Principio di eguaglianza ed esercizio della giurisdizione
L’Autore intende come necessario il raccordo tra i due commi dell’art. 3 Cost. e sostiene, di contro all’opinione prevalente che considera il secondo comma come norma semplicemente direttiva, che l’attuazione del principio in essa enunciato spetti anche alla giurisdizione, la quale quindi, oltre a sollevare la questione di costituzionalità, potrà, se possibile, svolgere una interpretazione conforme a Costituzione che conduca a un ripianamento delle eventuali disuguaglianze di fatto.
1. Il tradizionale significato del riferimento al principio di eguaglianza e la peculiarità della nostra Costituzione. L’eguaglianza non come principio da affermare, ma come risultato da conseguire, al di là dell’alternativa tra interpretazione per principi e interpretazione per fattispecie / 2. La tesi che ritiene anche le norme costituzionali dotate di fattispecie. Critica / 3. Il necessario raccordo fra i due commi dell’art. 3 Cost. Questione di costituzionalità e intervento diretto / 4. Giurisprudenza della Corte e secondo comma dell’art. 3. La posizione di chi assegna a questa norma una più penetrante funzione / 5. Principio di eguaglianza sostanziale e diversità oggettiva. Il ruolo della giurisdizione nell’attuazione del principio / 6. Il punto di equilibrio fra i due commi dell’art. 3 e il momento applicativo. L’eventualità di un recupero della tecnica della fattispecie. Legge uguale e diritto diseguale. Necessità di ripensare il principio di legalità
1. Il tradizionale significato del riferimento al principio di eguaglianza e la peculiarità della nostra Costituzione. L’eguaglianza non come principio da affermare, ma come risultato da conseguire, al di là dell’alternativa tra interpretazione per principi e interpretazione per fattispecie
Il riferimento al principio di eguaglianza è inevitabilmente carico di suggestioni, lo si intenda come realtà e come speranza, come verità o come programma rivoluzionario. In una prospettiva storica, esso è stato volta a volta inteso come un necessario punto di partenza di qualsiasi assetto sociale, come un tendenziale punto di arrivo da conquistare o addirittura come traguardo rivoluzionario che implicasse una radicale ristrutturazione della società. La stessa idea di diritto, laddove inteso come volto a conseguire un risultato di giustizia, si raccorda al principio di eguaglianza perché, come è stato giustamente rilevato[1], sulla traccia indicata da Kant e poi ribadita da Fichte, una teoria del diritto è concretamente possibile solo in una società di uomini egualmente liberi, e cioè capaci di un concreto rapporto. Dalle carte della Francia rivoluzionaria alle moderne costituzioni degli Stati di diritto, l’affermazione che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge appare ormai scontata, quasi un riferimento ovvio. Questa evidenza, tuttavia, si esaurisce nella formalità dell’enunciazione, essendo ancora molto varia l’articolazione in cui la dottrina e la giurisprudenza dei diversi Paesi intende e, quindi, attua il principio di eguaglianza. Talora in maniera netta, talaltra con diverse intersezioni e sovrapposizioni, si distingue l’eguaglianza come progetto di legislazione dall’uso di tale principio come norma generale dell’attività di esecuzione e segnatamente della discrezionalità amministrativa, e infine, nella sua massima affermazione, come presupposto giustificativo della legge e quindi come carattere dell’intero sistema normativo[2].
Con riguardo a quest’ultimo profilo, il nostro ordinamento costituzionale si caratterizza peraltro per una specificazione esclusiva. Non si limita a enunciare l’eguaglianza in termini formali, ma afferma, all’art. 3 cpv., che «è compito della Repubblica» (quindi di tutte le sue articolazioni istituzionali, ivi compresa la giurisdizione) rimuovere gli ostacoli che limitano «di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini». La nostra cultura giuridica (e segnatamente quella universitaria) ha sempre sistematicamente rifiutato ogni tentativo di intendere il procedimento interpretativo alla luce di questo rivoluzionario dettato. Lo sforzo da me compiuto con un gruppo di ricerca dell’Università di Bari, più di quarant’anni fa, di ripensare l’intero impianto del codice civile alla luce dell’art. 3 cpv. Cost., pur avendo suscitato all’epoca un appassionato dibattito sulle modalità della didattica giuridica, è rimasto sostanzialmente senza seguito[3]. Per quanto possa sembrare paradossale, quella norma ha finito per apparire anche alla dottrina apparentemente più aperta come l’unica disposizione veramente programmatica della nostra Carta costituzionale, risultando, a ben vedere, insuscettibile di una applicazione diretta[4].
Nell’ottica dei Costituenti l’eguaglianza non è solo un principio da affermare, ma un risultato da conseguire. Se così è, l’alternativa tra interpretazione per principi e interpretazione per fattispecie, intorno alla quale tanti dibattiti si vanno consumando, non può esaurirsi, per quanto attiene all’attuazione del principio di eguaglianza, nelle modalità di svolgimento di un procedimento, ma nell’analisi degli strumenti idonei a raggiungere un traguardo che si reputa essenziale e ineludibile. Certo, il riferimento a principi sembra in apparenza consentire una maggiore duttilità, ma si tratta pur sempre di un’apparenza. Se il problema è attingere, per quanto possibile, il risultato dell’eguaglianza, questo incide comunque sulla consistenza della fattualità. Nel primo caso si tratterà di intendere il principio in maniera tale che implichi anche la vicenda concreta che si tratta di disciplinare; nel secondo si tratterà, invece, di ricostruire la fattispecie secondo confini tali da consentirne la tutela. Ovviamente è più probabile che, operando con questo secondo paradigma, il giudice si trovi di fronte alla necessità di sollevare la questione di costituzionalità della norma che si tratta di applicare ove tale applicazione conduca a un esito di diseguaglianza, ma non si può escludere che egli possa conseguire il risultato anche secondo un’interpretazione conforme a Costituzione[5]. Si può anzi soggiungere che, in linea di principio, questa è preferibilmente destinata proprio a una rimodulazione del procedimento rigido che i vecchi paradigmi argomentativi riconducevano al modo di operare della fattispecie[6].
2. La tesi che ritiene anche le norme costituzionali dotate di fattispecie. Critica
A scanso di equivoci, va immediatamente accantonata la tesi[7] secondo la quale anche le norme costituzionali dovrebbero ritenersi dotate di fattispecie, in quanto non si limitano a enunciare valori assoluti (riconducibili potenzialmente a qualunque situazione), ma principi, che sono quindi riconducibili a situazioni circoscritte oltre a essere soggetti a un bilanciamento con altri principi. È chiaro che qui è necessario non avvitarsi nell’uso delle parole. L’ottica della fattispecie suppone un’alternativa fra mezzi tutti concretamente offerti dal legislatore; quella dei principi si limita a un’indicazione di fini, senza specificazione degli strumenti idonei ad attuarli. Nella sua accezione tradizionale[8], la fattispecie, che letteralmente suona come figura o apparenza del fatto[9], viene intesa come causa degli effetti, con la conseguenza che «essenziale ad una sua corretta attuazione sia l’esatta determinazione degli elementi della fattispecie, cioè del materiale da analizzare»[10]. Che, ad esempio, nel testo costituzionale la “funzione sociale” sia riferita alla proprietà significa solo che quel valore (o principio, come lo si voglia chiamare) non dovrà essere valutato esclusivamente nel rapporto del titolare con il bene, ma in un’ottica che implichi anche soggetti estranei a quel rapporto, senza in alcun modo definirne le modalità applicative. A ciò si aggiunga che nel testo costituzionale sono spesso indicati principi suscettibili di un ambito applicativo praticamente indefinito: si pensi al principio di solidarietà di cui all’art. 2, che la Corte ha utilizzato sia per giustificare la tutela delle unioni omosessuali, sia per incidere sul contenuto di contratti in cui l’attuazione di clausole pur formalmente legittime avrebbe condotto a un risultato di oggettiva sperequazione a danno di uno dei contraenti. D’altra parte, la stessa astratta possibilità di sottoporre ciascun principio a un bilanciamento con altri principi esclude la possibilità di configurare in astratto una fattispecie, sia pure a maglie larghe, perché introduce volta a volta nella determinazione dei confini del fatto circostanze imprevedibili suscettibili di determinare alternativamente l’operatività o la paralisi del principio da bilanciare. Come aveva giustamente evidenziato Mengoni[11], i principi costituzionali, giuridicizzando valori morali, si sottraggono, per loro natura, a ogni riconducibilità entro i confini della fattispecie.
Per intendere il ruolo del giudice nel processo applicativo del principio di eguaglianza, specie assumendo questo principio nel necessario raccordo tra i due commi dell’art. 3, credo ci si debba liberare, ancora una volta, dalla forza costrittiva delle vecchie categorie, al fine di conseguire quel risultato concreto che il Costituente ha posto come traguardo necessario. Quel che mi sembra essenziale evidenziare, nonostante le persistenti resistenze della cultura giuridica sul punto, è che il disegno tratteggiato nel cpv. dell’art. 3 non appartiene soltanto a un astratto futuribile, ma qualifica il ruolo inderogabile del nostro complessivo assetto costituzionale e quindi anche la funzione istituzionale della giurisdizione. Ovviamente il vero problema sorge al di fuori dei casi in cui l’effetto di disuguaglianza può essere paralizzato in radice (nullità del contratto per mancato rispetto degli obblighi di informazione nel corso delle trattative precontrattuali, per pratiche negoziali ingannevoli, aggressive o per situazioni di dipendenza e simili), fermo restando che è da escludere, per quanto analitiche possano essere le previsioni del legislatore, che la legge possa esaurire tutte le potenziali situazioni di disuguaglianza. La forza espansiva del principio fa comunque premio su qualunque pretesa di una analitica elencazione esaustiva. In questo senso può dirsi che, quali che siano le intenzioni di chi gestisce precariamente il potere politico, nessuna legislazione per fattispecie potrà mai valere a paralizzare la rilevanza del principio costituzionale. In termini generali, un’articolazione per fattispecie può rendere più agevole nei casi previsti l’applicazione del principio di eguaglianza, ma non può certo valere a paralizzarne gli ambiti operativi per i casi non previsti. Ogni ingiustizia in chiave di disuguaglianza si palesa con le peculiarità di un caso.
3. Il necessario raccordo fra i due commi dell’art. 3 Cost. Questione di costituzionalità e intervento diretto
Quel che mi sembra essenziale chiarire è che, nell’intento dei Costituenti, i due commi dell’articolo 3 implicano una necessaria integrazione senza possibilità di collocare il primo nel quadro delle regole direttamente attuabili e il secondo sul terreno, molto più sfumato e generico, di un programma d’azione indirizzato al futuro legislatore. Se cioè si ammette che il giudice, di fronte a un risultato applicativo che gli appaia, anche in funzione delle condizioni del destinatario, oggettivamente ingiusto, non abbia altra via che quella di sollevare una questione di costituzionalità della norma che è chiamato ad applicare, il principio dell’eguaglianza sostanziale finisce per svuotarsi perché si consegue il medesimo risultato al quale si sarebbe pervenuti in base al richiamo classico all’eguaglianza formale. Che la differenza risulti enunciata nella previsione legislativa o che emerga in sede applicativa, in entrambi i casi l’affermazione del principio di eguaglianza esige che essa sia riconosciuta.
Contrapporre un’uguaglianza di principio a una di fatto significa, a mio giudizio, cosa diversa. L’uguaglianza formale di cui alle affermazioni classiche tende a sanzionare discipline normative che regolino in maniera difforme situazioni formalmente identiche o, reciprocamente, che regolino in maniera identica situazioni formalmente difformi. Il riferimento al “fatto” lascia invece intendere che vi possa essere un modo di ripianare, in sede applicativa, la disuguaglianza che si consumerebbe applicando in maniera miope un testo di legge che, pur nella sua enunciazione formale, non aveva ipotizzato alcuna disparità. Muove cioè dal presupposto che il paradigma astratto (proprietario, acquirente, contraente, consumatore, etc.) non sia di per sé sufficiente se non si valutano in concreto le condizioni del soggetto che ne risulta investito. Può quindi accadere che un provvedimento (amministrativo o giurisdizionale) debba essere diversamente cadenzato in relazione alle peculiarità del soggetto cui si indirizza, solo così realizzando un’eguaglianza che altrimenti l’applicazione (formale) della legge finirebbe per frustrare. In sede amministrativa, tuttavia, un risultato equilibrato può astrattamente conseguirsi trincerandosi dietro l’elasticità del concetto di discrezionalità amministrativa. Più difficile un simile procedimento appare in sede giurisdizionale, essendo la discrezionalità del giudice assunta come una patologia che va semmai combattuta.
Qui sta, a mio avviso, la delicatezza del raccordo tra principio di eguaglianza ed esercizio della giurisdizione, un raccordo che va cercato rompendo i condizionamenti di vecchie sedimentazioni concettuali. È fisiologico che il giudice si trinceri dietro il richiamo a principi o a clausole generali per superare un’impasse che gli risulterebbe altrimenti irresolubile. Il riferimento all’abuso del diritto, ad esempio, spesso discende dalla constatazione che l’obbligo (o addirittura la soggezione) che a quel diritto si contrappone implicherebbe una situazione di oggettiva disuguaglianza ove ritenuta operante nei modi del suo riconoscimento formale. Si tratta talvolta, a ben vedere, di un mero espediente argomentativo. Si potrebbe analogamente sostenere, facendo applicazione diretta dell’art. 3 cpv., che, essendo chiamato il giudice ad applicare una legge a una situazione concreta in cui le condizioni del soggetto implicato non corrispondono a quelle astrattamente previste (o comunque prevalentemente operanti in sede applicativa), trovandosi in una situazione deteriore, è necessario tener conto del “fatto” assumendolo come capace di dare alla previsione astratta una diversa valenza concreta.
Fermo restando che la previsione di cui all’art. 3 cpv. diventa determinante per stabilire la legittimità costituzionale di una norma che in sede applicativa finisca per determinare un risultato di disuguaglianza, il problema consiste nello stabilire se sia consentito al giudice, oltre che – com’è ovvio – sollevare la questione di costituzionalità, anche svolgere, nella logica di un’interpretazione conforme a Costituzione, una sua applicazione commisurata alla disuguaglianza di fatto, così realizzando la parità non in sede enunciativa, ma applicativa. Riprendendo il modello argomentativo delle celebri ordinanze della Corte sulla riduzione della caparra confirmatoria[12], si tratta di chiedersi, per esempio, se sia consentito al giudice di disporne la riduzione non solo in ragione della sua misura oggettiva, ma anche, per esempio, in relazione alle condizioni economiche di chi dovrebbe sopportarne l’onere.
4. Giurisprudenza della Corte e secondo comma dell’art. 3. La posizione di chi assegna a questa norma una più penetrante funzione
Si deve comunque ammettere che il problema della rilevanza diretta del principio di cui al secondo comma dell’art. 3 Cost. è rimasto sotto traccia nella nostra cultura giuridica[13]. È opinione diffusa quella secondo la quale il tertium comparationis al quale deve essere ragguagliata la relazione binaria tra norma impugnata e parametro costituzionale ai fini del giudizio di eguaglianza non può che avere carattere normativo, con conseguente irrilevanza della disuguaglianza di fatto[14]. Il principio di eguaglianza sostanziale è talora invocato dalla Corte quale fondamento giustificativo delle deroghe apportate al principio di eguaglianza formale o ad altre norme costituzionali. Non mancano tuttavia esempi, ancorché del tutto isolati, nei quali la considerazione dei rapporti di fatto sottostanti alla disciplina legislativa viene assunta in una chiave concettuale e logica autonoma rispetto alle motivazioni fondate sul primo comma dell’art. 3, così da acquisire una distinta rilevanza ai fini del giudizio di illegittimità costituzionale. Sintomatico il caso di cui alla sentenza n. 7/1962 sulla riduzione coattiva per i canoni in grano o ragguagliati al prezzo del grano, in cui si ritenne ragionevole ricondurre ad equità i rapporti contrattuali a vantaggio della parte più debole. Analogamente si dica per le note, ancorché risalenti, sentenze sul principio del solve et repete (nn. 67/1960, 212/1161, 80/1966), in cui il fatto che il pagamento anticipato di alcune somme fosse dalla legge previsto come condizione per far valere in giudizio alcuni diritti fu ritenuto lesivo del principio di eguaglianza sostanziale in quanto avrebbe potuto rappresentare un disincentivo per i non abbienti ai fini della tutela giudiziale dei loro diritti. Nella stessa linea si potrebbero citare altre (peraltro non numerose) sentenze: la n. 134/1994, che ha abrogato una disciplina relativa al pagamento delle spese di soccombenza nelle controversie in materia di assistenza e previdenza senza far salva la situazione dei lavoratori non abbienti; la n. 88/1998, che ha confermato la disciplina dell’assunzione obbligatoria di persone appartenenti a categorie svantaggiate; la n. 167/1999, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1052, secondo comma, cc «nella parte in cui non prevede che il passaggio coattivo di cui al primo comma possa essere concesso dall’autorità giudiziaria quando questa riconosca che la domanda risponde alle esigenze di accessibilità – di cui alla legislazione relativa ai portatori di handicap – degli edifici destinati ad uso abitativo», proprio perché l’impossibilità del portatore di handicap di accedere alla pubblica via avrebbe finito per determinare «quella disuguaglianza di fatto impeditiva dello sviluppo della persona che il legislatore deve, invece, rimuovere». Con la sentenza n. 10/2016, la Corte, con riguardo a una legge finanziaria e di bilancio della Regione Piemonte, ne ha individuato, fra l’altro, la contraddittorietà con il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 «per il pregiudizio alla fruizione di servizi sociali causata dal mancato finanziamento dei servizi».
Al di là di questi esempi isolati, il riferimento al cpv. dell’art. 3 è rimasto tuttavia prevalentemente sullo sfondo nella giurisprudenza della Corte, pur non potendosi escludere che, anche quando la disuguaglianza di fatto non abbia operato da ragione giustificativa dell’illegittimità costituzionale, essa abbia potuto in concreto incidere «per orientare i percorsi argomentativi del giudice costituzionale o la selezione assiologica delle conseguenze della decisione»[15]. È rimasta quindi del tutto minoritaria la posizione di chi, assegnando al secondo comma dell’art. 3 funzione «mediatrice tra il mondo delle scelte politiche e la sfera dei valori costituzionali»[16], ha ipotizzato che esso avrebbe dovuto imporre una forma di controllo diretta non semplicemente a verificare la razionalità interna o la coerenza sistematica delle scelte legislative, ma la loro strumentalità rispetto a fini di promozione sociale. Secondo questa tesi, la Corte non deve «limitarsi ad esaminare se la legge è razionale e giustificata dalle concrete situazioni storiche ed ideologiche da cui scaturisce, ma deve accertare che essa rispetto a quelle non risulti per il suo contenuto di impedimento alla realizzazione dei fini del “pieno sviluppo” e dell’“effettiva partecipazione” (fattori di libertà “negativa”), anziché si ponga come strumento di “rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale” (fattori di libertà “positiva”)»[17]. Ed è ovvio che una valutazione del genere non può che discendere dal modo di atteggiarsi della situazione fattuale, anziché dalla struttura della previsione normativa.
Comprendo bene che un giudizio del genere, riferito all’integralità di una scelta legislativa, potrebbe determinare il rischio di una intersezione del giudizio di costituzionalità con le scelte politiche rimesse al legislatore ordinario, anche se non sarebbe difficile cogliere negli svolgimenti di molte motivazioni della Corte (pur senza possibilità di ricostruire i tragitti della camera di consiglio) la sostanza di un fondamento che, al di là delle giustificazioni finali, affonda le sue radici in ragioni di giustizia sostanziale[18]. Al di là delle motivazioni tecniche, è stata questa comunque la chiave con la quale molte decisioni della Corte sono state recepite dalla comunità di riferimento. Quel che mi sembra in ogni caso opportuno evidenziare è che, ove il richiamo al secondo comma dell’art. 3 non fosse ritenuto sufficiente a sanzionare la radicale illegittimità della norma, questa consente comunque sempre al giudice di farne un’applicazione conforme a Costituzione, facendo sì che l’effetto subito dal destinatario sia oggettivamente conforme a quello di altri e, quindi, scontando l’eventuale differenza dei punti di riferimento oggettivi. Se così non fosse, il raccordo tra i due commi dell’art. 3 perderebbe significato perché, laddove la disparità non emerga da un dato formale, l’esperienza giuridica non farebbe che ratificare le disuguaglianze di fatto, con ciò vanificando il principio fondativo di cui al secondo comma. Esito tanto più paradossale nella stagione del postmoderno, che tende a evidenziare sempre nuove diversità.
5. Principio di eguaglianza sostanziale e diversità oggettiva. Il ruolo della giurisdizione nell’attuazione del principio
Da taluno[19] è stato avanzato il sospetto che il principio di eguaglianza sostanziale, anziché costituire un rafforzamento dell’eguaglianza formale, finisca per risolversi in un possibile svuotamento del principio, addirittura teorizzando l’idea che qualsiasi caso concreto è diverso da tutti gli altri e quindi merita un trattamento differenziato. Si tratta – com’è evidente – di un tipico paradosso. Essendo ogni uomo diverso dall’altro, è chiaro che ogni decisione finisca per determinare effetti diversi, se non altro per le ricadute di tipo psicologico che la decisione è destinata a determinare nella sfera del soggetto implicato. C’è, tuttavia, un punto – ovviamente non definibile a priori e in astratto – in cui la differenza incide sul valore e quindi vulnera il principio costituzionale che lo garantisce. E, come ha ammonito Max Weber[20], tra i valori «non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso». A quel punto, il giudice non potrà trincerarsi dietro il riconoscimento dell’eguaglianza formale, ma dovrà scegliere tra sollevare una questione di costituzionalità di quell’affermazione di principio ovvero trovare strumenti operativi idonei a riequilibrare in punto di fatto le disuguaglianze. Per quanto assurdo possa apparire ai cultori di un neopositivismo critico, la prima soluzione può risultare talora più pericolosa ed estrema perché potrebbe condurre a rendere più evanescente la tutela[21].
Certamente Francesco Viola[22] coglie uno snodo essenziale del problema quando ammonisce sulla dissociazione che, nel processo storico, si è venuta a determinare tra «un’eguaglianza intesa come generalità del precetto legislativo e un’eguaglianza configurata come giustificabilità della discriminazione e quindi come ragionevolezza», specificando che «oggi il problema centrale è quello della tipizzazione di questi giudizi di ragionevolezza». È chiaro, tuttavia, che si tratta di una tipizzazione che non potrà essere compiuta a priori in chiave di fattispecie, ma solo a posteriori sulla base di una serie conforme di pronunce giurisprudenziali[23].
Il concorso di tutti gli assetti istituzionali all’esito di cui al cpv. dell’art. 3 non può evidentemente escludere il momento giurisdizionale. Né varrebbe, in tal caso, la consueta accusa di chi assume che si finirebbe in tal modo per assegnare al giudice un potere spropositato, perché, a prescindere dal rilievo che la norma sull’eguaglianza sostanziale ha pari dignità rispetto a quella del comma precedente sull’eguaglianza formale, rimane il dato decisivo che le disuguaglianze di fatto sono quelle più direttamente esposte al controllo sociale e quindi più facilmente motivabili, quando diventano criterio giustificativo della soluzione concreta, in chiave di ragionevolezza e di argomentazione persuasiva.
Se, nell’ottica del giudice costituzionale, la disuguaglianza di fatto, laddove non giustifichi ex se l’illegittimità costituzionale delle norme impugnate, può diventare criterio di orientamento per una soluzione altrimenti motivata, per il giudice ordinario, chiamato ad applicare la norma nella maniera più egualitaria possibile, la comparazione fra situazioni diverse può indurlo a dare alla norma una diversa cadenza applicativa in funzione delle condizioni del destinatario. Anche in mancanza della concreta utilizzazione di una clausola generale (e sarebbe superfluo qui ricordare l’uso che della buona fede è stato fatto nella disciplina dei rapporti di fonte contrattuale), lo consente il riferimento alla valenza assorbente del principio costituzionale.
Anzi, a ben vedere, una simile impostazione, che sposta a valle il finale giudizio di eguaglianza, finisce per diventare il punto di equilibrio del sistema, che altrimenti finirebbe per avvitarsi su se stesso, posto che – come è stato giustamente osservato[24] –, se è indubbio che l’identica disciplina di situazioni di fatto ineguali è tratto peculiare di ogni normazione generale ed astratta, allora negarla in nome del principio di eguaglianza materialmente inteso significa spingere in direzione di una accentuata individualizzazione della legislazione, che dovrebbe rincorrere costantemente le differenze fattuali, anche le più insignificanti, per assicurare a ciascuna situazione o rapporto la più peculiare disciplina[25].
6. Il punto di equilibrio fra i due commi dell’art. 3 e il momento applicativo. L’eventualità di un recupero della tecnica della fattispecie. Legge uguale e diritto diseguale. Necessità di ripensare il principio di legalità
È ovvio che il punto di equilibrio fra i due commi dell’art. 3 si può cogliere solo nel momento applicativo e trova, quindi, nella sede giurisdizionale il suo più significativo punto di emersione. Sarebbe improprio e temerario pretendere di delineare le modalità di tale emersione secondo paradigmi astratti. È inevitabile che il giudice costituzionale continui ancora ad oscillare, nella varietà di modelli argomentativi, tra soluzioni di illegittimità costituzionale legate allo squilibrio fattuale che un’applicazione della norma determinerebbe in funzione dei rapporti di fatto sottostanti alla disciplina legislativa e altre più genericamente giustificate, in chiave di ragionevolezza, da ragioni di giustizia sostanziale. Analogamente, è inevitabile che il giudice ordinario continui volta a volta, in funzione delle peculiarità del caso, a cercare un punto di equilibrio tra la necessità di sollevare la questione di legittimità costituzionale di una norma la cui applicazione determinerebbe, a suo avviso, un esito di oggettiva disuguaglianza e la possibilità di risolvere in concreto il problema attraverso una riequilibratura della situazione mediante uno degli strumenti che l’ordinamento gli offre. Lo strumentario del quale si varrà la giurisprudenza ordinaria per conseguire un simile risultato potrà essere il più vario e non è da escludere, come suppone Enrico Scoditti[26], che ciò possa anche implicare un recupero della tecnica della fattispecie, per esempio assegnando a talune previsioni normative un ambito più puntuale e specifico. Quel che è certo è che si tratta di un tragitto il cui traguardo è inesorabilmente tracciato nell’ottica dell’art. 3 cpv. Un traguardo che non sarà raggiunto – come da qualcuno si teme – in un quadro di inclinazioni soggettive o immotivate suggestioni assiologiche, ma in un contesto ordinamentale che il nostro assetto costituzionale rende molto solido, e che la comunità dei giuristi deve concorrere a rendere comprensibile e accettabile a tutta la collettività sociale.
Nella chiave del nostro disegno costituzionale, dobbiamo cominciare a comprendere e a far capire perché, se la legge è uguale per tutti, il diritto deve essere inesorabilmente diseguale[27]. Un’interpretazione coordinata dei due commi dell’art. 3 conduce inevitabilmente a questo risultato, superando in radice la posizione di chi afferma che la previsione di cui al secondo comma dell’art. 3 sia sovrapponibile «alla norma precedente, giacché non vige nella medesima sfera di questa, ma tende a produrre effetti sussidiari di un principio altrove stabilito in tutti i suoi elementi»[28]. Qui non si tratta, a mio avviso, di contrapporre Stato di diritto e Stato sociale, collocandoli su piani sostanzialmente paralleli, ma di intendere che, se il diritto è funzionale a un risultato di giustizia, non si potrà mai dare attuazione a una norma che determini oggettivamente un risultato valutabile in chiave di diseguaglianza. Assegnare cioè l’eguaglianza formale allo Stato di diritto e quella sostanziale allo Stato sociale, intendendo la prima attuata in un enunciato, la seconda quale semplice prospettiva di un traguardo futuro, significa, a mio giudizio, svuotare dal di dentro quella che personalmente considero la norma fondante dell’intero impianto costituzionale, il principio che ha dato vita al nostro assetto democratico nella sintesi fra le tre culture (quella cattolica, quella liberale e quella socialista), emblematicamente evidenziata nell’uso delle tre espressioni – «persona» , «cittadino», «lavoratore» – che il cpv. dell’art. 3 riferisce ovviamente al medesimo soggetto. Il giudice non potrà che trovarsi di fronte a un’alternativa: o ritenere quell’attuazione impraticabile in chiave di costituzionalità, sollevando quindi la relativa questione innanzi alla Corte, ovvero ritenere che sia possibile una sua applicazione differenziata in relazione alle peculiari condizioni del destinatario, ammettendo quindi che la previsione legislativa sia suscettibile di essere modulata in relazione alla situazione oggettiva del destinatario. Né varrebbe opporre che un comportamento di questo tipo da parte della giurisdizione finirebbe per «sottrarsi al principio di legalità sostanziale»[29], perché il problema allora si sposta sul modo di intendere il principio di legalità. Alla legalità in senso formale della tradizione del positivismo si è venuto oggi sostituendo – nell’ottica del diritto come scienza pratica[30] – un modo di intenderla nella chiave di una prassi volta a un risultato di giustizia[31]. Non è senza significato il fatto che un’opera come l’Enciclopedia del diritto abbia avvertito la necessità, dopo aver proposto la voce «Legalità, principio di» di Sergio Fois[32], voce che si concludeva avvertendo la tendenziale contraddizione tra il vecchio concetto positivistico di legalità e l’idea di effettività del diritto, di proporne, a distanza di oltre quarant’anni, una nuova affidata a Massimo Vogliotti[33], che invece argomenta di una legalità come “εὐπραξία”, cioè come prassi indirizzata a un risultato di giustizia[34]. Il fatto stesso comunque che si ammetta la possibilità, a distanza di lustri, di ripensare la legalità all’interno di un ordinamento giuridico definito, fa capire che la sua idea non può essere assunta come presupposto, ma semmai come risultato, del modo stesso di intendere una determinata esperienza giuridica.
La preveggenza dei Costituenti, che induceva a spostare il fulcro dell’attenzione dal presupposto enunciativo all’esito applicativo, può dirsi che abbia anticipato una prospettiva che l’esperienza giuridica tende ormai ad acquisire, sia pure incontrando ancor oggi le resistenze di una vecchia cultura giuridica.
[1] Cfr. E. Opocher, J.G. Fichte e il problema dell’individualità, Cedam, Padova, 1944, p. 173.
[2] Sul punto, lucidamente, L. Paladin, Eguaglianza, diritto costituzionale, in Enc. dir., vol. XIV, Giuffrè, Milano, 1965, p. 520.
[3] Cfr. N. Lipari, Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, Laterza, Bari, 1974 (seconda ed.).
[4] Nella corrente valutazione dei costituzionalisti, la norma del cpv. dell’art. 3 sembra avere un valore semplicemente direttivo, senza incidenza sulla disciplina concreta dei casi specifici e quindi sull’esercizio della giurisdizione: cfr. B. Caravita, Oltre l’eguaglianza formale. Un’analisi dell’art. 3, comma 2, della Costituzione, Cedam, Padova, 1984, p. 31; vds. anche G.U. Rescigno, Il progetto consegnato nell’art. 3, comma 2, della Costituzione italiana, in E. Ghera e A. Pace (a cura di), L’attualità dei principi fondamentali della Costituzione in materia di lavoro, Jovene, Napoli, 2009, pp. 124 ss.; V. Crisafulli, Sull’efficacia normativa delle disposizioni di principio della Costituzione, in Aa. Vv., Scritti in memoria di Luigi Cosattini, Annali triestini, vol. XVIII, Università di Trieste, Trieste, 1948, oggi in Id., La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano, 1952, pp. 40 ss.
[5] Non credo si possa sostenere – come invece assume M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir., Annali, vol. IX, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 391 ss., spec. pp. 466 ss. – che, estendendo oltre confini impropri l’interpretazione conforme a Costituzione, si tende a trasformare in diffuso un sindacato di costituzionalità che era stato all’origine concepito come accentrato, perché – a parte che una tale perentoria affermazione cancella in radice tutto quel processo di costituzionalizzazione del diritto civile sul quale sono stati scritti interi volumi – l’osservazione non risulta comunque rilevante con riguardo al principio di eguaglianza, segnatamente nella versione di cui al secondo comma dell’art. 3, perché esso comunque suppone una valutazione specifica e individualizzata in funzione del conseguimento di un risultato concreto (che è compito tipico del singolo giudice).
[6] Il problema riguarda sempre il modo di utilizzazione del procedimento interpretativo. Chi ha, ad esempio, riflettuto intorno alla soluzione di un caso limite (cfr. G. Gazzolo, Il caso-limite e le funzioni dei concetti giuridici, in Ars interpretandi, n. 1/2019, pp. 31 ss.), ha giustamente evidenziato che, se il concetto rispetto al quale il caso borderline è inteso nella sua funzione classificatoria (se si ragiona, cioè, secondo il paradigma delle fattispecie), il caso-limite darà luogo a dubbi o disaccordi circa “l’estensione del concetto” (scilicet: l’ambito della fattispecie); se invece il concetto è inteso nella sua funzione ordinatoria (se, cioè, si ragiona secondo il paradigma di un riferimento a principi), allora si verificheranno dubbi o disaccordi circa “le regole d’uso del concetto” (scilicet: il modo di intendere il principio). Nel primo caso si ragionerà sull’estensione della fattispecie; nel secondo, sull’indeterminatezza del principio. In entrambi i casi rimarrà, tuttavia, decisivo il ruolo del giudice nel raccordare la vicenda concreta al criterio classificatorio idoneo a fornire una soluzione che appaia plausibile e condivisibile alla comunità di riferimento.
[7] G. D’Amico, L’insostituibile leggerezza della fattispecie, in Ars interpretandi, n. 1/2019, p. 61, nota 32.
[8] Cfr. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in F. Vassalli (diretto da), Trattato di diritto civile italiano, Utet, Torino, 1952, p. 2, nota 2.
[9] Cfr. A. Cataudella, Fattispecie, in Enc. dir., vol. XVI, Giuffrè, Milano, 1967, p. 926.
[10] A. Cataudella, ivi, p. 941.
[11] L. Mengoni, Diritto e tecnica, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 1/2001, pp. 1 ss.
[12] Cfr. Corte cost., ordinanze 13 ottobre 2013, n. 248 e 26 marzo 2014, n. 77.
[13] Anche chi si è di recente occupato dell’incidenza del principio di eguaglianza sui rapporti fra privati – cfr. F. Vari, L’affermazione del principio dell’uguaglianza nei rapporti fra privati. Profili costituzionali, Giappichelli, Torino, 2017 (seconda ed.) – lo ha fatto sul presupposto della «difficoltà di far richiamo all’art. 3 secondo comma Cost., per estendere ai rapporti fra privati l’applicazione del principio di eguaglianza di cui al primo comma dello stesso articolo» (ivi, p. 52).
[14] Cfr., per tutti, G. Scaccia, Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 60 ss.
[15] Cfr. G. Scaccia, op. ult. cit., p. 71, nota 113. Qualche volta la Corte, pur non facendo diretto richiamo alla norma dell’art. 3 cpv., lascia intendere che la questione di legittimità costituzionale è legata alla rilevanza di condizioni oggettive. Così, per esempio, è accaduto con la sent. n. 275/2016 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una legge della Regione Abruzzo per la parte in cui condizionava l’assistenza e il trasporto per studenti disabili ai «limiti delle disponibilità finanziarie della legge di bilancio».
[16] Cfr. G. Volpe, L’ingiustizia delle leggi. Studi sui modelli di giustizia costituzionale, Giuffrè, Milano, 1977, p. 282.
[17] Cfr. G. Volpe, op. ult. cit., p. 288.
[18] Osserva giustamente M. Taruffo, Verso la decisione giusta, Giappichelli, Torino, 2020, p. 48, che i diritti umani e sociali «nascono prima nella coscienza morale e sociale, e solo dopo – spesso con grave ritardo – vengono riconosciuti e disciplinati dai legislatori sostanziali; talvolta, anzi, questo riconoscimento non si verifica mai. Allora, se si limitasse la funzione della giurisdizione ad accertare solo ciò che già esiste, si finirebbe col chiudere la strada a forme di garanzia che potrebbero assicurare l’attuazione di tali diritti pur nell’inerzia colpevole dei legislatori sostanziali».
[19] Cfr. G. D’Amico, L’insostituibile leggerezza, op. cit., p. 65, nota 49.
[20] Cfr. M. Weber, Il significato della “avalutabilità” delle scienze sociologiche ed economiche, in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1958, p. 332.
[21] Non va mai dimenticato che, come è stato giustamente rilevato, la dichiarazione di incostituzionalità altro non è che «il fallimento dell’interpretazione»: così G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 257.
[22] Cfr. F. Viola, Una teoria deliberativa della giurisdizione?, in Ars interpretandi, n. 1/2018, 1, p. 20.
[23] Cfr. G. Scaccia, Valori e diritto giurisprudenziale, in Dir. società, n. 1/2011, pp. 134 ss. Osserva giustamente L. Rovelli, Certezza del diritto: dalla legge all’interpretazione consolidata e possibile eterogenesi dei fini, in Ars interpretandi, n. 1/2019, p. 138, che il potenziamento del ruolo dell’interpretazione e della funzione giurisdizionale ritrova il recupero di “razionalità” e di “calcolabilità” proprio nella formazione del precedente giudiziario e nella sua progressiva stabilizzazione, specificando che la “vincolatività presuntiva” del precedente stabilizzato e divenuto diritto vivente non nasce mai dal puro soggettivismo del giudicante, ma è il punto di emersione di un lavoro articolato prodotto da una “comunità interpretante”, con la conseguenza che, senza superare la “prova di resistenza” del dibattito dottrinale, sia pure complessivamente considerato, difficilmente può formarsi su una quaestio iuris alcun diritto vivente.
[24] Cfr. L. Paladin, Il principio costituzionale d’eguaglianza, Giuffrè, Milano, 1965, p. 195.
[25] Peraltro, non va mai dimenticato che «nella forma di Stato accentuatamente pluralista la differenza è divenuta ragione di identità e l’uniformità motivo di discriminazione»: così G. Scaccia, Gli “strumenti”, op. cit., p. 46.
[26] Cfr. E. Scoditti, Ripensare la fattispecie nel tempo delle clausole generali, in questo fascicolo.
[27] Cfr. A. Kaufmann, Gesetz und Recht, in Id., Rechtphilosophie im Wandel. Stationen eines Weges, Athenäum, Francoforte sul Meno, 1977 (1972), p. 157: «Legge e diritto non sono la stessa cosa. Essi però non sono solo occasionalmente differenti l’una dall’altro. La loro è anzi una differenza ontologica, essenziale. Legge e diritto stanno fra loro come la potenza all’atto, come la possibilità alla realtà. La legge non è ancora la realtà del diritto; è solo un grado, certamente necessario, del cammino verso la realizzazione del diritto. La legge è una norma generale per la molteplicità dei casi possibili, il diritto decide invece una situazione reale, qui ed ora».
[28] Così L. Paladin, Eguaglianza, op. cit., p. 548.
[29] Cfr. L. Paladin, ibid.
[30] Non va mai dimenticato che il sapere giuridico va collocato nell’alveo delle scienze pratiche, facendo nuovamente propria l’idea di una scienza giuridica non descrittiva e oggettivante, in altri termini avalutativa, ma chiaramente orientata. In questo modo si sovverte la tesi di H. Kelsen (Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), trad. it. a cura di S. Cotta e G. Treves, Edizioni di Comunità, Milano, 1952, p. 13), secondo il quale la giustizia, che è il fine delle scienze pratiche, diventa un ideale irrealizzabile. Come giuristi dobbiamo abituarci a un sapere che non è – come una volta si riteneva – veritativo e descrittivo, ma ipotetico, valutativo, costruttivo, dubitativo. Il risultato della conoscenza giuridica non può dunque essere qualificabile in chiave di verità supponendo la possibilità di una dimostrazione, ma, in una prospettiva epistemologicamente molto più fragile, deve accontentarsi di verosimiglianza e può essere accolto solo in chiave di persuasione.
[31] È chiaro che una simile tesi contraddice alla posizione di chi (cfr. M. Luciani, Interpretazione conforme, op. cit., spec. pp. 440 ss.), contrapponendo legalità legale a legalità costituzionale, si rifà a un concetto di legalità formale che non può ormai più ritenersi condivisibile nell’ottica di un diritto inteso come scienza pratica. Come dimostrano tutte le sentenze in cui la Corte ha modificato, a legislazione invariata, una precedente decisione di legittimità costituzionale in funzione di sopravvenienze culturali o sociali, non è vero che «per tutti gli interpreti il testo è necessariamente il significante di riferimento» e che anzi «per l’interprete della Costituzione quel significante reclama una stabilità interpretativa maggiore di quella richiesta dalla legge e sollecita un più robusto ancoraggio alla voluntas dell’autore storico» (ivi, p. 461).
[32] In Enc. dir., vol. XXIII, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 659 ss.
[33] Cfr. M. Vogliotti, Legalità, in Enc. dir., Annali, vol. VI, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 371 ss.
[34] È appena il caso di ricordare che anche Bobbio, teorico del positivismo, riconosce che il sapere giuridico non è un sapere descrittivo e oggettivante; il suo fine non è la verità aristotelicamente intesa come adaequatio mentis et rei, ma un sapere produttivo teleologicamente orientato (cfr. N. Bobbio, Essere e dover essere nella scienza giuridica, in Riv. internaz. fil. dir., 1967, pp. 235 ss.). L’azione è sempre determinata dal contesto spazio-temporale in cui si compie e dal fine a cui si tende. Le norme non possono quindi costituire l’insuperabile orizzonte del giurista, che, al contrario, nel suo lavoro di comprensione del diritto, deve necessariamente attingere alle categorie di senso e di valore presenti nella società in cui vive.