Nel mondo dei “non-accordi”. Protetti sì, purché altrove
Nell’incapacità di riformare il sistema europeo di asilo, l’Unione e i governi degli Stati membri hanno pianificato una strategia di contenimento dei flussi di migranti e di richiedenti asilo, rilanciando la cooperazione con i Paesi terzi di origine e di transito al fine di sostenerli nell’accoglienza delle persone bisognose di protezione e nel controllo delle partenze. Tale cooperazione si realizza attraverso accordi informali o “non-accordi”, come quello Ue-Turchia, divenuto il “modello” delle azioni di contenimento di migranti e richiedenti asilo.
1. La dimensione esterna delle politiche di immigrazione e asilo / 2. La cooperazione Ue-Turchia: prime prove tecniche della cd. “protezione altrove” / 3. La natura giuridica dell’accordo Ue-Turchia / 4. Le misure compensatorie: cooperazione e ingressi umanitari / 5. Conclusioni
1. La dimensione esterna delle politiche di immigrazione e asilo
Nel lontano Consiglio europeo di Siviglia tenutosi nel giugno 2003, i governi chiesero alla Commissione europea di introdurre nelle relazioni con i Paesi terzi meccanismi di controllo delle attività di contrasto all’immigrazione irregolare. In occasione del medesimo vertice, il Governo britannico elaborò una proposta di costruzione di centri di accoglienza dei richiedenti asilo in alcuni Paesi terzi, così da ammettere solo coloro la cui domanda fosse ritenuta ammissibile. Una proposta che, rigettata in un primo momento, è talora riemersa nelle agende delle istituzioni o negli incontri informali tra i ministri dei governi. Essa è stata per diversi anni declinata nella forma più temperata dell’incoraggiamento dei Paesi situati nelle zone di origine e transito a compiere ogni sforzo per assicurare una degna protezione ai richiedenti asilo, prima di tutto ratificando la Convenzione di Ginevra, per poi sviluppare programmi di protezione con le regioni interessate in cooperazione anche con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Da allora e nel corso degli anni, la cd. dimensione esterna delle politiche d’immigrazione e asilo dell’Unione europea è andata assumendo una sempre maggiore rilevanza, inserendosi nel complesso delle relazioni in essere con gli Stati terzi e divenendo parte della dinamica propria di tali relazioni, dove la reciprocità e la tutela dei rispettivi interessi sono i principi ispiratori. Dopo un primo inquadramento realizzato con l’«approccio globale» alla migrazione e alla mobilità[1], essa viene rilanciata in piena crisi dei migranti e dei richiedenti asilo, attraverso il «Nuovo quadro di partenariato» del 2016[2].
Divisi su tutto, in particolare su una riforma ambiziosa del sistema europeo comune di asilo, gli Stati dell’Unione hanno ritrovato coesione nel persuadere i Paesi terzi a trattenere e/o rimpatriare i propri cittadini e i migranti in transito nel loro territorio, inclusi i richiedenti asilo[3]. Così, la cooperazione con gli Stati di origine e di transito ha assunto una dimensione strategica e si prospetta come un elemento stabile della governance dell’immigrazione nei prossimi anni. Con il nuovo approccio, sintetizzabile nel principio “più progresso più aiuti”, da una parte l’azione dell’Unione si realizza e si interseca senza soluzione di continuità con quella degli Stati membri; dall’altra, sono potenziati al massimo gli incentivi di tipo economico, attraverso l’utilizzo del complesso della cooperazione commerciale, di investimento e di sviluppo quali leve per ottenere la collaborazione dei Paesi di origine e di transito nella gestione dei flussi migratori e di richiedenti asilo verso l’Unione: più è la collaborazione ottenuta, più sono i finanziamenti e il sostegno da parte dell’Ue.
2. La cooperazione Ue-Turchia: prime prove tecniche della cd. “protezione altrove”
Si ricorderà che, nel 2015, gli Stati nordeuropei avevano, con una certa forzatura del Codice frontiere Schengen, ripristinato i controlli alle frontiere interne, seguiti come in un domino anche dagli Stati della rotta balcanica fuori dell’area Schengen e fino alla Macedonia, determinando il blocco di migliaia di persone, in gran parte ancora abbandonate in più o meno improvvisati centri di accoglienza nelle isole greche e nel continente. Proprio al fine di bloccare il flusso di migranti verso la Grecia e lungo la rotta balcanica, di ripristinare il corretto funzionamento del sistema Schengen e di salvare la stessa Unione, già fortemente indebolita dalla crisi economica e dalle crescenti forze politiche euroscettiche, emerge come imprescindibile il coinvolgimento della Turchia. Pur essendo un Paese di origine di migrazione verso l’Ue (sono circa tre milioni i cittadini turchi residenti nell’Ue, soprattutto in Germania), la sua collocazione geografica l’ha resa sempre più anche Paese di immigrazione, nonché di transito di flussi migratori verso l’Europa: a partire dallo scoppio della guerra in Siria, si stima una presenza di 4 milioni di rifugiati e richiedenti asilo, dei quali circa 3,6 milioni siriani[4].
Così, l’immigrazione e l’asilo sono divenute una parte sempre più rilevante delle relazioni esterne dell’Ue con la Turchia, avviate sin dal 1963 con l’accordo di associazione e consolidate negli anni soprattutto sul piano commerciale. Dopo vari incontri preliminari, con una «Dichiarazione» datata 18 marzo 2016 sono state concordate varie misure tra loro connesse[5].
La «Dichiarazione» segna un discrimen nel contenuto della cooperazione con i Paesi terzi, perché per la prima volta viene disciplinato un sistema di rimpatrio dei richiedenti asilo, sulla base del noto meccanismo dell’uno a uno, ossia di un parametro numerico volto tendenzialmente a individuare tanti reinsediamenti di cittadini siriani dalla Turchia verso l’Ue, quanti rimpatri verso la Turchia[6]. Una misura che è stata allora qualificata dalla Commissione come «temporanea e straordinaria», ma «necessaria per porre fine alle sofferenze umane e ripristinare l’ordine pubblico»[7]. Al contrario, come si vedrà, la misura è intesa come tendenzialmente duratura, se non permanente, e replicabile, mutatis mutandis, in altre aeree di provenienza dei flussi migratori, in particolare quelle interessate dalla cd. rotta del Mediterraneo centrale.
Aspetto essenziale di tutta la cooperazione è il sostegno finanziario, pari a sei miliardi di euro, da erogare in due tranche di tre miliardi, sulla base di azioni e progetti specificamente individuati in diversi settori strategici per l’accoglienza dei richiedenti asilo (assistenza umanitaria, sanità, istruzione, infrastrutture urbane e sostegno socio-economico)[8].
Il finanziamento, metà a carico del bilancio dei governi e metà a carico del bilancio dell’Unione, è il principale incentivo per garantire la cooperazione del Governo turco, la sua disponibilità all’accoglienza e alla deterrenza delle partenze. Inoltre, esso dovrebbe consentire di elevare lo standard di accoglienza a un livello tale da soddisfare il requisito della “protezione equivalente” che è essenziale per dare legittimità al rimpatrio dei richiedenti asilo. Il meccanismo del rimpatrio di persone aventi diritto di asilo si fonda, infatti, sulla qualificazione della Turchia come «Paese sicuro» ai sensi della direttiva 2013/32/Ue. Tra le misure imposte alla Grecia a seguito dell’adozione dell’accordo, vi è stata infatti la modifica delle procedure di asilo, inclusi i ricorsi giurisdizionali e la qualificazione della Turchia come Paese sicuro con conseguente esame delle domande con procedure accelerate.
La qualificazione della Turchia come Paese sicuro riguarda esclusivamente il trattamento riservato ai cittadini siriani e non quello riservato ai cittadini turchi. La Turchia, infatti, non è definibile come un Paese di origine sicuro, bensì come Paese di primo asilo o Paese terzo sicuro per coloro che richiedano asilo in Turchia. Un’applicazione coerente di concetti giuridici distinti, ma un risultato paradossale se solo si considera come difficilmente uno Stato che perpetra violazioni dei diritti umani e discriminazioni in base all’origine etnica, alla religione, alle convinzioni personali e al genere, possa essere considerato sicuro per una parte della popolazione, “solo” perché straniera.
Ulteriore incentivo per favorire la cooperazione turca è rappresentato dall’aver inserito nella dichiarazione la volontà di accelerare l’adempimento della tabella di marcia sulla liberalizzazione dei visti e il rilancio del processo di adesione, entrambi obiettivi, tuttavia, il cui raggiungimento, già improbabile nel 2016, è divenuto ancora più arduo da raggiungere a causa, tra l’altro, delle mancate riforme richieste dall’Unione[9].
La valutazione dell’impatto dell’accordo non può che essere multidimensionale[10]. Da una parte, spicca la drastica riduzione del numero delle persone sbarcate nelle isole greche, ritenuto uno degli indicatori della possibilità effettiva di stroncare il business dei trafficanti di persone. La Commissione sottolinea come si sia passati da 10.000 arrivi in media giornalieri nell’ottobre 2015 ai 105 attuali, con una corrispondente riduzione delle morti nel Mar Egeo da 1.175 nei venti mesi precedenti la dichiarazione a 439 nei quattro anni successivi[11].
Quanto invece alla misura più controversa, quella del rimpatrio, il numero è decisamente contenuto, essendo i rimpatri eseguiti nell’ambito dell’accordo limitati a 2.735 unità a partire da marzo 2016[12]. A questi devono aggiungersi le 4.030 persone rimpatriate volontariamente dalle isole greche a partire dal giugno 2016, attraverso il Programma di rimpatrio e reintegrazione volontario assistito (AVRR). Dall’inizio del 2016 un totale di 18.711 persone è stato rimpatriato da tutta la Grecia attraverso tale programma e 27.000 sono state reinsediate dalla Turchia[13].
Più complesso è valutare l’impatto sui cittadini siriani accolti e bloccati in Turchia. I rapporti delle organizzazioni non governative dimostrano che, nonostante il sostegno economico e i progetti finanziati dall’Ue, la situazione è ancora estremamente critica, soprattutto per l’accesso al mercato del lavoro[14].
Tragica è invece, sicuramente, la condizione delle persone bloccate in transito lungo la rotta balcanica e nelle isole greche, circa ventimila persone, inclusi molti minorenni[15]. Le violazioni dei diritti fondamentali consumate nei cd. hotspot greci sono state ripetutamente sottoposte all’attenzione della Corte Edu che, tuttavia, non ha ancora rinvenuto i presupposti per una violazione né dell’art. 5 né dell’art. 3 della Cedu[16].
Ciò che i dati indicano chiaramente è che la drastica riduzione degli sbarchi non dipende tanto dal meccanismo del rimpatrio o dalla prospettiva dell’ammissione umanitaria dalla Turchia, quanto dalla volontà della controparte turca di adempiere effettivamente ai propri obblighi, ossia di impedire le partenze e garantire standard dignitosi di accoglienza. Considerando le scarse prospettive sull’accordo sulla liberalizzazione dei visti, a tacere circa quello sull’adesione, si comprende come la cooperazione si basi su presupposti molto fragili e come fosse facilmente prevedibile che sarebbe diventata un terreno fertile per una negoziazione continua, anche su altri fronti, diversi ma strettamente connessi. Come già successo in altre epoche e con altri attori, i migranti diventano una merce di scambio e vengono inseriti in partite più ampie con controparti che aprono il rubinetto della frontiera per aumentare il flusso nella fase di maggiore negoziazione. Per l’Italia niente di nuovo, è esattamente quanto già accaduto con la Libia di Gheddafi, con la quale, peraltro, si sperimentarono già nel 2005 modalità informali di conclusione di accordi in questa materia[17].
Non sorprende dunque che, alla fine del 2019, il Governo turco, in parallelo con l’azione aggressiva in Siria, in particolare nella regione di Idlib, abbia iniziato a manifestare i primi malumori in merito ai finanziamenti ottenuti e alle modalità dell’erogazione, nel tentativo di ottenere un appoggio dell’Ue dopo la perdita di 38 soldati nel conflitto con la Russia e nel progetto di creazione di una safe zone/no-fly zone proprio nella zona di Idlib, dove vivono circa 3 milioni di siriani e dove risulta che siano stati trasferiti 100.000 siriani residenti a Istanbul[18]. Sullo sfondo, evidentemente, anche la questione curda e il tentativo di strumentalizzare la crisi siriana anche allo scopo di distruggere definitivamente tale martoriata popolazione. Il Governo turco ha così minacciato e poi realizzato, il 28 febbraio 2020, un allentamento dei controlli e ha favorito l’arrivo di migliaia di persone al confine con la Grecia, trovando una durissima reazione delle guardie di frontiera greche, che hanno reagito con lacrimogeni, proiettili di gomma e filo spinato, causando la morte di due persone[19].
Il Governo greco ha addirittura impropriamente invocato l’art. 78 Tfue, una disposizione che consente al Consiglio dell’Unione europea di adottare misure temporanee a beneficio di uno Stato membro che debba affrontare una situazione di emergenza per l’afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi e che non attribuisce né riconosce nessun tipo di competenza agli Stati membri intesi singolarmente; lo ha fatto decidendo di sospendere temporaneamente la registrazione delle domande di asilo e dichiarando che rimpatrierà chiunque entri irregolarmente, senza esaminare i casi individuali, in flagrante violazione di tutti i più basilari diritti umani, in particolare delle persone richiedenti asilo[20].
Tuttavia, né la Commissione né altri governi europei hanno preso le distanze dalle misure adottate dal Governo greco che, anzi, ha sostanzialmente ottenuto l’appoggio dei leader e delle istituzioni europei. Pur non espressamente condividendo le misure restrittive adottate, vi è stato un tempestivo e pieno sostegno alla Grecia in termini finanziari, di risorse umane e di attrezzature per rendere applicabili le misure di rafforzamento dei controlli alla frontiera con la Turchia e non consentire la riapertura di un flusso analogo a quello antecedente all’accordo del 18 marzo 2016. I ministri degli esteri dell’Unione hanno espressamente affermato: «Pur riconoscendo l’aumento dell’onere migratorio e dei rischi con cui la Turchia deve fare i conti sul proprio territorio, come pure gli ingenti sforzi da essa profusi nell’accogliere 3,7 milioni di migranti e rifugiati, l’Ue ribadisce di essere gravemente preoccupata per la situazione alla frontiera greco-turca e respinge fermamente l’uso che la Turchia fa della pressione migratoria per scopi politici. La situazione alla frontiera esterna dell’Ue non è accettabile. L’Ue e i suoi Stati membri restano determinati a proteggere efficacemente le frontiere esterne dell’Ue. Gli attraversamenti illegali [corsivo aggiunto] non saranno tollerati e a tale proposito l’Ue e i suoi Stati membri adotteranno tutte le misure necessarie, in conformità del diritto dell’Ue e del diritto internazionale. I migranti non dovrebbero essere incoraggiati a tentare attraversamenti illegali via terra o via mare. Il Consiglio invita il Governo della Turchia e tutti gli attori e le organizzazioni sul campo a trasmettere questo messaggio e a contrastare la diffusione di informazioni false»[21]. Un sostegno confermato anche dalla Presidente della Commissione europea, e dai presidenti del Consiglio europeo e del Parlamento europeo in occasione di una visita ufficiale in Grecia avvenuta il 3 marzo 2020. In particolare, la Presidente della Commissione ha ufficialmente ringraziato la Grecia per essere lo «scudo dell’Europa» e ha garantito assistenza finanziaria, risorse aggiuntive sia in termini di guardie di frontiera sia in termini di attrezzature materiali anche con l’attivazione del sistema di protezione civile europea[22]. Inoltre, la Commissione europea per parte sua ha ritenuto di non dover intervenire in scelte ritenute di competenza nazionale, senza alcuna considerazione circa la violazione delle numerose norme Ue costituenti il sistema europeo comune di asilo nonché della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonostante che la Commissione, in quanto guardiana dei Trattati, sia chiamata a vigilare sul loro rispetto e ad attivarsi qualora rinvenga una loro violazione[23].
Le istituzioni dell’Unione hanno mostrato grande coesione e fermezza, confermando senza alcuna esitazione la linea tracciata dall’accordo del 18 marzo 2016. Difficile che sia bastato questo a risolvere la crisi espressamente voluta dal Governo turco solo due settimane prima. Più probabile che il Governo turco abbia strappato qualche garanzia di sostegno nello scacchiere siriano e/o che il dilagare della pandemia in Europa abbia avuto una qualche influenza, considerando la necessità di approvvigionamento di medicinali e materiale sanitario dei quali la Turchia potrebbe avere presto bisogno[24].
3. La natura giuridica dell’accordo Ue-Turchia
La dichiarazione Ue-Turchia è caratterizzata da una cornice giuridica evanescente, sfuggente, ispirata alla massima flessibilità e informalità pur di raggiungere il risultato: la cooperazione degli Stati di origine e di transito nel contenimento dei flussi migratori e nell’accoglienza dei richiedenti asilo, nonché nella riammissione dei migranti irregolari e dei rifugiati o richiedenti asilo[25].
Mai come in questo caso la sostanza va di pari passo con la forma o, meglio, con la mancanza di forma. Nonostante le richieste di accesso formalmente presentate alle istituzioni europee, non è stato pubblicato alcun testo. La dichiarazione infatti è priva della forma tipica degli accordi internazionali e non è stata conclusa secondo le procedure all’uopo previste nei Trattati. Essa viene battezzata come una «Dichiarazione», uno «Statement», dato che, all’esito dell’incontro del 16 marzo 2016, il suo contenuto è stato diffuso attraverso un comunicato stampa del Consiglio dell’Unione europea. Inoltre, la posizione ufficiale delle istituzioni europee, avallata sia dal Tribunale sia dalla Corte di giustizia è che, se anche si trattasse di un accordo, non sarebbe imputabile all’Unione bensì ai singoli Stati membri, essendo stato concluso dai capi di Stato e di governo dell’Ue riuniti nella sede del Consiglio e non “come” Consiglio[26]. Di analogo avviso anche il Servizio giuridico del Parlamento europeo, il quale con un parere ha escluso la natura giuridica di accordo internazionale, qualificandolo invece come un mero dialogo politico tra l’Unione e la Turchia, che si traduce in forme specifiche di cooperazione nel settore dell’asilo e della migrazione, senza modificare alcun atto giuridico dell’Unione. Tant’è che il Parlamento europeo non ha inteso adire la Corte di giustizia in difesa delle proprie prerogative, nonostante che la questione della natura giuridica della dichiarazione sia stata oggetto di un apposito dibattito.
Occorre rammentare che la mancanza della forma e della procedura tipica dell’accordo non è l’elemento decisivo ai fini della qualificazione di esso come tale. La questione è stata già ampiamente esplorata sul piano del diritto internazionale e dell’Unione europea, laddove vige il principio della libertà delle forme e il favor verso la qualificazione sostanziale di accordo internazionale ogniqualvolta siano rinvenibili obblighi in capo alle parti, assunti anche in modo irrituale e salvo il rispetto delle norme sulla competenza a stipulare dei soggetti parti, nonché sul contrasto dei cd. accordi segreti.
Il principio giuridico rilevante è che la dichiarazione del 18 marzo 2016, a prescindere dalla forma e dalla procedura seguita, può essere considerata come un accordo internazionale nella misura in cui comporta autentici obblighi giuridici in capo alle parti; sul piano del diritto Ue è, poi, rilevante se tale «accordo» incida su norme Ue alterandone la portata. In questa ipotesi, infatti, non solo si afferma una competenza dell’Unione, ma che questa sia anche di tipo esclusivo (artt. 3, par. 2, e 216, par. 1, Tfue), con l’applicazione della procedura all’uopo prevista, che include anche la necessaria previa approvazione del Parlamento europeo[27]. Gli accordi internazionali dell’Unione europea, infatti, devono essere conclusi seguendo la procedura prevista all’art. 218 Tfue, coinvolgendo il Parlamento europeo, eventualmente con una sua previa approvazione. Tutta la cooperazione con la Turchia, invece, si è svolta all’insegna dell’informalità ed è stata contrassegnata da un indiscusso protagonismo dei capi di Stato e di governo, che si sono incontrati in via informale e hanno assunto impegni talvolta in proprio, talvolta per conto dell’Ue, attraverso il ruolo attivo dei presidenti delle istituzioni e dell’Alto rappresentante, apparsi talvolta ad anticipare, spesso affiancare e sempre eseguire l’azione diplomatica dei capi di Stato e di governo.
Tra i vari contenuti della dichiarazione, se ne possono menzionare almeno due come più rilevanti al fine della sua qualificazione giuridica. Il primo riguarda il meccanismo di rimpatrio che, come si è sopra delineato, si basa sull’apprezzamento della Turchia come Paese sicuro, così andando a incidere sulla portata della direttiva 2003/32/Ue. In base ad essa, infatti, gli Stati membri sono autorizzati a contemplare tale concetto nei propri ordinamenti, ma senza prevedere un obbligo al riguardo, mentre la dichiarazione del 2016 si basa sul presupposto del suo impiego come se fosse già parte dei sistemi di asilo nazionali; tant’è che poi la Commissione ha sollecitato gli Stati membri ad applicare tale concetto nel proprio ordinamento. In altre parole, quella che è prevista come un’opzione nella direttiva 2013/32/Ue, è intesa come un obbligo in virtù della dichiarazione, in base alla quale, inoltre, la Turchia soddisfa tutte le condizioni stabilite agli artt. 35 e 38 della direttiva per essere qualificata come Paese sicuro, anche se l’apprezzamento dell’esistenza di tali presupposti non rientra tra le prerogative dell’Unione, essendo al contrario lasciato alla discrezionalità degli Stati membri.
Il secondo è quello relativo agli impegni finanziari, lievitati fino a raggiungere i sei miliardi di Euro. Si consideri anche che è stato costituito uno strumento di finanziamento ad hoc, il «Facility for Refugees in Turkey» che costituisce una sorta di ombrello di tutti i finanziamenti esistenti a favore della Turchia, a carico sia dell’Ue sia degli Stati membri[28]. Degli stanziamenti finanziari disposti a favore della Turchia, soltanto la parte a carico del bilancio Ue deve essere soggetta all’approvazione congiunta da parte di Parlamento europeo e Consiglio, ma limitatamente ai casi nei quali sia necessario un emendamento all’atto di bilancio. Tutte le altre decisioni in materia di finanziamenti non comportano un intervento del Parlamento europeo, salvo l’attivazione da parte di questo degli strumenti di sindacato ispettivo. Tale risultato di esclusione del Parlamento europeo è massimo relativamente ad altri due strumenti finanziari attivati negli ultimi anni sul modello di quello per la Turchia, quello sulla Siria e quello sull’Africa, che sono istituiti attraverso un accordo tra la Commissione e uno o più Stati membri, non soggetto a un’approvazione né a un parere da parte del Parlamento europeo[29].
Alla luce di queste considerazioni, la dichiarazione del 18 marzo 2016 risulta avere un contenuto che non può essere inteso come la mera riproduzione di obblighi esistenti. Sebbene alcuni degli impegni abbiano una tale natura, ad esempio quelli relativi al rafforzamento della cooperazione per l’accelerazione dei negoziati sugli accordi in materia di liberalizzazione dei visti e di adesione o la riammissione degli immigrati in posizione irregolare, altri sono, invece, innovativi e tali da incidere su norme Ue già in vigore. Si può dunque ritenere che essa sia un accordo internazionale[30]. La reazione all’affermazione del Governo turco di non attenersi più all’impegno assunto con la dichiarazione e la crisi che ne è scaturita, ne costituiscono l’ennesima prova. Oltre alla visita ufficiale in Grecia, la Presidente della Commissione e il Presidente del Consiglio europeo hanno tenuto a Bruxelles un incontro con il Presidente del Governo turco il 9 marzo 2020, avente ad oggetto soprattutto l’accordo del 18 marzo 2016. All’esito dell’incontro, il Presidente del Consiglio europeo ha espressamente affermato che: «Finally, we decided and it is very concrete and very important for the next days and for the next weeks, we decided to task Josep Borrell, the High Representative, with his counterpart in Turkey, the minister of foreign affairs, each of them with a team, to work in the next days in order to clarify the implementation of the deal between Turkey and the European Union»[31] (corsivo aggiunto).
Un accordo, dunque, e un accordo dell’Unione, che rimarrà nella storia per le sofferenze inflitte a migliaia di persone e per costituire un vulnus allo Stato di diritto, un valore fondante dell’Unione (art. 2 Tue) e che l’Unione tenta strenuamente di difendere in altri contesti. Come un gioco delle parti, l’Unione è stata infatti utilizzata dai governi come soggetto attuatore di una strategia nata per impulso dei governi stessi e in spregio delle regole previste nei Trattati.
Alla stessa conclusione si dovrebbe giungere anche se si ritenesse che siamo di fronte a un accordo imputabile solo agli Stati membri. In questo caso, infatti, si dovrebbe considerare se le modalità di conclusione di tale accordo siano conformi alle norme costituzionali dei singoli Stati sulla competenza a stipulare[32]. Limitando l’analisi all’ordinamento italiano, il Presidente del Consiglio dei ministri, sicuramente un plenipotenziario di diritto, avrebbe dovuto comunque rispettare gli artt. 80 e 87 della Costituzione, in combinato disposto con l’art. 10, comma 2, Cost. È pacifico che anche nel nostro ordinamento si possano concludere accordi in forma semplificata in materia di immigrazione, vale a dire conclusi con la sola firma del plenipotenziario, e la prassi in questo senso è consolidata. Tuttavia, è altrettanto pacifico che la Costituzione pone dei limiti al suo esercizio. Innanzitutto, in base all’art. 80 Cost., la procedura solenne, ovvero attraverso la previa legge di autorizzazione alla ratifica, è richiesta in alcune materie, tra le quali ad esempio gli accordi di natura politica, quelli che comportano modifiche di legge od oneri alle finanze. Gli accordi in materia di immigrazione e asilo e quello concordato con la Turchia in particolare, rientrano in almeno una se non in tutte tali categorie. Inoltre, si consideri che l’art. 10, comma 2, Cost. prevede una riserva di legge in materia di trattamento dello straniero che non può essere aggirata attraverso la conclusione di accordi internazionali; questi ultimi sono un modo diverso, rispetto all’approvazione di leggi, di esercitare la funzione legislativa, per cui non è possibile con norme internazionali aggirare la riserva di legge costituzionale.
Nonostante tali macroscopiche violazioni delle norme basilari sulla competenza a stipulare, l’informalità e la flessibilità nelle relazioni coi Paesi terzi in materia di immigrazione e asilo è dilagante, sia a livello europeo sia a livello nazionale[33]. Spostando l’azione verso la rotta del Mediterraneo centrale, i partner strategici diventano il Niger e la Libia, ma anche la Tunisia, l’Egitto e il Marocco. Anche in questo lembo di mondo, Unione e Stati membri intervengono assieme, in modo più o meno coerente a seconda del contesto, ma sempre condividendo la filosofia di fondo e l’obiettivo della cooperazione[34].
La nuova tipologia di accordi o, meglio, di “non-accordi”, si affianca così agli accordi tradizionali in tema di riammissione conclusi dall’Unione e dagli Stati membri, uno strumento ormai obsoleto[35]. Da una parte, l’informalità è richiesta dagli Stati di emigrazione. La riammissione dei propri cittadini è una pratica impopolare per Stati che vedono nell’emigrazione una risorsa e un volano per il loro sviluppo, anche grazie alle rimesse inviate dall’estero. Inoltre, l’Unione ha voluto concludere accordi sulla riammissione che obbligassero al rimpatrio non solo dei cittadini degli Stati parte, ma anche delle persone aventi origine da essi. È evidente che per gli Stati di transito, come il Marocco, la Libia, la Tunisia, l’Egitto e la Turchia, obbligarsi a riammettere le persone nel proprio territorio può significare un aumento consistente della popolazione immigrata, con scarsissime prospettive di integrazione.
In aggiunta, l’informalità delle relazioni consente di renderle più flessibili e adattabili alle circostanze, ampiamente variabili. Negoziazione diretta e contenuto riservato, così da escludere istituzioni come il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali e ridurre al minimo i condizionamenti dati dal rispetto delle norme superiori, in particolare quelle sui diritti umani, i diritti di tutti. Nel mondo dei “non-accordi”, infatti, non c’è bisogno di dilungarsi nelle formule di rito come il necessario rispetto dei diritti umani: si entra in un’altra dimensione, e allora si può negoziare con qualsiasi Stato e qualsiasi governante. Basta che non faccia partire i propri cittadini, che li riammetta se devono essere allontanati e che altrettanto faccia con i migranti in transito.
Inoltre, l’informalità è andata di pari passo con il pieno inserimento del capitolo “immigrazione” nel complesso delle relazioni già in essere, soprattutto in materia di politica commerciale e di cooperazione allo sviluppo, ossia i due ambiti nei quali l’Unione ha una solida competenza legislativa e un’ampia disponibilità di bilancio e può essere quindi un negoziatore credibile. È noto, infatti, che uno dei limiti principali alla conclusione degli accordi di riammissione da parte dell’Ue è dato dall’impossibilità di offrire incentivi in termini di più ampie possibilità di migrazione legale, volte a compensare l’impegno dei Paesi terzi in azioni impopolari ed economicamente svantaggiose come la riammissione e il contenimento dell’emigrazione. Si è così determinata una svolta nell’attitudine dei Paesi di origine e di transito a cooperare nel contenimento dei flussi e nella riammissione. Una volontà molto timida sino ad oggi e che invece appare presente adesso che l’immigrazione e l’asilo sono diventati parte delle trattative complessive, del do ut des tipico delle relazioni internazionali.
4. Le misure compensatorie: cooperazione e ingressi umanitari
La politica del contenimento dei flussi è accompagnata da misure che potremmo definire come compensatorie. Sono misure che vengono sottolineate dalle istituzioni europee e dagli Stati membri per giustificare di fronte alla comunità internazionale un’azione fortemente limitativa del diritto delle persone di migrare e di cercare protezione internazionale.
La prima è l’aumento degli investimenti nei Paesi di origine e di transito, sia per migliorare la condizione di quei migranti trattenuti, ad esempio, nei centri di detenzione in Libia o nei centri di accoglienza in Niger o in Turchia, sia per sradicare le radici profonde dell’emigrazione. Sistematico è il coinvolgimento dell’Unhcr e dell’Oim, così come delle organizzazioni non governative per rilanciare iniziative di cooperazione allo sviluppo e investire in progetti di sviluppo e commerciali per migliorare le condizioni economiche e sociali dei Paesi di emigrazione, e riconvertire quelle economie che addirittura erano in larga parte basate sul traffico e sulla tratta di persone. Complice anche la variegata veste informale data alle intese con i Paesi terzi e al loro sostegno economico, diviene sempre più complicato distinguere i fondi destinati specificamente alla cooperazione allo sviluppo da quelli utilizzati per il contenimento dei flussi, con una preoccupante deviazione dei primi a favore dei secondi. Inoltre, mentre il contenimento dei flussi è una misura di breve periodo, le altre misure possono produrre risultati solo nel medio o lungo periodo. Addirittura, le iniziative di cooperazione allo sviluppo tendono nel medio periodo a un aumento dell’emigrazione, come autorevoli analisi economiche tendono a dimostrare[36].
L’altra misura considerata come compensatoria all’azione di contenimento degli ingressi irregolari sarebbe l’apertura di canali di ingresso regolare che, invece, sono sempre più ridotti. In particolare, scarse sono in tutta l’Unione le possibilità di ingresso dei migranti economici che non siano anche lavoratori altamente qualificati. Anche il ricongiungimento familiare è molto difficile in numerosi Stati dell’Unione, soprattutto per la necessità di superare test linguistici ai fini dell’autorizzazione all’ingresso.
Qualche timida apertura si è, invece, registrata in relazione agli ingressi di tipo umanitario. Va dato atto all’Unione, in particolare alla Commissione europea, di avere negli anni tentato di affermare l’adozione di programmi di reinsediamento, sostenendo e stimolando gli Stati a contemplare questo tipo di ingressi. Già nel 2004 il Consiglio europeo sottolineava la necessità di sviluppare un programma comune di reinsediamento basato sulla partecipazione volontaria da parte degli Stati membri. L’Unione ha così individuato le regioni prioritarie, collegando a questo anche un sistema di supporto finanziario a carico del «Fondo europeo per i rifugiati» prima e del «Fondo asilo, migrazione e integrazione» poi, e a favore degli Stati membri che avessero accettato ingressi di rifugiati provenienti da tali zone[37].
Già nei primi programmi dell’Unione, il reinsediamento era considerato come uno degli strumenti di gestione dei flussi migratori, dato che, ad esempio, il sostegno finanziario agli Stati dipendeva dalla provenienza dei rifugiati dai Paesi considerati prioritari, in particolare da quelli interessati dai cd. programmi di protezione regionale. Ad esempio, nella decisione istitutiva del Fondo europeo per i rifugiati era espressamente affermato che «Alla luce del programma dell’Aia, è necessario garantire che le risorse del Fondo siano usate nel modo più efficiente possibile al fine di realizzare gli obiettivi della politica di asilo dell’Unione europea, tenendo conto dell’esigenza di sostenere le misure di reinsediamento e la cooperazione pratica tra gli Stati membri, anche quali mezzi per far fronte alle sollecitazioni particolari cui sono sottoposti i regimi d’asilo e le capacità di accoglienza»[38].
Tale dimensione diviene ancora più evidente nel quadro della cooperazione concordata con la Turchia. Nel Piano d’azione Ue-Turchia, concordato in due vertici tenutisi il 15 ottobre e il 29 novembre 2015, era stato concluso l’accordo su un programma di ammissione umanitaria su base volontaria, la cui applicazione era però rinviata a una fase successiva rispetto all’attuazione delle altre misure concordate[39]. Con la dichiarazione del 18 marzo 2016, come si è visto, l’ammissione umanitaria è espressamente correlata alle azioni di contenimento dei flussi. In particolare si è visto che con il “sistema 1 a 1”, le due misure, il rimpatrio verso la Turchia e l’ammissione verso l’Ue, sono strettamente connesse e volte a dissuadere i cittadini siriani dall’affidarsi ai trafficanti di persone per raggiungere la Grecia, in ragione del probabile rimpatrio e visto l’incentivo dato dalla possibilità, per contro, di raggiungere l’Unione in modo regolare. Tant’è che, in maniera scenografica, con telecamere spiegate da una sponda all’altra, il primo giorno di applicazione della dichiarazione erano stati filmati i rimpatriati verso la Turchia e i reinsediati verso la Germania.
La dichiarazione dei capi di Stato o di governo del 7 marzo 2016 aveva chiarito che tale ammissione avrebbe dovuto funzionare «nell’ambito degli impegni esistenti», vale a dire quelli assunti in base al programma europeo di reinsediamento, finanziato come indicato sopra, e in base alle decisioni sulla ricollocazione adottate nel settembre del 2015[40]. Queste ultime, come noto, avevano prospettato la ricollocazione di un totale di 160.000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale dalla Grecia e dall’Italia nel biennio 2015/2017. In altre parole, con la dichiarazione Ue-Turchia sono state sottratte 54.000 unità dalle 160.000 previste nelle decisioni sulla ricollocazione, da destinare all’ammissione umanitaria dalla Turchia, senza che ci sia stato, dunque, un impegno aggiuntivo all’accoglienza di rifugiati da parte degli Stati membri rispetto a quanto già concordato nei mesi precedenti[41]. Nella decisione che ha previsto lo scorporo della quota dalle decisioni sulla ricollocazione è espressamente affermato che «(…) il reinsediamento, l’ammissione umanitaria o altre forme di ammissione legale dalla Turchia a titolo di programmi nazionali e multilaterali allevino la pressione migratoria sugli Stati membri beneficiari della ricollocazione a norma della decisione (Ue) 2015/1601, creando un percorso legale e sicuro di ingresso nell’Unione e scoraggiando gli ingressi irregolari (…)»[42].
In aggiunta, nell’ambito delle misure adottate in seguito all’approvazione dell’Agenda sulla migrazione del 13 maggio 2015, l’Unione ha approvato una raccomandazione sul reinsediamento, con la quale era richiesta l’ammissione di 20.000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale[43]. La quota è stata poi aumentata dal Consiglio a 22.504 persone, un numero sempre ben al di sotto delle potenzialità di un’organizzazione come l’Unione europea e di gran lunga inferiore alle esigenze di accoglienza sorte a partire dal 2014. Inoltre, trattandosi di una raccomandazione, era una misura non vincolante con tutti i limiti in termini di efficacia che questo comporta. Tuttavia, è stato positivo che il reinsediamento sia stato, almeno formalmente, considerato come una delle misure da promuovere e che sia anche stata predisposta una ripartizione del numero di persone che ogni Stato avrebbe dovuto accogliere, calcolata sulla base di parametri oggettivi analoghi a quelli impiegati per stabilire le quote nelle decisioni sulla ricollocazione.
Sebbene il reinsediamento, la ricollocazione e l’ammissione umanitaria siano tre strumenti diversi sia per modalità sia per presupposti, la Commissione tende a valorizzarne le analogie, così da poter utilizzare i posti previsti per l’uno anche per l’altro. Vengono infatti tutti inseriti nel più ampio spettro di misure relative alla gestione dei flussi di migranti e di richiedenti asilo e che consentono di dare attuazione concreta al principio di solidarietà tra Stati membri (ricollocazione) o terzi (reinsediamento o ammissione umanitaria). Tuttavia, essendo invocati per giustificare misure fortemente limitative del diritto delle persone di migrare e di cercare protezione internazionale, si crea una contraddizione di fondo circa l’approccio e gli obiettivi perseguiti da tali strumenti, divenendo prevalente la dimensione di gestione dei flussi migratori, nella misura in cui possono concorrere ad alleviare le pressioni verso gli Stati membri, intervenendo in alcune delle rotte nelle quali il flusso migratorio è più intenso.
Al contrario, il reinsediamento è un istituto sorto per alleviare gli oneri degli Stati che sono sottoposti a sforzi significativi nell’accoglienza dei richiedenti asilo o per trovare soluzioni durevoli per i rifugiati. Sebbene sia necessario anche un intervento nei Paesi di origine e transito dei richiedenti asilo, il reinsediamento dovrebbe rimanere uno strumento di carattere umanitario volto a offrire protezione e una soluzione durevole ai rifugiati più vulnerabili, a prescindere dal Paese di origine. Ad esempio, l’Unione dovrebbe agire anche verso quelle aree del mondo dove i bisogni sono maggiori, come l’Uganda o il Camerun che, invece, non figurano nei programmi dell’Unione sul reinsediamento, non essendo Stati di origine e di transito di flussi migratori[44].
Si consideri che dal 2015 l’Unione promuove i programmi sul reinsediamento ai sensi dell’art. 17 del regolamento n. 516/2014. In pratica, ogni Stato riceve 10.000 euro per ogni persona reinsediata da aree prioritarie, mentre per ogni siriano ammesso dalla Turchia gli Stati ricevono 6.500 euro. Guardando ai dati, si ricava che gli Stati membri hanno reinsediato nell’ambito dei programmi dell’Unione e, dunque, beneficiando del sostegno economico da essa previsto, tra il 2015 e marzo 2020 un totale di 63.000 persone. Sebbene vi sia un aumento rispetto ai precedenti obiettivi dell’Unione, si tratta comunque di meno del 2% del milione di posti ritenuti necessari dall’Unhcr come impegno globale annuale. È stato notato come lo scarso impegno dell’Unione nel reinsediamento ha avuto anche l’effetto perverso di influenzare negativamente anche altri Paesi, quali gli Stati Uniti e il Kenya, che hanno espressamente dichiarato di ridurre o chiudere i propri programmi nazionali di reinsediamento alla luce dello scarso impegno di altri Stati, determinando una grottesca corsa al ribasso.
Gli Stati membri hanno mostrato una forte riluttanza a concordare strumenti vincolanti a livello europeo sul reinsediamento, preferendo agire individualmente, secondo schemi e procedure autonomamente stabilite. In effetti, a livello statale esistono sistemi di ingresso protetto, nell’ambito dei quali sono esercitati poteri discrezionali da parte degli Stati, nella convinzione di non ottemperare ad alcun obbligo interno o internazionale. L’Italia, decisamente avara in materia di ingresso protetto di richiedenti protezioni internazionale, ha adottato un programma di ingressi per motivi umanitari sulla base dell’art. 25 del codice visti[45] solo grazie all’impulso di organizzazioni non governative che si fanno carico anche dei costi dell’accoglienza[46]. Tuttavia, si tratta di prassi che dovrebbero essere inserite più propriamente nell’alveo dei cd. reinsediamenti, applicabili sia a beneficiari di protezione internazionale sia a richiedenti protezione internazionale e che richiedono necessariamente l’intervento attivo di soggetti interposti tra lo Stato e il beneficiario. Talvolta il soggetto può essere l’Unhcr, talaltra possono invece essere altre organizzazioni non governative, come nel caso dell’esperienza italiana. A proposito dei visti umanitari, la Corte di giustizia ha affermato che gli Stati possono prevedere tale tipologia di ingresso, ma non possono essere considerati obbligati, non almeno in base al codice visti, non in base alla normativa dell’Unione ma, semmai, in base alla normativa nazionale e agli obblighi internazionali gravanti sui singoli Stati[47]. La Corte conferma che nell’ordinamento europeo l’ingresso protetto di potenziali beneficiari di protezione internazionale è contemplato in strumenti ad hoc, di natura non vincolante, e non è mai stato inteso come ricavabile in modo obbligatorio dal codice visti. Semmai, per alcuni Stati membri, il rilascio di un visto di breve durata è stato lo strumento per garantire l’ingresso di persone selezionate attraverso programmi di reinsediamento, che sarebbero potute entrare comunque anche con un visto di lunga durata su base nazionale. È dunque pacifico che gli Stati possano rilasciare visti umanitari in talune circostanze, ma non può essere affermato un obbligo dello Stato a farlo, almeno non ai sensi del diritto dell’Unione europea. Inoltre, la Corte, nel dichiarare la competenza degli Stati membri, ha implicitamente anche affermato che gli Stati non dovrebbero rilasciare visti di breve durata a validità territoriale limitata ai sensi del codice visti nei casi di persone bisognose di protezione internazionale, mentre ben potrebbero rilasciare visti di lunga durata, secondo quanto disposto dalla propria legislazione nazionale.
Al di là della disciplina seguita negli Stati membri e dell’approccio di fondo applicato al reinsediamento, un dato emerge come incontrovertibile: tutti gli ingressi di tipo umanitario, siano ammissione umanitaria o reinsediamento, sono tanto invocati quanto scarsamente praticati, così da non poter essere in alcun modo considerati come compensatori delle pratiche di contenimento dei flussi.
5. Conclusioni
L’Unione europea potrà essere criticata e contestata per incapacità nel gestire la crisi dei migranti e dei richiedenti asilo, ma non certo per il suo immobilismo, per la sua mancanza di azione. La cd. “protezione altrove”, realizzata con l’accordo Ue-Turchia, è stata considerata dai governi e dalle istituzioni Ue un esperimento riuscito ed è stata ritenuta lo strumento appropriato per gestire i flussi migratori e di richiedenti asilo, così da essere inquadrata in una vera e propria strategia di azione globale con tutti i Paesi di origine e di transito dei migranti e dei richiedenti asilo. Tale strategia è stata confermata anche dalla nuova Commissione europea in carica dal 1° dicembre 2019, che l’ha ribadita formalmente nel proprio programma di lavoro e scandita a chiare lettere: come già ricordato, la sua Presidente, nella prima occasione utile, ha definito la Grecia lo «scudo dell’Unione», da sostenere per difenderci dalla minaccia dei migranti.
Ma, come sottolineato da un deputato europeo, si tratta di una strategia che condiziona negativamente il sistema europeo di asilo: «Il nostro sistema comune di asilo non può continuare a concentrarsi esclusivamente su come meglio ostacolare le persone in fuga che tentano di raggiungere il territorio dell’Unione europea. Perché il sistema europeo di asilo funzioni, è essenziale che vi siano vie sicure e legali nonché strutture di accoglienza e di integrazione
adeguate. È imperativo rispettare il diritto di asilo e il diritto internazionale; non si tratta di una scelta alla quale gli Stati membri possono sottrarsi»[48].
Al contrario, forse proprio per sottrarsi al rispetto dei diritti umani fondamentali, la strategia del contenimento dei migranti e richiedenti asilo è stata pianificata e realizzata attraverso i non-accordi: accordi che esistono, ma che non vengono pubblicati con impegni reciproci senza che siano conclusi veri e propri accordi. Le posizioni ufficiali delle istituzioni si sono prodigate a ribattezzare questa cooperazione, rinnovando il lessico delle relazioni internazionali così da rafforzare la convinzione dell’esistenza di un piano diverso di relazioni e di azioni, non valutabile secondo le categorie e i parametri tradizionali e non suscettibile di sindacato giurisdizionale. Tuttavia, anche nel mondo dei non-accordi vi sono finanziamenti reali e persone in carne e ossa che vivono in un limbo che viene proposto come l’unica soluzione possibile di salvataggio di vite umane. Ma non è così. Lo sanno bene le centinaia di migliaia di persone bloccate in transito, respinte, non accolte o accolte in modo disumano, come negli hotspot delle isole greche.
Una forte coesione dei governi nell’azione di contenimento, una totale divisione nelle misure di accoglienza: neanche per le 20.000 persone trattenute nelle isole greche vi è stato anche solo il tentativo di adottare a livello europeo una misura straordinaria di accoglienza. Eppure oggi più di prima sarebbe necessario intervenire con misure innovative, coraggiose, aventi come bussola la salvaguardia della vita delle persone e dei valori dell’Unione. Evacuare le isole greche, accogliere i cittadini siriani sottraendosi ai ricatti del Governo turco e destinando le risorse ai Paesi Ue sarebbe un programma tanto ragionevole quanto rivoluzionario, ma impossibile, soprattutto nei giorni in cui l’Unione e il mondo intero tremano per la pandemia del secolo, molto probabilmente destinata a ridisegnare i rapporti economici e geopolitici mondiali.
*. Il presente contributo è frutto della rielaborazione dell’aggiornamento di precedenti scritti sul medesimo tema (in particolare, La cooperazione Ue-Turchia per contenere il flusso dei migranti e richiedenti asilo: obiettivo riuscito?, in Diritti umani e diritto internazionale, n. 2/2016, pp. 405-426), nonché frutto di relazioni a convegni (in particolare la relazione Il reinsediamento nel quadro della riforma del sistema europeo comune di asilo, tenuta nell’ambito del convegno «Le nuove frontiere dell’immigrazione», Catania, 15-16 giugno 2018). Si segnala e si rinvia, inoltre, ai due volumi della Rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza completamente dedicati alla cooperazione internazionale in materia di immigrazione e asilo.
1. Comunicazione della Commissione, «L’approccio globale in materia di migrazione e mobilità», COM(2011)743, 18 novembre 2011.
2. Comunicazione della Commissione sulla «creazione di un nuovo quadro di partenariato con i Paesi terzi nell’ambito dell’agenda europea sulla migrazione», COM(2016)385, 7 giugno 2016.
3. M. Den Heijer - J Rijpma - T. Spijkerboer, Coercion, prohibition, and great expectations: The continuing failure of the common European asylum system, in Common Market Law Review, vol. 53, n. 3/2016, pp. 607 ss.
4. Unhcr, Turkey. Operational Update – January 2020, https://data2.unhcr.org/en/documents/download/74471.
5. Piano d’azione comune Ue-Turchia del 29 novembre 2015; dichiarazione dei capi di Stato o di governo dell’Ue del 7 marzo 2016; dichiarazione Ue-Turchia del 18 marzo 2016, tutti disponibili su www.consilium.europea.eu; Commissione europea, «Prossime fasi operative della cooperazione Ue-Turchia in materia di migrazione», COM(2016)166, 16 marzo 2016.
6. Sull’ammissione umanitaria vds. infra, par. 4.
7. Commissione europea, COM(2016)166, 16 marzo 2016, cit., p. 2.
8. EU-Turkey Statement. Four years on, 8 marzo 2020, https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-migration/20200318_managing-migration-eu-turkey-statement-4-years-on_en.pdf. Secondo quanto riportato dalla Commissione, «The first tranche serves to fund projects that run until mid-2021 latest. The second tranche serves to fund projects which run until mid-2025 latest. Both tranches combined, all operational funds have been committed – of the €6 billion, €4.7 billion is already contracted and €3.2 billion disbursed».
9. Anche quando, nel 2002, si prospettava l’avvio di un negoziato su un accordo di riammissione, la disponibilità della parte turca a concludere tale accordo venne condizionata alla contemporanea disponibilità da parte Ue a negoziare altri accordi: quello sull’adesione all’Ue, il più complesso sia per ragioni tecniche sia per ragioni politiche, e quello sulla liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi. Quando l’accordo di riammissione è stato concluso nel 2014, l’entrata in vigore delle disposizioni sulla riammissione di cittadini di Paesi terzi e di apolidi, di cui agli artt. 4 e 6 dell’accordo, è stata posticipata di tre anni e rinviata al 1° ottobre 2017 (art. 24, par. 3) e ciò proprio in ragione della stretta connessione tra l’accordo di riammissione e l’accordo sulla liberalizzazione dei visti, che si ipotizzava potesse essere concluso entro il 2017. Si vedano l’accordo di riammissione delle persone in posizione irregolare tra l’Unione europea e la Repubblica di Turchia del 7 maggio 2014 e la decisione del Consiglio 2014/252/Ue del 14 aprile 2014, relativa alla conclusione dell’accordo di riammissione delle persone in posizione irregolare tra l’Ue e la Repubblica di Turchia, entrato in vigore il 1° ottobre 2014.
10. Conclusioni del Consiglio «Giustizia e affari interni», 13 marzo 2020, https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-migration/20190318_eu-turkey-three-years-on_en.pdf.
11. EU-Turkey Statement.Four years on, cit.
12. Unhcr (Greece), Returns from Greece to Turkey – In the framework of the EU-TUR Statement. Source: Greek Ministry of Citizen Protection, 31 dicembre 2019, https://data2.unhcr.org/en/documents/download/73295.
13. https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-migration/20190318_eu-turkey-three-years-on_en.pdf
14. Unhcr, Turkey. Operational Update – January 2020, cit.; A. Makovsky, Turkey’s Refugee Dilemma. Tiptoeing Toward Integration, Center for American Progress, 5 marzo 2019, www.americanprogress.org/issues/security/reports/2019/03/13/467183/turkeys-refugee-dilemma/; Amnesty International, Explained: The situation at Greece’s borders, 5 marzo 2020, www.amnesty.org/en/latest/news/2020/03/greece-turkey-refugees-explainer/; A. Demirguc-Kunt - M. Lokshin - M. Ravallion, A new policy to better integrate refugees into host-country labor markets, Center for Global Development, 22 novembre 2019, https://reliefweb.int/report/turkey/new-policy-better-integrate-refugees-host-country-labor-markets.
15. Si vedano, tra gli altri, il rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio del 26 settembre 2017, relativo ad una duplice visita in Grecia, dal 13 al 18 aprile 2016 e dal 19 al 25 luglio 2016 (CPT/Inf (2017) 25); il Report of the Special Rapporteur on the human rights of migrants on his mission to Greece, del 14 aprile 2017, relativo a una visita in Grecia dal 12 al 16 maggio 2016 (A/HRC/35/25/Add.2) e il parere del 29 novembre 2016 dell’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione europea (FRA Opinion 5/2016, aggiornata nel 2019), tutti citati in A. Liguori, Violazioni conseguenti all’attuazione della dichiarazione Ue-Turchia e giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sugli hotspots greci: la sentenza Kaak e al. c. Grecia, in corso di pubblicazione in Diritti umani e diritto internazionale, 2020. Vds. anche Oxfam, Vulnerable and abandoned. How the Greek reception system is failing to protect the most vulnerable people seeking asylum, gennaio 2019, www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2019/01/2019-01-Greece-media-briefing_FINAL-1.pdf; No-Rights Zone How people in need of protection are being denied crucial access to legal information and assistance in the Greek islands’ EU ‘hotspot’ camps, dicembre 2019, www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2019/12/Oxfam-GCR-Briefing-Paper-No-Rights-Zone-06122019-FINAL-1.pdf; Consiglio greco per i rifugiati e Oxfam, LESBOS BULLETIN. Update on the EU ‘hotspot’ Moria, January-February 2020, marzo 2020, https://oi-files-d8-prod.s3.eu-west-2.amazonaws.com/s3fs-public/2020-03/Lesbos%20Bulletin%20-%20Jan%20%26%20Feb%202020.pdf.
16. Corte Edu, J.R. e al. c. Grecia, ric. n. 22696/16, 25 gennaio 2018; O.S.A. e al. c. Grecia, ric. n. 39065/16, 21 marzo 2019; Kaak e al. c. Grecia, ric. n. 34215/16, sentenza del 3 ottobre 2019. Vds. A. Liguori, Violazioni, op. cit.
17. Si permetta il rinvio a C. Favilli, Quali modalità di conclusione degli accordi internazionali in materia di immigrazione?, in Rivista di diritto internazionale, n. 1/2005, pp. 156 ss.
18. Turkey: Nearly 100,000 unregistered Syrians removed from Istanbul, 4 gennaio 2020, Deutsche Welle, www.dw.com/en/turkey-nearly-100000-unregistered-syrians-removed-from-istanbul/a-51888092.
19. A. Rettman, Erdogan to meet top EU Officials on Border Crisis, in EUObserver, 9 marzo 2020, www.euobserver.com.
20. Unhcr, UNHCR statement on the situation at the Turkey-EU border, 2 marzo 2020, www.unhcr.org/news/press/2020/3/5e5d08ad4/unhcr-statement-situation-turkey-eu-border.html.
21. Dichiarazione del Consiglio «Affari esteri», 6 marzo 2020, www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2020/03/06/statement-of-the-foreign-affairs-council-on-syria-and-turkey/.
22. «I thank Greece for being our European “ασπίδα” [shield] in these times», https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/statement_20_380.
23. N. Jansen, Commission silent on Greece suspending asylum claims, in EUObserver, 4 marzo 2020, www.euobserver.com; Id., Migrants: EU commission not fit to guard treaties, ivi, 6 marzo 2020, www.euobserver.com.
24. A. Rettman, EU-Turkey border getting back to normal, for now, in EUObserver, 17 marzo 2020, www.observer.com.
25. F. Casolari, La crisi siriana, l’esodo dei rifugiati e la dichiarazione Ue-Turchia, in N. Ronzitti ed E. Sciso (a cura di), I conflitti in Siria e Libia: Possibili equilibri e le sfide al diritto internazionale, Giappichelli, Torino, 2018.
26. Tribunale dell’Ue, ordinanza del 28 febbraio 2017, NF c. Consiglio europeo; Cgue, ordinanza del 12 settembre 2018, NF c. Consiglio europeo, C-208/17. E. Cannizzaro, Denialism as the Supreme Expression of Realism. A Quick Comment on NF v. European Council, in Quaderni europei, vol. 2, n. 1/2017, p. 257, www.europeanpapers.eu/it/europeanforum/denialism-as-the-supreme-expression-of-realism-comment-on-nf-v-european-council.
27. E. Cannizzaro, Disintegration through Law?, in Quaderni europei, vol. 1, n. 1/2016, pp. 3 ss., http://europeanpapers.eu/it/e-journal/disintegration-through-law; M. Den Heijer e T. Spijherboer, Is the EU-Turkey refugee and migration deal a treaty?, in EU Law Analysis, 7 aprile 2016, http://eulawanalysis.blogspot.com/2016/04/is-eu-turkey-refugee-and-migration-deal.html; F. De Vittor, Responsabilità degli Stati e dell’Unione europea nella conclusione e nell’esecuzione di ‘accordi’ per il controllo extraterritoriale della migrazione, in Diritti umani e diritto internazionale, n. 1/2018, pp. 5 ss.
28. L. Den Hertog, EU Budgetary Responses to the ‘Refugees Crisis’. Reconfiguring the Fun- ding Landscape, «Centre for European Policy Studies», Bruxelles, 19 maggio 2016, p. 10, www.ceps.eu/ceps-publications/eu-budgetary-responses-refugee-crisis-reconfiguring-funding-landscape/.
29. Ibid.
30. O. Corten, Accord politique ou juridique : Quelle est la nature du ‘machin’ conclu entre l’Ue et la Turquie en matière d’asile?, in EU Immigration and Asylum Law and Policy, 10 giugno 2016, https://eumigrationlawblog.eu/accord-politique-ou-juridique-quelle-est-la-nature-du-machin-conclu-entre-lue-et-la-turquie-en-matiere-dasile/; M. Gatti, La dichiarazione Ue-Turchia sulla migrazione: un trattato concluso in violazione delle prerogative del Parlamento?, in Eurojus, 11 aprile 2016, http://rivista.eurojus.it/la-dichiarazione-ue-turchia-sulla-migrazione-un-trattato-concluso-in-violazione-delle-prerogative-del-parlamento/; M. Den Heijer e T. Spikerboer, Is the EU-Turkey refugee and migration deal a treaty?, op. cit.; V. Chetail, Will the EU-Turkey migrant deal work in practice?, «Graduate Institute of International and Development Studies», Ginevra, 7 marzo 2016, https://graduateinstitute.ch/communications/news/will-eu-turkey-migrant-deal-work-practice.
31. Consiglio dell’Ue, Remarks by President Charles Michel after the meeting with President of Turkey Recep Tayyip Erdoğan in Brussels, 9 Marzo 2020, www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2020/03/09/remarks-by-president-charles-michel-after-the-meeting-with-president-of-turkey-recep-tayyip-erdogan/.
32. E. Olivito, Accordi in forma (semi)semplificata, istanze di accesso civico e vulnus alla Costituzione, in questa Rivista online, 5 febbraio 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/accordi-in-forma-semisemplificata-istanze-di-accesso-civico-e-vulnus-alla-costituzione_05-02-2019.php.
33. Per una completa raccolta degli accordi di riammissione e delle nuove tipologie di accordi informali, si rinvia alla raccolta sistematica contenuta nei due volumi monografici della Rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza del 2016 e nel sito della rivista (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it).
34. Si veda la «Joint Communication Towards a comprehensive Strategy with Africa Towards a strategic partnership 2016-2020», Join(2020)4, del 9 marzo 2020.
35. M. Borraccetti, L’Italia e i rimpatri: breve ricognizione degli accordi di riammissione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, nn. 1-2/2016, pp. 33-58.
36. M. Clemens, Gli aiuti allo sviluppo volti a limitare le migrazioni non raggiungeranno il loro scopo, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, nn. 3-4/2016, pp. 70-73.
37. Decisione n. 573/2007/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, istitutiva del «Fondo europeo per i rifugiati» e regolamento n. 516/2014 del 16 aprile 2014, che istituisce il «Fondo Asilo, migrazione e integrazione», che modifica la decisione 2008/381/CE del Consiglio e che abroga le decisioni nn. 573/2007/CE e 575/2007/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e la decisione 2007/435/CE del Consiglio.
38. Decisione n. 573/2007/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 maggio 2007, che istituisce il «Fondo europeo per i rifugiati» per il periodo 2008-2013, nell’ambito del programma generale «Solidarietà e gestione dei flussi migratori» e che abroga la decisione 2004/904/CE del Consiglio, OJ L 144, 6 giugno 2007, pp. 1-21, considerando n. 10.
39. Si vedano le conclusioni del Consiglio europeo del 15 ottobre 2015 e il comunicato stampa del 29 novembre 2015: www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2015/11/29/eu-turkey-meeting-statement/.
40. Decisione 2015/1523 del Consiglio del 14 settembre 2015, «che istituisce misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia», GU L 239 del 15 settembre 2015, p. 146; decisione 2015/1601 del Consiglio del 22 settembre 2015, «che istituisce misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia», GU L 248 del 24 settembre 2015, p. 80.
41. Decisione 2016/1754 del Consiglio del 29 settembre 2016, GU L 268/82 del 1° ottobre 2016, considerando n. 5.
42. Raccomandazione 2015/914 della Commissione europea dell’8 giugno 2015 «relativa a un programma di reinsediamento europeo», GU L 148 del 13 giugno 2015, pp. 32-37. Il Consiglio ha risposto a tale raccomandazione con l’impegno a reinsediare 22.504 persone, concordato nella riunione del Consiglio del 25 luglio 2015.
43. Ibid.
44. L. Donner, EU leadership on resettlement - the time is now, in EUObserver, 2 ottobre 2017, https://euobserver.com/opinion/139237.
45. Regolamento del 13 luglio 2009, che istituisce un codice comunitario dei visti (“codice visti”), GU L 243 del 15 settembre2009, p. 1.
46. P. Morozzo della Rocca, I due protocolli d’intesa sui “corridoi umanitari” tra alcuni enti di ispirazione religiosa ed il governo ed il loro possibile impatto sulle politiche di asilo e immigrazione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1/2017, www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/archivio-saggi-commenti/saggi/fascicolo-2017-n-1/60-i-due-protocolli-d-intesa-sui-corridoi-umanitari-tra-alcuni-enti-di-ispirazione-religiosa-ed-il-governo-ed-il-loro-possibile-impatto-sulle-politiche-di-asilo-e-immigrazione/file.
47. In questo senso si è pronunciato il Tribunale di Roma con l’ordinanza del 21 febbraio 2019; disponibile in questa Rivista online, insieme al commento di C.L. Landri e C. Pretto, Quando il diritto è vita. Note a margine dell’ordinanza del Tribunale di Roma del 21 febbraio 2019, 8 luglio 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/quando-il-diritto-e-vita-note-a-margine-dell-ordinanza-del-tribunale-di-roma-del-21-febbraio-2019_08-07-2019.php.
48. Relazione sulla proposta di regolamento che «istituisce un quadro dell’Unione per il reinsediamento e modifica il regolamento (Ue) n. 516/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio», COM(2016)468, 23 ottobre 2017.