Principio di eguaglianza e diritto civile
Il contributo si confronta con il dilemma giuridico della distinzione fra eguale e diseguale e con la ricchezza assiologica dell’art. 3 Costituzione, affidando all’impegno corale e coordinato di una pluralità di organi istituzionali un metodo complesso di incessante ricostruzione dell’impatto di tale principio sul diritto civile, che ne risulta profondamente rinnovato nella sua identità e nelle sue funzioni; è quanto emerge in maniera emblematica da taluni snodi critici del diritto della famiglia, del diritto dei contratti e della responsabilità civile.
1. Eguaglianza, diritto civile e metodo giuridico / 2. Il cammino del diritto di famiglia verso la parità / 3. Dall’eguaglianza formale al divieto di discriminazione e all’eguaglianza sostanziale nel contratto / 4. Eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale nella responsabilità civile / 5. Principio di eguaglianza e funzioni del diritto privato
1. Eguaglianza, diritto civile e metodo giuridico
«Far parti uguali fra diseguali è un’ingiustizia» – scrive Michele Ainis, riprendendo Don Milani – «Tuttavia i problemi sorgono quando si tratta di distinguere i primi dai secondi, gli uguali dai diseguali»[1]. Il dilemma del principio di uguaglianza appare tutto racchiuso nella linea distintiva tra diverso trattamento, che incorre nel divieto di discriminazione, e ragionevole differenziazione, che impone finanche “azioni positive”. Tale dilemma rimanda all’immagine del circolo: «dal concetto di eguaglianza (...) al concetto di giustizia e [da] quest’ultimo (...) di nuovo all’eguaglianza»[2], ma la giustizia non è che un obiettivo esterno al diritto, al quale il diritto deve tendere, proprio elaborando un metodo di ricostruzione incessante della dialettica fra eguale e diseguale.
Deve trattarsi di un metodo corale e condiviso fra una pluralità di organi istituzionali che devono contribuire a una costruzione sistematica e coerente del diritto, tale da incorporare essa stessa il valore dell’eguaglianza, prendendo le distanze dalla fallace tendenza odierna a una polarizzazione contrapposta: tra i fautori dell’uguaglianza formale, affidata al legislatore e alla tecnica della fattispecie, e i paladini dell’uguaglianza sostanziale e dell’effettività, che consegnano la giustizia nelle mani del solo diritto giurisprudenziale. La rimozione di ingiustificate differenze e, al contempo, la valorizzazione di diversità giuridicamente rilevanti sono profili inscindibili del medesimo concetto, che respingono tanto l’immagine di una calcolabilità omologante, dissociata da qualsivoglia tensione verso l’uguaglianza anche sostanziale, quanto quella della costante differenziazione del caso distaccata da qualsivoglia prevedibilità, coerenza sistematica e parità di trattamento.
Legislatore e corti devono, viceversa, collaborare e coordinarsi nella tecnica del bilanciamento di interessi, secondo ragionevolezza e proporzionalità, che non può mai riferirsi al puro caso, ma sempre al sistema delle regole nella sua capacità di evolvere attraverso la spinta del caso e alla luce dei principi. Parimenti, essi devono collaborare e coordinarsi nella disciplina dei rapporti patrimoniali, che orientano i suddetti parametri attraverso precisi obiettivi economico-politici, che aggiungono al distinguo eguale/diseguale un’ulteriore dose di contingenza e di “artificiosità”. «Ogni teoria normativa di giustizia sociale che in epoca recente abbia ricevuto sostegno e favore», scrive Amartya Sen nel 2010, «tend[e] ad esigere l’uguaglianza di “qualcosa”, qualcosa che quella teoria considera particolarmente decisivo»[3].
La complessità di tale corale sforzo ricostruttivo rinviene nel diritto civile un punto di osservazione esemplare: per il suo aprire lo scenario su rapporti sia personali sia patrimoniali; per il suo coinvolgere non soltanto la legge, ma anche la «legge creata dai privati» (come già segnalava Pietro Rescigno nel 1979[4]); per la varietà di diramazioni contenutistiche che chiamano in causa tutti i protagonisti istituzionali dell’ordinamento giuridico.
2. Il cammino del diritto di famiglia verso la parità
Se l’immagine generale del diritto civile consegnata dalle codificazioni ottocentesche e del primo Novecento, compreso il codice italiano del 1942, è quella di un diritto fra pari, il diritto di famiglia si distaccava nettamente da tale narrazione, poiché appariva un diritto delle differenze che ben presto si sono palesate quali discriminazioni: tra moglie e marito, tra coniugi e conviventi, tra figli legittimi, naturali e incestuosi. L’impulso a ravvisare in tali differenziazioni mere violazioni dell’art. 3, comma 1, seconda parte, Cost., è venuto dapprima dalla Corte costituzionale, che sin dagli anni sessanta ha iniziato a dare incessante impulso al legislatore; questi, a sua volta, è intervenuto con storiche riforme – da quella sul diritto di famiglia (legge n. 151/1975) a quella sulla filiazione (legge n. 219/2012) –, ma resta, tuttavia, ancora silente rispetto al più recente invito della Corte a fornire una soluzione definitiva all’irrisolta questione del cognome, che i giudici delle leggi hanno potuto solo migliorare (con la sentenza n. 286/2016). Di seguito, è stata la Corte di Strasburgo a colorare con i tratti della discriminazione riferita all’orientamento sessuale la mancanza di tutela per le unioni tra partner del medesimo sesso, sollecitando in tal modo l’intervento del legislatore nazionale che, con la legge n. 76/2016, ha previsto un esteso rinvio alla disciplina del matrimonio e una garanzia di parità di trattamento fra i partner. Peraltro, nel nostro sistema non si è ancora pervenuti a un’equiparazione totale, quale si è avuta in Germania con la riforma “Ehe für alle” del 2017, che ha dato accesso al matrimonio a persone di sesso diverso o uguale (§ 1353 BGB): una riforma che, tuttavia, è giunta solo dopo che la Corte costituzionale (BverfG, 19 febbraio 2013, n. 3247/09) aveva indirettamente già risolto in senso affermativo il principale nodo critico, costituito dall’accesso all’adozione per la coppia omosessuale[5]. Ed è proprio tale problematica a costituire un banco di prova sia per la metodologia da seguire sia per il dialogo istituzionale.
Certamente erronea, a livello metodologico, è stata la strategia accolta dal nostro legislatore, che sembra aver affidato all’irragionevole diversità di disciplina dell’obbligo di fedeltà il compito di costruire in modo artificioso una presunta ragionevolezza del negato accesso all’adozione. Ma altrettanto non convince la proposta di mimare il ragionamento tedesco secondo cui, posto che l’incapacità procreativa non può costituire un elemento identificativo del matrimonio tale da giustificare una diversità di trattamento che non si connoti come discriminatoria, ne consegue l’apertura del matrimonio alle persone dello stesso sesso. Se è vero, infatti, che il matrimonio in sé non implica la genitorialità, non si può però trascurare che la sua disciplina la consente, dando accesso all’adozione da parte della coppia. Il tema dell’adozione non può, dunque, affidarsi né a una differenziazione artificiosa, che dissimula pregiudizi ideologici, né al mero postulato dell’identità, che non si confronta con il complesso degli interessi coinvolti. Dove, pertanto, emerge un interesse del minore a “veder consolidata una relazione affettiva già instaurata”, esso deve ritenersi certamente prevalente su ogni altra ragione e, trovando tale esigenza un punto di riferimento nell’art. 44, punti 1, 3 e 4 della legge n. 184/1983, è la stessa giurisprudenza ordinaria ad aver potuto consentire l’adozione nei casi particolari a favore del partner dello stesso sesso o anche a favore del single (vds., da ultimo, Cass., 26 giugno 2019, n. 17100). Dove, invece, viene in gioco l’adozione legittimante che incide sullo stato giuridico del soggetto e postula una complessità di requisiti di accesso, la valutazione da svolgere è quella di verificare se il best interest of the child debba postulare requisiti ancora plasmati sul modello della genitorialità biologica o debba guardare – anche tenendo conto della parità di trattamento tra diversi modelli familiari – a un paradigma solidaristico con maglie in astratto più allargate e magari in concreto più rigorose.
Il metodo da applicare resta, dunque, quello di farsi carico, nel dialogo istituzionale e nel rispetto delle relative competenze, dell’individuazione del gioco degli interessi coinvolti e dell’onere e della fatica di un loro cauto e ragionevole bilanciamento.
3. Dall’eguaglianza formale al divieto di discriminazione e all’eguaglianza sostanziale nel contratto
Se nel diritto di famiglia si è assistito a una evoluzione dalla diversità alla parità, frutto però di un complesso bilanciamento di interessi, nella disciplina dell’autonomia contrattuale, che governa la circolazione della ricchezza, il cambiamento appare rovesciato, ma parimenti attento alla complessità degli interessi in gioco. Il contratto che, nella sua moderna configurazione concettuale, presuppone il coordinamento con il principio di eguaglianza formale, rinviene, nell’esclusività di una simile corrispondenza, solo le antiche vestigia di una tramontata concezione liberista, che deve invece misurarsi nel presente con nuove ideologie e con esigenze ulteriori rispetto alla mera costruzione concettuale dell’accordo.
All’eguaglianza formale funzionale alla pura definizione dell’accordo subentrano, da un lato, il problema del rapporto fra il divieto di discriminazione e l’accesso al contratto e, da un altro lato, la questione della relazione fra l’eguaglianza sostanziale e il controllo sul contenuto del contratto, funzionale alla possibilità di orientare gli effetti redistributivi dell’autonomia contrattuale. Le ideologie del presente pongono cioè come problema giuridico quelle che, per i sociologi e filosofi degli albori del XX secolo – primo fra tutti Max Weber –, erano soltanto constatazioni di fatto: che cioè i contratti, pur «formalmente (…) liberi a tutti, di fatto non sono accessibili a molti» e che l’accordo è basato su una «parità che di fatto molto spesso non c’è»[6].
Il primo profilo, messo in luce dalla legislazione europea come problema di accesso al mercato e poi riletto in chiave personalistica, anche nel contesto della rinnovata identità assiologica dell’Unione, interroga l’interprete sulla possibilità che la scelta dei contraenti sia guidata dal divieto di discriminazione. La difficoltà e la delicatezza del tema risiedono nell’esigenza di rinvenire un punto di equilibrio fra la necessaria lotta a comportamenti discriminatori ostativi dell’accesso al contratto e l’esigenza di non aprire la via a indagini sui motivi della scelta contrattuale, che andrebbero a inficiare quello spazio di autonomia sottratto al sindacato normativo e protetto dalla garanzia costituzionale d’istituto. Il punto di equilibrio pare, allora, ravvisarsi nella discriminazione che esca dalla pura sfera dei motivi e contamini il recesso dalle trattative o il tessuto dell’atto di autonomia, attraverso il contenuto dell’offerta al pubblico o tramite una clausola condizionale o altri impegni escludenti. E affinché la tutela non sia solo quella risarcitoria, il rimedio auspicabile è la nullità parziale necessaria delle clausole escludenti, sì da consentire, con la loro eliminazione dal contratto o con l’accettazione dell’offerta al pubblico, la protezione effettiva dell’accesso al contratto. Parimenti, quando la Costituzione vieta la discriminazione nella stessa determinazione del contenuto contrattuale, come nel caso dell’art. 37 Cost., dovrebbe ammettersi non solo la Drittwirkung immediata, ma con essa la sostituzione automatica.
La possibile combinazione, nel rapporto fra contratto e divieto di discriminazione, fra istanze proprie del personalismo, con le relative ricadute sociali, e ideologia ordo-liberista, che vede nella massima apertura del mercato uno strumento di benessere economico-sociale (l’access justice), pare potersi riproporre anche nella relazione fra eguaglianza sostanziale e contratto.
Il senso di tale rapporto, e l’elemento che deve orientare la ragionevolezza nel distinguere l’eguale dal diseguale, devono infatti rinvenirsi negli obiettivi politico-economici affidati al contratto. Questi appaiono fortemente mutati sia rispetto all’approccio liberista, che reagiva alle sole diseguaglianze capaci di alterare la pura volontà, sia rispetto all’illusione interventista degli anni settanta, che cercava di risolvere le diseguaglianze sociali imponendo un controllo sul contenuto del contratto, ma, in tal modo, attuava una redistribuzione iniqua e non proporzionale dei costi sociali gravanti sullo Stato e alterava a tal punto il contratto da vederlo respingere dal medesimo mercato.
Nel presente, viceversa, a latere di strategie che continuano a tutelare debolezze sociali, come il lavoratore subordinato o il conduttore di immobili, ma solo attraverso la tecnica del contratto normativo, si delinea, quale diretto portato dell’ideologia ordo-liberista, la tecnica di dare rilevanza a disparità di potere contrattuale in vista di una giustizia del contratto, capace, a livello di sistema, di perseguire obiettivi regolatori generali. Ebbene, se l’obiettivo generale è stato inizialmente ravvisato nella sola apertura ed efficienza del mercato, l’evoluzione del dibattito lascia intravedere, quale possibile ulteriore obiettivo, quello di attuare, tramite la giustizia contrattuale, una redistribuzione capace di dare un contributo alla prevenzione di ingiustizie sociali. In particolare, se le asimmetrie plasmate sulla debolezza sul mercato tendono, in via primaria, all’obiettivo dell’access justice, non può negarsi che il risparmio di costi inutili ai consumatori e la facilitazione dell’ingresso nel mercato di piccole e medie imprese possano anche contribuire a prevenire squilibri sociali, in una maniera che di regola è generica, ma che talora diviene anche specifica, come quando la Corte di giustizia plasma il rimedio a tutela del consumatore in relazione al suo rischio di perdere l’abitazione. Al contempo, un obiettivo mirato di prevenzione di ingiustizie sociali potrebbe affidarsi a una radicale rivisitazione della rescissione: non solo cambiando e rendendo più effettivo il rimedio, ma anche mutando il modo di intendere lo stato di bisogno e lo stato di pericolo – dalla prospettiva dell’alterazione della volontà a quella della debolezza economico-sociale – ed estendendo le diseguaglianze all’incompetenza tecnologica e alla relazione di fiducia (anch’essa da associare alla condizione economico-sociale). Far risparmiare costi contrattualmente iniqui a chi incrocia già debolezze sociali o nelle stesse può più facilmente incorrere, proprio per effetto del contratto, produce un effetto preventivo mirato all’ingiustizia sociale, che non sostituisce le tutele pubblicistiche, ma certo restringe l’ambito del loro necessitato intervento.
Appare allora evidente che, nella disciplina del contratto, distinguere l’eguale dal diverso implica una valutazione sulla ragionevolezza parametrata su precisi obiettivi politico-economici, che devono plasmare il contratto senza distruggerlo. Simile valutazione non può essere affidata al solo giudice senza che la legge gli dia un orientamento su tali obiettivi politico-economici: non può il giudice rimettere in discussione la forza di legge del contratto sulla base di disparità che, da solo, percepisce come rilevanti. Parimenti, le asimmetrie giuridicamente meritevoli di tutela non possono ritenersi una volta per tutte cristallizzate dal legislatore. L’opera ricostruttiva deve proseguire incessantemente nel dialogo fra legislatore e giudice, che mai come oggi assistono a cambiamenti repentini e radicali. Da un lato, l’evoluzione del mercato sembra mettere in discussione figure tradizionali di debolezze sociali e contrattuali: attraverso i nuovi “lavoratori deboli”, che sembrano sfuggire al paradigma della subordinazione, o tramite la controversa figura del prosumer, che assomma in sé il ruolo di consumatore e di professionista. Da un altro lato, la stessa visione semplificata del mercato come frutto della mera sommatoria di contratti, tale per cui l’intervento sulla loro disciplina automaticamente è in grado di orientare il primo, sembra, se non messa in discussione, quanto meno resa più complessa dall’incerta qualificazione giuridica delle piattaforme sulle quali si svolge il nuovo mercato digitale. È, dunque, questa una delle principali sfide che la tecnologia sottopone al giudice e al legislatore nella loro tensione verso una piena attuazione del principio di eguaglianza.
4. Eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale nella responsabilità civile
Se – come si è appena evidenziato – la tecnologia complica la realtà e, di riflesso, la tensione del diritto verso il principio di eguaglianza, vi è, tuttavia, un ambito nel quale forse solo la tecnologia può venire in aiuto alla solitudine del giudice ordinario, sul quale grava tutto il peso del principio di eguaglianza nel campo della responsabilità. Si tratta del problema della liquidazione dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti della persona diversi dal danno biologico, che palesa una forte inadeguatezza proprio rispetto alle esigenze dettate dal principio in esame.
Superate – grazie all’ampliamento in via interpretativa dell’art. 2059 cc – sia l’irragionevole disparità di trattamento fra danneggiati, derivante dal ruolo dominante (se non quasi esclusivo) del danno patrimoniale, fondato sul censo, sia l’irragionevole disparità di trattamento fra danneggiati lesi nella salute e danneggiati lesi in altri diritti della persona, la sfida al principio di eguaglianza viene oggi dal difetto di coerenza nella liquidazione dei danni non patrimoniali, a parità di elementi da cui si inferiscono le conseguenze pregiudizievoli. Si tratta, in particolare, di conciliare due opposte esigenze: la pari dignità di tutti i danneggiati, che proprio il danno non patrimoniale alla persona ha inteso garantire rispetto al danno patrimoniale, e la necessità di valorizzare, nel rispetto della nozione di danno emotivo ed esistenziale del soggetto, anche la sua specificità e peculiarità. Tale ricerca di equilibrio fra eguaglianza e diversità ha trovato un’appagante soluzione nel caso del danno biologico, grazie alla possibilità di dare una stima uniforme al punto di invalidità permanente e al paradigma dell’invalidità temporanea, preservando al giudice la possibilità di un adattamento equitativo, e ciò non per una presunta distinzione fra dimensione statica e dinamica del danno biologico (che giustamente la pronuncia n. 7513 del 2018 della Cassazione contesta), ma proprio per l’esigenza di bilanciare uguaglianza e diversità. Viceversa, quel medesimo obiettivo incarna uno sforzo letteralmente immane rispetto ai danni non patrimoniali da lesione degli altri diritti della persona, per i quali manca un parametro di riferimento omogeneo. L’eguaglianza formale, allora, non può che affidarsi al confronto tra i valori assegnati ai paradigmi descrittivi da cui si inferiscono elementi indiziari dell’entità del danno: la gravità oggettiva dell’offesa specificata in relazione alla tipologia di illeciti, gli elementi che condizionano oggettivamente il suo riverbero pregiudizievole sulla vittima, l’eventuale gravità soggettiva. Sennonché, il carattere descrittivo di tali indici e la loro variabile combinazione rendono talmente complessa la comparazione con i precedenti, che solo l’intelligenza artificiale può fornire un supporto tecnologico capace di combinare parametri descrittivi e valori, sì da lasciare al giudice il solo compito di una verifica a posteriori, nonché quello di una personalizzazione del risarcimento che tenga conto delle eventuali peculiarità del caso.
5. Principio di eguaglianza e funzioni del diritto privato
Il diritto civile, dall’emanazione del codice a oggi, ha conosciuto un mutamento profondo della sua identità per effetto della progressiva, acquisita consapevolezza della complessità del dilemma eguale/diseguale e della latitudine dell’art. 3 Costituzione, che traduce in linguaggio giuridico il mistero stesso dell’uomo, per cui tutti rivestiamo una pari dignità, ma, al contempo, tutti incarniamo un’assoluta specificità e siamo protagonisti di differenti destini.
Confrontarsi con tale latitudine del principio necessita – come si è visto – di un metodo complesso affidato sia al legislatore sia alle corti e capace: di ponderare tutti gli interessi di volta in volta coinvolti; di bilanciarli considerando il caso in una prospettiva di coerenza sistematica e di equilibri istituzionali; di coordinarli con la variabilità delle ideologie politico-economiche; infine, di procedere senza timore di quel misto di empiria e di coerenza logica che incarna la miseria e la nobiltà del diritto e che non disdegna, talora, finanche di avvalersi di un certo sperimentalismo tecnologico.
Solo la complessità di tale metodo può misurarsi con la ricchezza assiologica dell’art. 3 e solo quest’ultima può affidare al diritto civile un rinnovato compito, che è quello di promuovere il personalismo e di dare un suo peculiare contributo a una maggiore giustizia del sistema economico-sociale.
[1] M. Ainis, La piccola eguaglianza, Einaudi, Torino, 2015, p. 43.
[2] A. Pizzorusso, Che cos’è l’eguaglianza, Editori Riuniti, Roma, 1983, pp. 15 ss.
[3] A. Sen, L’idea di giustizia, Mondadori, Milano, 2009, p. 299.
[4] P. Rescigno, Diritti civili e diritto privato, in Aa. Vv., Attualità e attuazione della Costituzione, Laterza, Roma-Bari, 1979, pp. 234-235.
[5] Cfr. F. Azzarri, “Ehe für alle”: ragioni e tecnica della legge tedesca sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, in Nuove leggi civili commentate, n. 3/2018, pp. 795 ss.
[6] U. Breccia, Che cosa è “giusto” nella prospettiva del diritto privato?, in E. Ripepe (a cura di), Interrogativi sul diritto “giusto”, Edizioni Plus, Pisa, 2001, p. 99.