Le “spinte centripete” nel giudizio incidentale di costituzionalità
Nell’ultimo periodo vengono segnalati (e, da parte di alcuni, contestati) fenomeni di “riaccentramento” del giudizio incidentale di legittimità costituzionale. Risalendo alle origini delle “spinte centripete” nel giudizio incidentale, occorre porsi alcune domande: la Corte ha rispettato le regole che disciplinano il giudizio incidentale? Come incidono questi orientamenti sui rapporti con gli altri poteri dello Stato? La conclusione è nel senso che la Corte non pare aver forzato le regole processuali né usurpato prerogative del Parlamento e dei giudici comuni, ma ha cercato di attuare i principi di costituzionalità e di certezza del diritto, evitando forzature e “sovraesposizioni”.
1. La scarsa “inclusività” del sindacato italiano di costituzionalità / 2. All’origine delle “spinte centripete”. La Corte tra abrogazione e illegittimità sopravvenuta: dalla sentenza n. 1/1956 alla sentenza n. 70/2020 / 3. [Segue] Nozione di giudice a quo e rilevanza / 4. La Corte e le questioni incidentali “astratte” (sollevate nel corso di azioni di mero accertamento): indebito ampliamento o indebita restrizione del canale d’accesso? / 5. «Le correzioni»: i casi di doppio vizio delle leggi e il secondo “cammino comunitario” della Corte / 6. Il nuovo orientamento della Corte in materia di decisioni manipolative / 7. Istituti vari che possono “spostare il confine”: interpretazione adeguatrice, restituzione degli atti, pronunce di inammissibilità / 8. Conclusioni: The Narrow Corridor
1. La scarsa “inclusività” del sindacato italiano di costituzionalità
In un saggio del 2012, Why Nations Fail, Acemoglu e Robinson affermano che l’elemento più importante per lo sviluppo di una nazione non è quello geografico né quello culturale, ma la presenza di «istituzioni economiche inclusive», a sua volta legata alla presenza di «istituzioni politiche inclusive»[1].
Credo che qualcosa di simile si possa dire per la garanzia e lo sviluppo della Costituzione: un assetto del sindacato di costituzionalità “inclusivo” è importante per favorire il rispetto della Costituzione e la possibilità di un suo sviluppo “spontaneo”, al di là delle modifiche apportate dal legislatore costituzionale: è ben noto, infatti, che i sempre diversi casi della vita e i nuovi impulsi sociali hanno determinato un’interpretazione evolutiva della Costituzione, tramite la giurisprudenza costituzionale[2].
Il nostro sindacato di costituzionalità non è di tipo “inclusivo”: il ricorso diretto è stato limitato a Stato e Regioni, con esclusione di enti locali, privati e minoranze parlamentari (figure soggettive che in altri ordinamenti possono adire il tribunale costituzionale); inoltre, la delibera di impugnazione è strutturata come atto politico[3] e le Regioni hanno una legittimazione limitata, elementi che diminuiscono l’efficacia del giudizio in via principale come strumento di garanzia della Costituzione.
Dunque, il “peso” della difesa della Costituzione si scarica quasi interamente (a parte il Titolo V) sul sindacato in via incidentale[4], che presenta diversi pregi[5] ma costituisce oggettivamente una “strettoia” nell’accesso alla Corte[6]. Oltre a riguardare solo atti legislativi (con esclusione delle fonti secondarie), il giudizio incidentale della Corte costituzionale rappresenta un “traguardo” cui si arriva solo alle seguenti condizioni. La prima che è ci sia occasione di applicare la legge incostituzionale in un giudizio. Tale condizione può rendere difficile sindacare le leggi favorevoli (ad esempio, le leggi di spesa e le leggi di favore in materia di pubblico impiego), le leggi che ledono i diritti senza bisogno di atti applicativi (ad esempio, una legge che vieti l’aborto[7]) e le leggi che ledono i diritti tramite atti applicativi non impugnabili davanti al giudice comune (ad esempio, la legge sulle elezioni politiche).
La seconda condizione è che il giudice non ritenga la questione manifestamente infondata: questo elemento di “diffusione” nel nostro sindacato accentrato può sbarrare l’accesso alla Corte e non è scontato che, se il vizio esiste, prima o poi si troverà un giudice che sollevi la questione, perché la lesione può colpire pochi soggetti e non sempre questi sono disposti ad accollarsi le fatiche e le spese di un giudizio.
La terza condizione è che il giudice non risolva da sé il problema di costituzionalità, tramite un’interpretazione adeguatrice, che darebbe soddisfazione alla parte del suo giudizio ma non garantirebbe analoga tutela ad altri – a meno che tale interpretazione si tramuti in un diritto vivente, che però dovrebbe essere seguito (oltre che dai giudici) dalle amministrazioni competenti ad applicare la legge[8]. Lo stesso si può dire per i casi in cui il giudice disapplica direttamente la legge, per contrasto con una fonte europea self-executing.
Infine, un ulteriore ostacolo sulla strada verso la Consulta è stato introdotto dall’art. 23 l. n. 87/1953[9], che ha posto la rilevanza della questione di costituzionalità come condizione della sua ammissibilità: da un lato, non pare sicuro che l’art. 23 – nel fissare questo requisito – non sia andato oltre quanto richiesto dall’art. 1 l. cost. n. 1/1948[10]; dall’altro, non mancano applicazioni opinabili dell’art. 23 da parte della Corte costituzionale, con conseguente sbarramento di questioni che potrebbero invece essere considerate ammissibili[11].
Questa rapida sintesi è parsa opportuna per tratteggiare il contesto di partenza del giudizio incidentale. Vediamo ora come la Corte ha calibrato il proprio ruolo e, in particolare (dato il tema a me affidato), come ha cercato di favorire una propria decisione di merito.
2. All’origine delle “spinte centripete”. La Corte tra abrogazione e illegittimità sopravvenuta: dalla sentenza n. 1/1956 alla sentenza n. 70/2020
Nel primo caso sottoposto alla Corte costituzionale, l’avvocatura dello Stato tentò di ridimensionare pesantemente il ruolo della Corte, sostenendo che «nei riguardi della legislazione anteriore alla Costituzione non v’ha luogo a giudizio di legittimità costituzionale, perché le norme precettive della Costituzione importano abrogazione delle leggi anteriori che siano con essa incompatibili e la relativa dichiarazione è di competenza esclusiva del giudice ordinario; mentre le norme costituzionali di carattere programmatico non importano difetto di legittimità di nessuna delle leggi vigenti anteriori alla Costituzione» (così il fatto della sent. n. 1/1956).
La Corte rispose osservando che «la nota distinzione fra norme precettive e norme programmatiche può essere bensì determinante per decidere della abrogazione o meno di una legge, ma non è decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale, potendo la illegittimità costituzionale di una legge derivare, in determinati casi, anche dalla sua non conciliabilità con norme che si dicono programmatiche». Quanto alla scelta, nel caso concreto, tra abrogazione o incostituzionalità sopravvenuta della legge precedente alla Costituzione, la Corte rilevò che «[n]on occorre (…) fermarsi ad esaminare se e in quali casi, per le leggi anteriori, il contrasto con norme della Costituzione sopravvenuta possa configurare un problema di abrogazione da risolvere alla stregua dei principi generali fermati nell’art. 15 disp. prel. cod. civ. I due istituti giuridici dell’abrogazione e della illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse. Il campo dell’abrogazione inoltre è più ristretto, in confronto di quello della illegittimità costituzionale, e i requisiti richiesti perché si abbia abrogazione per incompatibilità secondo i principi generali sono assai più limitati di quelli che possano consentire la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge».
In sostanza: a) l’accertamento dell’avvenuta abrogazione spetta al giudice comune, perché la vigenza delle leggi è questione che in primis va risolta da esso, non dalla Corte (che invece si occupa dell’illegittimità delle stesse leggi)[12]; b) l’abrogazione viene accertata dal giudice comune con effetti inter partes, l’illegittimità sopravvenuta viene dichiarata dalla Corte con effetti erga omnes; c) il contrasto tra legge precedente e norma costituzionale (o interposta) successiva determina abrogazione della prima se il parametro successivo è direttamente applicabile, altrimenti il contrasto si traduce in illegittimità sopravvenuta.
Non si tratta di una mera rievocazione storica, che riguarda solo le leggi pre-Costituzione. Il problema del contrasto della legge con un nuovo parametro può riaffiorare in occasione di una riforma costituzionale e, molto più frequentemente, quando sopraggiunge un nuovo parametro interposto. Un caso “classico” è quello della nuova legge cornice statale, che modifica i principi fondamentali in una materia concorrente[13]. Nell’affrontare tali casi, la Corte ha mantenuto ferma l’impostazione iniziale, giudicando nel merito le questioni ad essa sottoposte, sia perché la rimessione implica il giudizio negativo del giudice a quo sull’abrogazione[14] sia per esigenze di certezza del diritto, dato che l’accertamento dell’abrogazione condurrebbe a una sentenza di inammissibilità per irrilevanza, ma la sentenza di inammissibilità ha effetti inter partes (ad esempio, vds. la sent. n. 272/2010)[15].
Questo orientamento della Corte favorisce una decisione di merito perché si esclude un riesame della valutazione del giudice a quo in merito all’abrogazione, riesame che potrebbe condurre a una decisione di inammissibilità.
Mi pare interessante segnalare che lo stesso orientamento è stato di recente applicato anche al giudizio in via principale, ove viene meno una delle due giustificazioni sopra esposte: la competenza del giudice comune sulla vicenda abrogativa (resta, invece, la ratio della certezza del diritto). Nella sentenza n. 70/2020, la Corte ha annullato una disposizione legislativa regionale per contrasto con una norma legislativa statale (avente rango di principio fondamentale) entrata in vigore quattro giorni dopo la norma regionale impugnata. Il nuovo principio fondamentale (art. 5 dl n. 32/2019, che ha introdotto il comma 1-ter nell’art. 2-bis del testo unico edilizia) ha stabilito limiti volumetrici e di sedime per «ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione»: trattandosi in sostanza di un divieto di realizzazione di certi interventi edilizi, la nuova norma pare direttamente applicabile e dunque ha verosimilmente abrogato le norme regionali precedenti difformi[16], che consentivano opere al di là di quei limiti. La Corte, invece, ha accertato l’illegittimità della norma regionale pugliese «a partire dalla entrata in vigore della novella legislativa statale». Benché la Corte non abbia affrontato nella sentenza l’alternativa tra incostituzionalità sopravvenuta della norma regionale e inammissibilità del motivo di ricorso[17], è verosimile che essa si sia posta il dubbio, valutando l’applicazione del sopra citato (vds. nota 14) art. 10 della legge Scelba e optando poi per una pronuncia di accoglimento in luogo di una sentenza di inammissibilità.
Si tratta di una scelta che favorisce la certezza del diritto e “chiude” il discorso, evitando che in giudizi comuni si discuta della vigenza della norma regionale: dunque, una scelta di “accentramento” (della decisione di merito), coerente con l’orientamento (sopra esposto) sviluppatosi nel giudizio incidentale. Mi pare una scelta condivisibile, purché venga intesa nella prospettiva del “doppio binario”. La sent. n. 70/2020 non deve essere intesa nel senso della “disapplicazione” dell’art. 10 legge Scelba: i giudici e ogni altro operatore giuridico possono accertare l’abrogazione della legge regionale contrastante con i nuovi principi (direttamente applicabili) ma, se la questione viene sottoposta alla Corte con un’impugnazione diretta (eventualità rara, dato il termine di decadenza di 60 giorni previsto per essa), la Corte “fa pulizia” e annulla la legge regionale per incostituzionalità sopravvenuta.
Analoga salvaguardia del «valore costituzionale della certezza e della chiarezza normativa» è stata assicurata dalla Corte nelle sentt. nn. 384/1994 e 94/1995, che hanno considerato ammissibili – nel giudizio in via principale, a differenza di quel che accade nel giudizio incidentale[18] – questioni relative a leggi contrastanti con fonti europee self-executing.
3. [Segue] Nozione di giudice a quo e rilevanza
Nel respingere un’eccezione sollevata dall’avvocatura, secondo la quale una questione di costituzionalità sollevata da un tribunale nel corso di un procedimento di omologazione di una spa era inammissibile per difetto del “giudizio a quo”, cioè del presupposto processuale del giudizio costituzionale, la Corte osservò che «il preminente interesse pubblico della certezza del diritto (che i dubbi di costituzionalità insidierebbero), insieme con l’altro dell’osservanza della Costituzione, vieta che dalla distinzione tra le varie categorie di giudizi e processi (categorie del resto dai confini sovente incerti e contestati), si traggano conseguenze così gravi» (sent. n. 129/1957). Già all’inizio dell’attività della Corte, dunque, emersero i principi cardine che avrebbero orientato la “politica giudiziaria” della Corte, anche in alcune importanti scelte di recente compiute (vds. infra): il principio di certezza e quello di costituzionalità[19].
È noto poi che la nozione di giudice a quo è stata intesa in modo estensivo, essendo stati ammessi a sollevare questione organi non giurisdizionali, ma dotati di funzioni giurisdizionali (vds. la sent. n. 12/1971, sulla sezione disciplinare del Csm) e anche organi non giurisdizionali nell’esercizio di funzioni non giurisdizionali (vds. ad esempio le sentt. nn. 226/1976 e 384/1991, sulla Corte dei conti in sede di controllo[20]). Nasce così la nozione di giudizio ai limitati fini del promovimento della questione di legittimità costituzionale (ad esempio, sentt. nn. 226/1976 e 26/1999) ed emerge come preminente l’esigenza di evitare le “zone franche” (esigenza che si può ricondurre al principio di costituzionalità). La sent. n. 226/1976 osserva che «il riconoscimento di tale legittimazione [della Corte dei conti] si giustifica anche con l’esigenza di ammettere al sindacato della Corte costituzionale leggi che, come nella fattispecie in esame, più difficilmente verrebbero, per altra via, ad essa sottoposte», e nella sent. n. 26/1999 si legge che «anche la proposizione dell’incidente di costituzionalità (…) costituisce espressione del diritto di difesa, in questo caso contro le leggi incostituzionali, e deve pertanto (…) essere ammessa tutte le volte in cui non sussistano vie alternative per farlo valere».
Una sintesi della giurisprudenza costituzionale sulla nozione di giudice a quo si trova nella sent. n. 13/2019 (che ha dichiarato inammissibili, per difetto di legittimazione, questioni sollevate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato), che sottolinea come la Corte abbia adottato un criterio «elastico», «nel dichiarato obiettivo di consentire il più ampio accesso possibile alla giustizia costituzionale ed escludere l’esistenza di “zone franche” dal controllo di costituzionalità»[21].
Il principio di costituzionalità e quello di certezza furono alla base anche dell’ord. n. 22/1960, con cui la Corte si riconobbe la legittimazione a sollevare davanti a se stessa questione di costituzionalità: «Non può infatti ritenersi che proprio la Corte – che è il solo organo competente a decidere delle questioni di costituzionalità delle leggi – sia tenuta ad applicare leggi incostituzionali, e neanche che, nell’ipotesi di incostituzionalità delle leggi che regolano la materia, possa e debba disapplicarle, senza mettere in moto il meccanismo (di portata generale e necessaria nel vigente ordinamento) destinato a condurre, se del caso, con le debite garanzie di contraddittorio, alla eliminazione, con effetti erga omnes, delle leggi incostituzionali».
Già nel primo periodo di attività della Corte, dunque, l’area del sindacato accentrato di costituzionalità è stata estesa, in virtù degli effetti che i due succitati principi hanno prodotto sui presupposti (giudice a quo e giudizio a quo) del giudizio incidentale.
Analogo fenomeno si è verificato in relazione alla rilevanza, seppur in questo caso senza alcun distacco rispetto alla lettera delle disposizioni. Come si è visto (par. 1), mentre la scelta dell’accesso incidentale, compiuto dalla l. cost. n. 1/1948, implicava verosimilmente solo la necessità che la questione di costituzionalità riguardasse una norma applicabile nel giudizio a quo, l’art. 23 l. n. 87/1953 ha aggiunto il requisito della pregiudizialità, cioè della necessaria influenza della decisione della Corte sul giudizio a quo. La Corte ha, da un lato, limitato l’operatività di tale requisito al momento genetico del giudizio incidentale (cioè, al momento dell’ordinanza di rimessione), sia tramite una norma integrativa[22] sia con la propria giurisprudenza[23], dall’altro ha affermato la sufficienza di una influenza giuridica, nel senso che la decisione della Corte non deve necessariamente incidere sull’esito concreto del giudizio a quo, bastando invece che influisca sul percorso motivazionale del rimettente (l’esempio classico, a tal fine, è quello della sent. n. 148/1983 sulle norme penali di favore, decisione nella quale ricompare anche l’argomento delle “zone franche”; più di recente vds. le sentt. nn. 253/2019 e 174/2019).
4. La Corte e le questioni incidentali “astratte” (sollevate nel corso di azioni di mero accertamento): indebito ampliamento o indebita restrizione del canale d’accesso?
Secondo la maggioranza della dottrina, la Corte avrebbe operato un indebito “accentramento” decisionale con le sentenze nn. 1/2014 e 35/2017, che hanno in parte annullato le leggi sulle elezioni politiche, accogliendo questioni di costituzionalità sollevate nel corso di giudizi di mero accertamento del diritto di voto.
Molti autori[24] hanno denunciato lo stravolgimento delle regole del giudizio incidentale, sorto senza alcun collegamento con un caso concreto di applicazione della legge. La sent. n. 1/2014 è stata addirittura definita «la più creativa» adottata dalla Corte nella sua storia[25]. La sent. n. 35/2017 è stata criticata, in particolare, perché la l. n. 52/2015 (cd. Italicum) non era stata mai applicata (a differenza della l. n. 270/2005, cd. Porcellum, oggetto della sent. n. 1/2014) e non era neppure applicabile al momento dell’adozione di una delle ordinanze di rimessione[26].
Si tratta di opinioni che non condivido, per le ragioni che ho già esposto in altri scritti e che qui posso solo sintetizzare: a) se una legge lede direttamente un diritto fondamentale o comunque è foriera di un danno certo o probabile, sussiste l’interesse ad agire per l’accertamento del diritto leso o minacciato dalla mera esistenza della legge[27]; b) se il giudice solleva questione di costituzionalità nel corso dell’azione di mero accertamento, non manca il requisito dell’incidentalità della questione[28]; c) le sentt. nn. 1/2014 e 35/2017 non hanno sovvertito la precedente giurisprudenza della Corte[29]; d) le sentt. nn. 1/2014 e 35/2017 non hanno sovvertito le regole del giudizio incidentale, poiché per l’ammissibilità di esso non è necessario il collegamento con un caso concreto di applicazione o violazione della legge[30].
Dunque, in relazione alle questioni incidentali sollevate nel corso di azioni di mero accertamento di un diritto fondamentale, mi pare che la Corte non possa essere accusata di “protagonismo” (o “suprematismo”[31]), per averle decise nel merito (con le sentt. nn. 1/2014 e 35/2017), ma abbia – al contrario – compiuto una scelta di understatement, avendo limitato molto la possibilità di usare tale strumento mediante la sent. n. 110/2015, che ha negato l’ammissibilità (non solo della questione di costituzionalità ma anche) dell’azione civile di accertamento, in quanto in relazione alle elezioni europee (a differenza delle elezioni politiche) si poteva instaurare un giudizio davanti al giudice comune[32]. Dunque, la “zona franca” è stata considerata come ulteriore condizione dell’azione civile di accertamento “astratto” del diritto fondamentale.
Questa mi pare essere veramente una novità, forse influenzata dal timore di allargare eccessivamente il canale di accesso alla Corte: l’effetto della “frenata” del 2015 è quello di precludere le impugnazioni “dirette” delle leggi davanti al giudice civile, cioè di restringere il ruolo della Corte e, soprattutto, le possibilità di tutela dei diritti fondamentali. Peraltro, sarà da vedere quale posizione assumerà la Corte di fronte a una questione incidentale sollevata in un giudizio di accertamento promosso direttamente contro una legge immediatamente lesiva (proibitiva o impositiva)[33]. Il tema delle questioni incidentali “astratte” pare ancora in evoluzione.
5. «Le correzioni»: i casi di doppio vizio delle leggi e il secondo “cammino comunitario” della Corte
La citazione del titolo del romanzo di Franzen pare appropriata per descrivere l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul tema del “doppio vizio” della legge, cioè del caso in cui la legge viola sia un diritto garantito dalla Costituzione sia un diritto garantito da una fonte europea “paracostituzionale” self-executing[34]. Nel 2019, il presidente Lattanzi diede atto che, in questo settore, «ci muoviamo in un cantiere con lavori perennemente in corso, i cui esiti sono soggetti a una continua rimodulazione per trovare il miglior punto di incontro tra i mutamenti di prospettiva che provengono dalle fonti europee e le esigenze proprie del controllo di costituzionalità»[35].
Questo “secondo cammino comunitario”[36] della Corte si è avviato, come noto, con la sent. n. 269/2007, nella quale la Corte ha statuito che, nel caso in cui «una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE».
In sostanza, la Corte cercava di evitare la propria esclusione dal sindacato su una legge lesiva di un diritto fondamentale[37]: la sent. n. 269/2017 richiedeva (o auspicava[38]) che i giudici non risolvessero da sé la questione, tramite la disapplicazione della legge, ma si rivolgessero alla Corte stessa, ferma restando la possibilità del rinvio pregiudiziale. Naturalmente, questo implicava un mutamento giurisprudenziale: la questione di costituzionalità sollevata su una legge contrastante (oltre che con la Costituzione) con una norma della Cdf direttamente applicabile non era più inammissibile[39], ma poteva essere decisa nel merito dalla Corte. Questo orientamento rappresenta la più chiara ed esplicita “spinta centripeta” della Corte[40], perché la Corte dichiara che vuole decidere nel merito questioni di costituzionalità fino a quel momento considerate inammissibili, sostituendo (in caso di accoglimento) la propria sentenza di annullamento erga omnes alla disapplicazione inter partes pronunciata dal giudice a quo.
Le “correzioni” di cui parlavo, che la Corte ha apportato alla sent. n. 269/2017 (prima tramite le sentt. nn. 20/2019 e 63/2019, sintetizzate dall’ord. n. 117/2019, e poi con le sentt. nn. 11/2020 e 44/2020), sono essenzialmente le seguenti: a) la Corte non fa salvo solo il rinvio pregiudiziale ma anche il potere di disapplicazione: in sostanza, la Corte rinuncia al velleitario tentativo di “vietare” la disapplicazione diretta della legge e si limita a dare ai giudici la possibilità di scelta, cioè la possibilità di adire in prima battuta la Corte costituzionale, senza correre il rischio di un’inammissibilità[41]; b) il nuovo orientamento (volto a rendere possibile il sindacato accentrato della Corte) non vale solo nel caso in cui la legge violi un diritto costituzionale e la Cdf, ma anche quando la legge violi un diritto costituzionale e altra norma europea dal contenuto costituzionale[42].
Il nuovo orientamento della Corte è stato “applicato” dalla Cassazione in una serie di ordinanze[43] che hanno sottoposto alla Corte costituzionale le norme relative all’assegno di natalità e all’assegno di maternità, pur attestando la «concreta possibilità» della disapplicazione, per contrasto con l’art. 12 della direttiva 2011/98/UE: l’ord. n. 182/2020 della Corte ha però operato un rinvio pregiudiziale alla Cgue.
Tale orientamento, nei suoi termini attuali, mi pare in armonia con la giurisprudenza della Cgue: vds. la sentenza Melki del 2010[44] e la sentenza A c. B del 2014[45].
Sembrano anche condivisibili le ragioni che lo sorreggono. Per quanto riguarda la certezza del diritto, l’importanza di un annullamento erga omnes è intuitiva: basti qui ricordare che l’incertezza del diritto derivante dal sindacato diffuso (cioè, dal meccanismo della disapplicazione della legge con effetti inter partes) è stato un elemento centrale nella scelta del sindacato accentrato, operata dall’Assemblea costituente. Il caso (citato poco sopra) del “bonus bebè” è emblematico. La Cassazione ha coinvolto la Corte costituzionale nonostante un compatto indirizzo dei giudici comuni nel senso della disapplicazione: infatti, pur in presenza di questo “diritto vivente”, l’Inps continuava a negare il beneficio agli stranieri privi del permesso di lungo periodo. Tale vicenda rende evidente che l’annullamento erga omnes della legge incostituzionale è preferibile per due motivi: a) evita l’incertezza “giurisdizionale” del diritto, derivante dal fatto che in Italia manca il principio dello stare decisis[46]; b) evita l’incertezza “amministrativa” del diritto, derivante dal fatto che le p.a., pur essendo anch’esse tenute a disapplicare la legge contrastante con una fonte europea self-executing (sent. n. 389/1989), potrebbero continuare invece ad applicarla, confidando nel fatto che una buona percentuale di persone rinuncia ad adire le vie legali.
Per quanto riguarda la “vocazione” della Corte a sindacare il bilanciamento effettuato dal legislatore, anch’essa è una motivazione coerente con le ragioni che condussero alla scelta del sindacato accentrato: nel 1947 si volle che il giudizio di costituzionalità fosse svolto da un giudice dotato – in virtù della sua composizione – di “sensibilità politica”, ritenuta necessaria sia per lo speciale oggetto del giudizio stesso (la legge, cioè un atto politico) sia per il parametro (le norme costituzionali spesso consistono in principi rivolti al legislatore, che li deve attuare bilanciandoli reciprocamente). Poiché il giudizio di costituzionalità spesso si traduce in un controllo di ragionevolezza del bilanciamento effettuato, si comprende la necessità della “sensibilità politica” della Corte. Si può aggiungere che l’opportunità del coinvolgimento della Corte deriva anche dalla sua specializzazione.
Si può notare che queste due istanze alla base del “secondo cammino comunitario” della Corte riecheggiano quelle che hanno guidato la Corte nella “gestione” dei rapporti con la Cedu e con la Corte Edu: le sentenze “gemelle” (nn. 348 e 349 del 2007) hanno escluso la disapplicazione della legge contrastante con la Cedu anche per ragioni di certezza del diritto; la sent. n. 264/2012 ha escluso che la Corte sia strettamente vincolata da una sentenza della Corte Edu (che abbia censurato una legge italiana), attribuendo alla Corte il potere di bilanciare l’art. 117, primo comma, Cost. con altri interessi costituzionali[47].
Più problematico è il profilo della compatibilità del nuovo orientamento con le regole del processo costituzionale. Se la legge interna contrasta con una fonte europea self-executing, ciò farebbe sorgere il potere-dovere di disapplicazione della legge stessa, il che escluderebbe automaticamente la rilevanza della questione, perché la legge non è applicabile. Ho usato il condizionale perché la Cgue, nelle citate pronunce Melki e A c. B, ha accettato che la legge non venga disapplicata tout court ma, eventualmente, disapplicata in via provvisoria (per dare tutela al diritto leso) e sottoposta al sindacato di costituzionalità: il che significa riconoscere efficacia alla legge stessa. Mi pare, dunque, che il misterioso (dal punto di vista teorico) meccanismo della disapplicazione[48] diventi ancora più nebuloso, nei casi qui esaminati. Resta il fatto che, se dal punto di vista del diritto europeo è accettabile che la legge (contrastante con una fonte europea self-executing) non venga disapplicata subito tout court (ma eventualmente dopo il giudizio costituzionale), ciò significa che il dovere di “disapplicazione immediata” non esiste e, dunque, che la questione di costituzionalità potrebbe essere rilevante.
A prima vista, l’attuale approdo della giurisprudenza costituzionale (secondo la quale il giudice può scegliere tra disapplicazione e rimessione della questione alla Corte) configura una soluzione ragionevole ma fonte di dubbi sotto il profilo tecnico-giuridico, perché ci troviamo in un campo dominato dalle regole (non dai principi), nel quale una facoltà di scelta non dovrebbe esserci. La rilevanza è una regola, così come è una regola quella della disapplicazione della legge contrastante con la norma europea self-executing. Una riflessione ulteriore, però, evidenzia che la regola della disapplicazione è stata “ammorbidita” dalla stessa Cgue e ciò si riflette sulla regola della rilevanza.
6. Il nuovo orientamento della Corte in materia di decisioni manipolative
Le decisioni manipolative (additive e sostitutive), non previste né dalla Costituzione né dalla l. n. 87/1953, rappresentarono una forte innovazione nello strumentario della Corte costituzionale, ma non necessariamente nel senso dell’ampliamento dell’intervento della Corte: esse, infatti, potevano essere viste come un modo per limitare l’impatto di tale intervento, dal momento che l’alternativa alla sentenza manipolativa sarebbe stata un accoglimento “secco”, con conseguente venir meno dell’intera disposizione e creazione di una lacuna nell’ordinamento.
È noto che la giustificazione della funzione di “legislatore positivo” (e non solo “negativo”) della Corte fu trovata nella teoria crisafulliana delle “rime obbligate”, secondo la quale la Corte non creava liberamente la norma introdotta ma la ricavava dal sistema normativo, in attuazione del parametro costituzionale invocato, o direttamente dalla Costituzione.
La teoria delle “rime obbligate” è stata di recente superata[49]. Attualmente, la Corte introduce nell’ordinamento una nuova norma (tramite un’additiva o una sostitutiva), «ancorché non costituente l’unica soluzione costituzionalmente obbligata» (sent. n. 113/2020[50]), purché la valutazione della Corte possa «essere condotta attraverso precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo» (sent. n. 236/2016). È dunque sufficiente che il giudice a quo indichi – traendola dal sistema normativo – una «soluzione costituzionalmente adeguata, benché non obbligata» (sent. n. 40/2019), tale da restituire coerenza alle scelte del legislatore: ciò anche al fine di evitare “zone franche” immuni dal sindacato di costituzionalità e di garantire la tutela dei diritti fondamentali (di libertà, in caso di sanzione penale incostituzionale: vds. sempre la sent. n. 40/2019)[51].
Si tratta di una “spinta centripeta” perché la Corte evita le decisioni di inammissibilità (motivate dall’assenza di “rime obbligate” e dalla necessità di rispettare la discrezionalità del legislatore) e decide nel merito. Essa attiene soprattutto al tema dei rapporti con il legislatore, oggetto di altri contributi, ma tocca anche quello dei rapporti con i giudici: infatti, prima del nuovo orientamento una delle soluzioni praticabili[52], in assenza di “rime obbligate”, era la sentenza additiva “di principio”, che – invece di introdurre una regola precisa – si limita a introdurre un principio, destinato a essere attuato dal legislatore ma già applicabile dal giudice, che può ricavare dal principio la regola del caso su cui deve decidere[53]. Precisato che le additive di principio non sono utilizzabili in relazione alle sanzioni penali, per il principio di determinatezza della pena[54], la nuova giurisprudenza costituzionale amplia l’area delle manipolative e riduce quella delle additive di principio e delle pronunce di inammissibilità, con diminuzione dei casi in cui i giudici comuni “ricevono” dalla Corte una decisione di inammissibilità o una decisione (additiva di principio) che consente al giudice a quo di risolvere il caso in modo conforme a Costituzione ma non garantisce certezza del diritto.
L’abbandono “ufficiale” delle “rime obbligate” si è avuto con la sent. n. 222/2018 (in tema di pene accessorie alla condanna per il delitto di bancarotta), in cui la Corte parla di «rimeditazione dei termini della questione», ma i primi segnali in tale direzione si sono avuti con due pronunce precedenti: la celebre sent. n. 1/2014, riguardante la legge elettorale per le Camere[55], e soprattutto la sent. n. 236/2016, riguardante il reato di alterazione di stato.
Mi pare interessante soffermarmi su quest’ultima decisione (che si può considerare la capostipite del nuovo orientamento), perché dimostra come la nuova posizione della Corte possa considerarsi accettabile sotto il profilo giuridico (oltre che opportuna, di fronte alla frequente inerzia del legislatore nel raccogliere i “moniti” lanciati dalla Corte). Il giudice aveva contestato l’irragionevolezza e il carattere sproporzionato della pena prevista per il reato di alterazione di stato (da cinque a quindici anni: art. 567, comma 2, cp), anche in relazione alla pena prevista per il reato di sostituzione di neonato, considerato più grave (da tre a dieci anni: art. 567, comma 1, cp).
La Corte si trovava di fronte a un precedente molto discutibile (ord. n. 106/2007), che aveva dichiarato addirittura la manifesta infondatezza di una questione sollevata dalla Cassazione sempre sull’art. 567, comma 2, cp, in quanto puniva l’alterazione di stato più gravemente rispetto alla sostituzione di neonato (vds. sopra) e all’infanticidio (da quattro a dodici anni: art. 578 cp). L’infondatezza era motivata con la considerazione che la diversità delle fattispecie (l’alterazione di stato implica anche un falso ideologico, assente nella sostituzione di neonato) impediva l’applicazione dell’art. 3 Cost. e la parificazione delle pene. Era, però, chiaramente assurdo far valere la diversità delle fattispecie senza considerare che le condotte più gravi erano punite in modo più lieve.
Nel caso oggetto della sent. n. 236/2016, la Corte poteva allinearsi al proprio precedente, adottando nell’applicazione dell’art. 3 Cost. una logica del tutto formalistica e “anti-costituzionale”, oppure prendere atto dell’incongruenza dell’art. 567 cp, che puniva in modo più lieve una condotta chiaramente più grave (la sostituzione di neonato pregiudica gli interessi di due neonati e di quattro genitori). La Corte si è indirizzata nel secondo senso (seppur “mascherando” il revirement rispetto all’ord. n. 106/2007), parificando la pena prevista per l’alterazione di stato con quella stabilita per la sostituzione di neonato.
Chiaramente non si trattava di una soluzione obbligata, perché, essendo diverse le fattispecie, il legislatore potrebbe prevedere pene diverse. La Corte non ha però violato l’art. 28 l. n. 87/1953[56], perché non ha scelto liberamente la norma introdotta, ma ha esteso all’alterazione di stato una pena già prevista per una fattispecie simile, eliminando una vistosa incongruenza legislativa. Si può forse ritenere che un’incongruenza minore rimanga (la più grave sostituzione di neonato è punita come l’alterazione di stato), ma la Corte ha ridotto il vizio di legittimità costituzionale, senza compiere valutazioni politiche.
In sintesi, mi pare che il nuovo orientamento della Corte sia giuridicamente accettabile non tanto perché il Parlamento è libero di intervenire e modificare la «soluzione costituzionalmente adeguata» (ma non obbligata) introdotta dalla Corte, quanto perché la Corte non crea la norma ma si muove per “linee interne” al tessuto normativo, ricostruendolo in modo coerente con la Costituzione o in modo più coerente con essa[57]. In assenza di una disciplina di questo tipo di decisioni, questo orientamento della Corte bilancia in modo ragionevole il principio di costituzionalità con la libertà politica del Parlamento (e il principio di legalità in materia penale, qualora la manipolativa intervenga in tale settore)[58]. Quando i riferimenti normativi preesistenti sono insufficienti, la Corte dichiara l’inammissibilità per il «cospicuo tasso di manipolatività» della pronuncia richiesta (ad esempio, sentt. nn. 47/2020 e 219/2019).
Resta fermo che, anche in questo caso, le “stelle polari” che hanno guidato la Corte sono le istanze già individuate alla base degli altri orientamenti: principio di costituzionalità, tutela dei diritti, principio di certezza, esigenza di evitare le “zone franche”.
7. Istituti vari che possono “spostare il confine”: interpretazione adeguatrice, restituzione degli atti, pronunce di inammissibilità
L’esigenza di non espandere troppo questo contributo impone di dedicare solo brevi cenni ad altri istituti che possono rivestire notevole importanza nel “regolare il confine” oltre il quale la Corte decide nel merito.
Quanto all’inammissibilità, molti degli argomenti già esposti hanno evidenziato che la Corte ha adottato orientamenti volti a ridurre le pronunce di inammissibilità e a consentire decisioni di merito, per attuare i principi sopra indicati. È però emersa nell’ultimo periodo una tendenza generale (attestata dal presidente della Corte[59]) volta a evitare un eccessivo rigore nel vaglio di ammissibilità delle questioni, anche in considerazione del minor afflusso di questioni in via incidentale: negli anni 2012-2016 sono pervenute alla Corte in media 297 ordinanze di rimessione all’anno, mentre nel 2017 e nel 2018 sono arrivate rispettivamente 198 e 199 ordinanze. Guardando al complesso delle decisioni, è significativo che la media delle decisioni annuali sia stata di 440 nel periodo 2005-2009, di 329 nel periodo 2010-2014 e di 278 nel periodo 2015-2019. Nel 2019 il numero delle questioni incidentali ha ripreso a salire (248), forse proprio per il minor formalismo della Corte[60].
Trattandosi di un orientamento riguardante diversi profili del processo costituzionale, esso non risulta particolarmente omogeneo, né mancano usi dell’inammissibilità diretti, al contrario, a evitare la pronuncia di merito (vds. par. 8).
Quanto al dovere del giudice a quo di sperimentare l’interpretazione adeguatrice (o conforme a Costituzione)[61], si tratta di un subrequisito della rilevanza, nel senso che il mancato tentativo fa sorgere dubbi sull’applicabilità della norma censurata (se la disposizione fosse interpretata in altro modo, la norma censurata non esisterebbe). Dunque, quello che occorre ai fini dell’ammissibilità è una motivazione sufficiente sull’esistenza e applicabilità della norma. Se la Corte interpreta la disposizione in modo diverso, ciò attiene al merito, non all’ammissibilità, con conseguente pronuncia interpretativa di rigetto. Su questa posizione (che mi pare condivisibile) si è assestata la giurisprudenza costituzionale: vds. da ultimo la sent. n. 158/2020.
Infine, è da segnalare che, negli ultimi anni, si è consolidato – a partire dalla sent. n. 30/2016 – un orientamento volto a limitare i casi di restituzione atti. Mentre prima, nelle ipotesi in cui lo jus superveniens era palesemente inapplicabile nel giudizio a quo (e dunque la rilevanza della questione sollevata continuava chiaramente a sussistere: ciò accadeva quando il giudizio a quo era un giudizio amministrativo, in cui l’atto impugnato andava giudicato in base al principio tempus regit actum), la Corte comunque restituiva gli atti al giudice a quo nella maggior parte dei casi[62], negli ultimi anni la Corte valuta direttamente se lo jus superveniens sia chiaramente inapplicabile nel giudizio a quo e, in tal caso, evita di restituire gli atti[63]. Si tratta di un orientamento basato su ragioni di opportunità ed economia processuale, anche se forse non del tutto coerente con i ruoli che rivestono rispettivamente il giudice a quo e la Corte nell’accertamento della rilevanza. Infatti, la competenza del giudice a quo per l’accertamento della rilevanza è pacifica in dottrina[64] e anche in giurisprudenza[65]: mentre la fondatezza della questione va accertata funditus dalla Corte e il giudice si deve limitare a una mera delibazione (sulla non manifesta infondatezza), per la rilevanza i ruoli si invertono: spetta al giudice accertarla (ricostruendo i fatti, interpretando le leggi e scegliendo quelle applicabili) e la Corte opera un mero controllo “esterno”.
8. Conclusioni: The Narrow Corridor
Ho cominciato questo articolo ricordando un saggio del 2012 di Acemoglu e Robinson (Why Nations Fail), in cui si afferma che l’elemento più importante per lo sviluppo di una nazione non è quello geografico né quello culturale ma la presenza di «istituzioni economiche inclusive», a sua volta legata alla presenza di «istituzioni politiche inclusive».
In un’opera più recente (The Narrow Corridor[66]), gli stessi Autori spiegano che il percorso per arrivare a questo obiettivo, cioè alla libertà, è uno stretto corridoio, che si apre quando lo Stato e la società sono entrambi forti, in equilibrio.
Quest’immagine mi ha richiamato alla mente il nostro sindacato incidentale, che è una “strettoia” che conduce all’affermazione dei diritti di libertà. Negli ultimi anni, nella giurisprudenza costituzionale si sono manifestate tendenze volte ad allargare la strettoia[67], che hanno destato molta attenzione in dottrina. Mi pare che questi orientamenti (sopra esaminati) possano essere analizzati da due punti di vista: a) la Corte ha rispettato le regole che disciplinano il giudizio incidentale? b) come incidono questi orientamenti sui rapporti con gli altri poteri dello Stato?
Al primo quesito ho già risposto nei singoli paragrafi: non solo non esiste un vero orientamento della Corte volto a “sconfinare” dal proprio ruolo[68], ma non esistono neanche vere forzature delle regole processuali[69]. Si è visto che le sentt. nn. 1/2014 e 35/2017 (azioni di accertamento) non stravolgono il meccanismo del sindacato incidentale e che l’abbandono delle “rime obbligate” è giuridicamente accettabile. Quanto al filone cominciato con la sent. n. 269/2017, si è visto (par. 5) che la regola della disapplicazione è stata “ammorbidita” dalla stessa Cgue e ciò si riflette sulla regola della rilevanza: a parte ciò, se anche ci trovassimo di fronte a una “deviazione”[70] da una regola processuale, essa sarebbe più che accettabile, considerate l’entità della deviazione[71] e l’importanza della posta in palio; del resto, qualcosa di simile si è già verificato in relazione alla nozione di giudice a quo (vds. par. 3).
Negli ultimi anni, mi sembra che la forzatura maggiore sia quella, già segnalata (par. 4), sottesa alla sent. n. 110/2015, che è indirizzata in senso opposto all’accentramento, avendo limitato alla materia delle elezioni politiche l’ammissibilità delle questioni sollevate in sede di azione di accertamento.
Quanto al secondo quesito, mi pare che la Corte costituzionale non abbia per nulla “usurpato” le funzioni del Parlamento e non abbia per nulla indebolito ma, anzi, rafforzato il ruolo dei giudici comuni. Si è già visto che il nuovo orientamento in tema di decisioni manipolative non può considerarsi in contrasto con l’art. 28 l. n. 87/1953, che esclude valutazioni politiche della Corte: la Corte introduce la «soluzione costituzionalmente adeguata», di regola, a seguito di un’inerzia delle Camere, ricavandola da norme preesistenti e ferma restando la libertà del Parlamento di intervenire in materia. Che la Corte si muova con grande cautela verso le Camere risulta da altre due circostanze[72]: la scelta di non accogliere subito la questione relativa all’art. 580 cp sull’aiuto al suicidio (caso Cappato), dando al legislatore dieci mesi per deliberare in materia (ord. n. 207/2018, seguita poi dalla sent. n. 242/2019), e la prudenza con cui la Corte giudica dei vizi dei procedimenti legislativi, in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. L’ord. n. 207/2018 (replicata dall’ord. n. 132/2020) mi pare condivisibile[73], mentre mi lascia perplesso la giurisprudenza relativa ai conflitti su vizi del procedimento legislativo[74], ma entrambe denotano un self-restraint della Corte verso le Camere.
Riguardo ai giudici comuni, il loro ruolo nell’attivazione del sindacato di costituzionalità è stato potenziato sia dal nuovo orientamento in tema di “doppio vizio” delle leggi (vds. par. 5) sia da quello in tema di manipolative (par. 6): nel primo caso, i giudici ora possono scegliere tra la soluzione più rapida (disapplicazione tout court della legge) e la soluzione più complessa (eventuale disapplicazione provvisoria e rimessione della questione di costituzionalità) ma più idonea a garantire il rispetto della Costituzione e la certezza del diritto; nel secondo caso, possono chiedere pronunce manipolative anche senza “rime obbligate”, purché sussista un riferimento normativo utilizzabile dalla Corte per eliminare o ridurre l’incongruenza incostituzionale. Questo nuovo orientamento evita che i giudici vadano incontro a una pronuncia di inammissibilità, cioè a un diniego di giustizia costituzionale, o a un’additiva di principio, che consente loro di ricavare la regola del caso ma mantiene comunque una situazione di incertezza (e, comunque, è una pronuncia inutilizzabile in relazione alle sanzioni penali).
Dunque, quando si parla di “spinte centripete” o di “riaccentramento” nel sindacato di costituzionalità è opportuno precisare che si tratta di un fenomeno che non “toglie qualcosa” al ruolo dei giudici comuni ma, anzi, rafforza la loro funzione perché, nel momento in cui si amplia l’area di possibile intervento della Corte, si accentua l’importanza del ruolo dei giudici, che sono i promotori di quell’intervento.
In realtà, l’orientamento volto a favorire l’afflusso delle questioni incidentali è sempre esistito (vds. parr. 2 e 3) ed è dovuto alla scarsa “inclusività” del sindacato italiano di costituzionalità (par. 1). A questo iniziale dato strutturale se ne sono aggiunti altri, nel corso degli anni. In primo luogo, la disciplina del giudizio incidentale è rimasta immutata dal 1953[75], ragion per cui non è singolare che la Corte abbia dovuto modellare, in una certa misura, i propri strumenti. Inoltre, il carattere vincolante, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., delle norme della Cedu (e dunque delle pronunce della Corte Edu che censurano una legge italiana) e l’entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea hanno fatto sorgere l’esigenza di evitare il rischio di uno “svuotamento” del giudizio incidentale, rischio cui la Corte ha fatto fronte con le citate sentenze nn. 348 e 349 del 2007, 264/2012 e con il filone inaugurato dalla sentenza n. 269/2017[76].
Esistono, poi, dati più contingenti che influiscono sulle tendenze della Corte: la maggiore o minore inerzia del legislatore e la quantità di cause che arrivano (vds. par. 7).
Complessivamente, mi pare che la Corte non abbia mai ecceduto, forzando le regole processuali, nel salvaguardare la propria fondamentale funzione di custode della Costituzione. Essa ha cercato di attuare il principio di costituzionalità (e in particolare di eliminare “zone franche” nella tutela dei diritti) e il principio di certezza del diritto, evitando forzature e “sovraesposizioni”: ciò in coerenza con la necessità, da un lato, di salvaguardare la propria posizione di organo di chiusura del sistema[77], dall’altro di mantenere legittimazione di fronte ai propri “interlocutori necessari” (Parlamento e giudici).
Anzi, le decisioni più discutibili sono quelle che rivelano un understatement della Corte costituzionale, come nel caso delle questioni sollevate in sede di azione di accertamento (par. 4). L’inammissibilità di tali questioni (salvo il caso delle elezioni politiche) ricorda l’uso che la Corte suprema ha fatto della doctrine of justiciability come tool of avoidance[78]. Negli Stati Uniti la justiciability è diventa terreno di “politica” giudiziaria[79], in seconda battuta dopo quella operata attraverso la concessione del writ of certiorari[80]. La Corte costituzionale utilizza l’inammissibilità o l’ammissibilità in modo simile: mentre nel caso del “filone europeo” (par. 5) e delle manipolative (par. 6) ha optato per un ampliamento del proprio ruolo, per le ragioni già esposte, nel caso delle azioni di accertamento ha ritenuto inopportuno (almeno per ora) aprire la strada all’impugnazione “incidentale-diretta” delle leggi.
1. D. Acemoglu e J.A. Robinson, Perché le Nazioni falliscono, Il Saggiatore, Milano, 2013 (ed. or.: 2012), pp. 85 ss. Per una sintesi vds. N. Bellanca, Più Stato assieme a più società. La teoria post-liberale e post-liberista di Acemoglu e Robinson, in Micromega, 21 luglio 2020: «la caratteristica dell’assetto istituzionale che tende a stimolare e mantenere lo sviluppo economico è la sua “inclusività”»: «[l]’assetto deve garantire la tutela dei diritti di proprietà, promuovere il funzionamento di un ordinamento giuridico in cui è possibile stipulare contratti ed effettuare transazioni finanziarie, non imporre barriere all’entrata nell’industria e nei mestieri».
2. Gli esempi potrebbero essere molti: basti qui ricordare il modo in cui è stato applicato l’art. 2 Cost. («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»).
3. Su tale profilo vds., ad esempio, C. Padula, Il problema della rappresentanza dello Stato nei conflitti di attribuzione tra enti, in Giur. cost., n. 4/2000, pp. 3049 ss.; B. Liberali, Stato e Regioni davanti alla Corte costituzionale, relazione svolta il 18 settembre 2020 al convegno del Gruppo di Pisa «Il regionalismo italiano alla prova delle differenziazioni», par. 3 (https://gruppodipisa.it/eventi/convegni/402-18-19-settembre-2020-trento-il-regionalismo-italiano-alla-prova-delle-differenziazioni); C. Caruso, La garanzia dell’unità della Repubblica, Bononia University Press, Bologna, 2020, pp. 161 ss. e 335 ss.
4. Salve, naturalmente, le altre competenze della Corte: vds. l’art. 134 Cost. e la l. cost. n. 1/1953, che ha introdotto il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo.
5. Vds., ad esempio, M. Cartabia, La fortuna del giudizio di costituzionalità in via incidentale, in Aa. Vv., Scritti in onore di Gaetano Silvestri, I, Giappichelli, Torino, 2016, pp. 481 ss.
6. Sul tema delle limitazioni del sindacato incidentale e delle conseguenti “risposte” della Corte vds., ad esempio, A. Von Bogdandy e D. Paris, La forza si manifesta pienamente nella debolezza. Una comparazione tra la Corte costituzionale e il Bundesverfassungsgericht, in Quad. cost., n. 1/2020, pp. 11 ss.; T. Groppi, La Corte e ‘la gente’: uno sguardo ‘dal basso’ all’accesso incidentale alla giustizia costituzionale, in Rivista AIC, n. 2/2019, par. 2; A. Pugiotto, Dalla porta stretta alla fuga dalla giustizia costituzionale? Sessant’anni di rapporti tra Corte e giudici comuni, in Quad. cost., n. 1/2016, pp. 154 ss.
7. Naturalmente alludo a una possibilità di sindacato che prescinda dalla violazione della legge, che esporrebbe il privato al rischio della sanzione; di fronte a leggi di questo tipo, spesso i privati si adeguano alla legge incostituzionale.
8. Non è scontato che la p.a. si attenga a un indirizzo giurisprudenziale consolidato: vds. ad esempio la vicenda del “bonus bebè”, di cui si parlerà nel par. 5.
9. «Nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimità costituzionale mediante apposita istanza (…). L’autorità giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale (…)».
10. «La questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d’ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, è rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione». La l. n. 87/1953 non poteva introdurre nuove condizioni del giudizio costituzionale perché l’art. 137 Cost. pone una riserva di legge costituzionale in materia di «condizioni (…) dei giudizi di legittimità costituzionale (…)». L’opinione prevalente è nel senso che la pregiudizialità richiesta dall’art. 23 l. n. 87/1953 fosse implicitamente prevista anche dall’art. 1 l. cost. n. 1/1948. La Corte costituzionale ha dichiarato infondate, seppur in modo apodittico, le questioni di costituzionalità sollevate tempo fa in relazione all’art. 23 l. n. 87/1953, per violazione dell’art. 1 l. cost. n. 1/1948 e degli artt. 24 e 137 Cost.: vds. le ordinanze nn. 130/1971, 225/1982 e 130/1998; in senso diverso, peraltro, nella sent. n. 88/1986 si legge che l’art. 23 l. n. 87/1953 «ha introdotto il requisito della rilevanza, che non era previsto, né dalla Costituzione, né dalle due summenzionate leggi costituzionali [1/1948 e 1/1953]». Sul rapporto tra pregiudizialità, incidentalità e rilevanza sia consentito il rinvio a C. Padula, La tutela diretta dei diritti fondamentali. Il preenforcement constitutional challenge contro le leggi negli Stati Uniti e le questioni incidentali “astratte” in Italia, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 162 ss.; vds. anche G. Zagrebelsky, La rilevanza: un carattere normale ma non necessario della questione di legittimità costituzionale, in Giur. cost., 1969, pp. 1001 ss.
11. Vds., ad esempio, la sent. n. 193/2015 in materia di elezioni regionali e premio di maggioranza, annotata da D. Monego, La rilevanza di una questione di legittimità sul premio di maggioranza regionale fra “riscontro” del vizio, applicabilità della norma ed influenza della decisione di costituzionalità, in Le Regioni, n. 1/2016, pp. 198 ss. La concezione della rilevanza risultante dalla sent. n. 193/2015 è smentita, ad esempio, dalla sent. n. 259/2017.
12. Vds. sent. n. 223/2007: «Il controllo sull’attuale vigenza di una norma giuridica spetta istituzionalmente al giudice comune e precede ogni possibile valutazione sulla legittimità costituzionale della medesima norma».
13. Tale ipotesi è oggetto di specifica disciplina: vds. l’art. 10 l. n. 62/1953 («Le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali di cui al primo comma dell’articolo precedente abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse.
I Consigli regionali dovranno portare alle leggi regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni»).
14. Ad esempio, sent. n. 6/1970: «è giurisprudenza costante di questa Corte che il giudizio di abrogazione è di competenza del giudice del processo principale, di guisa che, ove questi non ritenga che sia intervenuta abrogazione e prospetti l’asserito contrasto di disposizioni anteriori con norme costituzionali in termini di incostituzionalità, spetta alla esclusiva competenza della Corte giudicarne in questi stessi termini».
15. Ovviamente si suppone che il caso oggetto del giudizio a quo si sia verificato dopo l’entrata in vigore del nuovo parametro: infatti, se fosse precedente, esso sfuggirebbe agli effetti dello jus superveniens, sia in caso di abrogazione (al caso precedente continuerebbe ad applicarsi la legge abrogata) sia in caso di incostituzionalità sopravvenuta (l’eventuale pronuncia di accoglimento opererebbe dal momento di entrata in vigore del nuovo parametro).
16. Nel caso di specie, art. 7 l. Puglia n. 5/2019.
17. In base alla giurisprudenza della Corte, un’impugnazione di una norma regionale rimasta in vigore per soli quattro giorni potrebbe essere dichiarata inammissibile per difetto di interesse, dal momento che essa non può essersi tradotta in interventi edilizi difformi dalla successiva nuova norma statale. Non pare invece ipotizzabile un’inammissibilità per difetto di oggetto perché la norma abrogata non viene eliminata del tutto dall’ordinamento, ma perde solo efficacia ex nunc.
18. Salvo quanto si vedrà nel par. 5.
19. Sul principio di costituzionalità, «secondo cui il controllo da parte di questa Corte deve coprire nella misura più ampia possibile l’ordinamento giuridico», vds. ad esempio le sentt. nn. 387/1996 e 1/2014.
20. Sulla legittimazione della Corte dei conti in sede di controllo vds., da ultimo, G. Rivosecchi, Il ricorso incidentale in sede di controllo della Corte dei conti, in Aa.Vv., Il diritto del bilancio e il sindacato sugli atti di natura finanziaria, Giuffrè, Milano, 2019, pp. 201 ss.
21. Sul tema vds., ex multis, M. Troisi, Incidentalità e giudici a quibus, in G. Campanelli - G. Famiglietti - R. Romboli (a cura di), Il sistema “accentrato” di costituzionalità, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020, pp. 67 ss.
22. Vds. l’art. 22 delle originarie «Norme integrative» e ora l’art. 18 delle N.i. del 2008: «La sospensione, l’interruzione e l’estinzione del processo principale non producono effetti sul giudizio davanti alla Corte costituzionale».
23. Ad esempio, ord. n. 262/2019 e sent. n. 69/2010: «Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza costituzionale il requisito della rilevanza riguarda solo il momento genetico in cui il dubbio di costituzionalità viene sollevato, e non anche il lasso temporale successivo alla proposizione dell’incidente di costituzionalità. Di conseguenza, i fatti sopravvenuti non sono in grado di influire sul giudizio costituzionale».
24. Vds., ad esempio, R. Bin, Chi è il giudice dei diritti? Il modello costituzionale e alcune deviazioni, in Rivista AIC, n. 4/2018 (30 dicembre), par. 5, www.rivistaaic.it/images/rivista/pdf/Bin_4_2018.pdf; Id., Chi è responsabile delle «zone franche»? Note sulle leggi elettorali davanti alla Corte, 2017, www.robertobin.it/ARTICOLI/Zone_franche.pdf.
25. G. Zagrebelsky, La sentenza n. 1 del 2014 e i suoi commentatori, in Giur. cost., n. 3/2014, p. 2960. Alla base di tale decisione ci sarebbe stata la volontà di “colpire” il cd. Porcellum, dopo che diversi moniti della Corte (vds. le sentt. nn. 13/2012, 15/2008 e 16/2008) erano rimasti inascoltati e la legge era stata dunque applicata per ben tre volte. Saremmo di fronte, dunque, a un’interpretazione delle regole processuali influenzata da elementi “di contesto” (la negligenza del legislatore, la prassi delle Camere restie a sollevare questione di costituzionalità nel corso della verifica dei poteri, la conseguente “zona franca” sulle elezioni politiche).
26. La l. n. 52/2015 sanciva l’applicabilità del nuovo sistema elettorale «a decorrere dal 1° luglio 2016» (art. 1, comma 1, lett. i, e art. 2, comma 35), per cui al momento delle domande di accertamento le norme non erano applicabili (nel caso del Tribunale di Messina, che aveva sollevato la questione nel febbraio 2016, l’Italicum non era applicabile neppure al momento dell’ordinanza di rimessione).
27. Vds. C. Padula, La tutela diretta dei diritti fondamentali, op. cit., pp. 134 ss. L’analisi ivi svolta ha condotto a ritenere esistente l’interesse ad agire in un caso del genere, anche alla luce del diritto processuale civile, non essendo necessaria una specifica contestazione del diritto né avendo rilievo il fatto che il giudice civile non possa concedere “autonomamente” la tutela richiesta, ma debba avvalersi dell’intervento della Corte costituzionale.
28. Vds. C. Padula, op. ult. cit., pp. 173 ss. A tale conclusione si è arrivati avendo esaminato il problema sotto tre profili: il rapporto tra la questione di costituzionalità e il giudizio di accertamento, il rapporto tra gli oggetti dei due giudizi e il rapporto tra le decisioni dei due giudizi.
29. La regola dell’incidentalità, costantemente affermata dalla Corte, è stata applicata in casi eterogenei e solo in due occasioni ha portato alla dichiarazione di inammissibilità di questioni sollevate nel corso di azioni di accertamento preventivo, mentre – a parte il caso delle leggi provvedimento – diverse altre pronunce sembrano supportare la tesi opposta: su ciò vds. C. Padula, La tutela diretta dei diritti fondamentali, op. cit., pp. 103 ss.
30. Vds. C. Padula, op. ult. cit., pp. 186 ss. Sul tema vds. anche N. Zanon, “Stagioni creative” della giurisprudenza costituzionale? Una testimonianza (e i suoi limiti), E. Olivito, Si può contestare una legge in via diretta davanti al giudice civile? L’ammissibilità delle questioni incidentali sollevate nel corso di azioni di accertamento, M. Negri, Riflessioni sulle prospettive evolutive innescate da corte cost. n. 1/2014 e n. 35/2017: questioni di legittimità costituzionale e giudizi di mero accertamento “preventivo”, tutti in C. Padula (a cura di), Una nuova stagione creativa della Corte costituzionale?, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020; T. Groppi, La Corte e ‘la gente’, op. cit.; G. D’Amico, Azione di accertamento e accesso al giudizio di legittimità costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018; S. Lieto, Giudizio costituzionale incidentale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018. Quanto alla sent. n. 35 del 2017, una volta che si ammette l’interesse ad agire “contro” la mera esistenza di una legge, in quanto direttamente lesiva o comunque foriera di un danno certo o probabile, non si vede quale rilievo abbia la mancata applicazione passata della legge o la mancata applicabilità al momento dell’ordinanza di rimessione.
31. Vds. A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., n. 2/2019, p. 253.
32. La sent. n. 110/2015 è stata ribadita dall’ord. n. 165/2016 e dalla sent. n. 63/2018.
33. Sulla differenza tra leggi direttamente o non direttamente lesive vds. C. Padula, La tutela diretta dei diritti fondamentali, op. cit., pp. 142 ss.
34. I contributi sul tema sono ormai innumerevoli: vds. da ultimo D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna, 2020, pp. 184 ss.; M. Losana, Tutela dei diritti fondamentali e (in)stabilità delle regole processuali, in Quad. cost., n. 2/2020, pp. 305 ss. Vds. anche, ex multis, F. Viganò, La tutela dei diritti fondamentali della persona tra corti europee e giudici nazionali, in Quad. cost., n. 2/2019, pp. 481 ss.; M. Massa, Dopo la «precisazione». Sviluppi di Corte cost. n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019, www.osservatoriosullefonti.it/mobile-saggi/fascicoli/2-2019/1443-dopo-la-precisazione-sviluppi-di-corte-cost-n-269-2017/file; F. Spitaleri, Doppia pregiudizialità e concorso di rimedi per la tutela dei diritti fondamentali: criteri guida per la scelta del giudice comune tra rinvio pregiudiziale e giudizio di costituzionalità, in corso di pubblicazione in C. Padula (a cura di), Una nuova stagione creativa, op. cit.
35. G. Lattanzi, Relazione sull’attività svolta nel 2018, 21 marzo 2019, p. 19, www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/lattanzi2019/Relazione_del_Presidente_Giorgio_Lattanzi_sull_attivita_svolta_nell_anno_2018.pdf.
36. Si rievoca l’espressione di P. Barile, Il cammino comunitario della Corte, in Giur. cost., 1973, pp. 2401 ss.
37. Questa esigenza era già emersa, poco prima della decisione, in un articolo di un giudice costituzionale: A. Barbera, La Carta dei diritti: per un dialogo fra la Corte italiana e la Corte di giustizia, in Rivista AIC, n. 4/2017. L’A. parte da un timore, quello del possibile “traboccamento” (spill-over) della Carta, nel senso della sua applicazione oltre il campo dell’attuazione del diritto europeo (art. 51 Cdfue), e poi afferma la tesi centrale: la disapplicazione dovrebbe essere limitata al contrasto tra leggi interne e norme europee contenenti regole, mentre il contrasto con norme europee contenenti principi dovrebbe tradursi nella rimessione della questione alla Corte (che, eventualmente, potrà coinvolgere la Cgue tramite un rinvio pregiudiziale). Ciò considerando che l’entrata in vigore della Cdf, che comprende molti principi corrispondenti a norme costituzionali, rischia di emarginare la Corte, compromettendo la certezza del diritto che deriva dall’intervento della Corte (le cui sentenze di accoglimento hanno effetti erga omnes ed ex tunc) e che non deriva dai due istituti utilizzati dai giudici comuni per “gestire” i rapporti tra leggi interne e diritto Ue, cioè l’interpretazione conforme al diritto Ue, ove possibile, e la disapplicazione. Inoltre, osserva Barbera, la verifica del contrasto con un principio implica la verifica del bilanciamento operato dal legislatore fra quel principio e altri principi. I principi sono aperti a diverse attuazioni da parte degli organi politici.
38. Parlo di “auspicio” perché la Corte costituzionale può sbarrare la strada alle questioni sollevate dai giudici, come ha fatto con le pronunce di inammissibilità emesse nei casi di contrasto con fonti europee direttamente applicabili (a partire dalla sent. n. 170/1984) e nei casi di “doppia pregiudiziale”, ma non può costringere i giudici a sollevare la questione di costituzionalità, qualora essi, invece, ritengano di disapplicare la legge. Qualora un giudice disapplichi la legge contrastante con una norma della Carta dei diritti direttamente applicabile, non si vede quali strumenti di reazione potrebbero esserci, salvo immaginare improbabili conflitti di attribuzioni sollevati dalla Corte costituzionale di fronte a se stessa o dalle Camere contro la disapplicazione.
39. Il consolidato assetto dei rapporti fra diritto interno e diritto europeo (e fra Corte costituzionale e Corte di giustizia europea), quale risultante dalla sent. n. 170 del 1984 della Corte costituzionale e dalla giurisprudenza successiva, era fondato – come noto – sul meccanismo della disapplicazione della legge interna contrastante con il diritto europeo self-executing e sulla precedenza data alla pregiudiziale europea, in caso di “doppia pregiudiziale”. Infatti, la non applicabilità della legge interna implicava l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale concernente la legge stessa: dunque, in caso di “doppia pregiudiziale” (europea e di costituzionalità), per la Corte costituzionale occorreva prima rivolgersi alla Cgue, competente a pronunciarsi anche sulla diretta applicabilità della norma Ue. Se il giudice adiva direttamente la Corte costituzionale, esisteva un difetto di motivazione sulla rilevanza: in tal senso vds. la stessa sent. n. 269 del 2017 e, poco prima, la sent. n. 111/2017.
40. Per questo motivo mi devo soffermare su questo tema, benché i rapporti triangolari giudice comune - Corte costituzionale - Corti europee siano oggetto del contributo di Elisabetta Lamarque, I poteri del giudice comune nel rapporto con la Corte costituzionale e le Corti europee, in questo fascicolo, pubblicato in anteprima in questa Rivista online, 1° dicembre 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/i-poteri-del-giudice-comune-nel-rapporto-con-la-corte-costituzionale-e-le-corti-europee.
41. La sent. n. 20/2019 parla di «opportunità di un intervento con effetti erga omnes di questa Corte, in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell’architettura costituzionale»; in modo più esplicito, la sent. n. 63/2019 afferma che «a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta.
Laddove però sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione».
42. Nella sent. n. 20/2019 la Corte ha deciso nel merito una questione in cui il parametro interposto era dato anche da una direttiva (di cui la Corte di giustizia aveva sancito la diretta applicabilità), in quanto essa si trovava «in singolare connessione» con gli artt. 7 e 8 della Cdf, in materia di privacy. Nella sent. n. 11/2020 il nuovo orientamento della Corte viene svincolato dal riferimento alla Cdf: l’avvocatura dello Stato aveva eccepito l’inammissibilità delle questioni, fra l’altro, «per erronea evocazione, come norme interposte, di disposizioni del TUE e del TFUE, che il rimettente avrebbe viceversa dovuto direttamente applicare», ma la Corte replica che quello che conta è che la legge violi anche un diritto garantito da una norma costituzionale, a prescindere dalla norma europea interposta invocata («qualora sia lo stesso giudice comune, nell’ambito di un incidente di costituzionalità, a richiamare, come norme interposte, disposizioni dell’Unione europea attinenti, nella sostanza, ai medesimi diritti tutelati da parametri interni»). Nella sent. n. 44/2020 la Corte decide nel merito una questione relativa a una norma contrastante con una norma europea self-executing – non contenuta nella Cdf, ma nell’art. 11, par. 1, lett. f) della direttiva 2003/109/CE – e lesiva anche di un diritto costituzionale: su ciò vds. C. Padula, Uno sviluppo nella saga della “doppia pregiudiziale”? Requisiti di residenza prolungata, edilizia residenziale pubblica e possibilità di disapplicazione della legge, in Quad. cost. (Rassegna), n. 2/2020, pp. 1 ss.
43. Vds., ad esempio, Cass., sez. lavoro, ord. n. 16164/2019.
44. Cgue, grande sezione, sentenza 22 giugno 2010, nelle cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli. Il caso Melki riguardava la legge organica francese 10 dicembre 2009, n. 1523, che ha disciplinato la questione incidentale di costituzionalità e ha stabilito che, in caso di “doppia pregiudiziale” (internazionale, e dunque anche comunitaria, da un lato, e costituzionale dall’altro), la precedenza debba essere data alla questione di costituzionalità. Tale norma è stata oggetto di un rinvio pregiudiziale alla Cgue, operato dalla Cour de cassation in relazione alla sua compatibilità con l’art. 267 Tfue. La Cgue rispose che l’art. 267 Tfue non osta a siffatta normativa nazionale, purché gli altri organi giurisdizionali nazionali restino liberi: «di sottoporre alla Corte, in qualunque fase del procedimento che ritengano appropriata, ed anche al termine del procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale, qualsiasi questione pregiudiziale che essi ritengano necessaria; di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione; di disapplicare, al termine di siffatto procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale in questione ove la ritengano contraria al diritto dell’Unione».
45. Cgue, quinta sezione, sentenza 11 settembre 2014, nella causa C-112/13 A c. B e altri. Nel caso austriaco, di fronte a una decisione del Tribunale costituzionale del 2012 simile alla n. 269/2017 della nostra Corte costituzionale, la Cassazione austriaca aveva adito la Cgue chiedendole di pronunciarsi sulla conformità all’art. 267 Tfue del dovere di rivolgersi al Tribunale costituzionale e del divieto di disapplicazione. La risposta della Cgue ricalcò quella data nel caso Melki.
46. Inoltre, mentre negli Usa la giurisdizione federale è unica, in Italia esistono giurisdizioni speciali, ragion per cui la “forza” delle sentenze dei giudici supremi – oltre a non essere vincolante, per l’assenza dello stare decisis – si esplica solo verso i giudici dello stesso ordine.
47. Sulla sent. n. 264/2012 vds., in senso critico, C. Padula, La Corte costituzionale ed i “controlimiti” alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: riflessioni sul bilanciamento dell’art. 117, co. 1, Cost., in Federalismi, 10 dicembre 2014, www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=28151. Sul tema del rapporto Corte costituzionale - Corte Edu - giudici comuni, vds. il contributo di E. Lamarque, I poteri del giudice comune, op. cit.
48. Esso viene giustificato dalla Cgue con la teoria monistica e dalla Corte costituzionale con la teoria dualistica dei rapporti fra ordinamento europeo e ordinamento interno.
49. Sul tema vds., ex multis, N. Zanon, “Stagioni creative”, op. cit.; D. Tega, La Corte nel contesto, op. cit., pp. 101 ss.; E.M. Ambrosetti, Giudici legislatori? Il nuovo ruolo della corte costituzionale in materia penale, A. Pugiotto, Cambio di stagione nel controllo di costituzionalità sulla misura della pena, e M. Ruotolo, L’evoluzione delle tecniche decisorie della corte costituzionale nel giudizio in via incidentale. Per un inquadramento dell’ord. n. 207 del 2018 in un nuovo contesto giurisprudenziale, tutti in corso di pubblicazione in C. Padula (a cura di), Una nuova stagione creativa, op. cit.
50. Che richiama altre pronunce della Corte che compongono il nuovo orientamento.
51. Vds. anche la sent. n. 99/2019: «L’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risulta perciò condizionata non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (sentenze n. 40 del 2019 e n. 233 del 2018)». Vds. M. Cartabia, Relazione sull’attività della Corte costituzionale nel 2019, Palazzo della Consulta, 28 aprile 2020, p. 9 (www.cortecostituzionale.it/documenti/relazione_cartabia/1_relazione.pdf): «La Corte – che non è mai legislatore positivo e quindi non può creare la disposizione mancante – individua nella legislazione vigente una risposta costituzionalmente adeguata, anche se non obbligata, applicabile in via transitoria fintanto che il Legislatore non reputi opportuno mettere mano alla riforma legislativa che resta pur sempre nella sua discrezionalità attivare. In tal modo sono meglio preservati entrambi i principi in tensione: la necessaria rimozione dei vizi di illegittimità costituzionale e l’altrettanto necessario rispetto del compito del Legislatore». Vds. anche G. Lattanzi, Relazione, op. cit., pp. 13-14: «è sembrato sempre più inconcepibile che, proprio laddove vengono in rilievo i diritti fondamentali della persona innanzi alla potestà punitiva pubblica, la Corte debba arrestare il proprio sindacato nei confronti di disposizioni costituzionalmente illegittime, che offendono la libertà personale. In queste ipotesi, una rinnovata sensibilità impone di rinvenire nella giustizia costituzionale meccanismi adeguati per cancellare la norma lesiva della Costituzione, allo stesso tempo preservando il più possibile la discrezionalità legislativa. Ma deve restare chiaro che è il primo obiettivo a costituire la ragione fondamentale della giurisdizione costituzionale».
52. Le altre possibili vie sono, come detto, la decisione di inammissibilità e, in astratto, l’accoglimento secco, che però creerebbe un vuoto legislativo.
53. Vds., ad esempio, la sent. n. 105/2018: «In continuità con la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 295 del 1991, punto 3. del Considerato in diritto), si deve affermare che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale corredate dall’addizione di un principio, enunciato in maniera puntuale e quindi suscettibile di diretta applicazione, impongono di ricercare all’interno del sistema la soluzione più corretta (sentenza n. 32 del 1999, punto 6. del Considerato in diritto), anche quando la sentenza ne ha rimesso l’attuazione al legislatore. È dovere del giudice, chiamato ad applicare la Costituzione e le sentenze che questa Corte adotta a garanzia della stessa, fondare la sua decisione sul principio enunciato, che è incardinato nell’ordinamento quale regola di diritto positivo, ancor prima che il legislatore intervenga per dare ad esso piena attuazione».
54. G. Lattanzi, Relazione, op. cit., p. 17: «nel campo del diritto penale sostanziale non possono mai trascurarsi prioritarie esigenze di certezza e conoscibilità delle disposizioni, tali da sconsigliare l’impiego di altre forme decisorie a minor tasso di determinatezza, come quelle delle pronunce additive di principio, ove un ruolo fondamentale di ricomposizione del tessuto normativo è affidato, in difetto di un intervento legislativo, al giudice comune».
55. La sent. n. 1/2014 ha – fra l’altro – dichiarato «l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, e 59 del d.P.R. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati, al fine di determinarne l’elezione». Poche righe sopra, la Corte aveva indicato altre possibili soluzioni («liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto»), ragion per cui era chiaro che l’introduzione della preferenza unica non era l’unica soluzione costituzionalmente imposta. Si trattava del “minimo necessario” per eliminare il vizio e anche del “massimo” operabile dalla Corte, dato che le altre opzioni (circoscrizioni piccole o liste bloccate solo per una parte dei seggi) avrebbero implicato un’attività molto più creativa.
56. «Il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge (…) esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento».
57. Vds. G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, vol. II, Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 235 ss., secondo i quali occorre «una valutazione sostanziale degli effetti normativi che si determinano, per stabilire se si abbia a che fare con un esercizio di funzioni legislative da parte della Corte costituzionale, oppure al contrario con decisioni che, nell’alveo delle scelte del legislatore, operano per armonizzarle alla Costituzione. Detto altrimenti: si tratta di distinguere gli interventi sulla legge aventi valore conformativo alla Costituzione delle scelte del legislatore, dagli interventi aventi valore modificativo alla stregua di scelte della Corte costituzionale: ammissibili, i primi; inammissibili, i secondi».
58. Vds. la sent. n. 242/2019, relativa al caso Cappato: «Il rinvio disposto all’esito della precedente udienza risponde, infatti, con diversa tecnica, alla stessa logica che ispira, nella giurisprudenza di questa Corte, il collaudato meccanismo della “doppia pronuncia” (sentenza di inammissibilità “con monito” seguita, in caso di mancato recepimento di quest’ultimo, da declaratoria di incostituzionalità). Decorso un congruo periodo di tempo, l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia, alla quale spetta la priorità». Vds. M. Cartabia, Relazione, op. cit., pp. 7-8: «La dinamica del controllo di costituzionalità si dispiega lungo la traiettoria tracciata dall’“opposizione polare” tra due principi in perenne tensione fra loro, che richiedono di essere sempre mantenuti in bilanciato equilibrio: il principio costituzionale dell’autonomia dell’ambito della politica e il rigoroso rispetto dei principi procedurali e sostanziali che la Costituzione impone ad esso».
59. G. Lattanzi, Relazione, op. cit., p. 7: «anche per favorire un sindacato accentrato, è opportuno che il pur necessario controllo esercitato sui requisiti di ammissibilità delle questioni incidentali non trasmodi in un improprio strumento deflattivo del contenzioso, ma cerchi piuttosto di favorire il giudizio costituzionale, come è avvenuto con specifico riguardo alle zone d’ombra dell’ordinamento, ove è più difficile che possano essere sollevate questioni incidentali (sentenza n. 196 del 2018)». Vds. anche la sent. n. 174/2019, cit. infra.
60. Vds. M. Cartabia, Relazione, op. cit., p. 5: «atteggiamento meno formalistico della Corte circa il controllo sui requisiti di ammissibilità delle questioni incidentali (…) [che] potrebbe aver incoraggiato i soggetti interessati a rivolgersi alla Corte, a partire dai giudici rimettenti».
61. Sul tema vds., da ultimo, R. Romboli, Il sistema “accentrato” di costituzionalità, e M. Ruotolo, L’interpretazione conforme a Costituzione torna a casa?, entrambi in G. Campanelli - G. Famiglietti - R. Romboli (a cura di), Il sistema “accentrato” di costituzionalità, op. cit., pp. 16 ss. e 51 ss.; M. Bignami, Profili di ammissibilità delle questioni di costituzionalità (rilevanza, incidentalità, interpretazione conforme), in Aa.Vv., Il diritto del bilancio e il sindacato sugli atti di natura finanziaria, op. cit., pp. 30 ss.; V. Napoleoni, L’onere di interpretazione conforme, in V. Manes e V. Napoleoni, La legge penale illegittima, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 49 ss.
62. Si possono ricordare l’ord. n. 266/2015, l’ord. n. 253/2014, le ordd. nn. 168 e 59/2012, le ordd. nn. 326 e 12/2011 e le ordd. nn. 308 e 145/2010; tra quelle più risalenti, si possono citare l’ord. n. 28/1999 e l’ord. n. 182/1995. Tutte queste pronunce hanno disposto la restituzione degli atti al giudice a quo, pur avendo ad oggetto questioni promosse da giudici amministrativi, davanti ai quali erano pendenti casi in cui l’applicazione del principio tempus regit actum e, dunque, l’ininfluenza dello jus superveniens erano assai probabili.
63. Vds., ad esempio, sentt. nn. 179/2019 e 170/2019.
64. Vds. G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, op. cit., p. 119: «il giudizio sulla rilevanza della questione non è (…) della Corte, ma del giudice a quo. L’una non può sostituirsi all’altro. Ma la Corte può svolgere un controllo, per così dire, esterno»; vds. anche V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Cedam, Padova, 1984, p. 289; G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 220: quanto alla rilevanza, «si verte su valutazioni che sono già proprie del giudice a quo e attengono ad un potere che appartiene all’essenza stessa della funzione giurisdizionale (…) non si può ritenere altro che una riserva assoluta di tali valutazioni a favore del giudice a quo».
65. Vds., ad esempio, la sent. n. 333/2003: «in caso di jus superveniens direttamente attinente la normativa oggetto di censura, la valutazione circa la perdurante rilevanza della questione spetta al giudice a quo e (…) il provvedimento di restituzione degli atti risponde appunto all’unico fine di consentire tale necessaria valutazione». Tale orientamento si è manifestato sin dall’inizio dell’attività della Corte: vds. l’ord. n. 69/1957: «l’accertamento del rapporto di rilevanza e di pregiudizialità fra la questione di legittimità costituzionale e il giudizio sulla controversia principale, oggetto del processo davanti all’autorità giurisdizionale, spetta esclusivamente a questa»; vds. l’ord. n. 83/1958: «L’accertamento del rapporto di rilevanza e di pregiudizialità fra la questione di legittimità costituzionale ed il giudizio sulla controversia principale, facendo parte del provvedimento di rinvio, spetta esclusivamente all’autorità giurisdizionale».
66. D. Acemoglu e J.A. Robinson, La strettoia. Come le nazioni possono essere libere, Il Saggiatore, Milano, 2020 (ed. or.: 2019; traduzione di F. Galimberti e G. Seller), pp. 792.
67. La sent. n. 174/2019 parla della «prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (sentenza n. 77/2018, punto 8. del Considerato in diritto) e di una più efficace garanzia della conformità della legislazione alla Carta fondamentale». G. Lattanzi, Relazione, op. cit., p. 13, menziona la «più incisiva azione che la giurisprudenza costituzionale tende a esercitare, superando, con una larga varietà di tecniche decisorie, le strettoie dell’inammissibilità».
68. In questo senso, invece, A. Morrone, op. cit.
69. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2019, pp. 757 ss., nega il “suprematismo” denunciato da Morrone, ma ammette il superamento delle regole processuali. In sostanza, pur avendo io stesso promosso un’iniziativa volta a verificare l’esistenza di una “nuova stagione creativa” della Corte costituzionale (vds. il già citato volume Una nuova stagione creativa della Corte costituzionale?, che fa seguito a un convegno svoltosi a Treviso il 17 maggio 2019), la conclusione alla quale sono arrivato è che non esiste nessuna nuova stagione “creativa”.
70. A.M. Nico, L’accesso e l’incidentalità, in G. Campanelli - G. Famiglietti - R. Romboli (a cura di), Il sistema “accentrato” di costituzionalità, op. cit., pp. 29 ss., distingue «oscillazioni» e «deviazioni».
71. La Corte non considera ammissibili questioni relative a norme estranee al giudizio a quo (il che sarebbe in frontale contrasto con l’art. 1 l. cost. n. 1/1948), ma questioni relative a norme che sarebbero applicabili nel giudizio a quo ma che diventano inapplicabili per il contrasto con una fonte europea self-executing.
72. Oltre che singole decisioni, sulle quali non mi soffermo.
73. Non concordo con le diffuse perplessità sull’ord. n. 207/2018: mi pare che essa si possa considerare una pronuncia di “incostituzionalità accertata ma non dichiarata” rafforzata, perché, rispetto alle precedenti pronunce di questo tipo (che erano di inammissibilità), raggiunge l’obiettivo di bloccare l’applicazione della legge accertata come incostituzionale (il giudizio a quo resta sospeso e gli altri giudici non potranno ritenere la questione manifestamente infondata, dato che la Corte ha già accertato il vizio di costituzionalità) e di rendere certo il proprio intervento in seconda battuta. È dunque una tecnica decisoria che soddisfa il principio di costituzionalità (la legge illegittima non viene più applicata ed è certa la possibilità di un intervento caducatorio della Corte, in caso di inerzia del Parlamento) e quello di libertà delle Camere, che hanno un margine di tempo per legiferare in materia. Sul tema vds., ad esempio, G. Lattanzi, Relazione, op. cit., p. 12 (che parla di «nuova tecnica decisoria adottata dall’ordinanza n. 207 del 2018, l’ordinanza Cappato, che qualificherei di “incostituzionalità prospettata”»); M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in questa Rivista online, 19 novembre 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-cappato-alla-corte-costituzionale-un-ordinanza-ad-incostituzionalita-differita_19-11-2018.php; C. Casonato, La giurisprudenza costituzionale sull’aiuto al suicidio nel prisma del biodiritto, fra conferme e novità, e M. Ruotolo, L’evoluzione delle tecniche decisorie, op. cit., entrambi in corso di pubblicazione in C. Padula (a cura di), Una nuova stagione creativa, op. cit.; E. Grosso, Il rinvio a data fissa nell’ordinanza n. 207/2018. Originale condotta processuale, nuova regola processuale o innovativa tecnica di giudizio?, e C. Salazar, «Morire sì, non essere aggrediti dalla morte». Considerazioni sull’ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale, entrambi in Quad. cost., n. 3/2019, rispettivamente pp. 531 ss. e 567 ss.
74. L’ord. n. 17/2019 (e le decisioni successive: ad esempio, ordd. nn. 60/2020 e 275/2019) limitano il sindacato della Corte alle «violazioni manifeste delle prerogative costituzionali»: mi pare che il criterio dell’evidenza si adatti più a vizi come il difetto dei presupposti del decreto-legge, che sono oggetto di una valutazione (di un organo politico) avente inevitabili margini di incertezza, mentre per i vizi procedurali mi parrebbe più opportuno utilizzare, semmai, il criterio della gravità del vizio.
75. Su ciò vds. R. Bin, Sul ruolo della Corte, op. cit., pp. 758 ss.
76. Su tutte queste pronunce vds. il par. 5.
77. La sent. n. 269/2017 parla del «principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)». Vds. G. Lattanzi, Relazione, op. cit., p. 6: «La natura della Corte, fin dai suoi equilibrati criteri di composizione; le peculiarità del giudizio costituzionale, ove si realizza, con la più ampia collegialità, un confronto dialettico tanto ponderato quanto arricchito dalla diversa sensibilità dei giudici; la pubblicità e l’efficacia erga omnes delle pronunce, sono solo alcuni dei fattori che rendono il sindacato accentrato l’architrave, non surrogabile, del controllo di costituzionalità. Ciò deve indurre all’adozione, quando è possibile, di criteri che favoriscano l’accesso alla giustizia costituzionale e permettano lo scrutinio del merito della questione incidentale che viene proposta».
78. Vds. J.E. Pfander, Principles of Federal Jurisdiction, West Academic, St. Paul (Minnesota), 2017, pp. 32 e 57 ss. In base alla dottrina della constitutional avoidance, le corti federali evitano di pronunciarsi su questioni di costituzionalità se è possibile risolvere in altro modo il giudizio o se è preferibile attendere; essa viene esercitata con diversi strumenti. Vds. la concurring opinion di Brandeis in Ashwander v. T.V.A. (1936) e, ad esempio, L. Tribe, American Constitutional Law, Foundation Press, New York, 2000 (3.27).
79. Nella sentenza Rescue Army v. Municipal Court of Los Angeles (1947) si legge che la scelta di risolvere le questioni di costituzionalità solo in casi di necessità «was wisely made»: «any other indeed might have put an end to or seriously impaired the distinctively American institution of judicial review»; «it is not without significance for the policy’s validity that the periods when the power has been exercised most readily and broadly have been the ones in which this Court and the institution of judicial review have had their stormiest experiences». Vds. anche, sempre nel 1947, la sentenza United Pub. Workers v. Mitchell.
80. Su ciò vds. anche C. Padula, La tutela diretta dei diritti fondamentali, op. cit., pp. 7 ss. e 189 ss.