quanti sono relegati all’esterno di essa, nessun passo sul cammino di una maggiore uguaglianza può essere compiuto senza essere preceduto da un’opera intellettuale di individuazione, di riconoscimento, di disvelamento delle disuguaglianze che ne metta in evidenza l’assenza di ragionevoli giustificazioni, e perciò l’arbitrarietà, l’irrazionalità, l’iniquità.
3. Il giudice tra la persona e l’uomo concreto
Di quest’opera, costante e necessaria, di percezione e di riconoscimento della disuguaglianza, il giudice è uno dei naturali protagonisti.
Nell’esperienza del giudiziario, nell’incredibile e imprevedibile molteplicità dei casi che approdano al giudizio, uguaglianza e disuguaglianza si presentano infatti continuamente intrecciate.
E il giudice ha il dovere di “vederle” entrambe e di contemperare nella sua attività l’istanza dell’uguaglianza formale e le esigenze di tutela dell’essere umano concreto.
Deve cioè ricordare sempre che quella che gli sta di fronte è una “persona”, con il suo corredo di intangibili diritti, con la sua dignità che non può essere scalfita da nessun comportamento tenuto, per quanto riprovevole od orribile.
E non deve mai dimenticare che ha dinanzi a sé un “uomo concreto”, con il suo carico di potenzialità ma anche di bisogni, di debolezze, di insufficienze.
Per quanto un magistrato possa essere personalmente refrattario alle teorizzazioni generali egli maneggia dunque quotidianamente gli “strumenti” di una lunghissima elaborazione teorica.
Da un lato l’astrazione emancipatrice della “persona” originata dalla potente azione culturale dell’illuminismo, demolitrice di ogni status giuridico privilegiato.
Dall’altro lato la presenza dell’uomo “situato” economicamente e socialmente, rivendicata e imposta dalla serrata critica della mera uguaglianza formale.
Forse la vera sapienza del giudice sta nel non farsi irretire dai furori, spesso astratti, delle diverse teorizzazioni (per quanto affascinante possa essere il loro impianto concettuale), avendo cura di salvaguardare il portato straordinario dell’uguaglianza formale e di non smarrire la percezione del carico di disuguaglianze che le persone recano con sé nella vita sociale e nei giudizi.
Del resto questo approdo – che a prima vista può apparire modesto nel suo sincretismo – racchiude e ricapitola in sé, nell’ambito di ciascun giudizio, la filogenesi che ha condotto dal secolare primato del “principio di disuguaglianza” all’affermazione dell’uguaglianza dinanzi alla legge e poi ai tentativi di superare i limiti di una parità solo formale tra gli esseri umani.
4. Oltre il secolare dominio del principio di disuguaglianza: l’astrazione eguagliatrice della persona
Come sappiamo, di disuguaglianze “naturali” e perciò invisibili l’intera storia dell’Occidente reca una impronta profondissima e offre testimonianze eclatanti, spesso relegate sullo sfondo dai contemporanei che a loro volta possono tranquillamente restare inconsapevoli delle loro moderne cecità.
Si tratta di disparità che si sono riflesse, fedelmente e senza remore, nei luoghi più alti dell’arte, del pensiero filosofico, del diritto.
L’Antigone di Sofocle – oggetto di tante successive trasfigurazioni che ne hanno fatto di volta in volta il simbolo della coscienza morale in lotta con il potere costituito, della disobbedienza civile alla legge ingiusta, del diritto naturale, della stessa Costituzione – rivendica di fronte al suo antagonista Creonte di non essersi mossa per “uno schiavo” ma per dare sepoltura a un “fratello”. Da donna del suo tempo, considera infatti, come tutti nella città di Tebe, uno schiavo alla stregua di una res immeritevole di considerazione e non ne vede la comune umanità. Di contro Creonte protesta che mai si farà comandare da “una donna”, mostrando quanto ampia e “fisiologica” fosse nella città la sfera dell’esclusione e dell’emarginazione.
La polis greca – nella quale muove i suoi primi passi la politica democratica e si delinea il modello della “libertà degli antichi” – è al tempo stesso il luogo nel quale, con più rigore, si vive e si teorizza la realtà «evidente che taluni sono per natura liberi, altri schiavi, e che per costoro è giusto essere schiavi»[1].
E nel suo libro, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Aldo Schiavone ripercorre con finezza un lungo itinerario. Dall’assunto iniziale della disciplina romana della schiavitù – lo schiavo come «macchina umana, cosa, merce, strumento parlante, in accordo con una tradizione che trovava (…) in una pratica mediterranea secolare il suo riscontro quotidiano» – sino alla successiva nascita di «una specie di diritto commerciale della schiavitù», mirante a integrare «senza mettere in discussione il vincolo di subordinazione personale, l’organizzazione schiavistica con una valorizzazione del lavoro dei sottoposti» in un quadro di “soggezione di status” coesistente con una “autonomia contrattuale” «destinata a riflettere una limitata ma pur sempre dirompente soggettività patrimoniale e commerciale degli schiavi»[2].
La disuguaglianza, dunque, con il corredo delle sue multiformi giustificazioni, è il dato che sta alla radice della nostra storia e che l’ha percorsa nei secoli attraverso successive reincarnazioni.
Radicali differenze di status tra gli uomini; assetti istituzionali fondati su vincoli di subordinazione personale e correlate situazioni di potere; imposizione di pesi differenti a seconda della collocazione nella gerarchia sociale e, di contro, minuziosi cataloghi di privilegi, di esenzioni, di libertà particolari. Sino alla previsione di giudici e giudizi diversi a seconda della posizione sociale degli autori di illeciti.
Il secolare primato della disuguaglianza sarà inciso solo dalla forza potente e rivoluzionaria dell’illuminismo, proteso a demolire architetture sociali e giuridiche profondamente asimmetriche e a invertire il corso del pensiero e della storia. Portando alla ribalta il principio di uguaglianza di tutti dinanzi alla legge e l’idea di essere umano che a questo principio si addice: l’astrazione emancipatrice della “persona”.
Dal coacervo delle disuguaglianze emerge, allora, l’uomo astratto, la persona “a priori”, l’uomo indipendente per natura al quale Kant poteva indirizzare l’esortazione a entrare «con gli altri in una società tale che in essa ognuno possa conservare ciò che gli appartiene».
Un individuo padrone della sua vita e dei suoi beni, «solitario, presociale e preistorico» che presenta, come a suo tempo osservato da Galvano Della Volpe, singolari coincidenze con la «persona originaria» della tradizione cristiana[3], soggetto di diritti innati che precedono il suo inserimento nella vita sociale.
5. L’emersione nell’esperienza giuridica dell’uomo “situato”
La tappa successiva – profondamente influenzata dalla critica marxiana dell’uomo astratto – ci porta già dentro alle vicende della cultura giuridica del nostro tempo.
Alla percezione dei limiti di quell’astrazione e alla valorizzazione dell’uomo concreto, situato socialmente, si è accompagnata – lo sappiamo bene per averla vissuta – la stagione della critica di un intero assetto sociale e istituzionale fondato “esclusivamente” sul principio di uguaglianza di fronte alla legge, imperniato su di una democrazia solo politica, regolato da un diritto civile fondato sul presupposto di un universo di liberi ed uguali che si scambiano tutte le merci, incluso il lavoro, in condizioni di uguaglianza.
Da quel clima culturale e politico è scaturita, nel nostro Paese, un’iniziativa riformatrice, breve ma intensa, che ha dato i suoi frutti migliori quando la cultura giuridica, il legislatore, la parte più viva e sensibile della magistratura assunsero come paradigma l’uomo concreto, il soggetto collocato socialmente che ha bisogno di ricevere effettivamente determinati beni della vita (di volta in volta il lavoro, l’abitazione, un adeguato livello di tutela della salute, di istruzione, di libera informazione e così via) per essere uguale e ugualmente partecipe della società e della politica.
Una serie di figure sociali concrete, di donne e di uomini “situati” hanno popolato la legislazione riformatrice a partire dalla seconda metà degli anni sessanta: il mezzadro, il colono, il lavoratore stabile e quello precario, la lavoratrice discriminata, il conduttore di un appartamento, il consumatore, l’abitante di una zona inquinata…
E furono introdotte nuove tecniche di tutela dirette a garantire effettivamente beni essenziali della vita come la reintegrazione nel posto di lavoro, l’eliminazione degli effetti di una condotta nociva, la costituzione autoritativa di un contratto.
Anche le regole del processo, i riti, hanno seguito un percorso di differenziazione al fine di meglio riconoscere diritti e tutele ai disuguali, privi di quella indipendenza personale originaria e autosufficiente conferita dalla ricchezza, dal potere, dalla cultura.
Non ci si nasconde che i risultati di quella legislazione riformatrice sono stati parziali e discutibili e in più di un caso risultano oggi datati e meritevoli di revisione.
Ma resta irrinunciabile l’ispirazione di fondo di quelle riforme, che va ripercorsa ancora oggi per comprendere – grazie allo sguardo rivolto alle concrete particolarità delle figure sociali – le nuove disuguaglianze, la fisionomia dei nuovi soggetti deboli e le inedite forme di privilegio e di svantaggio, non ricollegabili solo alla dimensione economica ma nascenti di volta in volta dalla condizione di consumatore, dall’ambiente fisico in cui si vive, dall’inclusione o meno nell’area della cittadinanza, dalla collocazione rispetto al circuito dell’informazione e della cultura.
6. Ostacoli e “frontiere” nel percorso dell’uguaglianza
Se questo è il passato con i suoi inevitabili chiaroscuri che dire del confronto culturale e degli scontri del presente?
Vi è chi ritiene che – nell’economia e nel mondo globalizzati – non vi sia alternativa a un puro e semplice ritorno indietro: al paradigma dell’individuo astratto, alla sola regola dell’uguaglianza formale, al dispiegarsi delle dinamiche proprie delle forze in campo nel mercato, nella società, nelle istituzioni.
Un quadro nel quale la dimensione pubblica, statuale o sovranazionale, si limita a fissare le regole del gioco utili per la “crescita” dell’economia e abbandona metodi di intervento – del legislatore prima e dell’interprete poi – ispirati alla consapevolezza delle disuguaglianze sociali reali e alla necessità di agire per colmarle[4].
In questo contesto si inseriscono i tentativi di restituire predominanza, nell’economia e nella società, all’efficacia regolatrice del mercato, del contratto, del diritto civile classico.
A questo sguardo rivolto all’indietro si contrappone, per fortuna, una diversa cultura del diritto e dei diritti che intende preservare e valorizzare la potente forza uguagliatrice del concetto di “persona” senza per questo rinunciare a rivolgere lo sguardo all’uomo e alla donna concreti, con il loro carico di disuguaglianze di fatto.
L’uguaglianza formale e il correlato concetto di valore e dignità di ogni persona sono infatti il perno su cui poggia ogni battaglia contro discriminazioni fondate sul genere, sull’etnia, sugli orientamenti di vita personali e culturali, sulle convinzioni religiose. Linee di differenza che in una società economicamente avanzata e pluralista acquistano un peso crescente e aspirano al riconoscimento, all’inclusione e alla piena legittimazione nella sfera del diritto.
Per altro verso, l’uguaglianza formale – nonostante la sua immensa carica di liberazione e la sua funzione di permanente critica interna di ogni forma di disparità – ha ancora bisogno di essere integrata e accompagnata da leggi e decisioni giudiziarie che contemplino nel loro raggio di intervento i bisogni, le debolezze, le insufficienze degli esseri umani in carne e ossa.
Isaiah Berlin ha ricordato che «nel loro entusiasmo per creare le condizioni economiche e sociali affinché la libertà sia un valore autentico, gli uomini tendono a dimenticare la libertà stessa; e se ci si ricorda di essa è facile che si spinga da parte per far posto a quegli altri valori che hanno assorbito i rivoluzionari o i riformatori»[5].
Non sembra che alla cultura democratica del nostro Paese possa essere mosso questo rimprovero.
La “persona”, i suoi valori, la sua libertà non sono infatti stati “spinti da parte” mentre si operava per superare i limiti di una concezione solo formale della libertà e della democrazia, ma sono stati sempre considerati come presupposti essenziali ed insostituibili e come la base di ogni ulteriore progresso dell’uguaglianza e della democrazia.
Dal canto loro, i magistrati più sensibili al tema dell’uguaglianza hanno sempre avuto presente – anche in ragione della loro quotidiana esperienza del processo – che la “persona”, con i suoi corollari di libertà anche solo negativa, di insopprimibile dignità, di uguaglianza di fronte alla legge costituisce non solo un argine essenziale nei confronti delle ricorrenti spinte alla discriminazione che percorrono la nostra come altre società ma anche una potente leva di emancipazione (prima di tutto nel processo) degli svantaggiati.
Le frontiere sempre in tensione dell’uguaglianza possono perciò essere presidiate solo da magistrati che sappiano tenere insieme, nelle loro prassi, i complessi approdi della riflessione sull’uguaglianza di fronte alla legge e sull’uguaglianza sostanziale, il cui percorso è illustrato nella relazione istituita dall’art. 3, comma 2 della Costituzione tra l’uguaglianza come “condizione” della partecipazione democratica e di tale partecipazione come “veicolo” di uguaglianza.
È significativo che di “ostacoli da rimuovere” e di “frontiere” in tensione si parli anche nel secondo Obiettivo di questo numero della Rivista, nato dall’impulso di Luca Minniti e intitolato «Le nuove frontiere dei diritti umani, al tempo dell’esternalizzazione delle frontiere italiane ed europee».
Vi sono frontiere materiali – ci ricordano gli Autori degli scritti raccolti nell’Obiettivo – che si ergono come altrettanti impedimenti al riconoscimento di diritti umani fondamentali delle persone che migrano.
Ma vi sono anche le frontiere, più aperte, “mobili e progressive”, dell’espansione e del riconoscimento, al di là dei confini materiali, dei diritti di questi nuovi disuguali.
Su questo duplice terreno è in corso una ricerca di soluzioni politiche e giuridiche che dalla continua riflessione sull’uguaglianza può e deve trarre indicazioni di principio e scelte concrete di politica del diritto.
Maggio 2020
[1] Aristotele, Politica, I, 4-5.
[2] A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino, 2017 (nuova ed.), cap. XIV, par. 3 (disponibile in e-book).
[3] G. Della Volpe, Rousseau e Marx, Editori Riuniti, Roma, 1964.
[4] Cfr. sul punto C. Salvi, Capitalismo e diritto civile. Itinerari giuridici dal Code civil ai Trattati europei, Il Mulino, Bologna, 2015, p. 26, che ricorda come nell’ultimo trentennio siano divenute dominanti «l’ideologia e le politiche del liberismo, in una sorta di ritorno all’800».
[5] I. Berlin, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano, 1989, p. 52.