Fattispecie e clausola generale: alternativa o binomio?
Il tempo delle clausole generali o, per meglio dire, il tempo in cui propugnare un uso più largo delle clausole generali equivaleva a formulare un’impegnativa proposta di politica del diritto, è ormai alle nostre spalle. Nell’attuale quadro di un diverso rapporto fra legge e autonomia privata, nel quale la prima investe di nuovi compiti i giudici, fra fattispecie e clausola generale esiste un continuum non più suscettibile di essere irrigidito nella fissità di un’alternativa radicale.
1.
La concettualizzazione che Questione giustizia propone del grande tema relativo al ruolo assunto dalla giurisprudenza nei processi di produzione del diritto (ma forse, per le ragioni che vedremo più avanti, sarebbe più appropriato dire “nei processi di significazione degli enunciati normativi”) presenta il vantaggio della chiarezza e il correlato costo di una certa, forse inevitabile, semplificazione. L’alternativa “fattispecie”/”clausola generale”, infatti, prima di essere assunta nella evidenza fenomenologica che permea di sé il contributo di Enrico Scoditti, Ripensare la fattispecie nel tempo delle clausole generali (in questo fascicolo), va sottoposta a un preliminare vaglio critico che, senza rinnegarne l’efficacia euristica, ne restituisca un’immagine almeno un po’ più mossa.
In primo luogo va osservato – è banale, ma non per questo meno vero – che sia che si legiferi attraverso la tecnica della fattispecie, ovvero della norma a struttura chiusa, sia che si legiferi attraverso la tecnica della clausola generale, ovvero della norma a struttura aperta, si tratta pur sempre di piattaforme semantiche “poste” da un soggetto diverso da quello al quale spetta il compito di integrarne e completarne il significato attraverso la mediazione del “caso” (una volta, in piena auge il paradigma illuminista, si sarebbe detto, molto più semplicemente, il soggetto al quale spetta il compito di applicare la norma generale e astratta, cioè il giudice). Ora, è vero che nelle due evenienze, il contributo che quest’ultimo è chiamato a dare differisce per qualità: nel senso che, ricorrendo la prima di esse – fattispecie – il giudice sarà un “semplice” interprete, mentre ove ricorra la seconda – clausola generale – il giudice sarà chiamato a selezionare l’insieme delle circostanze di fatto alle quali applicare la direttiva immanente al segmento di norma istitutivo della clausola generale.
Ad esempio, secondo l’art. 1337 cc «le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede». Il riferimento (nell’accezione analitica del termine) di questo enunciato è abbastanza vago, esaurendosi nella individuazione di un campo di esperienze (“trattative”, “formazione del contratto”) non troppo esteso, ma modestamente formalizzato (il codice civile, nella sedes materiae, parla piuttosto di «conclusione del contratto»: art. 1326). L’applicazione, anzi, la concretizzazione della regola, in questo caso, pertanto, presuppone che vengano in via preliminare definiti i contorni delle «trattative» e della «conclusione del contratto» in modo da circoscrivere l’ambito operativo della regola: e questa operazione non è un’operazione neutra – così come non lo è, ovviamente, là dove sia il legislatore a costruire la fattispecie –, ma implica il disvelamento e la messa in opera del Sollen incapsulato nel canone della buona fede. Sollen che, qui, si identifica con la tutela dell’affidamento riposto dalle parti nella prosecuzione delle trattative e nella conclusione dell’affare: di talché si tratterà di stabilire quando, ossia in presenza di quali condizioni, l’affidamento sarà legittimo, cioè meritevole di tutela. Questa tecnica di performazione del reale non giuridico da parte del giuridico rimanda a una divisione dei compiti tra i due grandi attori della nomodinamica che si atteggia in modo abbastanza diverso dal paradigma ordinario, dove il giudice è chiamato ad applicare le enunciazioni del legislatore. In altre parole, mentre in genere la concretizzazione implica che il giudice adatti la previsione legislativa al caso e, viceversa, il caso alla previsione legislativa, secondo quel gioco di rimandi reciproci proprio del famoso circolo ermeneutico, trattandosi di una norma a struttura aperta, la concretizzazione implica che sia il giudice a predisporre le condizioni per l’applicazione della regola –applicazione che, però, a quel punto, individuerà la derivata di un processo che, certo, prende le mosse dalla piattaforma di senso allestita, come sempre, dal livello superiore ma circoscritta, questa volta, alla sola indicazione del valore (buona fede, correttezza professionale, etc.) e di un riferimento, come ho già detto, dai contorni alquanto vaghi (trattative, formazione del contratto, attuazione del rapporto obbligatorio, pratiche concorrenziali, etc.).
Ridotta la questione all’essenziale, è proprio la circostanza che sia il giudice l’artefice delle condizioni di applicabilità della regola (di talché anche il modo di intendere “applicazione” imporrebbe di essere ripensato) – là dove, se la regola è di conio legislativo, essa si presenta all’appuntamento con il caso equipaggiata di tutto punto e pronta per venire concretizzata nel senso puramente ermeneutico di cui dicevo appena sopra – a marcare il divario quanto al modo di partecipare all’edificazione dello Stufenbau delle norme a struttura chiusa e delle norme a struttura aperta.
2.
Detto questo, la differenza, che va sempre tenuta ben presente, non va enfatizzata, ovvero va storicizzata. Il tempo delle clausole generali o, per meglio dire, il tempo in cui propugnare un uso più largo delle clausole generali (e dei principi) equivaleva a formulare una impegnativa proposta di politica del diritto, è ormai alle nostre spalle: e, insieme con esso, il quadro istituzionale e culturale dal quale quella proposta ricavava la sua forza dirompente. Volendo procedere in via di estrema sintesi, direi che quando, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, le clausole generali, da argomento di una riflessione eminentemente tecnica, si impongono come tema programmaticamente (gius)politico, iscritto perfino dentro un’ipotesi di riforma del codice civile, lo stato dell’arte, come si usa dire, era più o meno questo: a) una legislazione civilistica ancora saldamente controllata, sebbene non esaurita, dal codice civile; b) un impatto ancora minimo della Costituzione e dei suoi principi, specie sulle corti; c) la persistente egemonia del paradigma positivista sia nella sua versione metodologica, sia nella sua versione ideologica; d) la persistente egemonia dell’idea che quella del giudice fosse un’attività di natura puramente dichiarativa (donde la vita precaria e marginale cui le clausole generali erano votate dal diffuso, e non del tutto infondato, sospetto che esse rappresentassero il cavallo di Troia della temuta creatività della giurisprudenza); e) un ruolo ancora importante della dottrina, considerata garante e, in pari tempo, custode della razionalità dell’insieme delle norme, cioè del suo essere un sistema.
A distanza di svariati decenni, il panorama è mutato radicalmente. a) Il codice civile, almeno per alcune materie certo non periferiche, tende ad assumere i contorni di un grande magazzino di precetti dispositivi, ad applicazione residuale. Del resto, nel corso del tempo, tutti quelli che una volta si chiamavano gli istituti fondamentali del diritto civile – la proprietà, il contratto, la responsabilità civile e, da ultimo, l’obbligazione (si pensi alla disciplina del sovraindebitamento e della esdebitazione resa ormai regola generale dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza) – hanno subito trasformazioni profonde, frutto dell’azione congiunta di legislazione speciale (ma ha davvero un senso continuare ad avvalersi di questa formula?), direttive dell’Ue e applicazione indiretta (per via interpretativa) e, ormai, anche diretta dei principi costituzionali. E non è un caso che quando, come sempre più spesso accade oggi in Italia, si parla di riforma del codice civile, in realtà si allude a interventi settoriali, la cui finalità più ambiziosa sembra essere quella di allineare il testo (già) sacro a guadagni acquisiti non per via di elaborazione e affinamento del medesimo testo, ma sulla scorta di processi esogeni e che, comunque, non riconoscono più uno specifico primato alle rationes incorporate nel codice. b) La Costituzione, nata come Costituzione-indirizzo, una volta “disgelata” ha, per una breve fase, interpretato un ruolo conforme a quello assegnatole dai Padri costituenti (fondamentalmente da Palmiro Togliatti): alludo alla stagione delle grandi riforme legislative, nel decennio ’70 del secolo scorso. Dopodiché, mandata in soffitta, ancora prima che dai fatti, dalla sua congenita inanità, l’idea che il mondo potesse essere cambiato percorrendo la strada di un “governo democratico dell’economia” costituzionalmente orientato, il nostro Grundgesetz ha assunto i caratteri di una Costituzione-garanzia, passando dalle mani del legislatore a quella dei giudici (in sintesi: l’art. 32 da fondamento della istituzione del Ssn a fondamento del danno biologico), i quali lo hanno reso un potente strumento di tutela di diritti soggettivi e poi di “interessi giuridicamente rilevanti” ricavati dall’esteso pantheon dei principi (e dei correlativi valori) costituzionali, a loro volta mobilitati nel senso di una riscrittura delle norme di rango sottordinato. c) Il positivismo giuridico, messo gravemente in crisi dal costituzionalismo dei principi nella sua versione ideologica, mostra di godere di una salute precaria anche come metodo di conoscenza del diritto. È vero, infatti, che i valori incapsulati nelle disposizioni apicali dell’ordinamento (e, con sempre maggiore frequenza, anche in quelle di livello ordinario) valgono soltanto in quanto posti secondo le procedure che governano la nomodinamica di ciascun ordinamento: ma è anche vero che la messa in circolo di queste eccedenze assiologiche compromette la pretesa di avalutatività che sta alla base del paradigma positivista nella misura in cui il test di conformità del precetto giuridico al valore morale, per quanto positivizzato, diviene parte integrante del lavoro dell’interprete. d) La presa d’atto dell’inevitabile apporto di senso che si consuma a ridosso del caso, oltreché individuare un guadagno sul piano della teoria, si iscrive dentro un processo storico all’insegna del lungo congedo dal modello illuminista: modello, tutto politico fin dal suo esordio, del giudice bouche de la loi, che è una cosa mai esistita sul piano dell’ontologia delle pratiche giuridiche, cioè del loro effettivo dispiegarsi, ma che, viceversa, secondo un movimento tipico del pensiero moderno, attinge un elevato grado di consistenza in ragione del suo essere una potentissima ideologia (i giudici interpretano ma, in realtà, sono sinceramente convinti di limitarsi ad applicare). Quanto poi brevemente richiamato sub b) e sub c) ha provveduto a fare il resto. e) Non è facile formulare una diagnosi su quanto accaduto alla dottrina in questo torno di tempo. Un discorso approfondito richiederebbe, ad esempio, un lungo excursus sull’università, sulle forme del reclutamento, sui rapporti tra il circuito accademico, quello professionale e quello giudiziale (caratterizzati da una vicendevole, crescente penetrabilità: ciò che di per sé non sarebbe neppure un male, anzi sarebbe un bene, se solo essi fossero affidati a un minimo di trasparenza): ma andremmo troppo lontani e usciremmo fuori tema. Mi limiterò a qualche breve osservazione endogena, cioè interna alla dinamica dei rapporti tra sovrano (la cui fisionomia è meno riconoscibile che in passato, senza che ciò ne pregiudichi la sua sovraordinazione), giurisdizione e scientia iuris. Per dirla in una battuta, quest’ultima, a volte, rammenta la Barbarina mozartiana che, all’inizio del IV atto delle Nozze di Figaro piomba in scena e canta la celebre aria «L’ho perduta, me meschina, ah chissà dove sarà». Settori importanti della nostra dottrina, infatti, lamentano una perdita di ruolo, di prestigio e, in definitiva, di capacità di incidere sulla formazione di quelle convenzioni interpretative che presiedono alla stabilizzazione dei significati desumibili dal ius positum: e non si può dire che tali doglianze siano ingiustificate, dal momento che questa perdita (da altri e, direi, maggioritari settori della dottrina salutata con un masochistico entusiasmo) in effetti si è verificata, a tutto favore della giurisprudenza. Il compito dello studioso, però, dovrebbe essere quello di rintracciare le ragioni profonde del fenomeno, senza di che l’obiettivo della costruzione di una rinnovata consapevolezza di ceto rimarrà irraggiungibile.
3.
Sul punto non posso che limitarmi ad alcune brevi considerazioni, rinviando, per un esame più disteso, ad altri miei scritti e, in particolare, a Dalla crisi all’eclissi, apparso su Europa e diritto privato nel 2017. Tutto ruota intorno al modo in cui viene oggi concepito il rapporto tra legge e autonomia privata e alle implicazioni che l’atteggiarsi di tale rapporto comporta quanto al ruolo delle corti. Ciò che si può dire, in via di estrema sintesi, è che, a differenza che in passato, quando compito della legge era solo quello di fissare le condizioni per un valido (sub specie iuris) svolgimento delle transazioni sociali, nel tempo del diritto europeo di matrice ordoliberale è la legge ad assegnare un compito all’autonomia privata, la quale diviene oggetto di ortopedie regolatorie intese ad attuare uno standard di mercato concorrenziale quanto più prossimo alla perfezione. Un obiettivo di questo genere non soltanto reclama discipline molto analitiche e molto estese trasversalmente, visto l’odierno livello di integrazione dei mercati, ma reclama anche un loro continuo, molecolare aggiustamento che, volta per volta, sia in grado di catturare e neutralizzare il demone anticompetitivo annidato dentro ogni atto di autonomia privata. Si spiega così la ragione per la quale, ad assetto istituzionale formalmente invariato, si assiste a un notevole incremento del ruolo di tutti gli attori investiti di poteri decisionali da esercitarsi a ridosso del caso (non soltanto i giudici, ma anche le autorità); e si spiega così anche la ragione per la quale il rapporto tra legislazione e giurisdizione, nella fase protoliberale del diritto e dello Stato moderni immaginato come discreto, presenti, nell’epoca attuale, tratti di marcata continuità.
Due corollari, a suggellare un discorso spero non troppo sincopato. Il primo. Mi sembra evidente che, se questo quadro anche solo in parte si approssima alla realtà, la coppia “fattispecie”/clausola generale” descrive oggi un binomio, nel senso che tra i due modelli esiste, per l’appunto, un continuum e non più un’alternativa radicale. Il secondo. Il complicarsi dei processi di significazione degli enunciati normativi di base, interferiti sistematicamente da apporti di senso riconducibili ad attori prossimi al caso, ridisegna i modi attraverso i quali la dottrina può espletare i suoi compiti. Modi che devono tenere conto del fatto che, ormai, legislatore e giudici (in senso lato) interloquiscono per via diretta, avendo il primo sostanzialmente dismesso la delega alla dottrina in ordine alla preliminare verifica di uniformità e di coerenza dei significati che egli provvede a immettere nel sistema. A scanso di equivoci, ciò va inteso “solo” nel senso che l’allungamento della filiera di determinazione di quei significati importa che l’entrata in scena della dottrina risulti, oggi, spostata in avanti, ossia in una fase nella quale l’enunciato di primo livello ha già ricevuto un autonomo trattamento “casistico”. Non si tratta di un dettaglio puramente topografico perché, in realtà, alle spalle di questa diversa dislocazione della istanza di razionalità del sistema sta una diversa modalità di funzionamento del sistema medesimo, il quale non si lascia più descrivere nei termini di una formazione ideale ancorata a un ordine precostituito esibendo, piuttosto, i caratteri di un ordine costantemente in fieri. In altri termini, si può dire che mentre l’idea immanente alla configurazione tradizionale del sistema era che razionalità dell’insieme e razionalità dei singoli istituti si muovessero lungo il medesimo asse, oggi i due piani sono disallineati, perché la razionalità del primo finisce per risultare sporgente rispetto alla razionalità dei secondi. In una situazione di questo tipo, che richiederebbe un’analisi ben altrimenti accurata, la razionalità di secondo livello (comprensiva della razionalità dell’insieme e di quella dei singoli istituti) diviene un risultato da conseguire attraverso un paziente, e costante, lavoro di ricucitura delle connessioni tra i due segmenti (“insieme” e “istituti”), lavoro del quale dovrebbe farsi carico una dottrina stricto sensu depurata, cioè liberata dall’ipoteca di un purismo che, se rigettato senza un’adeguata penetrazione della cosa, la condanna all’acquiescenza, e se difeso usque ad mortem, la vota all’impotenza.