Magistratura democratica

Norme “vaghe”, poteri del giudice e sindacato di legittimità

di Domenico Dalfino

La giurisdizione per norme “vaghe” o clausole generali non mina la certezza del diritto perché anch’essa soddisfa il bisogno di prevedibilità e certezza delle decisioni. L’interpretazione giudiziale è attività valutativa del giudice che riguarda anche le norme di fattispecie.

 

1. La fisiologica equivocità del testo normativo e l’opzione valutativa del giudice / 2. La dimensione “altamente valutativa” del giudizio in presenza di norme “vaghe” / 3. L’applicazione delle norme “vaghe” come quaestio iuris / 4. Limiti e controllo del potere (integrativo e valutativo) del giudice nell’applicazione delle norme “vaghe” / 5. Norme “vaghe”, esercizio della nomofilachia e vincolo del precedente (di legittimità)

 

1. La fisiologica equivocità del testo normativo e l’opzione valutativa del giudice

Il testo normativo, di per sé, è fisiologicamente equivoco, non perché senz’altro ambiguo, bensì in quanto suscettibile di interpretazione. L’univocità è solo di quest’ultima poiché corrisponde all’esercizio di una precisa opzione valutativa. L’interpretazione giudiziale, nell’esprimere un valore, “crea” la norma, che, per tale ragione, si “positivizza” e, come il testo, acquisisce a sua volta equivocità, diventando “seme”[1] in attesa di essere fecondato da una nuova interpretazione.

Orbene, altro è la norma positiva (cioè “posta” dal legislatore), ben altro quella formulata dal giudice; la prima, infatti, è generale e astratta, la seconda, invece, è particolare e concreta. E dunque, la dimensione di novità della norma “creata” dal giudice non corrisponde ad altro se non alla concretizzazione della norma astratta e generale “posta” e assunta come parametro di partenza per effettuare l’operazione di sussunzione. Ciò non toglie che in entrambi i casi l’equivocità consenta l’adeguamento ai mutamenti della realtà, del comune sentire, del con-testo[2].

Sulla funzione creativa di matrice giudiziale ci si deve intendere. Sebbene l’esercizio di tale funzione non si risolva nel mero disvelamento o riconoscimento di uno tra i più possibili significati dell’enunciato formale, ma corrisponda a un’attività in senso lato costitutiva, non vuol dire che la giurisprudenza possa creare dal nulla (in ciò risolvendosi il cd. “creazionismo”) né che possa abdicare alla sua prerogativa di parlare attraverso decisioni che nascono da casi concreti, anche quando istituzionalmente a essa è riservato un ruolo nomofilattico. Sicché, essa non è fonte del diritto; semmai, concorre alla sua produzione. E lo fa sortendo due diversi e contestuali esiti, ciascuno dei quali corrispondente alla distinta dimensione che la decisione assume, quale lex specialis del rapporto sostanziale oggetto del giudicato e quale “precedente”, eventualmente universalizzabile[3]. Il percorso è sempre lo stesso, poiché la decisione è pur sempre il frutto della sussunzione o riconduzione del caso concreto alla norma “posta” dal legislatore.

L’esercizio di questa attività, come anticipato, corrisponde alla formulazione di un’opzione valutativa. Il collegamento tra la norma “posta” dal legislatore e il valore espresso dal giudice rappresenta la dimensione assiologica del diritto e fa sì che quella norma non resti cristallizzata in se stessa.

 

2. La dimensione “altamente valutativa” del giudizio in presenza di norme “vaghe”

Non tutte le norme “poste” presentano la medesima struttura e dimensione. Per lo più, l’ordinamento si caratterizza per l’utilizzo della tecnica della fattispecie, provvedendo a delineare una disciplina generale e astratta nella quale sia possibile sussumere, al ricorrere di tutti gli elementi della fattispecie, un numero indefinito di casi concreti. Attraverso questa tecnica, l’opzione valutativa è rimessa in massima parte al legislatore, mentre al giudice è riservata una minore sfera di discrezionalità in sede di sussunzione.

Talvolta, invece, l’ordinamento si affida a formule “vaghe” o “elastiche” o “aperte”, a cd. clausole generali (buona fede, correttezza, giusta causa e così via)[4], là dove la generalità attiene non alla latitudine bensì all’indeterminatezza della sfera applicativa della norma che la prevede. In tali casi, nei quali il legislatore delega ampiamente al giudice la scelta assiologica[5], le norme assumono una dimensione “altamente valutativa”[6].

Secondo una ben nota posizione[7], solo l’applicazione di norme di fattispecie permette di calcolare e prevedere le decisioni giudiziali e, quindi, garantisce la certezza del diritto. Invece, la vaghezza della norma – particolarmente se e in quanto il suo contenuto sia individuato in chiave di principi[8] – mette in crisi l’esigenza di affidamento dei consociati, poiché non consente di fissare ex ante alcun parametro definito. Posizione, invero, alquanto discutibile nella sua nettezza. Basti qui ribadire che: anche il “diritto giurisprudenziale” può essere (se non pre-detto, quanto meno) pre-visto[9]; la certezza del diritto non è assicurata da una più o meno ampia limitazione del momento valutativo del giudice; il “diritto vivente” (vale a dire il diritto che “vive” nella interpretazione e applicazione giudiziaria e che, per questo motivo, è aperto alla evoluzione e all’adeguamento) e la “giurisprudenza consolidata” (quella che esprime un punto fermo sul piano interpretativo) non sono formule in reciproca contraddizione, bensì modi perfettamente coerenti di soddisfare il bisogno di ragionevole certezza degli utenti della giustizia.

Orbene, la vaghezza delle norme[10] non è in grado, di per sé, di mettere in crisi alcunché. Anche con riguardo ad esse il bisogno di certezza e prevedibilità trova soddisfazione. E la trova sul medesimo piano delle norme di fattispecie.

 

3. L’applicazione delle norme “vaghe” come quaestio iuris

Anche l’applicazione di una norma “vaga” introduce una quaestio iuris. Per quanto ampia sia la delega conferita dal legislatore, quella che il giudice discrezionalmente compie, nell’opera di collegamento giuridico degli elementi della vicenda concreta alla previsione normativa indeterminata, non attiene comunque alla ricostruzione del fatto.

Se ciò può dirsi oramai assodato, va solo precisato che la questione di diritto riguardante l’applicazione della norma “vaga” si atteggia in maniera differente rispetto a quella relativa alle norme di fattispecie. La vaghezza, infatti, non attiene soltanto alla individuazione e applicazione del criterio integrativo che il giudice è chiamato a utilizzare, ma anche all’identificazione specifica dei fatti destinati a costituire l’oggetto della valutazione giudiziale sulla base del criterio integrativo[11]. Con la conseguente necessità di un’inversione dello schema di qualificazione, che da deduttivo diventa induttivo. Questo non comporta, come detto, una ricaduta nell’attività di accertamento dei fatti, trattandosi di qualificazione, appunto, di fatti accertati.

 

4. Limiti e controllo del potere (integrativo e valutativo) del giudice nell’applicazione delle norme “vaghe”

L’esercizio del potere integrativo e valutativo del giudice nell’applicazione delle norme “vaghe” conosce i medesimi limiti cui sono soggette le altre norme “poste” e, come queste, è esposto a controllo di legittimità, in quanto attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale. L’orientamento giurisprudenziale inaugurato poco più di venti anni or sono[12] ha avuto il pregio di sganciare la censura in sede di legittimità dal profilo attinente al vizio della motivazione.

Nella vigenza del vecchio testo dell’art. 360, comma 1, n. 5, cpc, era pacifica l’affermazione dell’insindacabilità in Cassazione del percorso argomentativo e dell’opzione valutativa del giudice di merito se immune da vizi logici e giuridici, sotto il profilo della insufficienza, illogicità, contraddittorietà della motivazione. Invero, in questo regime, la censura era abitualmente sollevata in forma congiunta al motivo di cui al n. 3; sicché, per un verso, la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto riguardava i principi specificativi della norma “vaga”, per un altro, tuttavia, la Corte finiva per effettuare proprio quel sindacato in fatto che istituzionalmente le è precluso[13].

La situazione è profondamente cambiata con l’enunciazione del principio di sindacabilità, sotto il profilo della falsa applicazione di legge. Vale la pena riportare i passi più significativi della menzionata giurisprudenza innovativa:

a) «il giudice di merito compie un’attività di integrazione giuridica – e non meramente fattuale – della norma stessa (…) in quanto dà concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico-sociale (…)»;

b) «il giudizio valutativo – e quindi di integrazione giuridica – del giudice di merito deve però conformarsi oltre che ai principi dell’ordinamento, individuati dal giudice di legittimità, anche ad una serie di standards valutativi esistenti nella realtà sociale che assieme ai predetti principi compongono il diritto vivente, ed in materia di diritto del lavoro la c.d. civiltà del lavoro (…)»;

c) «la valutazione di conformità – agli standards di tollerabilità dei comportamenti lesivi posti in essere dal lavoratore – dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa che essi hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell’ambito della funzione nomofilattica che l’ordinamento ad esso affida»;

d) il giudizio di merito applicativo di norme elastiche «è soggetto al controllo di legittimità al pari di ogni altro giudizio fondato su qualsiasi norma di legge».

La correttezza di questo approdo, che da allora non ha subito significative smentite, ha potuto poggiare su solide basi dottrinarie. La sindacabilità in Cassazione del giudizio sussuntivo di un fatto nelle previsioni di una norma “vaga” e, quindi, del collegamento giuridico di tale norma al fatto, era già stata propugnata – nella prospettiva più tradizionale fondata sulla distinzione netta tra giudizio di fatto e giudizio di diritto – da Calamandrei[14], Calogero[15], Carnelutti[16], Satta[17] e più di recente, tra gli altri, da Roselli[18] e Caponi[19], nonché – nella prospettiva teleologica, che giustifica l’intervento nomofilattico della Suprema corte tutte le volte in cui il caso deciso presenta caratteri sufficientemente tipici e ripetibili – da Fabbrini[20] e Bove[21].

Nell’attuale assetto normativo, come risultante a seguito della riforma attuata nel 2012 (dl 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., in l. 7 agosto 2012, n. 134), il sindacato relativo all’applicazione delle norme in parola ha potuto giovarsi di nuove opportunità. Eliminata la censurabilità dei profili attinenti all’insufficienza, all’illogicità, alla contraddittorietà della motivazione[22], è oggi comunque possibile proporre ricorso per cassazione, ai sensi del modificato n. 5 dell’art. 360, comma 1, cpc, facendo valere, testualmente, l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».

Pertanto, in materia di norme “vaghe”, oltre che per il motivo di cui al n. 3, la questione può essere sottoposta all’esame della Suprema corte sotto forma di omesso esame di un parametro, tra quelli individuati dalla giurisprudenza, avente valore decisivo ai fini dell’applicazione della norma o delle norme volta a volta rilevanti. A questo fine, afferma la Corte[23], il ricorrente ha l’onere di indicare: il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso[24]; il «dato» da cui esso risulti esistente; il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti; la sua «decisività». E senza che ciò faccia venir meno il principio secondo cui l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

 

5. Norme “vaghe”, esercizio della nomofilachia e vincolo del precedente (di legittimità)

Alla luce dei precedenti rilievi, resta pur sempre da definire in quale maniera il sindacato di legittimità del giudizio sussuntivo svolto dal giudice di merito in applicazione di norme “vaghe” sia idoneo a sollecitare l’esercizio della funzione nomofilattica della Cassazione. Invero, la perplessità è connessa all’estrema difficoltà di distinguere ciò che riguarda esclusivamente il diritto da ciò che attiene esclusivamente al fatto. Anche ricorrendo al rassicurante criterio distintivo di tipo strutturale su menzionato, non si riuscirebbe a evitare il rischio di una sovrapposizione tra i due profili. Sotto quale aspetto dovrebbe apprezzarsi, dunque, l’esercizio della nomofilachia?

A ben vedere, al pari di quanto avviene con riferimento alle norme di diritto «dal contenuto certo»[25], l’attività di controllo della Suprema corte, pur sempre in iure, mira senza dubbio a garantire tanto l’«esatta osservanza» quanto «l’uniforme interpretazione della legge» (art. 65 ord. giudiziario). Tuttavia, il quadro finora delineato presenta una peculiarità: il sindacato sul giudizio valutativo – e quindi di integrazione giuridica – formulato dal giudice di merito deve essere svolto, secondo la massima tralaticia, guardando alla conformità di questo rispetto ai principi dell’ordinamento, come individuati dal giudice di legittimità, nonché a una serie di standard esistenti nella realtà sociale, alle regole di costante e pacifica applicazione giurisprudenziale, che assieme ai principi compongono il “diritto vivente”.

Sembrerebbe conseguirne che, nel caso delle norme “vaghe”, a dare contenuto all’art. 360, comma 1, n. 3, cpc concorra la violazione o falsa applicazione… del “diritto vivente”. Sennonché, quest’ultimo non è, neanche lato sensu, “norma” o “fonte di diritto” e tanto meno “legge”. Dunque, è evidente che: per un verso, l’impropria formulazione di quella massima genera un equivoco; per un altro, il riferimento alla “legge” ex art. 65 ord. giudiziario, in presenza di norme “vaghe”, non va inteso alla lettera.

Un’ultima, strettamente connessa, precisazione.

Il sindacato della Cassazione non mira alla verifica dell’osservanza dei propri precedenti da parte del giudice di merito (neanche in sede di controllo dell’inammissibilità del ricorso ex art. 360-bis cpc). Se così fosse, la giurisprudenza della Suprema corte acquisirebbe una forza vincolante che il nostro ordinamento non le riconosce e si finirebbe per intendere il principio di cui all’art. 101, comma 2, Cost. come comprensivo di un obbligo generale e astratto di soggezione dei giudici ai dicta di altri giudici[26], in spregio ai limiti soggettivi di efficacia delle sentenze e con grave pregiudizio del diritto di difesa e del principio del contraddittorio.

Invero, l’esercizio di quel sindacato risponde principalmente all’esigenza di uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale, come componente essenziale della nomofilachia ed espressione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. Nulla di differente, sotto tale profilo, rispetto al compito che la Corte è chiamata a svolgere in sede di controllo della violazione o falsa applicazione delle norme di fattispecie, che, per quanto “definitorie”, operano sempre attraverso «la quotidiana applicazione dei giudici»[27].

 


1. La metafora del “seme” è utilizzata da T. Ascarelli, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, in Riv. dir. proc., 1957, p. 356.

2. Cfr., volendo, anche per riferimenti, D. Dalfino, Giurisprudenza “creativa” e prevedibilità del diritto giurisprudenziale, in Giusto proc. civ., n. 4/2017, pp. 1023 ss. Sulla distinzione tra “disposizione” (come enunciato letterale) e “norma” (come significato attribuito dagli interpreti all’enunciato), vds. V. Crisafulli, Disposizione (e norme), in Enc. dir., vol. XIII, Giuffrè, Milano, 1964, p. 195, e successivamente F. Roselli, Il principio di effettività e la giurisprudenza come fonte del diritto, in Riv. dir. civ., n. 1/1998, pp. 23 ss.

3. Su quest’ultimo specifico profilo, vds. M. Taruffo, Precedente e giurisprudenza, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 3/2007, pp. 710 ss.

4. Sulla diversità strutturale delle norme “vaghe” o elastiche, vds. F. Roselli, Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Jovene, Napoli, 1983, p. 7. Per un approfondimento, vds. E. Fabiani, Clausola generale, in Encicl. dir. - Annali, Giuffrè, Milano, 2012, vol. V, pp. 183 ss.; Id., Il sindacato della Corte di cassazione sulle clausole generali, in Riv. dir. civ., n. 4/2004, pp. 581 ss.; Id., Clausole generali e sindacato della Cassazione, Utet, Torino, 2003; Id., Orientamenti della Cassazione sul controllo delle clausole generali, con particolare riguardo alla giusta causa di licenziamento, in Foro it., 2003, I, 1845 ss.; Id., Norme elastiche, concetti giuridici indeterminati, clausole generali, standards valutativi e principi generali dell’ordinamento, ivi, 1999, I, 3558 ss.
Secondo E. Scoditti, Concretizzare ideali di norma. Su clausole generali, giudizio di cassazione e stare decisis, in G. D’Amico (a cura di), Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 690 ss., «la disposizione che contempla una clausola generale non enuncia quindi una norma in senso proprio, ma un ideale di norma» o «idea-limite», dalla quale attingere per l’identificazione della “norma individuale”.

5. È quanto E. Betti esprimeva nel ritenere la norma elastica caratterizzata dal fatto di presentare «un’eccedenza di contenuto assiologico» rispetto alle altre norme dell’ordinamento (Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Giuffrè, Milano, 1971, seconda edizione, p. 154).

6. Cfr. F. Roselli, Il controllo della Cassazione, op. cit., 1983, pp. 8 ss. Sulla figura della “delega” del legislatore al giudice del momento valutativo, vds. P. Rescigno, Appunti sulle clausole generali, in Riv. dir. comm., 1998, I, pp. 2 ss.; E. Fabiani, Sindacato della Corte di cassazione sulle norme elastiche e giusta causa di licenziamento, in Foro it., 1999, I, 1893; S. Recchioni, Norme “elastiche”, standards valutativi e sindacato di legittimità della Corte di cassazione, in Corriere giur., 1999, p. 724. Su posizioni dissimili, vds. E. Scoditti, Concretizzare, op. cit., p. 705.
Ciò non esclude che, in qualche caso, il legislatore ponga un limite allo spazio di intervento del giudice, come nell’art. 30, comma 1, l. n. 183/2010, ove fa espresso riferimento alla «conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità», precludendone l’estensione «al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente». Cfr. I. Calia, I poteri del giudice, in D. Dalfino (a cura di), La nuova giustizia del lavoro, Cacucci, Bari, 2011, pp. 211 ss.

7. N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., n. 1/2014, p. 36; Id., Capitalismo e calcolabilità giuridica (letture e riflessioni), in Riv. soc., n. 5/2015, pp. 801 ss.; Id., Un diritto incalcolabile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 1/2015, pp. 11 ss.; Id., Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in Riv. dir. proc., nn. 4-5/2016, p. 923.

8. Cfr. A. Proto Pisani, Brevi note in tema di regole e principî, in Foro it., 2015, V, 455 ss., pubblicato anche in D. Dalfino (a cura di), Scritti dedicati a Maurizio Converso, Roma TrE-Press, Roma, 2016, pp. 493 ss.

9. D. Dalfino, Creatività e creazionismo, prevedibilità e predittività, in Foro it., 2018, V, 385 ss.

10. Ormai classico lo studio di C. Luzzati, La vaghezza delle norme. Un’analisi del linguaggio giuridico, Giuffrè, Milano, 1990, p. 100. È appena il caso di precisare che la “vaghezza” delle norme processuali, quando non dovuta a mera superficialità o sciatteria del legislatore, può rispondere alla logica della fisiologica differenziazione delle forme di tutela (vds. D. Dalfino, Accesso alla giustizia, principio di effettività e adeguatezza della tutela giurisdizionale, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 3/2014, pp. 907 ss.) e caratterizzare la sommarietà della cognizione (si rinvia, per un approfondimento, a D. Longo, L’interpretazione della legge ai tempi della decretazione d’urgenza e dei voti di fiducia: la rinnovata centralità del dato storico e comparatistico, in D. Dalfino (a cura di), Scritti dedicati a Maurizio Converso, op. cit., pp. 305 ss.).

11. M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, in A. Cicu e F. Messineo (diretto da), continuato da L. Mengoni, Trattato di diritto civile e commerciale, vol. III, tomo 2, sez. 1, Giuffrè, Milano, 1992, pp. 111 ss.

12. Cass., 22 ottobre 1998, n. 10514 e Cass., 18 gennaio 1999, n. 434, in Foro it., 1999, I, 1891 ss., con note di E. Fabiani, Sindacato della Corte di cassazione, op. cit., e M. De Cristofaro, Sindacato di legittimità sull’applicazione dei «concetti giuridici indeterminati» e decisione immediata della causa nel merito.

13. Cfr. soprattutto E. Fabiani, Sindacato della Corte di cassazione, op. cit., c. 1908.

14. P. Calamandrei, Cassazione civile, in M. D’Amelio (a cura di), Nuovo Digesto italiano, Utet, Torino, 1937, II, pp. 984 ss. e pp. 1003 ss.

15. G. Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Cedam, Padova, 1937 (rist. 1964), pp. 160 ss.

16. F. Carnelutti, Limiti del rilievo dell’“error in iudicando” in Corte di cassazione, in Id., Studi di diritto processuale, vol. I, Cedam, Padova, 1925, p. 377.

17. S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, vol. II, Vallardi, Milano, 1959-1962, pp. 194 ss.

18. F. Roselli, Il controllo della Cassazione, op. cit., p. 187.

19. R. Caponi, La decisione della causa nel merito da parte della Corte di cassazione italiana e del Bundesgerichtshof tedesco, in Dir. giur., 1996, pp. 236 ss.

20. G. Fabbrini, Potere del giudice (dir. proc. civ.), in Enc. dir., vol. XXXIV, Giuffrè, Milano, 1985, p. 742.

21. M. Bove, Il sindacato della Corte di cassazione. Contenuto e limiti, Giuffrè, Milano, 1993, pp. 100 ss. Vds. anche M. De Cristofaro, Sindacato di legittimità, op. cit., p. 1917; Id., La Cassazione sostitutiva nel merito. Prospettive applicative, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 1/1999, pp. 219 ss.; S. Evangelista, La funzione di nomofilachia come limite al sindacato di legittimità, in Aa. Vv., La Corte di cassazione nell’ordinamento democratico, atti del convegno tenutosi a Roma il 14 febbraio 1995 in occasione dei 50 anni dal ripristino dell’ordinamento democratico, Giuffrè, Milano, 1996, pp. 269 ss. Cfr., poi, S. Recchioni, Norme “elastiche”, op. cit., pp. 726 ss.

22. Indipendentemente dalla possibilità di recuperare spazi di impugnazione della sentenza per vizi attinenti alla motivazione (diversi da quelli, più radicali, indicati nel testo), attraverso il motivo di cui al n. 4 dell’art. 360, comma 1, cpc, per violazione dell’art. 132 cpc. Sul punto, vds. Cass., sez. unite, 7 aprile 2014, n. 8053, in Foro it., 2015, I, 209, con nota di P. Quero. Più di recente, vds. Cass., 5 aprile 2019, n. 9590; Cass., 25 settembre 2018, n. 22598; Cass., 2 ottobre 2018, n. 23980. In dottrina, cfr. M. Bove, Giudizio di fatto e sindacato della Corte di cassazione: riflessioni sul nuovo art. 360 n. 5 c.p.c., in Judicium, 2 luglio 2012, www.judicium.it/wp-content/uploads/saggi/327/boveI.pdf; L. Piccininni, I motivi del ricorso in Cassazione dopo la modifica dell’art. 360 n. 5 c.p.c., in Riv. dir. proc., n. 2/2013, pp. 407 ss.; R. Tiscini, Il giudizio di cassazione, in F.P. Luiso e R. Vaccarella (a cura di), Le impugnazioni civili, Giappichelli, Torino, 2013, pp. 355 ss. Per ulteriori riferimenti, vds. la nota di richiami di E. Bertillo a Cass., 25 gennaio 2019, n. 2220, in corso di pubblicazione in Foro it.

23. Come precisato da Cass., 23 settembre 2016, n. 18715, solo successivamente potrà essere eventualmente argomentato che l’errata ricostruzione in fatto della fattispecie concreta, determinata dall’omesso esame di un parametro decisivo, ha cagionato altresì un errore di sussunzione rilevante a mente dell’articolo 360, comma 1, n. 3, cpc, per falsa applicazione di legge.

24. La pronuncia sopra citata sconta qui, sarebbe il caso di dire, una certa vaghezza, là dove dapprima si riferisce all’omesso esame del «parametro» e poi, senza precisazioni, a quello del «fatto storico».

25. O «definitorie», secondo la ripartizione di Roselli, Il controllo della Cassazione, op. cit., pp. 8 ss.

26. In un diverso senso, per l’individuazione di un vincolo derivante dalla “norma concreta” di diritto di cui il giudicato ha fatto applicazione e, quindi, per l’operatività del principio dello stare decisis, senza che ciò comporti una violazione dell’art. 101, comma 2, Cost., dal momento che «il fondamento dell’efficacia vincolante del precedente giudiziario è proprio la soggezione del giudice al diritto», vds. E. Scoditti, Concretizzare, op. cit., pp. 718 ss.

27. Vds. Corte cost., 23 giugno 1956, n. 3.