La Corte nel contesto
La diversità delle tendenze in cui si è articolata la giurisprudenza costituzionale e il mutare delle sue costruzioni interpretative riflettono anche il costante tentativo della Corte costituzionale di continuare ad approvvigionarsi del massimo possibile di legittimazione delle proprie decisioni, tenuto conto del contesto in cui esse dispiegano i propri effetti.
1. Premessa / 2. La stagione del cd. ri-accentramento / 3. I fattori alla base del cd. ri-accentramento / 4. Gli effetti del cd. ri-accentramento / 5. Il contesto / 6. In conclusione: la ricerca di legittimazione
1. Premessa
Chi poteva immaginare che lo schema tradizionale delle cd. rime obbligate in materia penale sarebbe stato superato? Ebbene è avvenuto, in particolare nelle decisioni nn. 222 e 233 del 2018 e nn. 40, 88, 99, 112 del 2019. Alla base del superamento dello schema consolidato negli anni c’è stata la decisione di non ritenere più possibile «che, proprio laddove vengono in rilievo i diritti fondamentali della persona innanzi alla potestà punitiva pubblica, la Corte debba arrestare il proprio sindacato nei confronti di disposizioni costituzionalmente illegittime, che offendono la libertà personale»[1]. L’obiettivo di rispettare la discrezionalità legislativa è passato in secondo piano rispetto a quello che la Corte ha ritenuto preminente: rinvenire nella giustizia costituzionale meccanismi adeguati a cancellare la norma lesiva della Costituzione.
Chi poteva immaginare che il giudice costituzionale invertisse il tradizionale ordine – risalente alla dottrina (giurisprudenziale), ispirata a risolvere motivi eminentemente pratici, sviluppata da La Pergola nella sentenza n. 170 del 1984[2] – tra questione comunitaria e costituzionale in caso di cd. doppia pregiudizialità?
Che cosa è cambiato rispetto al passato? Perché la Corte ha deciso e potuto superare una giurisprudenza che appariva tanto consolidata?
Si tratta di domande “dissacranti”? Gli sviluppi a cui si riferiscono sono “sconfessioni” improvvise e arbitrarie di assetti consolidati, dei quali, quindi, svelano il carattere contingente e pretorio? Non credo, perché come cerco di argomentare nel mio recente volume, La Corte nel contesto, alla base di queste svolte si possono enucleare almeno tre ragioni, ciascuna delle quali si colloca in un orizzonte teorico gradualmente più ampio: 1) la Corte sta vivendo una stagione di rinnovata ricerca di centralità, di cd. ri-accentramento, che è caratterizzata da una ridefinizione dei confini del sindacato costituzionale nei confronti sia della discrezionalità politica sia del ruolo del giudice comune; 2) il ruolo del giudice delle leggi cambia nel tempo e così cambiano le dottrine (volendo usare una terminologia anglosassone) della giurisprudenza costituzionale, perché a cambiare non sono (se non in minima parte) le disposizioni dedicate alla Corte, ma l’ordinamento costituzionale, inteso in senso più lato[3], e soprattutto il contesto complessivo in cui la Corte opera; 3) il costante tentativo di approvvigionarsi del massimo possibile di legittimazione è alla base di questa sorta di fluidità e di mutare degli orientamenti: come scriveva Leopoldo Elia, la Corte ha bisogno di una continua ri-legittimazione, come tutti gli istituti delle democrazie moderne, e occorre soddisfare tale bisogno[4]. La perenne ricerca e conservazione della legittimazione costituiscono l’impulso sotterraneo con cui il giudice costituzionale si confronta costantemente, e che lo porta talora ad assumere posizioni che possono apparire – e possono essere legittimamente criticate – come imprecise, oscillanti e talora come veri e propri sconfinamenti in campi altrui. Possono essere legittimamente criticate, certo: ma anche queste critiche devono tenere conto dell’importanza della legittimazione e della sua ricerca in ciascun contesto.
La stagione giurisprudenziale del cd. ri-accentramento mette certamente il giudice comune di fronte a prospettive diverse dal passato, almeno in parte: 1) è in qualche modo la stagione in cui la Corte costituzionale invita i giudici “a non fare da soli”, ma a lavorare in sinergia (anche se questo può voler significare, come nel caso dell’inversione della doppia pregiudiziale, una possibile riduzione del ruolo proattivo che il giudice comune svolge nella valutazione della non applicazione del diritto interno contrastante con quello Ue); 2) l’attuale stagione giurisprudenziale potrebbe ben subire un ridimensionamento della sua carica ri-accentratrice per adattarsi a un nuovo cambiamento del contesto; 3) per quanto bene si confezionino le ordinanze di rimessione, vanno sempre tenute presente l’attenzione della Corte per il contesto, la sua necessità di legittimazione, l’alternarsi di stagioni giurisprudenziali caratterizzate ora dalla prudenza (il cd. minimalismo giudiziario di cui parla Massa in questo fascicolo) ora dall’attivismo; 4) la valutazione delle tecniche decisorie della Corte va condotta anche tenendo in considerazione il segmento di storia politico-istituzionale nel quale il relativo impiego si realizza[5].
Certamente il giudice rimane libero di agire senza tenere conto della stagione in cui si versa, libero cioè di porre alla Corte una domanda che sa in anticipo che verrà rigettata, ma che può rappresentare un prezioso precedente a futura memoria, come dimostra ancora una volta il superamento della dottrina delle cd. rime obbligate (la Corte, nelle decisioni del 2018 e 2019, citate all’inizio di questo contributo, ha richiamato e valorizzato precedenti decisioni di inammissibilità per ricordare i moniti al legislatore in esse contenuti e caduti nel vuoto).
2. La stagione del cd. ri-accentramento
In riferimento allo sviluppo della giurisprudenza costituzionale più recente – all’incirca dal 2011, e con maggiore chiarezza dal 2014 – contrassegnata da una serie di scelte inedite che hanno riguardato tanto il merito quanto il rito, utilizzo il termine “ri-accentramento” in un duplice significato. Innanzitutto, intendo che la Corte costituzionale ha assunto o ri-assunto compiti che, attraverso le decisioni di inammissibilità, aveva “lasciato” o al legislatore o all’autorità giudiziaria[6]. In questa accezione, il cd. ri-accentramento indica un’espansione della giurisdizione attraverso sia una sorta di produzione giurisprudenziale della norma, sia il ruolo crescente del giudice nella soluzione del conflitto politico[7], sia una contrazione della valorizzazione dei momenti di diffusione, nel senso di attribuzioni riconosciute all’autorità giudiziaria. Mentre il significato tecnico allude, ovviamente, a un rafforzamento dei profili di accentramento nel sistema di giustizia costituzionale.
Numerosi indici confermano il superamento di filoni giurisprudenziali ben consolidati, indici ampiamente arati dalla dottrina, nonché criticati[8]. Poiché sono molto noti, mi limito a richiamarli.
Il sindacato sulla legislazione elettorale (di Camera e Senato). Molto è stato scritto sulla disinvoltura processuale, sulle forzature[9] mostrate nella pronuncia n. 1 del 2014, e sui rischi di uno slabbramento del carattere incidentale del giudizio di legittimità e di un abuso del diritto processuale costituzionale[10].
In secondo luogo, la manipolazione degli effetti nel tempo delle sentenze (manipolazione in parte anticipata dalla decisione n. 1/2014). Nel 2015, con la pronuncia n. 10, si è riconosciuta la necessità di una graduazione degli effetti temporali della decisione sui rapporti pendenti, benché nel nostro ordinamento mancasse (e manchi tuttora) un’esplicita previsione che consenta alla Corte tale manipolazione. Ancora nel 2019, nell’ambito di un giudizio in via principale, con la decisione n. 246 la Corte è tornata ad affermare che, eccezionalmente, può presentarsi una tale esigenza di bilanciamento con altri valori e principi costituzionali, i quali in ipotesi risulterebbero gravemente in sofferenza ove gli effetti dell’accoglimento della questione risalissero, come di regola, retroattivamente fino al momento iniziale di efficacia della norma.
In terzo luogo, l’allentamento dell’onere di previa interpretazione conforme si è accompagnato alla tendenza della Corte costituzionale a valutare il ricorrere di tale requisito non più nella parte del giudizio inerente l’ammissibilità, ma in quello del merito[11]: soltanto l’omesso o del tutto inadeguato sforzo di esegesi adeguatrice può essere stigmatizzato con la pronuncia di inammissibilità. A partire infatti dalla sentenza n. 221/2015 è stato riconosciuto che «la possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità». Poi è stato ribadito che «se l’interpretazione prescelta dal giudice rimettente sia da considerare la sola persuasiva, è profilo che esula dall’ammissibilità e attiene, per contro, al merito» (sentenze n. 262/2015 e nn. 204, 95 e 45 del 2016). L’orientamento si è ulteriormente precisato con la sentenza n. 42/2017, in base alla quale «[s]e, dunque, “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)” (sentenza n. 356 del 1996), ciò non significa che, ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito. Anzi, tale scrutinio, ricorrendo le predette condizioni, si rivela, come nella specie, necessario, pure solo al fine di stabilire se la soluzione conforme a Costituzione rifiutata dal giudice rimettente sia invece possibile»[12].
In quarto luogo, è emersa una qualche apertura sull’ammissibilità di questioni aventi ad oggetto norme regolamentari (sentenze nn. 180 e 200 del 2018): tema, anche questo, ben noto alla giurisprudenza e ampiamente sviluppato dalla dottrina[13].
Altri due indici, di cui si è anticipato in apertura, sono più recenti o ancora in corso di consolidamento: sul versante del giudizio in via incidentale, mi riferisco all’aggiornamento delle teorie riguardanti la cd. doppia pregiudizialità (nei casi di violazione simultanea della Costituzione e del diritto dell’Unione europea, soprattutto della Carta dei diritti fondamentali). Il superamento del tradizionale modello di assetto dei rapporti tra diritto Ue e nazionale in tema di protezione dei diritti ha condotto gli interpreti a chiedersi se i principi fissati dalle storiche decisioni Simmenthal e Granital, sempre confermati dalla giurisprudenza costituzionale, siano stati (almeno in parte) superati e se sia venuta meno la tradizionale anticipazione della questione comunitaria in caso di cd. doppia pregiudiziale[14].
L’evoluzione, nel delicatissimo ambito normativo penale, della dottrina delle cd. rime obbligate in quelli che, a voler proprio restare nella metafora metrica, si potrebbero chiamare “versi sciolti”[15] . Tale sviluppo, molto criticabile per taluni, va discusso anche alla luce della storia e, in particolare, della creazione – tanto immediata, quanto inaspettata e criticata – del cd. armamentario decisorio della Corte. Come è noto, sin dai primi anni di attività di quest’ultima, l’horror vacui[16] e la preoccupazione di evitare risultati di incostituzionalità peggiori di quelli di partenza coadiuvarono la creazione progressiva delle varie tipologie di decisioni di stampo manipolativo: dotate certamente di forza innovativa tale da esporre la Corte all’accusa, costante nel tempo, di appropriarsi di funzioni che non le competono; e serventi a una conservazione, almeno parziale, a fronte dell’alternativa odiosa della caducazione pura e semplice della legge. La giustificazione teorica a posteriori di questa operazione (definita anche felix culpa della Corte) venne fornita attraverso un’alleanza fra pragmatismo giurisprudenziale ed elaborazione scientifica, che portò Vezio Crisafulli a utilizzare la formula delle cd. rime obbligate[17].
Vi sono poi argomenti ancora del tutto “aperti”, a uno stato cioè prematuro: pensiamo al controllo del singolo parlamentare sul procedimento legislativo (nella prospettiva della sua legittimazione ad agire per conflitto di attribuzione), al tentativo di ripensamento sulla cd. autodichia, il cui assetto tradizionale è sembrato scricchiolare (anche qui nella prospettiva di utilizzare lo strumento del conflitto di attribuzione come rimedio per contemperare l’autonomia delle Camere con i diritti confliggenti del singolo). Infine l’introduzione, l’8 gennaio 2020, nelle «Norme integrative», di un art. 4-ter espressamente intitolato agli «Amici curiae», nonché dell’art. 14-bis, che potenzia gli strumenti istruttori, disponendo specificamente in merito all’audizione di esperti. La fisionomia e anche il reale tasso di innovatività di queste previsioni dipenderà dall’uso che ne verrà fatto, da parte di tutti i soggetti coinvolti. Tuttavia, il senso complessivo sembra essere quello di aprire il giudizio alla dimensione dei fatti, alla società civile e in genere alla complessità, e di permettere alla Corte costituzionale di stare più al centro di tutto questo.
Convengo con la diffusa opinione che indici del genere segnalino la tendenza della Corte costituzionale ad assumere un ruolo più incisivo e centrale nei compiti di garanzia della Costituzione, stemperando alcuni profili che, in passato, avevano segnalato una propensione sia a una maggiore “diffusione”[18] e condivisione di tali compiti (nei confronti dei giudici comuni, anche nella loro veste “europea”), sia a una certa deferenza nei confronti della politica, quantomeno in alcuni settori (come quello penale).
3. I fattori alla base del cd. ri-accentramento
Almeno quattro i fattori che agiscono da facilitatori di questa nuova stagione della giurisprudenza costituzionale. Il primo, come è accaduto del resto sin dall’inizio della storia della Corte, è rappresentato dall’inerzia del legislatore e dal mancato seguito legislativo delle decisioni[19]. Di quando in quando l’interesse del legislatore sembra destarsi, ma in senso quasi esclusivamente polemico (e inconcludente), davanti a pronunce per vari motivi ritenute eccedenti le attribuzioni del giudice delle leggi.
A tale fattore, permanente, se ne aggiunge un altro più contingente: il crescente disordine normativo dovuto a una legislazione spesso impulsiva (si pensi, a questo riguardo, alle scelte di politica criminale venate di populismo penale[20]) e mal coordinata con l’ordinamento costituzionale. Una legislazione scritta sempre meno in Parlamento e sempre più negli uffici legislativi dei ministeri, non sempre all’altezza del compito[21].
I primi due fattori appena richiamati hanno influenzato, a mio parere, la volontà della Corte di intervenire persino sulla sfera della discrezionalità penale.
Il terzo fattore che corrobora la rinnovata ricerca di centralità è il tentativo di porre rimedio all’inaridimento del giudizio in via incidentale[22]. L’inaridimento (o crisi) del giudizio in via incidentale si è sviluppato nel tempo ed è riconducibile a molteplici ragioni eterogenee; a titolo puramente esemplificativo, si ricorda: la originaria “parchitudine”[23] dovuta alle porte strette dell’accesso al giudizio sulle leggi che fanno parte dei “limiti” della giustizia costituzionale italiana e che, come vedremo, la Corte ha cercato di sfondare attraverso un uso creativo degli strumenti a sua disposizione, in primo luogo il processo costituzionale; l’esistenza di una giurisprudenza consolidata capace di orientare i giudici comuni; di nuovo, l’imposizione della cd. interpretazione conforme a Costituzione; l’evoluzione dell’atteggiamento della magistratura improntato a un maggiore, e almeno talvolta inappropriato, protagonismo; l’esiguo numero di riforme legislative di sistema; la dottrina della cd. doppia pregiudizialità.
Tale inaridimento costringe, da un lato, la Corte in una posizione arretrata e, persino, secondaria rispetto al giudice comune e anche al suo rapporto diretto – costruito tramite l’utilizzo dello strumento del rinvio pregiudiziale – con la Corte di giustizia. Dall’altro, riduce l’incisività del giudizio in via incidentale in riferimento alla garanzia dei diritti: giudizio che, nel nostro ordinamento, ha rappresentato non solo lo strumento attraverso il quale condurre un’evoluzione in senso garantista della legislazione (poiché ha ad oggetto la conformità a Costituzione), ma anche quello attraverso cui occuparsi della concretezza del caso e delle conseguenze pratiche dell’applicazione della legge impugnata.
Il quarto fattore che ha spinto alla ricerca di centralità è rappresentato dalla dilatazione del ruolo di altre istanze di garanzia dei diritti – Corte Edu, Corte di giustizia, giudici comuni anche in relazione al diritto Cedu e Ue e attraverso l’interpretazione conforme – che però hanno caratteristiche differenti, in particolare una minore (o nulla) prospettiva sistemica[24]. In riferimento a quest’ultimo elemento, la nostra Corte non è certo isolata nel panorama europeo, anzi ha maturato una posizione condivisa anche da altri ordinamenti o da altri giudici supremi e costituzionali[25]. A questo proposito, e più in generale, il Collegio negli anni si è costruito un profilo autorevole nell’ambito di conferenze e scambi di esperienze fra tribunali costituzionali. Si sono sviluppate, in definitiva, le cd. giurisprudenze costituzionali cooperative, che hanno alimentato nutrite discussioni dottrinali[26].
4. Gli effetti del cd. ri-accentramento
C’è da chiedersi quanto l’attuale stagione giurisprudenziale metta a segno gli scopi che ne sono alla base[27]. A mio parere la risposta è senz’altro positiva, anche se le incertezze non mancano.
Due risultati mi sembrano conseguiti senza dubbio: l’assunzione da parte della Corte di una significativa responsabilità istituzionale, che ha come risultati collaterali l’ulteriore arretramento della posizione del legislatore e l’apertura di un probabile fronte di frizione con la magistratura ordinaria e la Corte di giustizia; l’ulteriore incrinatura della vincolatività del diritto processuale costituzionale[28].
In riferimento alla aumentata assunzione di responsabilità istituzionale, mi pare che si possa dire che il giudice delle leggi continua a giustificarla in nome della necessità di riempire i vuoti lasciati dalle dichiarazioni di incostituzionalità e di dare attuazione a diritti fondamentali della persona. Il Collegio, del resto, è ben consapevole dell’emarginazione della mediazione parlamentare, come dimostrano, ad esempio, due riflessioni critiche di Barbera e Zanon. Il primo – nel ribadire che è auspicabile che le scelte che si basano su operazioni di bilanciamento di interessi e valori siano, in prima battuta, ad appannaggio del legislatore, in quanto espressione della sovranità popolare – fa riflettere sul fatto che esitazioni e paralisi del legislatore, almeno su alcuni argomenti eticamente sensibili, potrebbero riflettere meglio e più puntualmente di una decisione del giudice i valori come effettivamente li “sente” il corpo sociale[29], mentre il controllo della Corte, ineliminabile, si dovrebbe concentrare solo sul valutare ragionevolezza e proporzionalità. Alle scelte politico-ideologiche degli interpreti, l’A. ritiene preferibili quelle dell’organo parlamentare: teme che «la formula “sovranità dei valori” — si riduca a una nuova criptica forma di “sovranità” di cui titolare diventerebbe il massimo interprete di quei valori, vale a dire la Corte costituzionale. Il “monismo” del costituzionalismo dell’Ottocento rientrerebbe così dalla finestra, trasfigurando la iurisdictio in un nuovo gubernaculum. In poche parole, come è stato incisivamente affermato, “la Repubblica non può essere affidata solo ai suoi giudici”»[30].
Nel 2012, sempre in questa prospettiva, Zanon ha ricordato che se le decisioni politiche del legislatore sono oggettivamente insufficienti, è certo che al giudice, come si è detto, spettano con evidenza funzioni un tempo non immaginabili: ma ciò non può significare né che le sentenze siano divenute tout court fonti del diritto, né che esse abbiano legittimamente un contenuto creativo, né, infine, che i criteri dei quali il giudice si serve nella sua nuova opera siano criteri politici, omogenei a quelli utilizzati da organi politici[31].
Ma anche l’effetto, già in parte conseguito, della perdita di vincolatività del diritto processuale costituzionale è motivo di serie riflessioni. Se c’è uniformità nel riconoscere la peculiarità del diritto processuale costituzionale, così non è per quanto riguarda il rapporto che lega merito e rito. Da un lato, tale rapporto è colto dal presidente emerito Grossi: «le “forme” (e, beninteso, non le semplici “formalità”) qui davvero diventano, per così dire, “sostanze”, nel senso che gli itinerari o i mezzi (processuali) impiegati per raggiungere gli obiettivi (i contenuti di giustizia o di verità) finiscono per avere un rilievo equivalente a quello di questi ultimi»[32]. Le esigenze del processo costituzionale non possono arrivare a sacrificare la funzione del diritto costituzionale sostanziale, del “rendere giustizia” costituzionale e dunque l’aderenza alle regole processuali può essere, nell’opera del bilanciamento, prevalente o recessiva rispetto ai valori in gioco[33].
Dall’altro, chi non aderisce a tale descrizione discute se sia appropriato e auspicabile che il rispetto della regola processuale possa entrare nel bilanciamento e quali siano gli strumenti più adatti da utilizzare per modificare il processo costituzionale. Per coloro che ritengono le regole processuali un confine entro il quale la Corte può svolgere la propria funzione, il loro rispetto è il modo più efficace per assicurare indipendenza, funzionalità, prevedibilità della decisione costituzionale[34]. Le eventuali, e auspicabili, modifiche – dovute anche all’inerzia del legislatore – vanno attuate tramite la via legislativa ordinaria e costituzionale. Anche chi dà atto che i fatti sono in grado di influenzare il modo in cui la Corte si rapporta alle regole del processo, in particolare in relazione alla scansione dei tempi[35] – e che quando essa è intervenuta su questioni “politiche” tale scansione è risultata attenta al merito e ai possibili risvolti istituzionali – riconosce il carattere giurisdizionale del processo costituzionale. Un processo (giuridicamente) a “maglie larghe”, connotato cioè da regole processuali più elastiche rispetto a quelle dei processi comuni e frutto della stessa giurisprudenza costituzionale, ma mai nella completa disponibilità della Corte la quale è tenuta ad osservarle.
La trasformazione, negli anni, subita dal processo costituzionale costituisce un nodo cruciale, chiaramente, per chi denuncia che tale trasformazione sia stata lo strumento per eccessivi sconfinamenti nel terreno della discrezionalità del legislatore e, al contempo, abbia prodotto incertezze nei giudici comuni, chiamati a dare applicazione alle decisioni.
5. Il contesto
Ragionare per stagioni significa riconoscere che il ruolo della Corte, nell’interpretazione che essa stessa ne dà attraverso la propria giurisprudenza (e, in misura minore, attraverso le norme integrative), cambia nel tempo, anche se non cambiano le disposizioni costituzionali a essa dedicate.
Ciò che muta è il contesto complessivo[36]: il tipo di domande rivolte alla Corte da una società che è sempre più insoddisfatta delle risposte della politica e si rivolge agli organi di garanzia, chiedendo loro di intervenire a tutela, ad esempio, delle libertà civili e sociali, della famiglia, del lavoro, del processo, in sostituzione temporanea o talora addirittura definitiva del legislatore[37]; i rapporti della Corte con le altre istituzioni di garanzia e con quelle di governo, alla luce dei rispettivi modi di funzionare (o di non funzionare… ); l’affermazione di nuovi paradigmi giuridici – penso soprattutto a quelli sovranazionali – che, se non rivendicano esplicitamente una natura costituzionale, sicuramente influenzano il costituzionalismo nazionale.
Tornare a porre l’attenzione su alcuni momenti inerenti al processo storico, sociale e normativo di stratificazione attraverso cui si sono contestualizzati la nascita e il primo sviluppo del giudice delle leggi si rivela utile per comprendere come nasce la concezione che la Corte ha del proprio ruolo, degli strumenti che possiede per realizzarlo e della messa in pratica degli strumenti stessi[38]. Utile, anche, per capire che la dualità originaria del disegno costituente, così come le diverse anime che la Corte ha sviluppato, ne caratterizzano tutta la giurisprudenza[39], anche quella del cd. ri-accentramento. Utile per rendersi conto che la crisi del legislatore che tanto influenza l’attività della Corte era un elemento presente sin dall’inizio. Utile, infine, per essere consapevoli che i timori manifestati dalla dottrina nei confronti di alcune decisioni ritenute, per esempio, non rispettose della discrezionalità politica o del processo costituzionale, si ripetono identici a distanza di anni.
Ad esempio, i primi anni di attività della Corte, anche alla luce di quanto fu tormentato, frettoloso, ingenuo e persino a tratti “inconsapevole” il processo che portò alla sua istituzione, evidenziano non solo la sua inattesa performance, ma anche le capacità stra-ordinarie di autodefinizione. Capacità che la Corte ha continuato a sviluppare e che le hanno permesso di intraprendere anche l’attuale stagione del cd. ri-accentramento.
Si pensi alla latitudine con la quale la Corte esercitò il potere regolamentare, ben oltre il dettato della legge n. 87 del 1953, per adottare le norme integrative del 1956, a dimostrazione della concezione che i primi giudici costituzionali avevano del significato e delle caratteristiche delle funzioni che essa avrebbe esercitato e della consapevolezza delle innovazioni che stavano introducendo. In sostanza, il primo Collegio arrivò nel giro di poche settimane a integrare direttamente la legge n. 87, risultata frammentaria e incompleta anche dal punto processuale. È già a questo momento che può essere fatta risalire la disinvoltura con cui il giudice delle leggi è abituato a fare uso del processo costituzionale (disinvoltura che troverà di nuovo un momento di formidabile importanza all’epoca dello “smaltimento dell’arretrato”, governato con maestria dal presidente Saja, e che conduce a una ricostruzione delle funzioni e del ruolo della Corte che la porta, come a noto, direttamente «a ridosso della politica»[40]).
Sempre in quegli anni inizia a delinearsi, da un lato, il rapporto non sempre facile con le altre istituzioni e, dall’altro, la consapevolezza della “crisi” del Parlamento: in Italia ci si trovava di fronte a una situazione di gelosia e avversione del Parlamento e del Governo nei confronti di tutti gli organi giurisdizionali (sia dell’autorità giudiziaria, sia della Corte costituzionale) e nello stesso tempo di relativa inefficienza del meccanismo parlamentare, di fronte a una organica tendenza piuttosto al non fare che al fare[41].
Si presti attenzione a come già allora l’opera di bonifica della legislazione pre-repubblicana – la cd. “grande supplenza”[42] – sia stata giustificata dall’inerzia o dalla lentezza del legislatore. Leopoldo Elia ne parlò come di una supplenza in senso a-tecnico, nella quale i giudici erano rimasti nei limiti di quella che chiamava “giurisdizione di amputazione”: la Corte non esercitava poteri altrui, bensì propri, per fare l’opera che altri trascuravano di compiere.
Perché ciò sia avvenuto, è allo stesso tempo facile da comprendere e cruciale da tenere a mente: l’istituzione neonata è sensibile al mutato contesto sociale, più che a quello politico[43] e, rispetto a un sistema politico ancora in un certo senso disorientato, è un outsider più omogeneo, agile ed efficiente[44]. Non stupisce, dunque, che a fine anni settanta del secolo scorso – quando ormai era acclarata la crisi della rappresentanza politica, del ruolo dei partiti e delle assemblee elettive – Carlo Mezzanotte rilevò che non vi era stato tema del dibattito pubblico su cui la Corte non si fosse pronunciata perché, «in un sistema politico in cui gli strumenti di selezione e di sintesi degli interessi stentano a funzionare, dinanzi a un modo di legiferare quanto mai disarticolato e frammentario, il groviglio degli antagonismi diffusi nella comunità tende ad infittirsi, e le molteplici e contraddittorie istanze che non trovano un momento di mediazione politica finiscono con l’indirizzarsi disordinatamente verso organi imparziali»[45].
Valutazione del resto perfettamente riproponibile oggi. Si tratta del fenomeno dell’attuazione della Costituzione per via giurisdizionale, cioè l’interpretazione delle norme costituzionali direttamente prodotta nell’esercizio della funzione giurisdizionale, tale da attribuire a quelle norme un significato conforme a Costituzione, «che è poi quello su cui si determina l’esistenza di una regola, e dunque la disciplina del caso concreto in senso conforme alla Costituzione»[46].
Un contesto così composito e stratificato condiziona fortemente quelle che si possono chiamare, su falsariga americana, le dottrine della giurisprudenza costituzionale: quelle costruzioni interpretative, intermedie tra il diritto positivo e i singoli casi, che stanno al centro delle decisioni, e che risentono appunto del contesto in cui la Corte opera, del ruolo che essa assume al suo interno, ma anche della consapevolezza che il giudice costituzionale viene a maturare nel tempo[47]. Il maestro americano di La Pergola, Paul A. Freund, scriveva che «il giudice deve saper ridurre l’alta tensione delle sue riflessioni e convinzioni teoriche al voltaggio che gli serve per poter risolvere la concreta controversia di cui è investito»[48]. Anche quando si tratta di dottrine processuali – teoricamente, tutte interne a un settore neutro, tecnico, separato del diritto costituzionale, quale dovrebbe appunto essere il processo costituzionale – esse hanno spesso risvolti sostanziali, istituzionali o comunque di sistema, nei quali si avverte con chiarezza l’influenza dei fattori di cui sopra.
In alcuni casi, come dimostra la teoria delle cd. rime obbligate, vengono ideate da illustre dottrina, a posteriori, per giustificare scelte già compiute. Poiché tale tipo di imprinting condiziona la vita delle teorie elaborate dalla Corte, può capitare che, di fronte a casi nuovi o a contesti mutati, queste costruzioni evolvano. Si tratta di teorie molto simili, se si vuole, a quelle elaborate dalla dottrina nel campo dell’interpretazione scientifica, ma poiché non sono create in sede di interpretazione scientifica, bensì in sede di applicazione giudiziaria del diritto, operano in modo peculiare: se si vuole, meno dogmatico e sistematico, più pragmatico e talora persino empirico. A tal proposito risulta calzante la distinzione che Zagrebelsky traccia tra come opera e pensa uno studioso di diritto costituzionale e come opera e pensa un giudice costituzionale: la sua ipotesi di una differenza di natura tra il diritto nella dimensione teorica e il diritto nella dimensione pratica mi pare trovi conferma nella genesi delle due dottrine, delle cd. rime obbligate e dell’anticipazione della pregiudiziale comunitaria, che la stagione del cd. ri-accentramento ha aggiornato[49].
Dall’esperienza storica che caratterizza la nostra Corte emerge chiaramente che tutto, o quasi, sia stato lasciato alle sue doctrines, mano a mano che mutava il contesto e, con esso, il ruolo della Corte mutava, sicché si rendevano necessari interventi di manutenzione più o meno estesi.
6. In conclusione: la ricerca di legittimazione
Nella stagione del cd. ri-accentramento il Collegio sembra aver rafforzato ancor di più le basi della propria legittimazione: quella a priori che si fonda sulla Costituzione (nonostante la richiamata confusione che pesa sul periodo costituente) e sull’esigenza della sua difesa (la Costituzione come limite al potere); quella a posteriori che le deriva da come esercita i suoi poteri, da come motiva le sue decisioni e dal rispetto dei limiti che la Corte stessa incontra (compreso anche il limite del cd. self restraint); quella che si costruisce attraverso rapporti diretti con l’opinione pubblica e grazie al consenso sociale; quella che si è andata sviluppando nel rapporto con l’altra grande istituzione deputata alla garanzia del sistema costituzionale, la Presidenza della Repubblica.
In conclusione, ritengo che le differenti stagioni giurisprudenziali attraversate dalla Corte corrispondono alla sua ricerca di legittimazione in un contesto istituzionale e sociale in cambiamento. In modo più articolato: 1) non è un fuor d’opera ragionare della Corte costituzionale in termini di legittimazione; 2) la Corte ha a disposizione diversi e numerosi canali di legittimazione, che spaziano dall’osservanza dei canoni processuali e dei precedenti, ai valori costituzionali di cui essa è al servizio[50], sino ai risultati concreti che la sua azione è in grado di offrire dinanzi ai conflitti sociali e alla necessità di una loro mediazione; 3) in ciascuna stagione – e forse in ciascun caso, o quantomeno in quelli di maggiore rilievo – la Corte deve considerare ciascuno di questi canali, anche se non sempre riesce ad attingere a tutti, o a tutti in egual misura, e talora deve sacrificarne uno a scapito di altri.
In questi limiti, a mio avviso, è consentito parlare della politicità della Corte: nella misura in cui la si intende come entità «in-politica», secondo la fortunata formula di Zagrebelsky[51], che deve tenere conto del complessivo pactum societatis al fine di garantire le pre-condizioni indispensabili per l’attività di governo; e, in questa prospettiva, deve anche preservare la propria legittimazione e tenere conto di tutti i profili di impatto delle proprie attività. Sempre in questi limiti, condivido anche il vincolo della Corte costituzionale ai precedenti e ai canoni processuali, e quindi condivido altresì la tesi favorevole all’esistenza di un vero e proprio diritto processuale costituzionale: i bruschi revirement mettono in discussione la reputazione della Corte; i precedenti, anche processuali, meritano attenzione e anche osservanza – salvo nei casi in cui una innovazione sia indispensabile per non compromettere gravemente gli altri canali di legittimazione e comunque, anche in queste evenienze, con le modalità e nei termini il più possibile graduali e ponderati.
Nondimeno, non ritengo di per sé precluso che, soprattutto nei casi più difficili e delicati, o di fronte a disfunzioni sistematiche manifestate dall’ordinamento repubblicano in determinate fasi della sua vita, la Corte si ponga il problema di rivedere le interpretazioni processuali date in precedenza, sulla base di considerazioni che guardano anche al di là dell’orizzonte propriamente processuale[52]. Ovviamente, il limite ultimo è la compatibilità con il diritto positivo: il quale però, lo si è già detto, è alquanto difettoso in questa materia e meriterebbe forse un aggiornamento[53].
Il problema della legittimazione della Corte è un tema mai esaurito, come dimostra un recente dibattito. In un saggio provocatorio, Andrea Morrone parte da premesse condivisibili: «sarebbe troppo banale ritenere che la Corte costituzionale conserva la propria legittimazione fin quando la sua attività si mantiene nei confini della carta fondamentale»; non è sorprendente né scandaloso che la Corte, attraverso le sue interpretazioni e decisioni, concorra a definire il contenuto della Costituzione medesima e, così, anche la propria legittimazione, sebbene ciò sia un fatto «in sé scabroso», solo in parte compensato dal processo, dalla motivazione e dalla qualità delle argomentazioni[54]. Tuttavia, prosegue Morrone, la Corte è un potere «collocato al crocevia di tutti gli altri poteri»[55]: la sua ricerca di legittimazione starebbe mettendo in pericolo la stessa separazione dei poteri, con le garanzie che essa implica. Tutto questo viene affermato nel contesto di una panoramica delle principali novità giurisprudenziali della stagione del cd. ri-accentramento.
L’affondo ha suscitato reazioni parimenti vivaci. Ad esempio, per Roberto Bin, mentre è vero che il giudice delle leggi crea nuovi moduli decisori e supera le regole processuali, non lo è che in tal modo alteri l’equilibrio tra poteri, tanto meno secondo un disegno politico prestabilito: la Corte, effettivamente, ha modificato, articolato e sviluppato il proprio profilo, ma solo perché il legislatore anche in questo è stato latitante, e comunque ha sempre mantenuto un certo grado di prudenza e moderazione; moderazione non sempre altrettanto presente presso altri protagonisti della lunga stagione in cui è cresciuto il ruolo delle istanze giudiziarie[56].
Ciò che mi sembra interessante notare è che, al di là dei vari punti di vista, c’è un accordo complessivo: il ruolo della Corte cambia nel tempo, anche a opera della Corte stessa; la ricerca, ma direi meglio la necessità della legittimazione, è una formula che può aiutare a comprendere questi mutamenti; si tratta di mutamenti variegati e complessi, nei quali si rispecchia il contatto tra la Corte, con la funzione di cui essa è portatrice, e il contesto istituzionale e sociale, nell’ambito di una Costituzione strutturalmente aperta e pluralista.
Acclarato tutto ciò, propongo che in futuro l’analisi della dottrina continui a rivolgersi al problema dello sconfinamento della Corte nella sfera della discrezionalità politica, ma lo faccia in una prospettiva, per così dire, inversa a quella tradizionale.
Non ci si può aspettare che la Corte arretri, che ingrani la retromarcia: la sua colpa, se così ci si può esprimere, è di compiere la propria funzione in modo molto efficace in un contesto nel quale non fanno altrettanto gli organi rappresentativi[57]. È la debolezza della politica a evocare la forza del giudice, non il contrario. Forse ha potuto trarre in inganno l’aver, sin dall’inizio, identificato l’autoaffermazione della Corte con una funzione di supplenza come se, prima o poi, si sarebbe potuto assistere a un suo ritrarsi in un alveo costituzionalmente più “normalizzato”[58]. Il diritto costituzionale, però, si è sviluppato come un diritto giurisprudenziale e un numero sempre più consistente di scelte di politica istituzionale è passato attraverso le maglie del sistema di giustizia costituzionale. Nondimeno le attribuzioni, nemmeno immaginabili sulla carta, che la Corte ha elaborato nel supplire all’insufficiente qualità delle decisioni politiche o la loro inesistenza, non l’hanno trasformata in ciò che ontologicamente non può essere: i criteri dei quali il giudice si serve nella sua opera non sono i criteri che dovrebbero essere utilizzati dagli organi politici[59].
Si può invece “ridimensionare” l’azione della Corte agendo su altri elementi del contesto, su altri soggetti istituzionali e sulle loro modalità operative: in particolare, ripristinando le condizioni che mettano in grado il legislatore di esercitare pienamente le sue funzioni. E poiché tale deficit abbiamo ricordato essere stato rilevato quasi in contemporanea alla nascita della Repubblica, la via non può che essere quella delle riforme istituzionali.
1. Cfr., sulla giurisprudenza costituzionale dell’anno 2018, la Relazione del Presidente Giorgio Lattanzi, Roma, Palazzo della Consulta, 21 marzo 2019, pp. 13-14, www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/lattanzi2019/Relazione_del_Presidente_Giorgio_Lattanzi_sull_attivita_svolta_nell_anno_2018.pdf.
2. Sul contesto giuridico e politico che ha influenzato la Corte, e in particolare il relatore, si rinvia a D. Tega, La Corte nel contesto, Bononia University Press, Bologna, 2020, pp. 198 ss.
3. Cfr. A. Barbera, Costituzione della Repubblica italiana, in Enciclopedia del diritto – Annali, vol. VIII, Giuffrè, Milano, 2015, pp. 263 ss.
4. L. Elia, Intervento, in P. Pasquino e B. Randazzo (a cura di), Come decidono le Corti Costituzionali (e altre Corti), Giuffrè, Milano, 2019, p. 130.
5. M. Ruotolo, L’evoluzione delle tecniche decisorie della Corte costituzionale nel giudizio in via incidentale. Per un inquadramento dell’ord. n. 207 del 2018 in un nuovo contesto giurisprudenziale, in Rivista AIC, n. 2/2019, pp. 644 ss.
6. Uso una definizione data da R. Romboli, Relazione introduttiva, in G. Campanelli - G. Famiglietti - R. Romboli (a cura di), Il sistema “accentrato” di costituzionalità, atti del seminario del Gruppo di Pisa, Pisa, 25 ottobre 2019, Giappichelli, Torino, 2020, pp. 13 ss.
Ricordo che nella citata Relazione sulla giurisprudenza del 2018, Giorgio Lattanzi ha sottolineato che «anche per favorire un sindacato accentrato, è opportuno che il pur necessario controllo esercitato sui requisiti di ammissibilità delle questioni incidentali non trasmodi in un improprio strumento deflattivo del contenzioso, ma cerchi piuttosto di favorire il giudizio costituzionale, come è avvenuto con specifico riguardo alle zone d’ombra dell’ordinamento, ove è più difficile che possano essere sollevate questioni incidentali» (ivi, p. 8).
7. S. Staiano, Vecchi e nuovi strumenti di dominio sull’accesso ai giudizi costituzionali, in Federalismi, n. 13/2019, pp. 1 ss., www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=38886.
8. Tra coloro che rimproverano alla Corte una serie di sconfinamenti, cfr., da ultimo, A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quaderni costituzionali, n. 1/2019, pp. 251 ss.
9. Scrive di forzatura procedurale compiuta in “stato di necessità” dal giudice costituzionale A. D’Andrea, La “riforma” elettorale “imposta” dal giudice costituzionale al sistema politico e l’esigenza di “governabilità” dell’ordinamento, in Giurisprudenza costituzionale, n. 1/2014, pp. 38 ss.
10. In occasione dei giudizi sull’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo aventi ad oggetto la medesima legge elettorale, decisi con le sentt. nn. 16 e 15 del 2008, la Corte, dopo aver precisato che eventuali questioni di legittimità costituzionale della legge non sono pregiudiziali alla definizione del controllo dell’ammissibilità delle richieste referendarie, suggerì al Parlamento «l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici» della legislazione prevista nel 2005, con particolare riguardo all’attribuzione di un premio di maggioranza, sia alla Camera dei deputati che al Senato della Repubblica, senza che sia raggiunta una soglia minima di voti e/o di seggi.
11. G. Sorrenti, La (parziale) riconversione delle “questioni di interpretazione” in questioni di legittimità costituzionale, in Consulta on line, n. 2/2016, pp. 293 ss., in particolare p. 295.
12. Opinione espressa in sede dottrinale, da tempo, dallo stesso relatore: cfr., ad esempio, F. Modugno, In difesa dell’interpretazione conforme a Costituzione, in Rivista AIC, n. 2/2014, pp. 1 ss. Sempre nel 2017, la sent. n. 69 ha stabilito che «ciò non esclude che, nell’esaminare il merito della questione sottoposta al suo esame, questa Corte sia a sua volta tenuta a verificare l’esistenza di alternative ermeneutiche, che consentano di interpretare la disposizione impugnata in modo conforme alla Costituzione».
13. Per tutti, M. Massa, Regolamenti amministrativi e processo. I due volti dei regolamenti e i loro riflessi nei giudizi costituzionali e amministrativi, Jovene, Napoli, 2011.
14. Sentenze nn. 269 del 2017, 20, 63, 112 e 117 del 2019, 11 e 44 del 2020.
15. Antonino Spadaro ha scritto che è probabile che ci troviamo di fronte al più temerario tentativo di espansione del sindacato, e quindi delle competenze, della Corte costituzionale, cfr. Id., I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Rivista AIC, n. 4/2019, p. 166. Con “versi sciolti” si designano, in metrica, versi non legati da schemi precostituiti di strofe e rime. Stefania Leone ha scritto di «rime possibili», cfr. Id., La Corte costituzionale censura la pena accessoria fissa per il reato di bancarotta fraudolenta. Una decisione a «rime possibili», in Quaderni costituzionali, n. 1/2019, pp. 183 ss.
16. Cfr. R. Pinardi, L’horror vacui nel giudizio sulle leggi. Prassi e tecniche decisionali utilizzate dalla Corte costituzionale allo scopo di ovviare all’inerzia del legislatore, Giuffrè, Milano, 2007. Nel volume sono riportati i frequenti accenni, mossi dai presidenti della Corte (a partire da A.M. Sandulli, in occasione del dodicesimo anno della Corte), alla preoccupazione della Corte per le conseguenze sfavorevoli derivanti per il corpo sociale da eventuali vuoti legislativi da essa prodotti – ivi, p. 71.
17. Come illustro in D. Tega, La Corte nel contesto, op. cit., pp. 122 ss.
18. Cfr. E. Malfatti - R. Romboli - E. Rossi (a cura di), Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”, Giappichelli, Torino, 2002.
19. Gli studi sul seguito parlamentare tratteggiano, in modo costante, un disegno a tinte spente. Cfr. C. Tucciarelli, Le istituzioni a due marce: Corte costituzionale e Parlamento tra sentenze poco seguite e seguito poco sentito, in Quaderni costituzionali, n. 2/1996, pp. 310-311; R. Bin, C. Bergonzini, La Corte costituzionale in Parlamento, in R. Bin - G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi (a cura di), «Effettività» e «seguito» delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006, pp. 215 ss.; N. Lupo, Il Parlamento e la Corte costituzionale, in Quaderno n. 21, Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, 2012, pp. 109 ss.
Diversi giudici costituzionali hanno suggerito di implementare una visione collaborativa. Da ultimo, sembra averlo fatto la Presidente emerita Cartabia: «Ma dalla prassi comparata si potrebbe trarre ispirazione anche per sviluppare ulteriori forme di collaborazione istituzionale già sperimentate proficuamente da altre Corti. Particolarmente significativa è la consuetudine invalsa in Germania di svolgere incontri informali a cadenza annuale tra la Corte costituzionale, il Governo e le Camere, per uno scambio generale di informazioni» – Id., L’attività della Corte costituzionale nel 2019, Roma, Palazzo della Consulta, 28 aprile 2020, p. 14, www.cortecostituzionale.it/documenti/relazione_cartabia/2_sintesi.pdf.
20. Sul tema vds., almeno, S. Anastasia - M. Anselmi - D. Falcinelli (a cura di), Populismo penale: una prospettiva italiana, Wolters Kluwer/Cedam, Padova, 2015; L. Ferrajoli, Il populismo penale nell’età dei populismi politici, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2019, pp. 79 ss., www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/il-populismo-penale-nell-eta-dei-populismi-politici_627.php.
21. B.G. Mattarella, La trappola delle leggi, Il Mulino, Bologna, 2011, in part. pp. 45 ss.
22. M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enciclopedia del diritto – Annali, IX, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 391 ss., in part. p. 470; R. Romboli, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in Id. (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2014-2016), Giappichelli, Torino, 2017, pp. 35 ss., in part. pp. 39 ss.
23. Così la definisce T. Groppi, La Corte e ‘la gente’: uno sguardo ‘dal basso’ all’accesso incidentale alla giustizia costituzionale, in Rivista AIC, n. 2/2019, pp. 408 ss., in part. pp. 431 ss.
24. Sulla diversa prospettiva sistemica e sulle difficoltà del dialogo tra giudici, sia permesso rinviare a D. Tega, I diritti in crisi, Giuffrè, Milano, 2012.
25. I richiami all’effetto derivante, per il nostro sistema accentrato di controllo costituzionale, dai vincoli provenienti dalla giurisprudenza della Corte Edu e dagli effetti che il Trattato di Lisbona e la Corte di giustizia riconoscono alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione hanno concorso al superamento della cd. dottrina della doppia pregiudizialità. Cfr., per tutti, A. Barbera, I (non ancora chiari) “vincoli” internazionali e comunitari nel primo comma dell’art. 117 della Costituzione, in Aa.Vv., Diritto comunitario e diritto interno, atti del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 2007, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 107-121; Id., Le tre Corti e la tutela multilivello dei diritti, in P. Bilancia ed E. De Marco (a cura di), La tutela multilivello dei diritti, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 89 ss.
26. G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 558-559.
27. Ha già fornito una prima risposta molto problematica R. Romboli, Relazione introduttiva, op. cit.
28. Romboli afferma infatti che «[l]’esistenza di un diritto processuale costituzionale non risulta legata alla presenza di regole processuali specificamente rivolte a regolare i giudizi davanti alla Corte costituzionale, della quale nessuno ovviamente può dubitare, quanto alla possibilità di qualificare le medesime come vere “regole” giuridiche invece che come mere indicazioni, valutabili solamente sotto l’aspetto della loro “regolarità” riscontrabile nella giurisprudenza costituzionale. In altri termini il problema sembra concentrarsi sulla natura vincolante o meno delle regole del processo costituzionale» – Id., Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima “politica” e quella “giurisdizionale”. Una tavola rotonda per ricordare Alessandro Pizzorusso ad un anno dalla sua scomparsa, in Rivista AIC, n. 3/2017, p. 11.
29. A. Barbera, Costituzione della Repubblica italiana, op. cit., p. 337.
30. Ivi, p. 357. La citazione è di M. Fioravanti, La trasformazione costituzionale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 2/2014, pp. 295 ss., in part. p. 308, che si riferisce a un pericolo di uno «stato neo-giurisdizionale carente di legittimazione democratica».
31. N. Zanon, Su alcuni problemi attuali della riserva di legge in materia penale, in Criminalia – Annuario di scienze penalistiche, 2012, pp. 317 ss., in part. pp. 317-318.
32. P. Grossi, Relazione del Presidente Paolo Grossi sulla giurisprudenza costituzionale del 2015, Roma, Palazzo della Consulta, 11 aprile 2016, pp. 1 ss., in part. p. 3, www.cortecostituzionale.it/documenti/interventi_presidente/Relazione_Grossi.pdf.
33. Per tutti, cfr. le riflessioni di C. Mezzanotte, Il giudizio sulle leggi. Le ideologie del Costituente, Giuffrè, Milano, 1979; Id., Corte costituzionale e legittimazione politica, Tipografia Veneziana, Roma, 1984, ripubblicati entrambi nel 2014 (2 volumi), Editoriale Scientifica, Napoli (primi titoli editi nella collana «Costituzionalisti del XX secolo», diretta da Franco Modugno e Marco Ruotolo); Aa.Vv., Giudizio “a quo” e promovimento del processo costituzionale, Giuffrè, Milano, 1990 – ivi, in particolare, gli interventi di C. Mezzanotte, Processo costituzionale e forma di governo, pp. 63 ss.
34. A. Pizzorusso, Prefazione, in R. Romboli (a cura di), La giustizia costituzionale a una svolta, Giappichelli, Torino, 1991, pp. 7 ss.; V. Angiolini, La Corte senza il “processo”, o il “processo” costituzionale senza processualisti?, ivi, pp. 20 ss.; R. Romboli, Il diritto processuale costituzionale dopo la “svolta” degli anni 1987-1989, in R. Balduzzi - M. Cavino - J. Luther (a cura di), La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, atti del seminario svoltosi a Stresa il 12 novembre 2010, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 317 ss.; G. D’Amico, Azione di accertamento e accesso al giudizio di legittimità costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, pp. 22-25, 136-138.
35. Sull’utilizzo improprio di strumenti processuali, ad esempio i tempi di fissazione o l’utilizzo delle cd. inammissibilità “vestite”, cfr. G. Silvestri, L’abuso del diritto nel diritto costituzionale, in Rivista AIC, n. 2/2016, pp. 1 ss., in part. pp. 11 ss.
36. P. Häberle, per esempio, ha individuato quattro oggettivazioni che condizionano il lavoro degli interpreti della Costituzione: i) «le opere della legislazione, dell’esecutivo e della giurisdizione» e «le decisioni definitivamente vincolanti del Tribunale federale costituzionale; ii) «la cultura dei pareri e delle memorie delle parti, espressi su diversi piani e in diverse forme, incluse le commissioni d’inchiesta, le audizioni del legislatore e quelle del potere esecutivo»; iii) «partiti politici, federazioni ed associazioni, chiese, comitati e iniziative dei cittadini e mass media»; iv) «dottrina del diritto costituzionale come scienza e cultura» e, in particolare, «le opere prodotte in cooperazione con le funzioni statali», le «opere e prestazioni dedicate alla sfera pubblica scientifica e culturale restante» e le «prestazioni di costituzionalisti europei di altri paesi (comparazione giuridica) come prodromi di una dottrina costituzionale europea»: Id., Per una dottrina della Costituzione come scienza della Cultura, edizione curata da J. Luther, Carocci, Roma, 2001 (ed. or.: 1982). Devo la citazione all’interessante volume di G. D’Amico, Scienza e diritto nella prospettiva del giudice delle leggi, SGB Edizioni, Messina, 2008, pp. 123-124.
37. Così, per esempio, E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici dell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 57.
38. Come scriveva A.M. Sandulli, Scritti giuridici – I. Diritto costituzionale, Jovene, Napoli, 1990, p. 688.
39. Si rinvia alle esemplificazioni di M. Luciani, La Corte costituzionale nella forma di governo italiana, in Aa.Vv., La Costituzione italiana quarant’anni dopo, Giuffrè, Milano, 1989.
40. Ivi, p. 78.
41. G. Maranini, Intervento, in Id., (a cura), La giustizia costituzionale, Vallecchi, Firenze, 1966, che però rassicurava sul fatto che il controllo di legittimità della Corte si sarebbe svolto senza reazioni efficaci: «Di questo siamo tutti certi, perché ormai abbiamo capito quale sia la singolare dinamica della vita pubblica italiana» (pp. 353-354).
42. La Corte costituzionale si dimostra rapidamente molto attiva: non solo nella già citata opera di bonifica e nell’affermazione della sindacabilità delle leggi anche in relazione alle cd. disposizioni programmatiche (sent. n. 1/1956; si veda, a questo proposito, l’utile precisazione sulle posizioni dottrinali che svolge A. Barbera, Costituzione della repubblica italiana, op. cit., pp. 322-323); ma anche nel ritenere possibile l’auto-rimessione d’ufficio di una questione di legittimità costituzionale in tutti i procedimenti nei quali risolvere tale questione sia pregiudiziale alla definizione della questione di costituzionalità principale (sent. 73/1965; ancor prima, nn. 22/1960 e 57/1961); nonché nel rivendicare la competenza a interpretare autonomamente la legge e a controllare la conformità della formazione delle leggi alle norme procedurali previste direttamente dalla Costituzione (sent. n. 9/1959).
43. A. Cerri, La giurisprudenza costituzionale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 4/2001, pp. 1325 ss.
44. A. Simoncini, L’avvio della Corte costituzionale e gli strumenti per la definizione del suo ruolo: un problema storico aperto, in Giurisprudenza costituzionale, n. 4/2004, pp. 3065 ss., in part. p. 3078.
45. C. Mezzanotte, La Corte costituzionale: attività e prospettive, in Aa.Vv., Attualità e attuazione della Costituzione, Laterza, Roma-Bari, 1979, pp. 149 ss., in part. pp. 170-171.
46. M. Fioravanti, Costituzione italiana: articolo 2, Carocci, Roma, 2017, p. 104.
47. Mi trovo d’accordo con quanto scrive M. Donini, Iura et leges. Perché la legge non esiste senza il diritto, in Il Pensiero, n. 2/2019, pp. 45-77, in part. p. 73: «Dottrina vs. giurisprudenza non equivale a interpretazione vs. diritto. La giurisprudenza fa dottrina e fa diritto, al pari dello studioso. Con una differenza principale: che produce in documenti pubblici un diritto casistico nel segno della divisione dei poteri, mentre il raccordo dei casi col ius non è opera solo giudiziale. Il vero potere giudiziale non è di costruire regole generali, ma regole concretizzate, adattando al caso regole rilette dentro e attraverso un ius che non appartiene a una singola istituzione» (anteprima del saggio in Sistema penale, 2019, in part. p. 27: www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1576938432_donini-2019a-iura-leges-non-esiste-legge-senza-diritto-converted.pdf).
48. P.A. Freund, The Supreme Court of the United States, Cleveland, Meridian Books, 1961, p. 114. Ho utilizzato l’efficace traduzione che ne fece La Pergola, abilissimo conoscitore della lingua anglosassone, in Id., L’articolazione del diritto comunitario e di quello interno, in Rivista di diritto europeo, n. 4/1994, pp. 651 ss., in part. pp. 660-664.
49. Id., La Corte costituzionale italiana, in P. Pasquino e B. Randazzo (a cura di), Come decidono le Corti Costituzionali (e altre Corti), op. cit., pp. 65-68.
50. Paolo Grossi la descrive come una sorta di organo respiratorio dell’ordine giuridico, organo precettore e stimolatore della carica espansiva delle tutele costituzionali dei valori costituzionali, indispensabile nella dimensione costituzionale della convivenza – cfr. la citata Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2015.
51. G. Zagrebelsky, La Corte in-politica, in Quaderni costituzionali, n. 2/2005, pp. 273 ss. – vds. anche Id., Principî e voti. La Corte costituzionale e la politica, Einaudi, Torino, 2005, pp. 35 ss.
52. Da questo punto di vista, colpisce come anche R. Romboli (Le oscillazioni, op. cit., p. 12) osservi che il riferimento ai principi fondamentali del processo costituzionale «non esclude certamente la possibilità, o forse la necessità, che le disposizioni processuali siano da ritenere, per quanto possibile, elastiche e che siano soggette all’opera interpretativa del Giudice costituzionale ed a quella fondamentale attività del bilanciamento tra i diversi principi o valori». Anche se poi ribadisce, tuttavia, che le relative norme non dovrebbero costituire «un valore “interno” all’opera di bilanciamento», ma piuttosto «una sorta di cornice che delimita e quindi stabilisce i confini entro cui la Corte può esercitare la propria attività, fra cui ovviamente anche quella di bilanciamento».
53. In dottrina, oltre alla proposta avanzata da Romboli, cfr. M. Benvenuti, I rapporti tra la giurisdizione costituzionale e le giurisdizioni comuni nella storia repubblicana (ovvero dei problemi e delle prospettive del sindacato di legittimità costituzionale in via incidentale come sineddoche), in Nomos, n. 1/2017, pp. 1 ss., in part. p. 20.
54. A. Morrone, Suprematismo giudiziario, op. cit., pp. 279, 282, ma passim.
55. Ivi, p. 280.
56. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quaderni costituzionali, n. 4/2019, pp. 757 ss. Bin è particolarmente critico nei confronti delle corti sovranazionali (pp. 767-773) e dei giudici comuni (pp. 763-765).
57. M. Luciani, Giurisdizione e legittimazione nello stato costituzionale di diritto (ovvero di un aspetto spesso dimenticato del rapporto tra giurisdizione e democrazia), in Politica del diritto, n. 3/1998, pp. 365 ss.; l’A. scrive, a ridosso delle vicende legate alla cd. Tangentopoli: «non si cerchi, dunque, nella giurisdizione la spiegazione della sua nuova forza nei confronti della politica. Si cerchi invece in questa la radice di una debolezza, di un vuoto, che altri, inevitabilmente, hanno colmato: la politica non sarà più, nelle aule dei tribunali, sul banco degli imputati, solo se e solo quando avrà ricominciato ad essere politica, recuperando qualità morali e spessore progettuale e riprendendo il suo ruolo di strumento di crescita e di emancipazione sociale» (p. 368).
58. Riflessione anche questa d’antan, cfr. S. Rodotà, La Corte, la politica, l’organizzazione sociale, in P. Barile - E. Cheli - S. Grassi (a cura di), Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 497.
59. N. Zanon, Su alcuni problemi, op. cit., pp. 317-318.