Magistratura democratica

Del rendere giustizia costituzionale

di Gaetano Silvestri

L’A. ripercorre in sintesi la risalente polemica tra i sostenitori del cd. “attivismo” giurisprudenziale e quelli della judicial deference dei giudici verso il legislatore. Dopo aver messo in rilievo le ambiguità dell’una e dell’altra posizione, lo stesso A. constata la crisi delle categorie tradizionali derivante dal fatto che le costituzioni rigide, garantite e “cariche di princìpi” impongono al giudice costituzionale di curarsi dell’attuazione di tali princìpi, sulla base della considerazione che lasciare inattuata la Costituzione equivale a violarla, poiché si mantengono in vigore, per un tempo indeterminato, norme giuridiche che non dovrebbero più esserci. Occorre che negli ordinamenti democratici contemporanei si armonizzino continuamente il livello di “macrolegalità” costituzionale e quello di “microlegalità” del sistema normativo sottostante. Per ottenere questo risultato può non essere sufficiente la dottrina delle “rime obbligate”, come limite alle sentenze additive della Corte costituzionale, ma può essere inevitabile andare oltre, alla ricerca di riferimenti più ampi, sempre all’interno dell’ordinamento giuridico vigente. Queste generali osservazioni di metodo vengono infine saggiate su tre importanti pronunce sul suicidio assistito, la determinazione della pena “giusta” e la determinazione del minimo vitale per la sopravvivenza degli invalidi. Con esse la Corte non si è limitata al confronto astratto tra due norme, ma ha tentato di “rendere giustizia costituzionale” a chi l’aveva fiduciosamente richiesta.

1. Eccessi della giurisdizione e opportunismo politico / 2. Separazione dei poteri e Costituzione rigida garantita / 3. La crisi delle categorie tradizionali / 4. Macrolegalità e microlegalità / 5. Il difficile dialogo con il legislatore / 6.1. Il caso del suicidio assistito / 6.2. L’individuazione della pena “giusta” / 6.3. Il “minimo vitale” per la sopravvivenza degli invalidi. La Corte non si arrende al primo ostacolo / 7. La Corte costituzionale rifiuta il “quieto vivere” e “rende giustizia”

 

1. Eccessi della giurisdizione e opportunismo politico

Nella legge ordinaria istitutiva della Corte costituzionale in Italia (n. 87 del 1953), ci si preoccupò di inserire, all’art. 28, un caveat rispetto a possibili, prevedibili, future invasioni, da parte del giudice delle leggi, del campo riservato alla politica, identificato, nel linguaggio legislativo, nel «sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento». Nell’intento di colpire eccessi formali, oltre che sostanziali, la stessa disposizione vieta alla Corte «ogni valutazione di natura politica».

La coscienza era a posto, ma l’avvenire riservava molte complicazioni, che non potevano certamente essere evitate da una clausola-limite generica e ingenua. Di ciò si rese ben conto la dottrina più avvertita[1]. Da allora in poi fu tutto un susseguirsi di accuse e contro-accuse, sia in campo politico che scientifico, che si sono ben presto agganciate al secolare dibattito, sullo stesso tema, in atto negli Stati Uniti d’America e che non accenna a spegnersi a tutt’oggi. Le argomentazioni, da una parte e dall’altra, sono, per lo più, ripetitive; le novità si riducono alle pronunce, cui, da opposti schieramenti, ci si aggrappa, man mano che vengono emesse, per trovare ulteriori conferme delle proprie tesi.

La problematica è globale e non si limita all’operato dei giudici costituzionali, ma coinvolge l’intera funzione giurisdizionale, anche se il tema specifico della politicizzazione investe in primo luogo il controllo di legittimità costituzionale, sia per gli atti scrutinati, che per i soggetti che li pongono in essere, specie nei sistemi ove è previsto un controllo accentrato e quindi l’inevitabile politicità intrinseca degli atti non è dispersa e parcellizzata in una molteplicità di punti[2].

Se in sede di teoria generale il problema riguarda, al fondo, lo stesso statuto teorico dell’interpretazione giuridica, l’esperienza di tanti ordinamenti positivi – e di altrettanti sistemi politici a ognuno collegati – ci dimostra che le polemiche su vere o presunte esorbitanze del potere giudiziario si fanno più aspre dove e quando si creano condizioni favorevoli alle denunciate invadenze dei giudici, costituzionali in primo luogo. Queste condizioni vengono identificate, in genere, nella debolezza dei partiti politici e nella fragilità delle coalizioni di governo, che portano la politica a situazioni di stallo, con conseguente delega di fatto alla magistratura di decidere. Se tali circostanze si verificano, i giudici difficilmente sfuggono all’accusa di politicizzazione, giacché, secondo un certo punto di vista – a mio avviso, ben fondato – anche non decidere è un modo di decidere a convalida dell’esistente[3].

Le polemiche sull’invadenza del potere giudiziario, se rapportate a singole pronunce o gruppi di pronunce, spesso mostrano la corda dell’opportunismo politico. Avviene così che ciascun partito, movimento o schieramento commenti in modo favorevole o contrario singole decisioni, a seconda che queste siano di giovamento alla propria parte politica o rechino danno agli avversari. Ciò si verifica con maggiore intensità in quei sistemi in cui si è prodotta, o si sta formando, una “polarizzazione” della politica[4], che impedisce, o rende difficile, una valutazione non strumentale di tutto ciò che accade, ivi compresi gli atti giudiziari.

Anche i più rigorosi e coerenti sostenitori delle correnti interpretative “originaliste” della Costituzione americana sono costretti ad ammettere che, per quanto si possano adottare regole generali interpretative, non si può impedire al cinico di turno di affermare che «with five votes anything is possible»[5]. Lo stesso cinico commentatore, con riferimento anche alla prassi giudiziaria europea, e italiana in particolare, potrebbe dire che, se tutto deve essere motivato, ahimè, tutto è motivabile.

Data questa premessa generale, si comprende la difficoltà di costruire schemi teorici adeguati al compito di individuare la linea di confine tra la doverosa autolimitazione dei giudici (costituzionali), che inibisce a questi ultimi la sostituzione delle proprie preferenze politiche a quelle dei politici responsabili verso il corpo elettorale, e il necessario intervento correttivo o repressivo sulla legislazione. Tutto sommato, non è facile trovare di meglio – e di meno! – che «a clear breach of constitutional principles»[6].

Detto ciò, sull’aggettivo “clear” possono proseguire decenni, o secoli, di ulteriori dibattiti.

 

2. Separazione dei poteri e Costituzione rigida garantita

Il problema di fondo è sempre lo stesso: il giudice costituzionale erode, con maggiore o minore evidenza e intensità, gli spazi riservati al legislatore dal principio liberale della separazione dei poteri, posto al cuore dello Stato di diritto e codificato, nell’Europa continentale, dal 1789. Lo stesso principio salvaguarda non soltanto i diritti dei cittadini contro gli abusi dell’autorità, ma anche la democraticità dello Stato, giacché la funzione normativa deve essere esercitata dal popolo o dai suoi rappresentanti.

 In linea astratta, è difficile dissentire da affermazioni così generali, ispirate alle conquiste fondamentali del costituzionalismo moderno. Se proprio si deve ammettere che una legge originaria legittimante (la Costituzione) spieghi una forza maggiore delle leggi ordinarie successive, questa deve essere circoscritta nella massima misura possibile, che corrisponde, secondo una corrente di pensiero molto diffusa negli Usa, all’intenzione originale (original intent) dei Framers. Nessuno è autorizzato – meno che mai i giudici – ad “aggiungere” alcunché a quanto in modo chiaro e preciso hanno stabilito i Costituenti, ai quali non si può far dire ciò che si vuole, ma solo ciò che hanno effettivamente detto.

Ma cosa hanno veramente detto?

I modi per accertarlo sono essenzialmente due: a) tramite i rappresentanti del popolo; b) tramite i giudici. Da quando, a partire dal 1803, con Marbury vs. Madison, prevalse l’opzione dei giudici, si innescò un meccanismo destinato a sfuggire continuamente di mano ai più agguerriti tra i difensori della recezione rigida della dottrina di Montesquieu (peraltro mai realizzata in modo drastico in alcun ordinamento positivo). Del resto, affidare agli stessi parlamenti il compito esclusivo di interpretare la Costituzione avrebbe significato cancellare, in un sol colpo, separazione dei poteri e rigidità costituzionale. Vi sono concezioni e modi di pensare che sembrano più adatti a nutrire un perenne risentimento che a dare basi solide a riflessioni realistiche e costruttive.

Non meraviglia, quindi, che il vagheggiamento utopico di una sostanziale nullificazione del potere interpretativo della Costituzione da parte dei giudici abbia indotto negli Usa qualche rigoroso consequenziario a definire l’azione della Corte suprema un colpo di Stato, seppur lento e sottile[7]. Né dimentichiamo gli strali lanciati da Lambert, negli anni trenta del Novecento, contro la stessa idea di controllo di costituzionalità delle leggi, su cui è stato detto e scritto tanto, da dispensarmi da ogni aggiunta.

Le invettive contro l’attivismo giudiziario – specie contro quello della Corte costituzionale – hanno accompagnato la vita di questa istituzione sin dalla sua effettiva introduzione, nel 1956, facendo seguito alle polemiche levatesi in Assemblea costituente, dalle preoccupazioni “liberali” di Orlando alle perplessità “giacobine” di Togliatti[8].

Non deve meravigliare nemmeno, quindi, che il mito della “purezza” della separazione dei poteri si ripresenti con puntualità nei tornanti difficili della storia politica e sociale, europea e italiana in particolare. Non potendosi negare che il legislatore (la politica) mostri serie difficoltà a colmare vuoti di tutela di diritti costituzionalmente protetti, che acquistano evidenza maggiore con l’evoluzione culturale imposta dai tempi, si torna ad affermare, con geometrica coerenza, che, se vuoti ci sono, dev’essere la stessa politica a colmarli, senza che si ricorra a scorciatoie “giuristocratiche”[9]. In altri termini, meglio che un diritto sia meno tutelato, anziché lo sia dal potere sbagliato. La sovranità popolare, base della democrazia, ha il suo rovescio: se i rappresentanti del popolo non vogliono – per contraria, deliberata volontà, per dissidi interni insanabili o per semplice inerzia – non è consentito a nessuno sostituirsi ad esso, qualunque sia la motivazione dell’atto di “supplenza”. Se così non fosse, la dinamica dei rapporti tra i poteri dello Stato si trasformerebbe in una corsa demagogica alla popolarità e al potere che ne deriva, specie in una società dominata dall’influenza mediatica.

Abbiamo assistito, negli ultimi decenni, a troppe epopee di giudici “salvatori della Patria”, alcuni autentici eroi, altri autentici furbacchioni, per sottovalutare il pericolo rappresentato dalla perdita del senso del limite, dallo spirito di crociata, fanatica o opportunista, dalle carriere politiche costruite all’ombra del controllo di legalità piegato spesso alle esigenze di uno strumentale pan-penalismo. Nel riconoscere tutto ciò, come giuristi costituzionalisti abbiamo nondimeno il dovere di distinguere l’uso dal cattivo uso degli strumenti che un ordinamento costituzionale, improntato sì alla separazione dei poteri, ma anche all’effettività del Bill of rights, della sua Costituzione rigida, mette a disposizione degli operatori del diritto, a tutti i livelli.

Nel tentare questa operazione di chiarezza, dovremmo guardarci dall’assumere posizioni politiche pregiudiziali. La storia della giustizia costituzionale[10] – a partire dalla più risalente esperienza statunitense – ci dimostra che il deprecato, o esaltato, “attivismo” dei supremi giudici ha assunto, nelle varie epoche, coloriture “conservatrici” o “progressiste”, suscitando ovviamente opposte reazioni negli opposti schieramenti politici, come si accennava prima. Cercheremo quindi di prescindere da queste impostazioni, oggi purtroppo molto seguite.

 

3. La crisi delle categorie tradizionali

Dalla costruzione di Locke e Montesquieu e da tutta la tradizione dello Stato di diritto liberale abbiamo ricevuto una fondamentale distinzione metodologica, che continua a dominare in molti ragionamenti giuridici, anche quando non viene esplicitata o è addirittura negata. La distinzione è basata sull’assunto, diffuso ancor oggi, che il legislatore è volto verso il futuro, mentre il giudice guarda al passato, nel senso che il primo crea il diritto e il secondo applica il diritto già esistente[11]. Su questo presupposto teorico, in dottrina si distingue tra applicazione e attuazione, anche tenendo presente l’alterazione del quadro dicotomico tradizionale derivante dalla massiccia presenza di norme programmatiche nelle costituzioni contemporanee, in quella italiana in particolare[12].

La summa divisio, di cui sopra, risponde a un criterio classificatorio, ad un tempo, razionale e garantista. Razionale perché il giudice dice ciò che è il diritto, sull’ovvio presupposto che esso esista già; garantista, perché ogni norma giuridica, anche quando tutela o introduce situazioni giuridiche attive, pone regole, stabilisce limiti, disciplina rapporti, restringendo così l’indifferenziata libertà con vincoli derivanti da scelte che devono essere approvate da tutti, in quanto riguardanti potenzialmente tutti (quod omnes tangit, ab omnibus approbari debet). Razionalità e legittimazione democratica sono le coordinate entro le quali si iscrive la dinamica delle istituzioni dello Stato liberal-democratico. 

Dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, preceduta dalla catastrofe della democrazia in quasi tutta Europa nel periodo tra le due guerre, la forte presenza, in Italia, all’interno dell’Assemblea costituente, di gruppi politici ispirati al pensiero marxista e a quello sociale cristiano alterò profondamente lo schema tradizionale. Da una parte (marxista) si denunciava l’illusorietà di princìpi e diritti astrattamente sanciti, ma concretamente inesistenti; dall’altra (cristiana) si rivalutava il giusnaturalismo, messo al bando dalla cultura positivista del liberalismo autoritario. Il risultato sconvolgente dell’incontro e della fusione di queste culture messe ai margini, se non escluse, dallo Stato di diritto liberale tradizionale fu che la Costituzione non si limitava a consolidare e garantire le riconquistate libertà civili e politiche, azzerando la “parentesi” fascista, ma imponeva veri e propri vincoli giuridici positivi ai legislatori futuri, i quali, in tal modo, cessavano di essere, come nel passato, “liberi nel fine”. Tra la Costituzione-bilancio e la Costituzione-programma, i Costituenti scelsero decisamente il secondo modello, anche perché il bilancio di ciò che c’era alle spalle era disastroso, non solo con riferimento al ventennio fascista, ma anche al liberalismo autoritario pre-fascista, ben recepito dalla dittatura nella complessiva governance istituzionale a tutti i livelli[13]. La più acuta dottrina costituzionalistica se ne avvide immediatamente[14], altri stentarono a “digerire” la novità e affrontano tutt’oggi un faticoso travaglio di assimilazione.

Il giudice delle leggi si trovò subito a dover cercare – e ri-cercare continuamente – il giusto equilibrio «tra l’intrinseco carattere di trascendenza della Costituzione e il suo dover essere immanente», oscillando tra il judicial activism, che può slittare sino a un eccesso di immanenza, e un self-restraint, che può orientarsi pericolosamente verso un eccesso di trascendenza[15]. In questo dilemma, così magistralmente sintetizzato, è racchiusa tutta la storia della Corte costituzionale italiana.

L’apparato concettuale ereditato dalla tradizione cominciò a franare sin dalla prima pronuncia della nuova Corte, quando si trattò di decidere il trattamento da riservare alle leggi anteriori alla Costituzione, nell’ipotesi di loro contrasto con quest’ultima. La soluzione più in linea con il quadro tralatizio delle fonti sarebbe stata quella di restringere il controllo di costituzionalità alle leggi successive, lasciando quelle anteriori alla valutazione del giudice comune, secondo l’ordinario criterio cronologico. Così non fu. Affermando la propria competenza a valutare la legittimità costituzionale delle leggi anteriori al 1° gennaio 1948, la Corte si riservò di decidere se le stesse potessero sopravvivere nel nuovo contesto istituzionale e normativo della Repubblica democratica, o risultassero incompatibili con esso, oppure ancora fosse possibile rettificarle, mediante aggiunzioni o sostituzioni, in modo da renderle conformi a Costituzione. Non tutto ciò era scritto nella prima sentenza della Corte, ma ogni cosa deriva da quella prima presa di posizione, senza la quale la storia del controllo di costituzionalità in Italia avrebbe avuto un corso molto differente. Da notare che i primi esperimenti di sentenze additive sono stati compiuti su norme codicistiche anteriori alla Costituzione, emanate in periodo fascista e rese compatibili dalla Corte, mediante “bonifica” giurisprudenziale, con alcuni diritti fondamentali, a cominciare da quello di difesa in giudizio, tutelato dall’art. 24, secondo comma, della Costituzione.

 Fin dall’inizio, il giudice costituzionale, per qualificare implicitamente il proprio parametro di validità, la Costituzione, è uscito dalla gabbia della gerarchia delle fonti. Essa non è fonte superiore, allo stesso modo in cui la legge lo è rispetto al regolamento dell’esecutivo, ma base di legittimazione di tutto l’ordinamento giuridico esistente. Non semplice giudizio di conformità/difformità rispetto a una norma superiore, ma collocazione – o ri-collocazione, se anteriore alla Costituzione – della norma censurata nel sistema costituzionale, composto in gran parte di princìpi fondamentali con forte tendenza espansiva.

 

4. Macrolegalità e microlegalità

I criteri interpretativi adatti al ruolo della Corte costituzionale, quale sintetizzato al paragrafo precedente, anche se costretti nel letto di Procuste dell’art. 12 preleggi – frutto della pretesa autoritaria di imporre una sorta di catechismo ermeneutico –, esplodono a contatto con la materia normativa costituzionale. La contraddizione più vistosa – ed esplosiva, appunto – si coglie se si fa riferimento al criterio della fedeltà alla «intenzione del legislatore». Riferito alle norme programmatiche a sviluppo diacronico – a patto di considerarle norme giuridiche e non semplici proposizioni ottative – porta nella direzione opposta a quella dell’interpretazione letterale, di cui voleva originariamente essere mera integrazione. L’attuazione dei princìpi costituzionali – e dei diritti fondamentali in essi sovente racchiusi – non procede soltanto dalla ricostruzione dell’intenzione dei Costituenti, anche perché i princìpi costituzionali positivizzati nelle disposizioni scritte della Carta sono frutto della fusione[16] di culture e prospettive politico-sociali molto diverse tra loro. L’apertura verso il futuro non è limitata da una ideologia o dottrina specifica, ma è affidata a quell’originale mescolanza di valori – così aborrita dai cultori libreschi di coerenze astratte, ma così ricca di capacità generative – che dà tuttora impulso all’attuazione costituzionale nei momenti migliori della storia della Repubblica e che, in ogni caso, consente alle istituzioni di garanzia di resistere ai riflussi restaurativi in quelli peggiori. L’evoluzione della società, dei suoi bisogni, delle possibilità tecnologiche disponibili, della cultura popolare diffusa richiede, con il passare del tempo, soluzioni originali e prima non pensate o non ritenute praticabili o, al contrario, impone blocchi nell’innovazione, quando non ritorni indietro. Lo stesso concetto di “evoluzione” è relativo: alcuni possono denominare “involuzione” cambiamenti che, in realtà, tendono a ripristinare situazioni socio-politiche precedenti. Anche di questo occorre tener conto quando si compiono ambiziose ricostruzioni storiche della dialettica legislazione-giurisprudenza costituzionale.

Il “futuro” delle norme costituzionali di principio non è univocamente deducibile dal testo della Costituzione, né, al contrario, è lasciato alla libera inventiva della politica. Non è nemmeno consentito che i legislatori futuri adottino la “scelta” di lasciare tutto com’è, giacché quest’ultima opzione avrebbe l’effetto di aumentare in modo intollerabile il divario tra Costituzione formale e Costituzione materiale. Un esempio storico molto noto di questa tendenza è quello che Piero Calamandrei chiamò «ostruzionismo di maggioranza», la tattica (o strategia?) di “congelare” le parti più innovative della Carta del 1948.

Una prima domanda: la non-attuazione della Costituzione, nelle sue parti proiettate verso il futuro, è una scelta giuridicamente legittima?

La mia risposta è negativa. Se le norme “programmatiche” sono vere e proprie norme giuridiche – e dobbiamo quindi rifiutare la dottrina della Cassazione del dopoguerra, che negava tale natura –, allora non possiamo ritenere che le uniche conseguenze possibili della loro pratica neutralizzazione siano di tipo politico. Così ragionando, la giuridicità sfumerebbe sino a scomparire. D’altra parte, se la giurisdizione nello Stato moderno ha tra i suoi compiti quello di sottrarre i diritti fondamentali alle fluttuazioni occasionali della politica, quale peggior sorte può capitare – e storicamente è più volte capitata – della violazione di una norma-principio di tutela di un diritto fondamentale della/e persona/e attuata mediante semplice inerzia, sia che questa sia frutto di deliberato ostruzionismo, sia che – ipotesi più realistica in tempi più recenti – rappresenti il risultato di pesanti discordie all’interno delle maggioranze politico-parlamentari[17]. Il risultato complessivo sarebbe che la sovranità popolare verrebbe esercitata, ancorché in negativo, oltre i limiti della Costituzione, in spregio dell’art. 1, secondo comma, della stessa.

Ancora di recente è stato ribadito – in occasione di un’importante pronuncia, di cui dirò qualcosa in seguito – che la Corte costituzionale si è trovata nella necessità di bilanciare la legge ordinaria, espressione della rappresentanza democratica, e la superiorità della Costituzione, di cui essa è custode[18]. Nasce spontaneo un interrogativo: è la Corte che compie tale bilanciamento, vincolante per il legislatore, oppure l’equilibrio è frutto dell’assestamento spontaneo tra i poteri dello Stato? Nel primo caso, la Corte sarebbe, in tutto e per tutto, organo “sovrano”, nel secondo la delimitazione delle sfere di attribuzione sarebbe tracciabile solo a posteriori, opera più di storico che di giurista.

Come spesso accade, nessuna delle due risposte estreme coglie nel segno[19].

Affidare senza riserve l’attuazione delle norme di principio soltanto al Parlamento – cioè alla politica – significherebbe la loro decostituzionalizzazione di fatto, riportando la Costituzione repubblicana al livello di una qualsiasi carta flessibile, teoricamente intangibile, ma praticamente derogabile a piacimento delle forze politiche dominanti, come è avvenuto per lo Statuto albertino, vista l’assenza di un custode dotato di poteri adeguati.

D’altra parte, dare piena fiducia al meccanicismo di Montesquieu, che credeva nella virtù risolutrice del «movimento necessario delle cose», significherebbe sacrificare l’esperienza storica degli ultimi due secoli a un utopismo razionalista che ha subìto innumerevoli smentite.

Forse la risposta più ragionevole può essere trovata riflettendo sul ruolo complessivo del giudice delle leggi nel sistema costituzionale italiano.

L’entrata in vigore di una Costituzione carica di princìpi – corrispondenti ad altrettanti valori sociali affermatisi o riemersi nel secondo dopoguerra – ha stabilmente introdotto nell’ordinamento giuridico italiano un livello di “macrolegalità” e uno di “microlegalità”, non divisi e incomunicabili, ma strettamente saldati tra loro con tre modalità differenti in continua integrazione: a) il processo costituzionale in senso proprio; b) l’interpretazione conforme del giudice comune; c) il circuito contenutistico tra legislazione ordinaria e giurisdizione costituzionale.

Non mi soffermerò in modo dettagliato, in questa sede, su ciascuna delle componenti di questo complesso quadro istituzionale. Mi limiterò a sottolineare qualche aspetto attinente alla problematica del cd. attivismo giurisprudenziale del giudice delle leggi.

Se macro- e microlegalità costituiscono un tutt’uno – per la natura immanente della Costituzione – sia i giudici comuni che la Corte costituzionale sono uniti nel medesimo compito di dare ai cittadini la giustizia che hanno ragione di aspettarsi al più alto livello della tutela possibile nelle situazioni date della società, del diritto vigente e delle potenzialità esistenti all’interno dell’ordinamento. Se i giudici comuni hanno il dovere di “rendere giustizia”, individuando la norma applicabile al caso concreto, traendola dalle leggi in vigore, anche combinando tra loro frammenti di norme con tecniche di composizione sistematica alla luce dei princìpi costituzionali, la Corte costituzionale ha il medesimo dovere di “rendere giustizia” (costituzionale) fornendo al giudice a quo, su sua richiesta, ciò che a questo manca per dare una risposta adeguata (alla Costituzione) alle parti che attendono la sua decisione. La funzione della Corte non è quindi quella di operare un confronto astratto e accademico tra due norme, ma quella di risolvere un problema concreto di costituzionalità, vale a dire introdurre nell’ordinamento una nuova disciplina di una fattispecie o per ablazione radicale di una norma esistente – e conseguente espansione di altre norme del contesto – o per ablazione parziale e sua trasformazione da come è a come deve essere, secondo una valutazione di macrolegalità[20].

Il punto critico di quest’opera di “bonifica” costituzionale sta nella seconda parte dell’operazione che compie la Corte con le sentenze cd. manipolative, specialmente con le additive. Nessun raffinato ragionamento è sinora riuscito – a mio modesto avviso – a celare l’introduzione nell’ordinamento di una norma nuova, che prima non c’era e la cui immissione compie il “miracolo” di rendere costituzionalmente legittima una norma che prima non lo era. La suggestiva proposta crisafulliana delle “rime obbligate” è stata accolta con sollievo dalla scienza giuridica italiana e ha tacitato la coscienza dei giuristi non disposti a spingersi sino ad ammettere che la Corte costituzionale possa svolgere una funzione normativa. Anche chi, come lo scrivente, aveva testardamente negato che le norme aggiunte dalla Corte venissero reperite, bell’e pronte, nell’ordinamento positivo ha dovuto riconoscere che, se forzatura c’era stata, si trattava di una felix culpa, che aveva consentito di dare effettività al criterio interpretativo della Costituzione magis ut valeat[21]. Diversamente operando, il giudice delle leggi avrebbe cooperato con un Parlamento inerte o immobilizzato a infliggere ai cittadini gli effetti di norme giuridiche in contrasto con i princìpi costituzionali, che racchiudono, per la maggior parte, diritti fondamentali dei cittadini stessi.

Il tempo è galantuomo e oggi la Corte – provocando, come in passato, altissimi lai – tende ad abbandonare lo schermo delle “rime obbligate”, per mostrare con schiettezza il ruolo delle sue decisioni come fonti integrative dell’ordinamento.

In che modo il giudice delle leggi sta compiendo questo ulteriore passo avanti?

 

5. Il difficile dialogo con il legislatore

Il dialogo con il legislatore era stato, in gran parte, affidato – sino a poco tempo addietro – a due strumenti principali, modulati dalla Corte in vari modi, ma tutti riconducibili a matrici unitarie: a) il meccanismo della “doppia pronuncia”; b) il gioco sui margini di manovra consentiti delle “rime obbligate”. Come tutti gli artifici, ancorché frutto di acuto ingegno, l’uno e l’altro erano destinati a durare per un tempo limitato[22]. Anzi, possiamo dire che sono durati davvero a lungo.

Già da molti anni la migliore dottrina ha messo in risalto che la Corte costituzionale crea e potenzia continuamente i suoi strumenti operativi, in quanto manifestazione, sul piano giuridico, della sua “anima politica”, che la porta a operare sullo stesso terreno del potere legislativo[23]. Che il giudice delle leggi abbia un’anima politica, oltre che giurisdizionale, è reso palese sia dalla sua composizione che dall’oggetto dei suoi giudizi, che ne fanno il custode della macrolegalità costituzionale ai massimi livelli dell’ordinamento, in stretta compenetrazione con l’applicazione delle leggi nei rapporti sociali quotidiani che cadono sotto il controllo dei giudici comuni.

Non disponendo – come altre Corti – dello strumento dell’incostituzionalità accertata, ma non dichiarata, la Corte italiana ha provveduto a “fare da sé” in vari modi, dalla modulazione degli effetti nel tempo delle proprie pronunce, ai “moniti”, rivolti al legislatore, a provvedere alla rimozione di lesioni alla Costituzione, prodotte da azioni od omissioni, arrivando spesso a “minacciare” un proprio intervento diretto sul tessuto normativo. Per lungo tempo è così invalso il metodo della “doppia pronuncia”, una prima di monito e una seconda di intervento diretto, nel caso – purtroppo assai frequente – di inerzia legislativa. Come abbiamo visto prima, parlando in generale, il non intervento del Parlamento è, esso stesso, il frutto di una scelta politica, dovuta a cause diverse (mancati accordi, scarico di responsabilità, ignoranza o insensibilità, etc.).

A lungo andare, la Corte ha dovuto prendere atto che la judicial deference che stava alla base di mancate pronunce di accoglimento, sostituite da decisioni di inammissibilità con o senza moniti, veniva utilizzata dal mondo politico come comodo espediente per riporre nei cassetti problemi spinosi, richiedenti atti legislativi o non sufficientemente produttivi di consenso elettorale o, addirittura, impopolari perché in contrasto con pregiudizi diffusi. Si aveva pure la netta sensazione che i politici preferissero che certe decisioni divisive fossero adottate da un organo non bisognoso di consenso elettorale, contro il quale, se conveniente, si poteva anche inveire senza rischiare di perdere voti.

La debolezza del meccanismo della “doppia pronuncia” è stata messa in rilievo molti anni addietro, non solo sotto il profilo della sua efficacia pratica, ma anche sotto quello della sua idoneità a rispettare la discrezionalità del legislatore. È stato osservato difatti che il monito che non limita tale discrezionalità è inutile, mentre è efficace solo se la limita[24]. Si trattava di un artificio, che non salvava né capra né cavoli, ma che è risultato molto utile per evitare frizioni tra le massime istituzioni della Repubblica, in attesa di tempi migliori. Questi purtroppo non sono venuti e la Corte si è trovata a dover affrontare il problema, troppo a lungo rinviato, del concreto funzionamento del suo dialogo con il legislatore, sia sotto il profilo procedimentale che sotto quello sostanziale. Negli ultimi tempi le innovazioni si sono moltiplicate a un ritmo accelerato[25]. Prenderemo come “campioni” tre argomenti, che attengono a campi diversi, tutti però convergenti sui diritti fondamentali della persona: a) l’aiuto al suicidio, la libertà di autodeterminazione e il diritto alla vita; b) la ragionevolezza e la proporzionalità della pena; c) il diritto sociale dei disabili al sostentamento. Le questioni non saranno esaminate in tutti i loro aspetti, ma soltanto dal punto di vista della dialettica tra ruolo del legislatore e ruolo del giudice costituzionale, quale emerge dalle più recenti pronunce.

 

6.1. Il caso del suicidio assistito

Il tema dell’aiuto al suicidio e il corretto bilanciamento tra libertà della persona di autodeterminarsi e indisponibilità del diritto fondamentale alla vita è oggetto di un dibattito non solo giuridico, ma direi principalmente etico e filosofico, che in questa sede non avrebbe molta utilità ripercorrere, anche per l’esistenza di una abbondante letteratura, che ne ha esplorato tutti gli aspetti. Ciò che interessa è il modo in cui la Corte costituzionale, in una questione delicata e cruciale, causa di aspri contrasti religiosi, ideologici e culturali – che si convertono in conflitti politici – ha ritenuto di dare una risposta non elusiva a una drammatica domanda di giustizia da parte di un soggetto che reclamava di essere liberato da una gabbia di sofferenze atroci, da lui considerata corrispondente a una gabbia di convinzioni dogmatiche imposte, senza tener conto della sua libertà e della sua dignità.

La Corte parte dal riconoscimento della complessità del problema, sulla cui soluzione convergono esigenze di tutela diverse e contrastanti, da tenere in equilibrio usando dei criteri di proporzionalità e ragionevolezza. Nell’ordinanza n. 207 del 2018, il giudice costituzionale elenca le pre-condizioni che dovrebbero – la Corte ha cura di usare il condizionale – essere soddisfatte perché un comportamento attivo di aiuto al suicidio possa essere ritenuto lecito alla luce dei princìpi della Costituzione. Fatte queste precisazioni preliminari, ma essenziali, la pronuncia prosegue con un’affermazione di principio coerente con la sistematica dei rapporti tra poteri dello Stato nell’ordinamento costituzionale italiano. Si legge infatti: «I delicati bilanciamenti ora indicati restano affidati, in linea di principio, al Parlamento, il compito naturale di questa Corte essendo quello di verificare la compatibilità di scelte già compiute dal legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità politica, con i limiti dettati dalle esigenze di rispetto dei princìpi costituzionali e dei diritti fondamentali delle persone coinvolti».

Fin qui siamo sui binari classici della scelta politica, riservata al Parlamento in prima battuta e del controllo di legittimità costituzionale, spettante al giudice delle leggi in seconda battuta. Secondo lo schema della “doppia pronuncia”, poiché esisteva un ventaglio di possibilità non univoche, evidenziate dall’uso del condizionale da parte della stessa Corte, la questione avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, con un monito al legislatore ad adeguarsi ad alcune condizioni – in forme e modi che potevano essere molteplici – per rendere la normativa censurata conforme a Costituzione. In ogni caso – al di là dell’esistenza, o no, delle “rime obbligate” – l’accoglimento avrebbe comportato una sentenza additiva “pesante”, più vicina all’opera tradizionale del Parlamento che a quella del giudice delle leggi. La soluzione dell’inammissibilità con monito avrebbe però avuto gli stessi effetti pratici di iniquità di una pronuncia di rigetto, stante l’incapacità, o la non-volontà, del Parlamento di addivenire a una qualsiasi soluzione che non fosse quella di lasciare tutto com’era, perpetuando una disciplina giuridica giudicata dalla Corte, a chiare lettere, incompatibile con la Costituzione.

La via d’uscita questa volta è stata fortemente innovativa. Scartata la doppia pronuncia, che avrebbe fatto il gioco di chi era insensibile alle atroci sofferenze di un essere umano in nome di astratte coerenze religiose o ideologiche, imposte con la prepotenza autoritaria del potere; scartata la sentenza additiva immediata, per il numero e la rilevanza degli inserimenti normativi, si è preferito il rinvio dell’udienza a data fissa, per dar modo al Parlamento di intervenire sulla norma censurata, secondo i princìpi costituzionali enucleati dalla Corte, ma anche secondo le regole da esso ritenute più appropriate. Una judicial deference a tempo, per ovviare alla mancanza di un apposito strumento processuale atto a raggiungere lo stesso scopo, come avviene in altri ordinamenti.

Apriti cielo! Letteralisti, nonché sacerdoti e vestali della tradizione ricevuta, hanno accusato la Corte di eresia costituzionale, accendendo roghi (per fortuna verbali) purificatori. Eppure nessuna norma scritta per la trattazione dei giudizi davanti alla Corte è stata violata, nel senso che si sia compiuto un atto esplicitamente o implicitamente vietato dalle leggi o dalle norme integrative in vigore. La Corte si è avvalsa della facoltà – ad essa indubbiamente spettante – di rinviare l’udienza a data fissa, con una ordinanza in cui ha spiegato i motivi del rinvio. Non violazione di norme scritte, ma allontanamento da una prassi che aveva dimostrato la sua inadeguatezza e che, in più occasioni, si era risolta in una negazione beffarda di tutela. Le alternative a questa soluzione erano tutte foriere di un abbassamento di protezione di princìpi e diritti fondamentali, corrispondenti a valori costituzionalmente tutelati, com’è lucidamente spiegato in chiusura dell’ordinanza[26].

Del resto, se la Corte – poste le premesse di principio enunciate, favorevoli all’illegittimità costituzionale – avesse deciso subito nel senso dell’accoglimento, con un’additiva massiccia, sarebbe stata accusata di usurpazione della funzione legislativa; se avesse emanato una pronuncia di inammissibilità, sarebbe stata tacciata di astensionismo “pilatesco”. Dando per scontate dunque le critiche di maestri e maestrini, ha imboccato decisamente la strada del minor danno possibile, che equivale, nel contesto dato, alla miglior tutela concretamente praticabile. Fermo restando che il Parlamento ben potrà regolare con legge la materia, anche dotando la Corte di strumenti processuali già da tempo disponibili in altri ordinamenti. Devo confessare, tuttavia, che non nutro molte speranze in proposito.

Come era prevedibile, il Parlamento non è stato in grado – per insensibilità culturale e/o opportunismo politico – di approvare una legge organica sulla materia, frutto di quella suprema volontà del popolo tanto spesso enfatizzata, con le lagrime agli occhi, da positivisti di vecchio e nuovo conio. A quel punto, la Corte ha attenuato la sua judicial deference, che avrebbe portato soltanto a una indefinita perpetuazione di situazioni disumane e contraria al minimum accettabile di dignità spettante a ogni essere umano.

Partendo dalla constatazione che il vulnus costituzionale era già stato “riscontrato” dall’ordinanza n. 207 del 2018, la sentenza n. 242 del 2019, ribadisce, ancora una volta, che occorre evitare «zone franche», immuni dal sindacato di legittimità costituzionale, saltando, con olimpica indifferenza, le complicate argomentazioni di parte della dottrina, tese a dimostrare che l’eliminazione di tali spazi costituzionalmente neutralizzati non è compito del giudice delle leggi. Il ragionamento – ora come in precedenza – è stato diverso: se non provvede il legislatore a eliminare le ferite alla Carta fondamentale, tale incombenza spetta necessariamente al giudice delle leggi. Chi ha fatto parte di quel collegio può testimoniare che, ogni volta che la Corte si accinge a quest’opera di integrazione, non lo fa a cuor leggero o in preda alla cupidigia del potere – come ipotizzato da anime meschine, che pongono tutti al loro stesso livello – ma molto malvolentieri, sentendo il peso della propria responsabilità di custode della Costituzione e – perché no? – della caritas per chi soffra sulla propria carne le conseguenza di rigidità teologiche premoderne, incompatibili con lo spirito umanistico della Costituzione italiana.

È interessante notare che la sentenza prima citata distingue – riguardo ai vuoti di disciplina costituzionalmente inammissibili – tra «criteri di riempimento costituzionalmente necessari» e «contenuto costituzionalmente vincolato». Diventa così esplicito ciò che era implicito sin dall’inizio: obbligate erano le rime, non gli interi versi. In altre parole, le norme nuove immesse dalla Corte non sono le uniche possibili in senso assoluto, ma quelle che alla Corte stessa appaiono indispensabili per colmare in via provvisoria, senza ulteriori indugi, le lacune di tutela trascurate colpevolmente dal legislatore. Che può sempre – se mai ne avesse tempo e voglia – creare discipline più adatte e meglio calibrate.

In questo, come in altri casi, la Corte ha obbedito all’imperativo giuridico e morale di far cessare un’ingiustizia derivante da un anacronismo storico e culturale, che disumanamente anteponeva la purezza di alcune “anime belle” all’atroce sofferenza di esseri umani sfortunati due volte, per essere colpiti da gravi infermità e per essere cittadini italiani. Con la sua decisione, la Corte ha rinunciato alla confortevole neutralità del positivismo “rigoroso” e si è chinata sulla società e sulle persone in carne e ossa. Ha reso giustizia costituzionale.

 

6.2. L’individuazione della pena “giusta”

Un campo in cui tradizionalmente la discrezionalità del legislatore è salvaguardata in modo rafforzato è quello della determinazione (“dosimetria”) della pena. L’interpretazione estensiva del principio di legalità penale ha sempre portato ad affermare che la scelta della pena da infliggere per le singole fattispecie di reato non possa che spettare al Parlamento, in quanto limitativa dello status libertatis del cittadino, condizione di esistenza primaria dello Stato liberale di diritto, rimasto incorporato come “cuore antico” nello Stato costituzionale. Ci si rese conto abbastanza presto che anche in questo campo la discrezionalità non può degenerare in arbitrio, che, nella specie, urterebbe principalmente con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), per violazione dei criteri di proporzionalità e ragionevolezza, e con il principio della finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), frustrata dallo stato d’animo di chi, pur responsabile di un reato, avverta nella reazione dello Stato una palese ingiustizia, che lo rafforza nella sua posizione antagonista alla legalità o addirittura lo conduca per la prima volta su questa via, nell’ipotesi di infrazioni lievi alle regole di convivenza civile.

Il riconoscimento dell’esistenza di limiti alla discrezionalità legislativa in materia penale era tuttavia temperato, quanto alla determinazione del quantum della pena, dalla necessità di trovare un solido e indiscutibile tertium comparationis atto a garantire il massimo rigore nel rispetto del criterio delle “rime obbligate”.

Ad un certo punto, è apparso palese che il mantenimento del tradizionale standard restrittivo lasciava sopravvivere norme che ferivano il più elementare senso di giustizia (nel senso, empirico e laico, di proporzionalità e ragionevolezza). Si comincia a non ritenere più necessario che esista nell’ordinamento un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, ma che si può far leva sulla «presenza nel sistema di previsioni sanzionatorie che, trasposte all’interno della norma censurata, garantiscano coerenza alla logica perseguita dal legislatore» (sentenza n. 233 del 2018). La Corte individua nel diritto vigente una intrinseca contraddizione logica e la elimina, dopo aver constatato l’inerzia del legislatore, non limitandosi a manipolare la norma censurata, ma intervenendo a tutto campo, allo scopo di riportare a coerenza il sistema e non solo la singola norma. Il passo avanti è molto significativo, giacché, come è noto, le norme non sono monadi “senza porte e finestre”, ma componenti parziali di una disciplina integrata complessiva, dalla quale si deduce l’effettività regolativa dell’ordinamento in un settore dato.

La Corte si libera, in definitiva, dalla costrizione derivante dall’inattività del Parlamento, che arriva finanche a lasciare in piedi norme in contrasto con la sua stessa logica normativa e sanzionatoria. Per raggiungere quest’obiettivo, il giudice delle leggi pone in atto un’ars combinatoria, frutto di proprie deduzioni logiche, sempre superabili tuttavia da parte del legislatore, ferma restando l’esigenza di togliere di mezzo la contraddizione.

Come è noto, la contraddizione della norma con la sua stessa ratio è il nucleo centrale minimo del giudizio di irragionevolezza. La Corte ora si spinge oltre: l’eliminazione della contraddizione diviene sistemica, non si ferma alla singola norma, ma riconosce che effetti di palese ingiustizia possono derivare da incoerenze non facili da appianare, ma non per questo maggiormente tollerabili. E allora, pur mantenendosi fedele alla logica complessiva del legislatore, corregge questo o quell’aspetto particolare, senza perdere di vista le connessioni tra le norme, sia nella fase demolitoria, che in quella ricostruttiva. Non è caduto il rispetto per la discrezionalità legislativa, ma soltanto la pratica distorta della judicial deference, intesa impropriamente come timore reverenziale.

L’esigenza di far rispettare i princìpi costituzionali in materia di determinazione della pena può, al contrario, richiedere una valutazione del giudice delle leggi non soltanto svincolata dal reperimento di un unico tertium comparationis, ma anche dalla comparazione con qualunque altra norma sanzionatoria vigente nell’ordinamento, essendo sufficiente il giudizio di proporzionalità delle pene in rapporto alla gravità delle condotte. Il tertium serve al limitato fine di «assistere» la Corte nell’individuazione del trattamento sanzionatorio sostitutivo (sentenza n. 112 del 2019). È la Corte che individua la sanzione più adeguata, avvalendosi, allo scopo, di un armamentario legislativo che facilita il suo compito e, nello stesso tempo, delimita le sue pulsioni “creative”.

Sono pezze e rattoppi, talvolta a colori. Epperò, sarebbe meglio lasciare i buchi, quando da questi deriva un trattamento sanzionatorio penale inconciliabile con la Costituzione? Anche a voler rimanere all’ipotesi storica più lieve, l’inerzia del legislatore, lasciando da parte la deliberata volontà di andare contro la Costituzione, l’interrogativo cui sarebbe opportuno rispondere è se il dovere della Corte è quello di tutelare i diritti fondamentali derivanti dai princìpi costituzionali sulle pene, oppure sacrificare gli stessi all’inattività (volontaria o forzata) dei rappresentanti del popolo. Nella seconda ipotesi, la democrazia rappresentativa avrebbe realizzato una forma di potere assoluto, nella cui orbita i diritti sono quelli, e solo quelli, “concessi” dal sovrano, al quale, rispetto a quello di ancien régime, è tolto soltanto il potere di cancellare arbitrariamente quelli già da esso stesso concessi. L’effetto pratico complessivo non sarebbe dissimile da quello promanante dalla concezione autoritaria dei diritti come effetto dell’autolimitazione dello Stato, sia pure identificato nelle transeunti maggioranze parlamentari.

Anche nel campo del diritto penale la Corte mostra di voler seguire la nuova metodica di attuazione pratica della judicial deference, tentando di instaurare un rapporto dialettico con il Parlamento, nella inesausta speranza che i suoi monologhi si trasformino finalmente, per volontà del legislatore, in proficui dialoghi.

Sul tema molto delicato del bilanciamento tra libertà-diritto all’informazione del giornalista e diritto alla reputazione della persona, la Corte muove da un’affermazione molto importante, di grande rilievo teorico, oltre che pratico. Al punto 7.3 del considerato in diritto dell’ordinanza n. 132 del 2020, si legge: «Il punto di equilibrio tra la libertà di “informare” e di “formare” la pubblica opinione svolto dalla stampa e dai media, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro, non può essere (…) pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni». Con molta chiarezza, quasi pedagogica, la Corte ribadisce la sua concezione di sempre sulla mobilità e provvisorietà delle linee di assestamento tra princìpi e diritti fondamentali in conflitto. Queste ultime dipendono da una pluralità di fattori – non ultima la giurisprudenza della Corte Edu – che sarebbe bene fossero valutati dal Parlamento, ma che non possono essere lasciati nel limbo dell’indifferenza se la politica – per insensibilità culturale, opportunismo tattico o persino antagonismo, consapevole, ma non confessato, agli sviluppi attuali della tutela dei diritti – resta inerte, rinnovando, in forme e contesti diversi, il vecchio «ostruzionismo di maggioranza» denunciato, molti decenni orsono, da Piero Calamandrei. Oggi come allora, l’ostilità verso l’innovazione costituzionale tenta di vestirsi dei nobili panni del rispetto della sacra volontà del popolo sovrano, enfaticamente esaltata o degradata a “populismo”, a seconda delle convenienze del momento.

Dopo aver illustrato i punti critici dell’equilibrio tradizionale, la Corte mette in rilievo che una tutela adeguata di entrambi i diritti fondamentali in gioco non implica necessariamente la pena detentiva per il giornalista riconosciuto colpevole di diffamazione, se non per le condotte «di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi di odio» (punto 8 del considerato in diritto). Infine l’appello al Parlamento, in termini simili a quelli usati nel “caso Cappato” e il rinvio a udienza fissa della trattazione delle questioni di legittimità costituzionale[27].

Ci sarà questa volta maggior fortuna? Lo spero proprio, anche se sono scettico in proposito. La Corte andrà comunque avanti per la sua strada – senza farsi paralizzare da invettive politiche e dottrinali – e anche questa volta avrà adempiuto, come può e come le riesce, al suo dovere di rendere giustizia.

 

6.3. Il “minimo vitale” per la sopravvivenza degli invalidi. La Corte non si arrende al primo ostacolo

In passato si era sviluppata un’intensa discussione sulle sentenze costituzionali “costose” e, da parte di settori della dottrina, era stata criticata la rincorsa al rialzo che si innescava ogni qual volta una certa categoria di dipendenti pubblici usufruiva di miglioramenti economici, ritenuti successivamente dalla Corte irragionevolmente non estesi ad altre categorie assimilabili a quelle avvantaggiate. Esigenze di bilancio e di maggior tutela della discrezionalità legislativa indussero il giudice delle leggi ad abbandonare la strada delle estensioni in via giurisprudenziale dei benefici concessi dal legislatore. In questo indirizzo restrittivo aveva avuto la sua parte l’acquisita consapevolezza, da parte della Corte, del gioco di sponda messo in atto dalla politica, la quale, pur consapevole dell’incostituzionalità di vantaggi elargiti per soddisfare interessi micro-corporativi, lasciava al giudice costituzionale il compito, e la responsabilità, di infliggere duri colpi alle finanze pubbliche, pareggiando verso l’alto le irragionevoli disparità venutesi a creare. Né sarebbe stato possibile eliminare il privilegio, invece che estenderlo, poiché – a parte la difficoltà processuale, superabile, di sollevare questioni esclusivamente in malam partem, senza ricadute positive per alcuno nel processo a quo – si sarebbe offerto terreno favorevole a esercitazioni demagogiche a costo zero: noi vi avevamo concesso quanto chiedevate; purtroppo la Corte costituzionale non ha voluto…

Negli ultimi decenni l’obiettivo di appianare disparità di trattamento economico di diverse categorie di persone è stato ricondotto a un’area, quella dei soggetti fortemente disagiati e bisognosi, in cui la coattività delle norme costituzionali di tutela sociale appare più evidente e la discrezionalità legislativa, esercitata in danno di soggetti deboli, si rivela particolarmente odiosa.

Un esempio cospicuo nella direzione cui si accennava sopra è rappresentato dalla sentenza n. 152 del 2020. Di questa pronuncia mi interessa mettere in rilievo alcuni punti, tra i tanti meritevoli di attenzione.

a) Esistono evidenze economico-sociali che non richiedono sforzi dialettici motivazionali: «L’importo mensile della pensione di invalidità, di attuali euro 286,81, è innegabilmente, e manifestamente, insufficiente ad assicurare agli interessati il “minimo vitale” e non rispetta, dunque, il limite invalicabile del nucleo essenziale e indefettibile del “diritto al mantenimento” garantito ad “ogni cittadino inabile al lavoro” dall’art. 38, primo comma, Cost.» (punto 3.3 considerato in diritto). Di fronte alla prospettiva della morte per inedia non c’è discrezionalità legislativa che tenga!

b) Viene ribadito che la Corte non può procedere a un intervento manipolativo volto a individuare un’altra cifra, ritenuta dalla Corte stessa più adeguata di quella vigente. Ciò sia per l’eterogeneità di altri emolumenti evocati in comparazione dal rimettente, sia per la pluralità delle soluzioni prospettate (punto 3.5 considerato in diritto).

c) La Corte tuttavia non si arrende e cerca altre vie, anche indirette, per rispondere alla domanda di giustizia ad essa indirizzata. Prima di pronunciare il fatale non possumus (comoda scappatoia di tanti giudici), esplora tutte le possibilità e prende in seria considerazione una questione sollevata dal rimettente in via subordinata. L’art. 38, comma 4, della legge n. 448/2001 condizionava la cd. “integrazione al milione” di lire[28] al compimento del sessantesimo anno di età. Il giudice delle leggi ha avuto buon gioco nel rilevare l’irragionevolezza di tale barriera anagrafica, «in quanto il soggetto totalmente invalido di età inferiore si trova in una situazione di inabilità lavorativa che non è certo meritevole di minor tutela rispetto a quella in cui si troverebbe al compimento del sessantesimo anno di età. (…) Le minorazioni fisico-psichiche, tali da importare un’invalidità totale, non sono, infatti, diverse nella fase anagrafica compresa tra i diciotto anni (ovvero quando sorge il diritto alla pensione di invalidità) e i cinquantanove, rispetto alla fase che consegue al raggiungimento del sessantesimo anno di età, poiché la limitazione discende, a monte, da una condizione patologica intrinseca e non dal fisiologico e sopravvenuto invecchiamento» (punto 4.3 considerato in diritto). L’eliminazione del limite di età ha avuto l’effetto automatico di incrementare l’emolumento sino a una misura non tratta dalla fantasia della Corte, ma già prevista dal legislatore, ancorché irragionevolmente inibita agli infrasessantenni.

Anche in questo caso, la Corte ha reso giustizia costituzionale.

 

7. La Corte costituzionale rifiuta il “quieto vivere” e “rende giustizia”

In tutti i casi-campione citati nei paragrafi precedenti, e in molti altri, la Corte avrebbe potuto arrestarsi alla constatazione dei limiti istituzionali dei propri interventi demolitori e ricostruttivi, ove avesse interpretato il suo ruolo come controllore tecnico di conformità o difformità tra due norme astrattamente considerate. Ciò avrebbe evitato polemiche, levate di scudi e previsioni apocalittiche. E tuttavia le pagine delle sentenze “eretiche” appaiono pervase da un’ansia di “giustizia”, non di quella immortale e trascendente del giusnaturalismo religioso né di quella scolpita nel cuore dell’uomo dell’illuminismo laico, ma di quella legata al senso di solidarietà verso ogni persona umana, la cui esistenza sociale si identifica con la dignità, secondo quanto emerge in modo evidente già dal primo comma dell’art. 3 della Costituzione italiana.

Dopo Auschwitz, il gulag e i tanti orrori del XX e, ahimè, ancora del XXI secolo, nessuna coscienza può acquietarsi al rispetto formalistico dei limiti imposti dalla tradizione, se esiste anche una minima possibilità di cancellare una causa di sofferenza, togliere di mezzo una disparità di trattamento irragionevole, consentire a un essere umano di condurre un’esistenza «libera e dignitosa» (art. 36, primo comma, Cost.). Lo spettro di creare una situazione di summum ius summa iniuria dovrebbe sempre sovrastare il giudice quando decide e il giurista quando si compiace di sottili ragionamenti.

Rendere giustizia costituzionale significa contribuire, anche in misura minima e marginale, a inverare la Costituzione nell’ordinamento, traendola dal rarefatto campo delle norme “super-primarie”, per farla diventare materia viva della convivenza sociale, presente negli accordi e nei conflitti, garanzia molecolare di libertà e di eguaglianza nella società civile e nei rapporti tra questa e l’autorità dello Stato. Un principio costituzionale non può diventare “vivente” o restare lettera morta a colpi di maggioranza, né del Parlamento né della stessa Corte costituzionale. Tra questi due organi costituzionali si instaura, con fasi di alti e bassi, una dialettica continua, molto complessa e i cui sviluppi sono difficilmente prevedibili. Il costituzionalista non può che auspicare che la Costituzione sia davvero considerata, dall’una e dall’altra parte, higher law e non sterile insieme di idealità sovrapposto all’ordinamento giuridico “ordinario”, che regola i rapporti quotidiani della nostra vita. Per parte mia, non penso che un giudice costituzionale possa ritenersi soddisfatto se non ha impiegato tutti i mezzi che la sua cultura (non solo giuridica) gli offre per affermare, in ogni piega della società e in ogni angolo del sistema normativo, il primato della Costituzione e dei suoi princìpi. Se poi tali mezzi non esistessero, la creazione pura e semplice di nuove norme scardinerebbe quel principio supremo della separazione dei poteri, che garantisce effettività e sicurezza sia alle istituzioni politiche che a quelle di garanzia.

Tra una Corte amante del quieto vivere, che spende il suo ingegno a trovare buone motivazioni per non decidere su questioni di grande rilevanza etico-sociale, civile e politica, e una Corte che si sforza – anche eccedendo, talvolta! – di non frustrare l’aspettativa di giustizia di cittadini che ad essa si rivolgono fiduciosi, preferisco nettamente la seconda.

 

 

1. Ha osservato A. Pizzorusso, Il controllo sull’uso della discrezionalità legislativa, in Aa. Vv., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale (Atti del convegno, Trieste, 26-28 maggio 1986), Giuffrè, Milano, 1988, p. 90: «L’esperienza compiuta dagli organi di giustizia costituzionale funzionanti nei vari Paesi ci mostra come la loro attività non possa consistere nel rispondere, quasi come se fossero delle macchine a gettoni, alle varie domande che ad essi vengono poste secondo le diverse procedure previste, ma come essa implichi la formazione e l’attuazione di orientamenti che danno luogo alla formazione di una policy propria dell’organo di giustizia costituzionale».

2. Cfr. G. Laneve, La giustizia costituzionale nel sistema dei poteri – Interpretazione e giustizia costituzionale: profili ricostruttivi, vol. I, Cacucci, Bari, 2014, p. 183.

3. Cfr. C.N. Tate, Why the Expansion of Judicial Power?, in C.N. Tate e T. Vallinder (a cura di), The Global Expansion of Judicial Power, New York University Press, New York/Londra, 1995, p. 33.

4. Cfr., per l’esperienza Usa, J.S. Schachter, Putting the Politics of “Judicial Activism” in Historical Perspective, in The Supreme Court Review, 2017, p. 262. Sembra che anche nell’Italia contemporanea si sia formata una situazione simile.

5. A. Scalia, The Rule of Law as a Law of Rules, in The University of Chicago Law Review, vol. 56, n. 4/1989, p. 1184.

6. M.L. Volcansek, Judicialization of Politics or Politicization of the Courts in New Democracies?, in Ch. Landfried (a cura di), Judicial Power. How Constitutional Courts Affect Political Transformations, Cambridge University Press, Cambridge/New York, 2019, p. 76.

7. R.H. Bork, Il giudice sovrano. Coercing virtue, Liberilibri, Macerata, 2004, p. 25 (ed. or.: Coercing Virtue. The Worldwide Rule of Judges, American Enterprise Institute Press, Washington, 2003).

8. In realtà, il primo proveniva dal liberalismo autoritario italiano post-unitario, che dai cannoni di Bava Beccaris aveva portato il Regno alle porte aperte alla conquista fascista; il secondo aveva vissuto l’esperienza “democratica” nel regime stalinista.

9. A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quaderni costituzionali, n. 2/2019, p. 282. Ci si riferisce al notissimo (forse troppo) saggio di R. Hirschl, Towards Juristocracy. The Origins and Consequences of the New Constitutionalism, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts)/Londra, 2004, spec. pp. 221 ss., dove sinteticamente si conclude che i giudici di tutto il mondo sono propensi ad accettare il motto: «anything and everything is justiciable», con la conseguenza che l’alto livello etico e politico di molte controversie ha trasformato le corti supreme «into major political decision-making bodies».

10. In questo scritto ci limitiamo al circuito giudice comune-Corte costituzionale, anche se la problematica è più ampia.

11. N. Gorsuch, Di leoni e di orsi, di giudici e di legislatori, in IBL (Istituto Bruno Leoni), paper, 27 aprile 2020, p. 4. Questa impostazione rigorosamente positivistica contrasta, però, con la stessa idea di costituzionalismo, giacché i princìpi costituzionali non consentono di distinguere nettamente il diritto come è dal diritto come dovrebbe essere: cfr. O. Chessa, I giudici del diritto. Problemi teorici della giustizia costituzionale, Franco Angeli, Milano, 2014, p. 498.

12. Cfr. M. Luciani, Dottrina del moto delle costituzioni e vicende della Costituzione repubblicana, in Rivista AIC, n. 1/2013, pp. 5 ss. Lo stesso A., nel rilevare che la distinzione tra applicazione e attuazione della Costituzione «è andata gradualmente smarrendosi», tiene a precisare che «l’attuazione (…) costituzionale non può passare direttamente per le aule di giustizia e (…) la politica ha ancora un suo spazio, ha ancora il compito di identificare tempi e modi della realizzazione del progetto della Costituzione (…)»: Funzioni e responsabilità della giurisdizione. Una vicenda italiana (e non solo), in Rivista AIC, n. 3/2012, pp. 10 ss.

13. Neppure la caduta del regime fascista interruppe una continuità burocratico-amministrativa dello Stato italiano che ha fortemente frenato l’attuazione del disegno costituzionale nel campo del potere esecutivo. Cfr., in proposito, S. Cassese, Lo Stato fascista, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 47 ss.; anche la riforma “fascistissima”, definita “rivoluzionaria” dal regime, stentò ad affermarsi nella realtà istituzionale italiana, nonostante ripetuti sforzi, rimanendo in gran parte sulla carta e nella propaganda ufficiale, bloccata dalla resistenza inerziale degli apparati esistenti: cfr. G. Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 412 ss.  

14. È d’obbligo il riferimento a V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano, 1952, ora in Id., Prima e dopo la Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2015, pp. 145 ss.

15. C. Mezzanotte, Corte costituzionale e legittimazione politica (ed. or.: Tipografia veneziana, Roma, 1984), Editoriale Scientifica, Napoli, 2014, pp. 113 ss.

16. Termine che appare più appropriato di quello di “compromesso”, frutto di una idea grossolana del processo storico che si è svolto all’interno dell’Assemblea costituente: vds. L. Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 54.

17. Cfr. R. Pinardi, L’horror vacui nel giudizio sulle leggi. Prassi e tecniche decisionali utilizzate dalla Corte costituzionale allo scopo di ovviare all’inerzia del legislatore, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 149 ss.

18. E. Furno, Il “caso Cappato” ovvero dell’attivismo giudiziale, in Rivista AIC, n. 1/2020, p. 316.

19. Occorre evitare l’alternativa tra “attivismo” e “passivismo”, in modo da dare spazio, in un giudizio più raffinato, a numerose virtù politiche senza che nessuna di essa divenga “tiranna”: R. Dworkin, L’impero del diritto, Il Saggiatore, Milano, 1989, p. 350 – ed. or.: Law’s Empire, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts), 1986.

20. Mi sia consentito il rinvio a G. Silvestri, La Corte costituzionale nella svolta di fine secolo (in Storia d’Italia, Annali, vol. 14, Einaudi, Torino, 1998), ora in Id., Le garanzie della Repubblica, Giappichelli, Torino, 2009, pp. 127 ss. Sulla stessa linea di pensiero cfr. ora le acute considerazioni e gli interessanti approfondimenti di M. Ruotolo, Corte costituzionale e Legislatore, in Diritto e società, n. 1/2020, spec. pp. 71 ss.

21. Ho avuto modo di riconoscerlo pubblicamente in occasione di una giornata di studio in ricordo di Vezio Crisafulli (Roma, Palazzo della Consulta, 5 novembre 2010): vds. Aa. Vv., Atti della giornata in ricordo del Giudice emerito della Corte Costituzionale Vezio Crisafulli, Corte costituzionale, Roma, 2011, pp. 54 ss. (www.cortecostituzionale.it/documenti/pubblicazioni/Giornata_Crisafulli.pdf).

22. Lo stesso può dirsi dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, regolati con il sistema della sentenza n. 170 del 1984, detta “Granital”, anch’esso ormai entrato in crisi, dopo oltre trent’anni di onorato servizio. Mi sia consentito sul punto il rinvio a G. Silvestri, L’integrazione tra l’ordinamento italiano e quello europeo, in Nuova antologia, vol. 624, fasc. n. 2293, 2020, pp. 90 ss.

23. F. Modugno, Corte costituzionale e potere legislativo, in P. Barile - E. Cheli - S. Grassi (a cura di), Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 54. Sulle “due anime” della Corte cfr., di recente, R. Basile, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Giuffrè, Milano, 2017.

24. G. Zagrebelsky, La Corte costituzionale e il legislatore, in P. Barile - E. Cheli - S. Grassi (a cura di), Corte costituzionale, op. cit., p. 141.

25. Anche con l’adozione di tecniche “miste”: cfr. C. Panzera, Interpretare Manipolare Combinare. Una nuova prospettiva per lo studio delle decisioni della Corte costituzionale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2013, pp. 217 ss.

26. «Va dunque conclusivamente rilevato che, laddove, come nella specie, la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere, questa Corte reputa doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale».

27. «Considerato (…) che vari progetti di legge in materia di revisione della disciplina della diffamazione a mezzo della stampa risultano allo stato in corso di esame avanti alle Camere, questa Corte ritiene opportuno, in uno spirito di leale collaborazione istituzionale e nel rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni, rinviare la decisione delle questioni ora sottopostele a una successiva udienza, in modo da consentire al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina in linea con i princìpi costituzionali e convenzionali sopra illustrati».

28. Pari a euro 516,46, divenuti, con gli aggiornamenti di legge, 649,45 per il 2019 e 651,51 per il 2020.