Magistratura democratica

Dal “diritto mite” alla legge? Anche no

di Giuseppe Vettori

Legge e giurisdizione hanno un compito primario: far coincidere la forma delle proclamazioni con l’attuazione dei diritti e dei doveri nel nostro ordine costituzionale. La legge deve garantire l’effettività delle regole e l’interprete ha un ruolo concorrente: deve individuare gli interessi giuridicamente rilevanti, in assenza di una norma; integrare la lettera del testo di una disposizione esistente, nei limiti della sua ratio; ricercare il rimedio più adeguato in un sistema di fonti ove coesistono regole e principi.

1. Ri-codificazione, principi e clausole generali / 2. Fattispecie, principi e clausole generali / 3. Legge e giudici nell’attuazione dei diritti fondamentali: il caso del suicidio assistito / 4. Dal “diritto mite” alla legge?

 

1. Ri-codificazione, principi e clausole generali

Il rapporto fra fattispecie, principi e clausole generali è oggi centrale nella dinamica giuridica e raccolgo con piacere l’invito alla riflessione su alcuni aspetti: il ruolo della clausola di buona fede nel processo di ri-codificazione; il problema della fattispecie e il ruolo dei principi; l’auspicio, che non condivido, di un generico ritorno alla legge. Vediamoli da vicino, iniziando dal primo.

La riforma francese, entrata in vigore nel 2018, ha modificato la disciplina del contratto nella fase di formazione, nelle forme di invalidità, con l’abolizione della causa e l’introduzione di nuovi e più estesi vizi del consenso e con nuove forme di protezione in ipotesi di dipendenza; ha precisato, entro certi limiti, la inefficacia/invalidità delle clausole predisposte da un solo contraente, oltre la tutela del solo consumatore; ha predisposto una coraggiosa norma volta a disciplinare le sopravvenienze, ampliando in modo significativo il ruolo del giudice che può, in mancanza dell’accordo delle parti, modificare il contenuto contrattuale. Dopo un ampio dibattito, nell’ultima fase dei lavori non si è introdotta nel codice una invalidità per violazione dei diritti fondamentali.

Il progetto italiano segue molte di tali indicazioni con alcune carenze e un ampliamento. Non introduce una forma di nullità delle clausole predisposte a carico di chi non è consumatore, lasciando inalterata la disciplina degli articoli 1341 e 1342 cc. Norme che, anticipatorie nel 1942, sono oggi assolutamente ineffettive. Il progetto, invece, prevede una norma sulla nullità del contratto per violazione di diritti fondamentali.

Non credo che tutto ciò si possa descrivere come un ritorno alla legge né in Francia né in Italia. Credo invece che in entrambi i Paesi si sia preso in esame, con diversa profondità, il ruolo della legge e del giudice, oggi di fronte a una dinamica giuridica che esige per tutti i protagonisti un cambio di mentalità. Provo a spiegare il perché.

In Francia la buona fede si affianca ai nuovi istituti per ridefinire l’impianto ideale del Code Napoléon: il «contractuelle dit juste» è superato dalla finalità della riforma, espressa chiaramente nella Relazione, ove «l’objectif de justice contrattuelle»[1] si realizza con una regolazione molto articolata e un aumento dei poteri del giudice che ha suscitato la reazione critica di molti studiosi, stupiti per quello che è definito da alcuni un vero eccesso del legislatore – temperato, per le sopravvenienze, dalla possibilità di deroga delle parti che non intacca, però, la disciplina della buona fede, qualificata come normativa di ordine pubblico. Il Governo italiano si propone un programma analogo per una riforma di una disciplina che è rimasta, per molti profili, isolata in Europa. C’è solo da sperare che lo studio e la riflessione avviata si distendano nel modo più ampio e che il legislatore intervenga con una ri-codificazione opportuna di molte parti del nostro codice civile.

Certo è che il diritto applicato in base a regole e principi concorre sempre più con la funzione legislativa, non fosse altro perché i diritti e le tutele devono essere ricercate, in via interpretativa, in un sistema plurale di fonti dove sono centrali la Costituzione e le carte europee e sovranazionali[2]. Giudici e legge, insomma, acquistano una funzione sotto certi profili concorrente nel dare attuazione a un sistema complesso, frutto di un progetto politico e una forma democratica che emerge dalle costituzioni del Novecento e dalla loro trasformazione[3].

Certo, i tratti del presente sono chiari, ma dividono nettamente.

Da una parte, si sottolinea la crisi delle regole e l’avvento di un diritto scarsamente prevedibile[4], che può intaccare la razionalità giuridica e i fondamenti dello Stato liberale di diritto. Queste preoccupazioni trovano eco in una parte della cultura giuridica europea secondo cui la giustizia, la morale, l’efficienza non possono essere determinate in anticipo da analisi teoriche, ma dovranno imporsi all’interno di un dibattito democratico senza poter influire sulla disciplina positiva[5].

Queste lucide analisi muovono da una premessa. Affermano la priorità della legge come solo e unico strumento per assicurare un controllo democratico e manifestano una fiducia assoluta nel principio di legalità espresso da un modello di Stato e da un sistema delle fonti che mostra oggi, come si è accennato, elementi di profonda trasformazione nei singoli ordinamenti e in Europa[6]. Non solo. L’affermarsi dei principi è criticato per il suo effetto distruttivo delle regole funzionali all’esistenza del capitalismo occidentale, ma tale considerazione non è univoca e convincente[7].

La dimensione multilivello dei fatti che producono regole ha un preciso significato perché «l’articolazione nei livelli di produzione normativa non è governata dal principio gerarchico, e poi da un criterio “unidirezionale” di separazione e di competenza, ma dal concorso e dall’interazione reciproca»[8]. Il sistema è oggi una rete[9] ove si è accresciuto il ruolo dei principi «quali strumenti di concreta ed effettiva armonizzazione che appaiono capaci di assolvere (…) una pluralità di funzioni»: interpretativa delle norme esistenti, suppletiva e integrativa di regole o tutele, correttiva di processi ermeneutici formalisti[10]. Tutto ciò in una fase storica ove il diritto giurisprudenziale ha un fondamento in un ordine giuridico ove coesistono una pluralità di fonti e un ruolo nomogenetico dei principi «correlati allo stesso sviluppo storico del capitalismo e non ad una sua negazione»[11].

Una riprova si ha sul ruolo dei codici negli ultimi decenni. Dopo la stagione delle codificazioni dell’Ottocento, la seconda metà del nuovo secolo ha posto in luce un fenomeno chiaro. La legge generale e astratta affidata a un testo che racchiude una volontà ordinatrice emanata da un potere nazionale, non è più in grado di affrontare i problemi assoluti che riguardano la convivenza civile.

Prima il costituzionalismo e poi il diritto europeo pongono in luce questo aspetto, ma anche sul ruolo dei codici, essenziali oggi come ieri, appare una consapevolezza nuova.
Dal 1948 al 1991 sono più di 50 le nuove codificazioni ed è iniziata da tempo la stagione delle ri-codificazioni che interessa gran parte dei Paesi europei. In tale contesto, osserva Rodolfo Sacco con la consueta lucidità: «Il codice è uno strumento tutt’ora valido. Non se ne fa a meno. Ma non gli si domanda di avere unità. Non ci si aspetta che non abbia lacune. Non gli si promette che avrà una posizione di ben visibile centralità. Non ci si cura di sapere per quanto tempo sarà immutabile»[12].

È in questo ordine che va considerato il tema del diritto privato e della sua democraticità. Nell’arco di un ventennio, in Italia si sono formulate una pluralità di visioni. Si nega in radice il problema della giustizia nel diritto dei privati se non espresso da un intervento specifico del legislatore[13]. Si tende a costruire un concetto di asimmetria di potere delle parti[14] o a utilizzare ed estendere la disciplina del consumo potenziata dal ruolo della Corte di giustizia[15]. Si dà rilievo a interessi materiali trascurati dalle regole[16]. Si valorizza il piano mobile dei rimedi[17], delle clausole generali, della causa e della stessa idea di giustizia[18]. Una sintesi brillante, preso atto dell’assenza di una riforma italiana del codice civile, evoca «uno spirito corale» capace di portare a sistema i frammenti delineati dal legislatore nazionale, senza assegnare al diritto privato il compito di assicurare una giustizia distributiva o sociale[19].

D’altra parte, è certo il punto di svolta che si è avuto per il contratto nella riforma francese del code civil, ma si osserva lucidamente che quel testo non esaurisce i problemi del giusto equilibrio nei rapporti fra privati e si pone, anzi, la necessità di un nuovo impegno della scienza giuridica nel fissare nuovi obiettivi per il diritto privato europeo, che dovrebbe prestare attenzione ai processi di produzione e all’accesso ai beni e ai servizi essenziali per la persona, assieme  alla qualità degli acquisti mediante il contratto[20]. Non solo.

Si osserva esattamente che il consenso, il contratto e i diritti non riescono a garantire «libertà e sviluppo della personalità di tutti e di ciascuno» se non sorretti da doveri e divieti generali per frenare il potere, pubblico e privato, di chi potrebbe eliminare di fatto quelle prerogative essenziali[21].

Ciò impone due visioni su tutte. Da un lato, la necessità di porre in luce e valorizzare il nucleo essenziale dello Stato di diritto europeo fondato sulla legge, la giurisprudenza e le autorità amministrative e giurisdizionali indipendenti soggette a controllo giurisdizionale. Dall’altro, quella di evitare concettualizzazioni non appaganti per costruire nell’Unione un diritto privato fondato su un diritto comune e una teoria ermeneutica che superi le angustie di una interpretazione analitica del diritto e sappia fissare i criteri di un uso corretto dei principi. Si tratta di comprendere come attraverso una ricognizione del passato.

 

2. Fattispecie, principi e clausole generali

È noto che una parte consistente e autorevole della dottrina italiana, più attenta alla dogmatica positivista, considera le clausole generali e la buona fede in particolare come un veicolo per recepire il contenuto dei principi costituzionali, che avrebbero così un’efficacia indiretta nei rapporti privati. Ciò accade sicuramente, ma la visione è sicuramente riduttiva.

Anzitutto, il ruolo della buona fede e dei principi non si ha solo in assenza, o per una carenza, del legislatore.

Basta ricordare che, di recente, la Corte di cassazione utilizza la buona fede e il principio di effettività per delimitare i poteri e le facoltà del soggetto protetto da una nullità speciale e per paralizzare l’uso delle restituzioni in presenza di un’azione di impugnativa del contratto quadro di investimento.

La sentenza delle Sezioni unite n. 28314 del 2019 alza lo sguardo su tutte le nullità di protezione per esaminare finalità e limiti di una disciplina non del tutto omogenea, anche se espressione di un genus ispirato a interessi e valori fondamentali, quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’eguaglianza, almeno formale, dei contraenti (art. 3 Cost.)[22]. Ciò consente una prima operazione. L’art. 23 della legge del 1998 dispone la legittimazione esclusiva di una parte ad agire in giudizio, tratto unificante delle nullità di protezione, ma non prevede espressamente il rilievo d’ufficio. L’appartenenza a un unico genus consente un’interpretazione coerente ai comuni principi del diritto eurocomunitario che assicura, anche in tal caso, l’intervento officioso del giudice a vantaggio esclusivo del cliente-investitore.

La seconda argomentazione è più impegnativa e rilevante, perché attiene alla ratio e al fondamento delle nullità di protezione muovendo dall’ipotesi di un contratto di investimento. Si pone in luce la funzione del contratto quadro, che deve essere redatto per iscritto con obblighi specifici per l’intermediario. Ad esso seguono gli investimenti attraverso l’esecuzione degli ordini di acquisto. La forma scritta è imposta solo per il primo perché in esso si «cristallizzano gli obblighi dell’intermediario che il legislatore ha inteso rendere trasparenti» e tale obbligo (sez. unite, n. 898/2018) costituisce il primo strumento di superamento dello squilibrio contrattuale da calibrare. Si richiama così una decisione, a cui si vuol dare continuità, che reputa sufficiente la sola firma del cliente o investitore perché l’atto è destinato alla loro protezione effettiva, che non legittima un esercizio abusivo di tale preferenza.

Ciò consente di anticipare la linea di sviluppo dell’argomentazione.

Il principio di buona fede opera anche nella valutazione dell’esercizio di diritti in sede giurisdizionale, come strumento idoneo a ricomporre uno squilibrio asimmetrico e conoscitivo a danno dei soggetti svantaggiati. I quali hanno, a loro volta, un obbligo di lealtà espresso dal valore trasversale della clausola generale.

Da qui una prima conclusione. La questione della nullità selettiva di protezione deve essere affrontata sulla base del criterio ordinante delle buona fede, al fine di esaminare se «in sede giurisdizionale la nullità possa produrre effetti distorsivi ed estranei alla ratio riequilibratrice in funzione della quale lo strumento di tutela è stato introdotto»[23]. L’indagine ulteriore richiede di esaminare le varie opinioni espresse sul punto e, di fronte a due diversi orientamenti, la sentenza delinea una terza via.

La buona fede, appunto, come strumento più adeguato per affrontare l’uso distorsivo delle nullità al fine «di ricostruire l’equilibrio effettivo della posizione delle parti, impedendo effetti di azioni esercitate in modo arbitrario con un abuso dello strumento di protezione». Resta da precisare come, e le opinioni sono ancora diverse.

Da un lato si sottolinea, di per sé, il carattere opportunistico della selezione e si esclude la sua legittimità, vanificando le finalità della legge. Dall’altro, si propone l’utilizzo dell’exceptio doli al fine di paralizzare un possibile effetto distorsivo (Cass., nn. 12388, 12389, 12390/2017) sulla base di una “intenzionalità di arrecare danno”, tratta anche da alcune norme di settore (artt. 1993, comma 2, e 2384, comma 2).

La soluzione proposta dalle sezioni unite segue un diverso orientamento.

Il problema non può essere risolto sulla base dell’utilizzo di un criterio che richiami l’animus o l’intento del contraente. Si deve utilizzare la buona fede per accertare «la oggettiva determinazione di un ingiustificato e sproporzionato sacrificio» di una sola parte, con un’ulteriore precisazione. Non si può richiamare la figura dell’abuso di diritto, che vieta di conseguire risultati diversi e ulteriori rispetto a quelli per i quali i poteri delle parti sono stati attribuiti (Cass., nn. 15885/2013 e 10508/2018) e di perseguire un fine non coerente con la funzione della norma che ha attribuito il diritto di agire (n. 29792/2017). Occorre una valutazione in concreto del rapporto, per esaminare vantaggi e svantaggi che l’investitore ha conseguito dalla sua esecuzione.

Solo in tal modo è possibile “ristabilire una equivalenza” con una “verifica di effettività” che superi un riferimento alla condotta dolosa o predeterminata e sia capace, invece, di modulare correttamente “il riequilibrio effettivo” del contenuto negoziale tenendo conto degli investimenti eseguiti e ponendo «in comparazione quelli oggetto dell’azione di nullità con quelli che ne sono esclusi», al fine di «verificare se permanga un pregiudizio».

Se questa negatività permane, l’azione sarà stata esercitata correttamente. Se invece gli ordini hanno prodotto un risultato complessivamente positivo e superiore al danno vantato con la domanda selettiva, l’intermediario può reagire. E paralizzare, nei limiti delle allegazioni, «gli effetti della dichiarazione di nullità degli ordini selezionati» tramite «un’eccezione di buona fede». Insomma, se i rendimenti degli investimenti, non colpiti da nullità, superano il petitum, l’effetto impeditivo è integrale; se invece residua un danno per l’investitore, la riduzione opera nei limiti del vantaggio ingiustificato.

Le conclusioni sono ancora più esplicite:

a) il regime giuridico delle nullità di protezione opera sul piano processuale e sostanziale a favore del solo soggetto protetto, in deroga agli artt. 1421 e 1422;

b) l’altra parte non può avvalersi degli effetti diretti di tale nullità e non è legittimata ad agire in via riconvenzionale o autonoma ai sensi degli artt. 1422 e 2033 cc;

c) i principi di solidarietà e di eguaglianza sostanziale (artt. 2, 3, 41 e 47 Cost.) alla base delle nullità di protezione «operano in funzione di un riequilibrio effettivo endocontrattuale» quando la nullità selettiva determini un sacrificio economico sproporzionato nell’altra parte, la quale può paralizzare gli effetti restitutori dell’azione;

d) tale reazione non è configurabile come eccezione in senso stretto perché non incide sui fatti costitutivi dell’azione di nullità (dalla quale scaturiscono gli effetti restitutori), ma sulle modalità di esercizio dei poteri delle parti.

Dunque l’evoluzione del ruolo della buona fede è significativa sotto vari profili.

Se è vero che il risarcimento può compensare una perdita con un intervento chirurgico mirato, ciò non consente in assoluto un risultato efficiente nel binomio nullità-restituzioni, che resta rigido senza un correttivo.

Non solo. Si ha una riprova che la distinzione fra regole di validità e regole di responsabilità non è uno schema rigido, ma necessariamente flessibile nell’adattarsi al tempo e alla esigenze del controllo sull’atto di autonomia, e a una più efficiente attuazione delle regole di protezione. Ciò che è accaduto nel diritto del consumo per gli obblighi informativi può lambire la disciplina dei contratti finanziari, aprendo a una possibile eliminazione degli effetti di cessioni non adeguate al profilo sostanziale dell’investitore[24].

Insomma, nel declinare l’incidenza del principio di effettività le sentenze e le regole si rincorrono.

Non si tratta di un procedere caso per caso, senza un quadro di riferimento e di orientamento. Non si devono leggere le pronunzie della Cassazione come un procedere privo di prevedibilità e di certezza, per una ragione evidentissima. La buona fede è utilizzata come strumento di verifica di effettività e di riequilibrio, utilizzando proprio il suo contenuto di regola oggettiva che, oltre il rilievo della frode e del dolo, consente un’analisi del contenuto del contratto che serva a delimitare in concreto le restituzioni conseguenti a una nullità di protezione.

In tal modo si ottiene un risultato importante e innovativo.

La violazione della clausola non determina solo un risarcimento del danno e non comporta solo la possibile inesigibilità di una clausola contrattuale che sia frutto di un comportamento di mala fede di uno dei due contraenti.

Essa può modellare i rimedi restitutori, aggirando l automatica sequenza, prevista per la nullità dall’ art. 1422 cc. L’eccezione di mala fede consente di paralizzare contegni abusivi anche del contraente protetto da una regola speciale e mostra le sue potenzialità come strumento adatto a intervenire per il riequilibrio di situazioni nuove che sfuggono a una rigidità normativa ed esigono un metodo diverso.

Una flessibilità cognitiva capace di saper affrontare situazioni difficili, non caso per caso né contra legem, ma cercando di comprendere, in base a un ordine dato, situazioni complesse per ricercare, appunto, il rimedio più adeguato in un’attività ermeneutica che si verifica sul caso e cresce in risultati positivi e rigorosi a tutela dell’equilibrio sostanziale e dell’interesse generale a realizzarlo, anche in casi di protezione del più debole dei contraenti.

 

3. Legge e giudici nell’attuazione dei diritti fondamentali: il caso del suicidio assistito

La Corte, con due provvedimenti, ha affrontato di recente la costituzionalità dell’art. 580 cp sull’aiuto al suicidio. Nell’ordinanza n. 2017 del 2018 non si accoglie la posizione radicale della Corte di assise di Milano e si svolge un diverso ragionamento. La norma penale protegge il soggetto contro azioni in suo danno, creando attorno a lui una regolazione che vieta la cooperazione a una scelta di interruzione della vita, fonte di possibili abusi. Sicché la legge penale non è in contrasto con la Costituzione, ma si fonda su un interesse a tutelare persone deboli esposte a interferenze indebite su una decisione gravissima.

Purtuttavia, osserva la Corte, al di là di questa normativa generale e astratta, occorre tener conto del caso specifico sottoposto ad esame: una persona capace, tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che trova intollerabili. In tali casi, si ricorda, la decisione di morire è già legittimata dalla legge (n. 219/2017) e da sentenze della giurisdizione di merito (i casi Welby ed Englaro) e della Corte costituzionale (in particolare, n. 438/2008) sul consenso informato. La legge non consente però al medico, se richiesto, di usare trattamenti diretti a determinare la morte. Così si costringe il malato a subire un processo più lento rispetto alla sedazione palliativa, non corrispondente alla propria visione della dignità di morire e più carico di sofferenze rispetto a una morte rapida.

L’iter argomentativo è il seguente.

Il medico può incidere, in base alla legge, sulla fine della vita con contegni attivi come il distacco da macchinari o la interruzione dei trattamenti vitali, ma l’aiuto al suicidio ha una piena rilevanza penale e ciò urta contro i principi di ragionevolezza ed eguaglianza.

La norma non può essere eliminata del tutto, perché lascerebbe privo di disciplina un ambito di “altissima sensibilità etico-sociale”.

Da qui la necessità di un delicato bilanciamento, sul quale il legislatore non è intervenuto. Di fronte a tale inerzia, la Corte sceglie una tecnica diversa dal passato: per evitare il protrarsi di un vulnus a diritti fondamentali alla persona, rinvia la pronunzia a un’udienza prefissata, in attesa di un intervento normativo. Trascorso il tempo stabilito, senza alcuna attività del Parlamento, trae dai principi costituzionali una regola con elementi rigorosamente individuati:

a) reputa necessario un controllo preventivo della effettiva esistenza delle condizioni che rendono lecita la condotta di aiuto al suicidio;

b) affida tale controllo a una procedura medicalizzata che accerti capacità, consenso informato e facoltà di revoca del malato;

c) fa salva l’obiezione di coscienza del medico e assume come priorità l’offerta al paziente di una cura palliativa;

d) impone di eseguire questa attività in strutture pubbliche, previo l’intervento del comitato etico competente.

Le reazioni della dottrina (e non solo) oscillano fra una critica forte all’invasione di campo della Corte e una più articolata comprensione di ciò che si è deciso e di come si è deciso.
Sono questi i temi più discussi: il ruolo “inventivo” della Corte, i pregi e i limiti del nuovo equilibrio sulla “dignità del morire”, il ruolo della Servizio sanitario nazionale nella fase terminale della vita, il mutamento di mentalità e il metodo nell’attuazione dei diritti fondamentali. Solo qualche osservazione.

Si lamenta l’abbandono di un confine certo sulla divisione dei poteri e si critica la legittimità per la Corte di scrivere una disciplina tratta non direttamente (a rime obbligate) dalla Costituzione, ma da “coordinate di sistema”[25]. Si critica lo sconfinamento della Corte e l’utilizzo di una nozione soggettiva di “dignità del morire”, su cui la Carta non dice nulla e non consentirebbe, quindi, di fondare un diritto soggettivo ad essere aiutati a morire, diritto di competenza esclusiva del legislatore[26]. Si esclude un dovere di intervento della struttura sanitaria.

Inizio il mio ragionamento proprio da quest’ultima posizione.

Alle persone che si trovano nelle condizioni individuate dalla Corte è riconosciuto un diritto all’assistenza medica nelle strutture del Ssn. Tale diritto è ricavato da principi costituzionali e non sarebbe effettivo se non fosse tutelato e azionabile dalla pubblica amministrazione, che trae poteri e doveri direttamente dalle norme costituzionali. Il medico non è obbligato, ma proprio la previsione di una sua obiezione di coscienza conferma il dovere della struttura. Perché si può «parlare di obbligo solo ove vi sia doverosità che si può rifiutare»[27].

Sul metodo seguito nell’attuazione dei diritti e doveri costituzionali, nel caso in esame, è opportuno ribadire quanto segue.

La sentenza (n. 242/2019) non è che l’esito di una dinamica giuridica fondata sulle acquisizioni maturate in un ordine costituzionale ove le regole vengono scritte da soggetti diversi: il legislatore, la giurisprudenza, le autorità indipendenti, la scienza giuridica.

Insomma, l’effettività dei diritti e dei doveri nel momento di fine della vita è stata assicurata, in determinati casi, dai principi costituzionali in assenza di un intervento del Parlamento. E ciò ha naturalmente luci e ombre.

I sanitari e i giudici dovranno interpretare e attuare la “regola” posta dalla Corte costituzionale e non mancano le incertezze. Basti pensare alla vaga nozione di “sostegno vitale” e non solo. Di fronte alla richiesta di por fine alla vita (e non di interrompere i trattamenti, già fissata dalla legge), il medico sarà troppo solo e dovrà spesso fronteggiare un’indagine delle procure. Il giudice si troverà stretto fra una legge incompleta e la pronuncia della Corte che isola un caso. La necessità di un nuovo intervento legislativo è evidente. Ma non può essere tollerato il vuoto e le corti continueranno il loro lavoro ermeneutico per garantire diritti e doveri fondamentali. C’è di più.

Libertà e dignità sono valori su cui le opinioni divergono, ma in una società plurale (e non solo pluralistica) non è ipotizzabile una libertà senza etica e un’etica senza libertà perché i valori morali, nella società di oggi, “si propongono e non si impongono”. Ciò che occorre è la ricerca di soluzioni condivise dalla politica e dal diritto, e dunque dalla legge, dai giudici e dalla pubblica amministrazione. Alla ricerca di un modo di gestire la fase finale della vita con riguardo all’evoluzione della scienza, ma rifiutando l’equazione fra ciò che è possibile e ciò che è consentito. Occorre evitare scarti e parzialità, significati assoluti o soggettivi della dignità, del vivere e del morire, tramite compromessi ragionevoli e convincenti[28].

In questo processo nessuno può rivendicare una primazia.

Tutti, invece, sono alla ricerca di una verità parziale e della soluzione più giusta in un sistema complesso e plurale. Ricerca che deve, sempre più spesso, abbandonare visioni generali e astratte separando le belle idee dai fatti umili. Perché la verità si manifesta dal basso, fissando i fatti vivi, con una flessibilità cognitiva che non è assenza di certezza, ma attitudine a comprendere e affrontare situazioni difficili e complesse.

 

4. Dal “diritto mite” alla legge?

Non credo proprio che il giurista contemporaneo debba oggi porsi il problema di un ritorno alla priorità della legge.

Ciò che è accaduto a cavallo del secolo e del millennio sta manifestando adesso i suoi effetti più chiari. Il legislatore dedito a costruire fattispecie capaci di leggere il futuro e a disegnare formulazioni astratte ha perduto il suo scettro, e non lo recupererà per una serie di motivi evidenti.

Le clausole generali hanno un ruolo ampio e consolidato e, di recente, l’utilizzo innovativo della meritevolezza ne è una prova evidente. L’efficacia diretta di alcuni principi costituzionali ha prodotto risultati importanti sui diritti politici, sui diritti fondamentali dalla nascita alla morte, sui diritti patrimoniali e sui diritti sociali. Tutti da rendere effettivi attraverso il concorso della legge, dei giudici e della pubblica amministrazione[29].

Il vero problema di oggi non è auspicare il ritorno della legge, ma far coincidere la forma delle proclamazioni solenni dei diritti e dei doveri con la sostanza della loro effettiva tutela.

Certo, nessuno può ragionevolmente sottovalutare il ruolo della legge nell’assicurare eguaglianza, certezza e prevedibilità[30], né si può pensare che la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono il pieno sviluppo della personalità sia possibile senza un ruolo forte del Parlamento.

Solo è fondato dubitare che esista una necessaria preminenza della politica sul diritto in un tempo di «sfaldamento nelle coscienze e nei comportamenti», di dominio «della finanza globalizzata», di «involuzioni culturali» ove riaffiorano disuguaglianze, discriminazioni e abominevoli forme di razzismo[31]. Se non altro, perché la politica ha un’autonomia spiccata e sue irrinunciabili prerogative: la ricerca del consenso su obiettivi fondamentali del vivere e del morire, la necessità di un compromesso alto, il cinismo della scelta, la necessità di un Principe – sia esso un leader, un partito o altro. Mentre il diritto si colloca fra politica ed etica, in una posizione di piena autonomia: si avvicina assai più alla ricerca della misura e della giustizia che accompagna da millenni il pensiero umano[32].

Questa distinzione è necessaria ed evidente ancor più oggi, per una serie di motivi.

In un’epoca di attacco ai presupposti dello Stato costituzionale, di espansione del sovranismo e di forza illimitata della sovranità popolare manifestata oramai, in tutto il mondo, da una minoranza inferiore a un quarto della popolazione[33], è difficile esaltare il ruolo della legge come unica fonte di giuridicità e svalutare i poteri di controllo a cui la Costituzione garantisce la piena indipendenza (art. 101 Cost.) e libertà (art. 33 Cost.).

In un ordinamento democratico debbono convivere organismi elettivi e organismi non elettivi basati sulla competenza[34]. Quest’ultima dimensione esprime un bisogno sempre più sentito nelle società contemporanee, ove spesso è necessario correggere la scelta del popolo con quella dei competenti.

La storia recente insegna che non si può decidere tutto a colpi di referendum, perché la storia della democrazia è «piena di tentativi di invasione di campo da parte di governi illuminati o autoritari», ma «i corpi non rappresentativi costituiscono un limite inerente alla espansione della rappresentanza e della politica»[35]. Accanto a un organo di schieramento come le Camere, ove si fronteggiano forze contrapposte, occorrono «collegi di ponderazione dove non ci si schiera ma si ragiona, si cerca di convincere e si è convinti. I due corpi hanno funzioni diverse e operano in modo diverso»[36], ma sono entrambi essenziali alla vita democratica.

Basti pensare alle questioni bioetiche, ma anche al dominio della finanza, che non è stato e non è affatto contrastato da una legislazione europea destinata a non mutare in tempi brevi, mentre solo l’attività delle corti e della scienza giuridica ha sperimentato in concreto le possibilità di ripensare[37] una regolazione priva di adeguate tutele riservate alla discrezionalità dei singoli Stati nazionali.

Non si può non ricordare, allora, che il diritto è una scienza che si occupa dell’uomo e dei suoi problemi di vita, alla ricerca di verità parziali e della soluzione più giusta in un sistema complesso e plurale.

Da qui il ruolo dell’ermeneutica e dell’interprete impegnato, spesso, in valutazioni complesse e in decisioni difficili, che esigono risposte efficaci ed effettive: in caso di violazione della situazione protetta, si dovrà esaminare la tutela prevista da regole (interne e comunitarie) e dalla giurisprudenza consolidata. Tale tutela dovrà essere misurata. Se la protezione non è adeguata, andrà ricondotta a uno standard costituzionale interno o comunitario attraverso un’interpretazione integrativa legittimata da una fonte costituzionale.

Non si tratta di ridurre il diritto al fatto, ma di attribuire valore al fatto in virtù di norme di sistema (artt. 2 e 24 Cost.,13 Cedu, 47 Carta di Nizza) che attribuiscono al giudice e all’interprete questo potere, in piena sintonia[38] con l’art. 101 della Costituzione, riletto precisando che ogni pronunzia del giudice non è persuasiva se non è «in regola con una trasposizione corretta degli enunciati, collocati nella gerarchia costituzionale». Sicché l’interprete deve guardare, più che alla analogia, alla formazione di “regole contestuali” tratte non solo da un enunciato normativo, ma attingendo a una pluralità di norme e principi[39].  Con due soli limiti inderogabili.

Non incorrere in un divieto (mai contra legem) e basarsi su tecniche di ricerca di regole  misurate e adeguate agli interessi e ai conflitti, in base a una  pretesa di effettività che: serve a fissare l’area di rilevanza di interessi giuridicamente rilevanti, in assenza di una norma, contribuisce a integrare il testo di una disposizione esistente nei limiti della sua ratio, consente di individuare il rimedio più adeguato in un sistema di fonti ove coesistono regole e principi[40], con un ruolo e un ambito diverso a seconda dell’ordine giuridico da rendere effettivo.

 

[1] M. Fabre-Magnan, Droit des obligations. Contract et engagement unilatéral, tomo 1, Puf, Parigi, 2016 (4° ed.), pp. 41 ss. e G. Alpa, Note sul progetto francese di riforma del diritto dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., n. 2/2015, pp. 177 ss.

[2] Sul punto, vds. gli scritti di P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, ESI, Napoli, 2006; Id., La dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale, in Rass. dir. civ., n. 2/2007, p.497; Id., Interpretazione e legalità costituzionale. Appunti per una didattica progredita, ESI, Napoli, 2012, p. 157.

[3] M. Fioravanti, La trasformazione costituzionale, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 2/2014, p. 295.

[4] N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., n. 1/2014, pp. 36 ss.; Id., Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., n. 5/2014, pp. 987 ss.; Id., Un diritto incalcolabile, in Riv. dir. civ., n. 1/2015, pp. 11 ss. La fattispecie «attrae a sé gli eventi futuri» e il giudizio basato su quello schema è prevedibile. Il metodo valutativo, invece, conosce il fatto in base «alla sensibilità emotiva del giudicante» e l’assenza di una mediazione normativa apre la porta «a coloro che realmente detengono il potere» e «alla volontà autoritativa del magistrato». Non solo. L’idea «metafisica di un diritto sovra-positivo» nasconde di tutto (valori, utopie, ethos morale) senza che il precedente possa creare una ragionevole certezza perché un corpus coerente di casi «dovrebbe raccogliersi in principi generali e trascendere» la concretezza e singolarità del fatto. Ma il caso «presuppone la legge di cui è un esempio applicativo. Sicché non c’è caso senza una legge che stia prima e lo preveda e lo configuri». Insomma, la mancanza del sillogismo, della fattispecie e l’uso di clausole generali e valori determina un diritto che «perde a mano a mano qualsiasi razionalità e si risolve nell’occasionalità del puro decidere». Vds., ora, Id., Destino di Nomos, in N. Irti e M. Cacciari, Elogio del diritto, La nave di Teseo, Milano, 2019, pp. 113 ss.

[5] M.W. Hesselink, Democratic contract law, in European Review of Contract Law, n. 2/2015, p. 83.

[6] A. Zoppini, Il diritto privato e le “libertà fondamentali” dell’Unione europea. Principi e problemi della Drittwirkung nel mercato unico, in F. Mezzanotte (a cura di), Le libertà fondamentali dell’Unione europea e il diritto privato, Roma TrE-Press, Roma, 2016, p. 12: «Lo Stato nazionale autocratico si è imposto al giurista domestico come produttore di senso, come strumento di precomprensione della dinamica delle norme di diritto privato quando è in realtà il prodotto d’un preciso frangente temporale e d’una recisa connotazione ideologica, (…) quella che ha accompagnato l’affermazione degli Stati nazionali e le codificazioni del diritto civile all’avvio e al tramonto del secolo diciannovesimo”; ma, su questo, vds. P. Grossi, Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari, 2012, spec. pp. 14 e 67.

[7] Vds., per alcune osservazioni critiche, F. Addis, Sulla distinzione tra norme e principi, in Eur. dir. priv., n. 4/2016, p. 1048, e F. Denozza, In viaggio verso un mondo re-incantato? Il crepuscolo della razionalità formale nel diritto neoliberale, in Oss. dir. civ. comm., n. 2/2016, p. 419.

[8] A. Zoppini, Il diritto privato, op. cit., p. 10.

[9] E. Scoditti, Concretizzare ideali di norme. Su clausole generali, giudizio di cassazione e stare decisis, in Giust. civ., n. 4/2015, pp. 685 ss., e G. Vettori, Regole e principi, in Persona e mercato, n. 2/2015, p. 51.

[10] A. Zoppini, Il diritto privato, op. cit., p. 39, e il richiamo ad A.S. Hartkamp, The general Principles of EU Law and Private Law, in Rabels Zeitschrift für ausländisches und internationales Privatrecht, 2011, p. 256; E. Cannizzaro, Effettività del diritto dell’Unione e rimedi processuali nazionali, in Dir. Un. eur., n. 3/2013, pp. 663 ss., e sui pericoli di un uso non corretto dei principi, E. Navarretta, Libertà fondamentali dell’U.E. e rapporti fra privati: il bilanciamento di interessi e i rimedi civilistici, in F. Mezzanotte (a cura di), Le libertà fondamentali, op. cit., pp. 445 ss.

[11] F. Addis, Sulla distinzione, op. cit., p. 1056; F. Denozza, In viaggio, op. cit., p. 1.

[12] R. Sacco, Codificazione, ricodificazione, decodificazione, in Aa.Vv., Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile – Aggiornamento, vol. IV, Utet giuridica (Wolters Kluwer), Milano, 2010, pp.  319-332.

[13] M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra Codice civile e diritto europeo, Giappichelli, Torino, 2006; S. Mazzamuto, Il contratto europeo nel tempo della crisi, in Eur. dir. priv., n. 3/2010, pp. 601 ss.; da ultimo, G. D’Amico, Giustizia contrattuale e contratti asimmetrici, in Eur. dir. priv., n. 1/2019, pp. 1-49.

[14] V. Roppo, Giustizia contrattuale e libertà economiche: verso una revisione della teoria del contratto?, in Riv. crit. dir. priv., n. 4/2007, pp. 599 ss.; A.M. Benedetti, Contratto asimmetrico, in Enc. dir., Annali, vol. V, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 370 ss.

[15] Vds., da ultimo, nell’amplissima produzione dell’Autore, S. Pagliantini, L’interpretazione dei contratti asimmetrici nel canone di Gentili e della Corte di Giustizia, in M. Pennasilico (a cura di), L’interpretazione tra legge e contratto, ESI, Napoli, 2019, pp. 257-303.

[16] A. Di Majo, Giustizia e “materializzazione” nel diritto delle obbligazioni e dei contratti tra (regole di) fattispecie e (regole di) procedura, in Eur. dir. priv., n. 3/2013, pp. 797 ss.

[17] P. Perlingieri, Nuovi profili del contratto, in Rass. dir. civ., n. 3/2000, pp. 560 ss.; Id., Equilibrio normativo e principio di proporzionalità, ivi, n. 2/2001, pp. 347 ss.

[18] E. Navarretta, Causa e giustizia contrattuale a confronto: prospettive di riforma, in Riv. dir. civ., n. 6/2006, pp. 411 ss.; Id., Il contratto “democratico” e la giustizia contrattuale, ivi, n. 5/2016, p. 1262; V. Calderai, Giustizia contrattuale, in Enc. dir., Annali, vol. VII, Giuffrè, Milano, 2014, pp. 447 ss.

[19] E. Navarretta, Il contratto “democratico”, op. cit., ibid.

[20] M. Fabre-Magnan, What is a Modern Law of Contracts? Elements for a New Manifesto for Social Justice in European Contract Law, in European Review of Contract Law, n. 4/2017, pp. 376-388.

[21] M. Fabre-Magnan, L’institution de la liberté, Puf, Parigi, 2018.

[22] Si vedano, su tali sentenze, i commenti di S. Pagliantini, La nullità di protezione come nullità selettiva?, in Foro it., 2019, I, c. 988; G. Petti, L’esercizio selettivo dell’azione di nullità verso il giudizio delle sezioni unite, in Contratti, n. 3/2019, p. 288; D. Maffeis, Nullità selettive: la “particolare importanza” di selezionare i rimedi calcolando i probabili vantaggi e il processo civile come contesa fra opportunisti, in Corr. giur., n. 2/2019 pp. 178 ss.; G. Guizzi, Le Sezioni Unite e le “nullità selettive” nell’ambito della prestazione di servizi di investimento. Qualche notazione problematica, in Riv. dir. banc., 4 dicembre 2019, www.dirittobancario.it/editoriali/giuseppe-guizzi/le-sezioni-unite-e-le-nullita-selettive-nell-ambito-della-prestazione-di-servizi-di-investimento.

[23] Vds. sul punto le notazioni critiche di R. Rordorf, Buona fede e nullità selettiva nei contratti d’investimento finanziario, in questo fascicolo.

[24] S. Pagliantini, Nuovi profili del diritto dei contratti. Antologia di casi e questioni, Giappichelli, Torino, 2014, in particolare pp. 255 ss.

[25] A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n.242 del 2019), in Giustizia insieme, 27 novembre 2019, www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/802-prima-lettura-di-corte-cost-n-242-del-2019-di-antonio-ruggeri.

[26] L. Eusebi, Il suicidio assistito dopo Corte cost. n. 242/2019. A prima lettura, in Giur. it., n. 2/2019, pp. 193 ss.; più articolato e prudente il saggio di A. Nicolussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale: dal caso limite della rinuncia a trattamenti salva-vita alla eccezionale non punibilità del suicidio medicalmente assistito, in Giur. it., n. 2/2019, pp. 201 ss.
Vds. anche A. Vallini, Morire è non essere visto: la Corte costituzionale volge lo sguardo sulla realtà del suicidio assistito, in Dir. pen. proc., n. 6/2019, p. 805.

[27] Così N. Vettori, Suicidio assistito e amministrazione sanitaria. Note a prima lettura sulle prospettive aperte dalla Corte costituzionale, in corso di pubblicazione su Rivista di bioetica; Id., Diritti della persona e amministrazione pubblica. La tutela della salute al tempo delle biotecnologie, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 93-137.

[28] Riferisco qui alcune osservazioni di Padre Ennio Brovedani, Sulla Libertà di morire con dignità: il controverso dibattito contemporaneo, relazione al convegno «Fine vita: tra diritto alla vita e diritto alla libertà», organizzato dalla Associazione “Human - diritti e libertà” a Firenze il 17 gennaio 2020. 

[29] Vds. G. Vettori, Effettività delle tutele (diritto civile), in Enc. dir., Annali, vol. X, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 381 ss.

[30] G. Zagrebelsky, Alla fine del mandato di giudice costituzionale di Paolo Grossi e al suo ritorno agli studi universitari, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, vol. XLVII, 2018, pp. 550 ss.; E. Scoditti, Ripensare la fattispecie nel tempo delle clausole generali, in questo fascicolo.

[31] G. Zagrebelsky, Alla fine del mandato, op. cit., pp. 550-553.

[32] G. Benedetti, La contemporaneità del civilista, in V. Scalisi (a cura di), Scienza e insegnamento del diritto civile in Italia, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 1276 ss.

[33] S. Cassese, La democrazia e i suoi limiti, Mondadori, Milano, 2017, p. 5, che ricorda il referendum costituzionale italiano del dicembre 2016, la vittoria elettorale di Trump, la votazione sulla Brexit e le rigide limitazioni al potere delle opposizioni volute da Erdogan nel 2014, rilevanti «per l’Europa e per l’equilibrio politica di questa parte del mondo». Vds. ora, dello stesso Autore, La svolta. Dialoghi sulla politica che cambia, Il Mulino, Bologna, 2019, pp. 47 ss.

[34] Vds. S. Cassese, La democrazia, op. cit.

[35] S. Cassese, op. ult. cit., p. 31.

[36] Ibid.

[37] U. Breccia, Tempi e luoghi del diritto dei contratti, in Contratti, n. 1/2018, pp. 11 ss.; D. Imbruglia, La regola di adeguatezza e il contratto, Giuffrè, Milano, 2017; da ultimo, la limpida analisi dei provvedimenti legislativi e giurisprudenziali contenuta nel saggio di F. Della Negra, MIFID II and Private Law. Enforcing EU Conduct of Business Rules, Hart, Oxford-Londra-New York-Nuova Delhi-Sidney, 2019, pp. 5 ss. e 201 ss.

[38] Vds. il dialogo tra G. Baralis e P. Spada, Dialogando su dogmatica giuridica e giurisprudenza (dopo aver letto un libro sull’ipoteca), in Riv. dir. priv., n. 1/2013, pp. 1 ss. Un libro sull’ipoteca ha dato spunto a un raffinato dialogo sul modo di adeguare l’immobilismo di alcuni istituti essenziali per la dinamica giuridica, ma disciplinati in modo oramai inadeguato, sì da generare incertezze e malumori presenti ogni volta che il discorso giuridico «appare in qualche modo inappagante e reclama una rifondazione critica». Le opinioni dei due autorevoli Autori si differenziano, pur indicando la stessa strada da seguire. L’uno teorizza una dogmatica che non si fondi sulla logica deduttiva, superi le strettoie dell’analogia, si affidi a principi che consentano di reinterpretare norme e istituti, con un obiettivo diverso dal passato. Non la conformità a una regola data o l’ossequio alla verità logica, ma la ricerca di una soluzione ispirata dalla ragionevolezza persuasiva, dal verisimile adeguatamente motivato e convincente, con grande attenzione alle conseguenze dell’esito ermeneutico. L’altro propone di abbandonare lo stesso riferimento alla dogmatica, legata troppo al giuspositivismo scientifico, per assumere un diretto riferimento alla giurisprudenza e all’attività applicativa, la quale deve scrutinare norme e principi e ricercare la risposta del caso attraverso l’uso corretto dell’argomentazione, della logica e della persuasione.

[39] P. Spada, Atto secondo (appunti sparsi), in G. Baralis e P. Spada, Dialogando, op. ult. cit., pp. 44 ss.

[40] P. Perlingieri, Il “giusto rimedio” nel diritto civile, in Giusto proc. civ., n. 1/2011, pp. 1-23.