Le controspinte centrifughe nel sindacato di costituzionalità
L’Autore si sofferma sugli spunti, traibili dalla più recente giurisprudenza della Corte, che valorizzano il ruolo del giudice comune nel processo di attuazione della Costituzione, così contrapponendosi alle contrarie tendenze accentratrici altrove ravvisabili. La prospettiva si allarga anche al ruolo svolto nei confronti della Corte Edu.
1. Introduzione / 2. Giudizio accentrato di costituzionalità e bilanciamento / 3. I (rari) casi di riserva di bilanciamento al giudice del caso concreto / 4. La dicotomia tra iura e lex / 5. Il problematico inserimento, tra Corte costituzionale e giudici comuni, della Corte Edu / 6. La maggiore duttilità del test sulla ragionevolezza delle presunzioni assolute rispetto alla riserva di bilanciamento in concreto ai giudici comuni / 7. A mo’ di conclusione: la sentenza n. 253 del 2019 sull’art. 4-bis ordinamento penitenziario e la necessità di governare dal centro i bilanciamenti costituzionali
1. Introduzione
Quelle che seguono sono semplici riflessioni sparse, senza alcuna pretesa di completezza, sulla giurisprudenza costituzionale diretta a eliminare quei frammenti normativi che sottraggono al giudice comune la possibilità di adeguare al caso concreto la norma della fattispecie astratta. Si tratta di una giurisprudenza costituzionale oggi tendenzialmente rubricata sotto il capitolo dei cd. “automatismi normativi”, che verrà qui letta attraverso le lenti del concetto di bilanciamento in concreto di beni costituzionali.
Molti anni fa, all’epoca in cui l’ordinamento pre-costituzionale non era stato ancora riformato in ossequio ai programmi e ai principi della nuova Costituzione repubblicana, ovvero all’epoca in cui l’attuazione costituzionale da parte del legislatore era ancora faticosamente in corso, non era raro che la Corte ricorresse a interventi manipolativi sul tessuto legislativo pre-costituzionale per introdurvi dei correttivi capaci di consentire al giudice comune di integrare nel bilanciamento operato dal legislatore quei beni costituzionali che erano stati pretermessi (emblematica la giurisprudenza costituzionale sul diritto di sciopero degli anni sessanta e settanta del secolo scorso[1]).
Oggi, dopo che quei problemi di supplenza del legislatore nell’attuazione della Costituzione repubblicana sono stati in gran parte superati, si presenta – il più delle volte – un diverso scenario.
La possibilità per il giudice di adeguare il bilanciamento astratto operato dal legislatore alle variegate fattispecie concrete cui esso è applicabile risulta il più delle volte già presente nell’ordinamento legislativo. Essa può subire, però, delle restrizioni da parte dello stesso legislatore, delle vere e proprie sottrazioni di discrezionalità giudiziale, cui la Corte costituzionale, chiamata ad arbitrare la contesa circa tale limitazione, reagisce restituendo al giudice poteri discrezionali. Tali poteri del giudice comune sono, il più delle volte, già incanalati dallo stesso ordinamento, ma possono esserlo anche per effetto della stessa Corte, attraverso decisioni che operano vere e proprie “deleghe di bilanciamento in concreto”. Si tratta di quelle decisioni in cui la Corte, senza giungere a sostituire un proprio bilanciamento dei beni costituzionali in gioco a quello del legislatore, «si limita, piuttosto, a demolire la rigida assegnazione di valore agli interessi concorrenti che il legislatore ha tracciato, per sostituirla con meccanismi flessibili, tali da consentire un bilanciamento da compiersi di volta in volta, caso per caso, secondo le valutazioni discrezionali» del giudice[2].
2. Giudizio accentrato di costituzionalità e bilanciamento
L’ordinamento costituzionale italiano è caratterizzato, per ciò che riguarda il sindacato di legittimità delle leggi e la tutela dei diritti fondamentali ad esso connessa, dalla natura accentrata della relativa funzione, cui si aggiunge l’assenza del ricorso diretto al giudice costituzionale per far valere una violazione di un diritto costituzionalmente garantito causata da un atto contro il quale si siano inutilmente esperiti tutti i comuni rimedi giurisdizionali interni (amparo spagnolo o Verfassungsbeschwerde in Germania e Austria).
Questo accentramento non ha mai comportato, se non forse in un iniziale periodo di “congelamento” delle norme costituzionali sui diritti, degradate a mere norme programmatiche, l’esclusione dei giudici comuni dalla valutazione dell’incostituzionalità della legge, al fine di tutelare i diritti o gli interessi legittimi fatti concretamente valere in giudizio. I giudici comuni, come noto, sono gli indispensabili introduttori del giudizio di costituzionalità in via incidentale; essi sono poi, da tempo, chiamati all’interpretazione costituzionalmente conforme della legge[3]. I giudici comuni, in qualche caso, giungono persino a decidere interinalmente la disapplicazione della legge sospettata di incostituzionalità, anticipando il possibile esito annullatorio del giudizio di costituzionalità, proprio al fine di garantire l’effettività dei diritti e degli interessi costituzionali fatti valere nel processo comune[4].
I giudici comuni, inoltre, esercitano, non da ora, funzioni in parte assimilabili a quelle ormai tipiche del sindacato di costituzionalità, ossia bilanciamenti di diritti, interessi e “beni” costituzionali coinvolti nel caso concreto. Rispetto a tali bilanciamenti, la legge si limita, non di rado, a compiere una prima, generica, selezione dei beni costituzionalmente rilevanti, senza però stabilire, una volta per tutte, una netta gerarchia tra questi ultimi, ossia senza preventivamente “pesarli”, bensì fornendo all’interprete e, in ultimo, al giudice un corredo di criteri per la loro pesatura e gerarchizzazione nel caso concreto.
Laddove, invece, il legislatore abbia compiuto, una volta per tutte, l’opera di bilanciamento, potrà darsi il caso che tale bilanciamento pretermetta completamente uno o più beni costituzionalmente rilevanti, o che stabilisca delle gerarchie contrastanti con il dettato costituzionale. Spetterà, allora, alla Corte correggere quei bilanciamenti operanti a livello generale e astratto, magari fino a giungere, in casi estremi, a invertire la gerarchia stabilita dal legislatore. Al giudice comune, cui già era spettato il compito di rivolgersi alla Corte, spetterà poi quello di applicare il bilanciamento di beni costituzionali, come originariamente operato dal legislatore e successivamente “corretto” o “integrato” dalla Corte.
Esistono, tuttavia, casi rari in cui il bilanciamento è già stato operato, una volte per tutte, dalla Costituzione stessa, la quale ha fissato in vere e proprie regole la gerarchia dei beni costituzionali in gioco, come quando essa – all’art. 13 – sancisce che, a tutela dell’inviolabilità della libertà personale, il soggetto tratto in custodia cautelare deve essere rilasciato se entro 48 ore dalla comunicazione del provvedimento restrittivo al giudice, quest’ultimo non lo convalida[5].
Rispetto a tali fattispecie costituzionali delineanti un bilanciamento in sé compiuto, assai più frequenti sono i casi in cui il bilanciamento è solo abbozzato dalla Costituzione. Posto che per tutti i diritti e le libertà costituzionali è contemplata la riserva di legge assoluta, in qualche caso rinforzata, ne deriva che il legislatore democratico sarà necessariamente chiamato a svolgere in prima battuta il bilanciamento dei beni costituzionalmente rilevanti nella fattispecie astratta volta a volta rilevante. Il che, si badi, non implica postulare una riserva di attuazione dei diritti costituzionali in capo al potere politico, col rischio di tornare alla casella di partenza e affermare di nuovo la natura meramente programmatica di molte norme costituzionali sui diritti[6]. Quello che rileva è che la decisione giudiziaria (ma prima ancora, amministrativa) possa fondarsi su un testo di legge, non su una fonte secondaria o, addirittura, una mera prassi. Questo testo di legge potrà, se del caso, essere interpretato in modo costituzionalmente conforme, fino a superare la stessa intenzione legislativa; ovvero potrà essere “manipolato” da un intervento parzialmente demolitorio della stessa Corte. Ma certo esso non potrà mancare, ossia dovrà frapporsi tra il testo costituzionale e l’interprete, in particolare il giudice. La riserva di legge, infatti, è un istituto di garanzia che non vale solo a tutelare l’individuo dai rischi di arbitrio del potere esecutivo, bensì anche da quelli del potere giudiziario[7].
3. I (rari) casi di riserva di bilanciamento al giudice del caso concreto
Si danno, tuttavia, casi in cui frammenti di fattispecie vengono ritenuti riservati alla discrezionalità del giudice, ossia, casi in cui il testo costituzionale viene inteso come una riserva di bilanciamento giudiziario dei beni costituzionali in gioco, escludendo che il legislatore possa sostituirsi al giudice e fissare, una volta per tutte, una gerarchia indefettibile dei beni rilevanti in tutti i casi concreti rientranti nella fattispecie astratta delineata congiuntamente da norma costituzionale e legislativa.
Un esempio aiuterà a chiarire l’abbozzo appena svolto del concetto di “riserva di bilanciamento in concreto” operata dalla Costituzione direttamente in favore del giudice.
Nella sentenza n. 93 del 2010, la Corte costituzionale ebbe a pronunciarsi sul «principio di pubblicità delle udienze giudiziarie», e sulla possibilità, contemplata dal legislatore, di celebrare determinati processi a porte chiuse. Il principio trova, come noto, espresso riconoscimento nell’art. 6, par. 1, Cedu, che veniva invocato assieme con il parametro interposto dell’art. 117, comma 1, Cost. Ma il principio, per la Corte, nonostante il silenzio della Costituzione (e, in particolare, del suo art. 111 sul giusto processo), sarebbe «connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare», in virtù dell’art. 101, comma 1, Cost. Il principio di pubblicità delle udienze, tuttavia, «non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative, purché, tuttavia, obiettive e razionali (sent. n. 212/1986) e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale (sent. n. 12/1971)». Nella sentenza n. 93 del 2010, la Corte, svolta tale premessa, accoglie la questione, ritenendo violato l’art. 117, comma 1, Cost., in riferimento all’art. 6, par. 1, Cedu, e assorbito l’ulteriore parametro dell’art. 111, comma 1, Cost., con la conseguenza di attribuire al giudice del caso il potere di derogare, in presenza di motivate esigenze, al divieto di pubblicità delle udienze fissato dal legislatore.
Si è trattato, per la Corte, di operare una svolta rispetto ai propri precedenti, una sorta di rottura con il passato dettata proprio dalla serie di condanne inflitte dalla Corte Edu all’Italia. Nel passato, infatti, la nostra Corte aveva ritenuto che i bilanciamenti tra il principio di pubblicità delle udienze e gli altri beni confliggenti (pure evocati dallo stesso art. 6, par.1, Cedu, come tutela dei minori, della riservatezza, della morale, etc.), potevano essere compiuti una volta per tutte dal legislatore, anziché caso per caso dal giudice, senza con ciò infrangere la lettera della Cedu. Per la Corte Edu, invece, quella norma convenzionale contiene una regola sulla competenza che impone al legislatore di riservare al giudice, una volta specificati i contro-interessi rilevanti, il bilanciamento in concreto tra questi ultimi e il principio della pubblicità. Ciò perché esisterebbe un diritto (convenzionale) della parte privata di un processo a chiedere al giudice di operare tale valutazione in concreto. In tal modo, la Corte Edu, prima, e la Corte costituzionale, poi, hanno riconosciuto che l’art. 6, par. 1, Cedu sancisce una vera e propria “riserva di bilanciamento in concreto” in capo al giudice, limitando, così, i poteri del legislatore, almeno per ciò che riguarda il diritto della parte del processo a ottenere una specifica motivazione del giudice sul punto della (mancata) pubblicità[8].
Altro caso emblematico di riserva di bilanciamento in concreto che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto fondare sul testo della Costituzione (stavolta direttamente e non, come nel caso precedente, indirettamente, per mezzo della connessione tra art. 117, comma 1, Cost. e art. 6, par. 1, Cedu) è costituito dalla nota “dottrina” giurisprudenziale sulla diretta azionabilità dell’art. 36 Cost., ossia del diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente per il lavoratore (e la sua famiglia)[9]. Nell’impossibilità (politica, prima ancora che giuridica) di attuare l’art. 39, ultimo comma, Cost., sulla contrattazione collettiva con valenza erga omnes, la diretta applicabilità giudiziaria di tale norma costituzionale è servita alla Corte a permettere di estendere i minimi salariali ai soggetti non coperti dai contratti di categoria che quei minimi contengono. È difficile inquadrare tale esempio nello schema delle autentiche deleghe di bilanciamento in concreto al giudice comune, posto che qui, più che nei giudici comuni, si è riposta fiducia nella contrattazione sindacale assieme a un certo grado di sfiducia per il modello prefigurato dal Costituente in materia di organizzazione pubblicistica dei sindacati (art. 39, ult. comma, Cost.)[10]. In parole povere, il concetto di “riserva di bilanciamento” al giudice del caso è stato qui utilizzato per l’enforcement di quanto già stabilito (ossia, dei bilanciamenti già operati) dalla contrattazione collettiva, valorizzando il potere “para-normativo” dei protagonisti di quell’ordinamento giuridico “originario” costituito dalle relazioni industriali[11].
Il diritto del lavoro continua a offrire esempi paradigmatici di tensioni tra esigenze di politica del diritto volte a escludere o neutralizzare il potere del giudice nel bilanciare i concreti interessi in gioco ed esigenze di tutela dei diritti costituzionali (dei lavoratori) coinvolti. Il che non è casuale, posta la innata tendenza dei datori di lavoro a ritenere riservata all’autonomia imprenditoriale la gestione dei rapporti di lavoro, secondo una discrezionalità restia a farsi sostituire dalle valutazioni dei giudici del lavoro. Ma, dal momento in cui i diritti dei lavoratori furono inseriti in Costituzione, questa visione ha dovuto, con alterne vicende, cedere il passo alla giustiziabilità dei diritti dei lavoratori, giustiziabilità che, ovviamente, comporta dei “costi” per le imprese stesse. L’ambito dei costi di licenziamento (“firing costs”) è quello più dibattuto, specie in Italia. Nel 2000 la Corte ebbe modo di ritenere che la tutela reale contro i licenziamenti illegittimi non fosse stata costituzionalizzata[12], ossia, se si vuole, che non fosse ancorabile in Costituzione una riserva a favore del giudice del potere di valutare in concreto l’adeguatezza e la proporzionalità dei rimedi riparatori contro i licenziamenti illegittimi. Nonostante questo precedente, la stessa Corte ha recentemente reagito al tentativo del legislatore di neutralizzare gran parte della discrezionalità giudiziale in materia di rimedi contro i licenziamenti illegittimi, con ciò rinnovando la sua fiducia nelle capacità di bilanciamento dei giudici del lavoro. Si tratta della nota sentenza (n. 194/2018) sulla norma del cd. “Jobs Act” (art. 3, comma 1, d.lgs n. 23/2015) che irrigidiva l’ammontare dell’indennità risarcitoria in caso di licenziamenti illegittimi (in assenza di giustificato motivo oggettivo o soggettivo o senza giusta causa), ancorandola alla sola anzianità di servizio (due mensilità per ogni anno di servizio). Preso atto della natura risarcitoria del rimedio indennitario in questione, stante la natura illecita del licenziamento, la Corte ne ha ritenuto l’illegittimità costituzionale in riferimento a plurimi parametri (tra cui anche quello interposto dell’art. 117, comma 1, Cost., in riferimento alla Carta sociale europea). Premessa di tale esito annullatorio è stata quella secondo cui, a fronte della gravità “esistenziale” del licenziamento per il lavoratore, «[n]on possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia»; «[a]ll’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza». La Corte prosegue sottolineando la funzione deterrente che una simile discrezionalità svolge nei confronti del datore di lavoro («adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente»), concludendo che, anche laddove forfettizzato, il risarcimento debba «realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto», ritenendo non equilibrato quello realizzato dalla norma censurata. La sentenza si conclude con ciò che rappresenta la vera e propria tecnica della delega di bilanciamento in concreto, stabilendo che, «[n]el rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio (…) nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)». Come si vede, la Corte si sforza di ancorare i criteri della delega di bilanciamento al giudice comune a preesistenti norme legislative, onde mitigare il tasso di manipolatività della pronuncia.
La pronuncia, seguita dalla sentenza n. 150 del 2020 sullo stesso plesso normativo[13], può essere letta come tesa a fissare il nucleo minimo ma irrinunciabile di una riserva di apprezzamento in concreto al giudice del lavoro rispetto al pregiudizio subito per un licenziamento illegittimo, quale ineliminabile strumento a tutela dei diritti costituzionali del lavoratore, riserva senza la quale la deterrenza rispetto a quel tipo di illecito commesso da parte datoriale sarebbe vanificata.
4. La dicotomia tra iura e lex
Già dagli esempi paradigmatici fin qui svolti su quelle particolari fattispecie di “delega di bilanciamento” costituzionalmente garantite in materia di diritto a un’udienza pubblica, di equa retribuzione e di indennità risarcitoria contro licenziamenti illegittimi, emerge l’impressione che la delega di bilanciamento in concreto rappresenti un dispositivo di maggior tutela dei diritti individuali coinvolti. Questa rappresenta la prospettiva mainstream che, almeno a partire da Il diritto mite di Gustavo Zagrebelsky[14], ha valorizzato i diritti innati (iura) rispetto alle volizioni politiche (lex). Non bisogna, tuttavia, perdere di vista il fatto che anche le previsioni legislative, nella loro generalità e astrattezza, mirano a tutelare beni concorrenti che, assai spesso, assumono anch’essi la dimensione di diritti inviolabili (così, ad esempio, il diritto del minore a evitare lo “strepito” del processo pubblico, nel già citato caso della deroga legislativa alla pubblicità delle udienze; sebbene non inserito tra i diritti inviolabili, il diritto dell’imprenditore alla certezza giuridica e, di conseguenza, alla migliore programmazione e organizzazione dell’impresa, è ciò che aveva di mira la norma del Jobs Act sull’indennità per licenziamento illegittimo, il che costituisce un “bene” costituzionale ancor oggi presidiato dall’esistenza di un minimo e un massimo di legge entro cui il giudice può determinare l’ammontare dell’indennità).
Il noto problema della differenza d’età tra adottano e adottante, affrontato e risolto prima dalle sentenze nn. 183 del 1988 e 44 del 1990, e poi dalla sentenza n. 148 del 1992, è esemplificativo proprio di tale dilemma: la «tutela dei fondamentali interessi del minore» risiede anche nel diritto a essere adottato da genitori né troppo giovani né troppo anziani; tuttavia, possono esistere circostanze tali da rendere la regola della differenza di età controproducente per lo stesso interesse del minore, come accade nei casi in cui la sua rigida applicazione conduca a dividere l’adottando dalla sorella o dal fratello con cui era cresciuto fino a quel momento (sent. n. 148/1992)[15].
Simile a tali esempi è il caso della sentenza n. 31 del 2012 sul reato di alterazione di stato, ove la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’automatismo che imponeva al giudice di applicare la sanzione accessoria della decadenza dalla responsabilità genitoriale per il genitore che avesse commesso il delitto in questione[16]. Come autorevolmente sottolineato, si tratta di casi in cui la Corte è, in qualche modo, indotta a operare la flessibilizzazione della norma legislativa dalla peculiarità del caso concreto, il quale smentisce la bontà della generalizzazione operata dal legislatore. La Corte, pertanto, sembra comportarsi contemporaneamente da giudice del caso e giudice della norma generale e astratta, fornendo per il futuro al giudice comune lo strumentario in grado di “ripetere”, per casi analogamente “eccezionali” a quello da cui scaturì la pronuncia di accoglimento, quell’opera di flessibilizzazione. Non si tratta, per la Corte, di rimettere radicalmente in discussione il bilanciamento operato dal legislatore (il disvalore dell’azione dell’alterazione di stato, nell’esempio precedente, resta); più semplicemente, si tratta di farsi carico di quei casi appunto “eccezionali” in cui il peso di contro-interessi (a volte costituiti da veri e propri diritti inviolabili) è tale da imporre una mitigazione della reazione sanzionatoria.
Accostabile al caso precedente è quello della recente sentenza n. 102 del 2020, in cui si è dichiarato illegittimo l’automatismo della sospensione della responsabilità genitoriale, quale sanzione accessoria del reato di sottrazione e trattenimento di minore all’estero commessa dal genitore abusando della propria responsabilità genitoriale. Chiara è la funzione deterrente di una simile sanzione rispetto al comportamento del genitore non italiano che, a seguito della crisi coniugale, ritorna al proprio Paese d’origine portando con sé il figlio o i figli minori all’insaputa dell’altro genitore, se non addirittura in violazione dei provvedimenti giudiziari sull’affidamento dei figli. Una funzione deterrente tanto più necessaria quanto più l’esperienza dimostra la difficoltà di ottenere l’indispensabile cooperazione giudiziaria con le autorità del Paese in cui il genitore ha portato i figli minori, privandoli del contatto con l’altro genitore (ossia del diritto costituzionale garantito dall’art. 30 Cost.). La sentenza n. 102/2020, pur riconoscendo l’esigenza di tutela costituzionale degli interessi sia del minore sia dell’altro genitore, ha però flessibilizzato il regime della sanzione, proprio perché quest’ultima, nel suo automatismo, era capace di menomare il “superiore interesse del minore” coinvolto, separandolo dal coniuge responsabile dell’abuso. Eliminando l’automatismo, la Corte non ha però eliminato la sanzione della sospensione della responsabilità genitoriale, rimettendone la sua applicazione alla prudente valutazione del giudice, chiamato a verificare che la prosecuzione del rapporto col genitore responsabile dell’abuso sia effettivamente pregiudizievole per il minore, e ciò anche alla luce dell’evoluzione delle circostanze successive al fatto di reato. È evidente che questa soluzione non sia a costo zero, specie per ciò che riguarda l’interesse costituzionalmente tutelato dell’altro genitore: l’abbattimento dell’automatismo, infatti, diminuisce inevitabilmente anche l’effetto deterrente della sanzione. Ma i costi di tale deterrenza – così ha ritenuto la Corte – venivano ingiustamente caricati sulle spalle del figlio o dei figli minori, ossia dei soggetti più deboli e “incolpevoli” coinvolti in simili vicende.
Recentemente è stato osservato che la giurisprudenza costituzionale sugli automatismi legislativi rappresenta la «attuazione del principio di supremazia costituzionale», attuazione che, al suo punto superiore, pretende «che gli strumenti legislativi risultino adeguati ad offrire il maggior grado possibile di attuazione ai principi costituzionali coinvolti nella vicenda applicativa e compressi dalla rigidità della formulazione legislativa». Il che corrisponde all’esigenza che venga assicurato «un sempre maggior grado di effettività ai diritti e ai principi costituzionalmente sanciti»[17].
Se, però, si tiene conto del fatto che – come si è cercato e si cercherà di illustrare – anche dietro a un cd. “automatismo legislativo” può esservi l’esigenza di miglior tutela di uno o più beni costituzionali, ben si comprende come gli interventi del giudice costituzionale non siano semplicemente diretti a “liberare” dalla “compressione” tutti i principi costituzionali coinvolti nella fattispecie. La flessibilizzazione della norma astratta da parte della Corte, restituendo discrezionalità al giudice comune, comporta quasi sempre dei costi, in termini di minor presidio dei beni costituzionali privilegiati dal legislatore. E sempre alta è, per tale ragione, la responsabilità che deve assumersi la Corte nello smentire simili scelte del potere legislativo.
Oltre a quanto appena osservato, andrebbe rilevato un altro fenomeno. Quando all’automatismo legislativo non corrisponde la compressione di un diritto individuale, appare più impervio restituire al giudice – per mezzo del sindacato di costituzionalità – il potere di valutazione del caso concreto intrinseco alla sua funzione, al punto che la fattispecie non viene neppure ricompresa nel capitolo degli “automatismi legislativi”. Il che, in qualche caso, può determinare una situazione sperequata tra diritti soggettivi ben individuabili (come quelli del contribuente, ad esempio) e tutela del meno “individualizzabile” interesse pubblico al dovere di contribuzione in ragione delle proprie (effettive) capacità (art. 53 Cost.). Emblematico il caso della sentenza n. 158 del 2020, in cui la Cassazione lamentava la compressione – per opera del legislatore[18] – del potere del giudice di (ri)qualificare una serie di atti singolarmente soggetti all’imposta di registro, i quali evidenziassero un chiaro collegamento negoziale tale da meritare una loro considerazione unitaria ai fini della tassazione. Il che, per la Cassazione rimettente, rispondeva all’esigenza di evidenziare la «causa reale» degli atti soggetti a imposizione, la quale, «per sua natura, non può essere lasciata alla discrezionalità delle parti contribuenti né a quello che le parti abbiano dichiarato». Solo in tal modo, infatti, sarebbe possibile evitare, ad esempio, che la cessione di un’azienda possa venir sottratta alla dovuta imposizione per effetto di un’artificiale scomposizione di un’operazione dallo scopo economico unitario in una serie di atti giuridici (come la cessione di quote di partecipazione) soggetti a un’imposta di registro assai più bassa[19]. La Corte, nel rigettare le questioni (poste in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost.), ha escluso che la limitazione del potere di qualificazione del giudice possa «favorire l’ottenimento di indebiti vantaggi fiscali», evidenziando la possibilità – offerta dall’ordinamento – di contrastare eventuali fenomeni elusivi attraverso gli appositi istituti introdotti dal legislatore contro l’abuso del diritto e ritenendo riservata alla discrezionalità legislativa la scelta di un eventuale aggiornamento della disciplina dell’imposta di registro. È da chiedersi, tuttavia, se il concetto di “automatismo legislativo” e l’aura di sospetto che ormai lo circonda, in quanto diretto a limitare poteri del giudice immediatamente strumentali alla garanzia di diritti individuali (specie nel diritto penale e penitenziario), non possa essere utilmente riconfigurato al fine di illuminare di nuova e diversa luce casi come questo, in cui il potere interpretativo del giudice è volto a far prevalere, con le prerogative del fisco, il fondamentale bene costituzionale del dovere contributivo.
5. Il problematico inserimento, tra Corte costituzionale e giudici comuni, della Corte Edu
Potrebbe vedersi, nella flessibilizzazione delle regole stabilite dal legislatore in esito – si presume – agli opportuni bilanciamenti tra beni costituzionali confliggenti, uno strumento capace di risolvere tutti i difetti del diritto legislativo, proprio ricorrendo al dispositivo della “delega di bilanciamento in concreto”. Occorrono, tuttavia, delle precauzioni. Si tratta di precauzioni poste, innanzitutto, contro l’ovvio rischio di perdita di certezza del diritto e di disparità di trattamento legato all’ineliminabile soggettività dell’applicazione giudiziaria delle regole e, ancor più, dei principi, anche quando questi ultimi trovino ulteriore definizione in criteri legislativi[20].
A caratterizzare il nostro sistema di giustizia costituzionale è, come accennato, la natura accentrata del sindacato incidentale di costituzionalità, assieme alla mancanza di un ricorso diretto alla Corte costituzionale per violazione di un diritto costituzionale (amparo o Verfassungsbeschwerde). La funzione tipicamente svolta dalla Corte nel giudizio di costituzionalità incidentale delle norme di legge è quella di valutare, con un giudizio astratto, la conformità della norma a superiori criteri di legittimità. Ne segue che assai difficilmente la nostra Corte potrà svolgere dei test giudiziali al pari di quanto effettuato, in un sistema di common law, dalla Corte suprema Usa, come nel noto caso del “clear and present danger test” utilizzato da quest’ultima come tecnica di garanzia della libertà di manifestazione del pensiero. Si tratta, infatti, di un test «nato come una factual question, non valutabile se non in riferimento al singolo episodio (…); che si esaurisce, quindi, nella qualificazione di fatti già accaduti, esattamente all’opposto della norma giuridica su cui la Corte italiana è chiamata a sindacare»[21].
Parzialmente avvicinabile al ruolo svolto da un giudice di common law nel fornire test giudiziali originati da casi concreti è l’attività compiuta dalle Corti costituzionali in sede di amparo o Verfassungsbeschwerde[22]. Strumenti, tuttavia, di cui è priva la nostra Corte costituzionale e la cui introduzione non è priva di controindicazioni importanti, come mostrato dall’elevata conflittualità registratasi nell’ordinamento spagnolo tra Tribunal Constitucional e Cassazione spagnola[23].
Rispetto a quei casi in cui la Corte opera una flessibilizzazione della regola legislativa, consentendo al giudice del caso concreto di trovare soluzioni più adeguate alle peculiarità di quest’ultimo, potrebbe ritenersi che venga operata un’attenuazione del sindacato accentrato[24].
A fronte di tale attenuazione si ha, indubbiamente, un’apertura di credito al giudice comune, cui è connesso, però, anche un rischio.
Il rischio che viene a crearsi per effetto di deleghe di bilanciamento in concreto al giudice comune è l’impossibilità per la stessa Corte costituzionale italiana di governare il processo di flessibilizzazione da essa stessa innescato, non avendo il potere di sconfessare i giudici comuni nel concreto esercizio della loro discrezionalità, né quello di fornire loro precedenti vincolanti, al fine di mitigare i costi che si producono sulla certezza del diritto per effetto di tali deleghe di bilanciamento. Un problema ben evidente e dibattuto negli anni delle sentenze di accoglimento “di principio” della Corte costituzionale, in cui quest’ultima, astenendosi dall’assegnare direttamente al giudice, tramite una decisione manipolativa, la regola del caso in supplenza del legislatore, si limitava a fornire un principio “non autoapplicativo”, bisognoso della necessaria attuazione legislativa, senza però escludere l’intervento dei giudici comuni[25]. Soluzione la cui problematicità ha condotto al progressivo rarefarsi di tale tecnica[26], con sperimentazione della diversa opzione processuale del rinvio dell’udienza, previa ordinanza-mandato al legislatore, affinché corregga la prefigurata violazione costituzionale[27].
Al di là di queste due peculiari tecniche di giudizio, l’impossibilità per la Corte di governare il processo di flessibilizzazione della norma, ossia di verificare che i giudici comuni rispettino i “criteri” della sua delega di bilanciamento in concreto, può risultare cruciale nei casi più delicati. Emblematico quello dell’abbattimento della presunzione assoluta di pericolosità stabilita per i detenuti per reati di mafia dall’art. 4-bis, comma 1, ordinamento penitenziario (l. n. 354/1975), operato dalla sent. n. 253 del 2019, su cui si tornerà alla fine. Anche chi apprezza tale importante sentenza della Corte, non nega il rischio «che da una sua applicazione facilona derivino contraccolpi nocivi alla tutela della sicurezza pubblica»[28].
Chi scrive ha creduto in passato che simili problemi di contemperamento tra certezza del diritto e tutela giudiziaria dei diritti fondamentali potessero essere risolti, in Italia, per opera delle sinergie tra giudici comuni, Corte costituzionale e Corte Edu[29]. Resta, tuttavia, un tema assai delicato, posta la difficoltà per la stessa Corte Edu di porsi come un giudice autenticamente federale di un sistema di common law, radicato su una solida cultura del precedente. Non è detto, in altre parole, che la giurisprudenza Cedu sia effettivamente in grado di guidare le operazioni di “bilanciamento in concreto” dei giudici comuni nazionali, onde preservare la necessaria certezza del diritto negli ordinamenti d’appartenenza. Oltre a ciò, va rilevato che i test giudiziali offerti dalla Corte Edu sono formulati da un insieme eterogeno di giudici europei, che rispecchiano culture giuridiche a volte anche profondamente diverse, la cui naturale tendenza, anche per tale ragione, è quella a deformalizzare gli istituti giuridici nazionali, spesso al fine di ottenere una giustizia nel caso concreto, senza però essere in grado di fornire l’equivalente funzionale dell’istituto “demolito”, perché ritenuto contrario alla Convenzione. Paradigmatiche le vicende sulla confisca urbanistica[30].
La Corte Edu presenta, sotto questo aspetto, maggiore libertà della nostra Corte costituzionale, non essendo onerata della responsabilità di valutare come reagirà l’ordinamento nazionale al venir meno di una determinata regola o istituto rivelatosi contrario a uno o più diritti fondamentali dell’individuo. Non trattandosi di sentenze con effetti annullatori, le condanne emesse da Strasburgo hanno la possibilità di poter fare astrazione di quei dilemmi che, invece, si pongono quotidianamente alla Corte costituzionale italiana, primo tra tutti quello dell’eventuale vuoto di tutela del controinteresse fino a quel momento presidiato dalla norma incostituzionale. Una saldatura tra le “deleghe di bilanciamento” che sembrano potersi derivare dalla giurisprudenza Cedu e poteri dei giudici comuni deve tener conto di questi formidabili dilemmi.
6. La maggiore duttilità del test sulla ragionevolezza delle presunzioni assolute rispetto alla riserva di bilanciamento in concreto ai giudici comuni
Vorrei concludere queste riflessioni sparse, che non hanno alcuna pretesa di completezza o sistematicità, orientando l’attenzione sulla celeberrima saga della giurisprudenza costituzionale sull’art. 275 cpp. Si tratta del noto tema dell’obbligo di disporre, in caso di gravi indizi di colpevolezza del reato di associazione di stampo mafioso, la custodia cautelare in carcere, salvo prova dell’insussistenza delle esigenze cautelari (presunzione relativa), assieme all’obbligo di disporre, nei casi in cui tali esigenze sussistano, la sola custodia cautelare (presunzione assoluta). Tale apparato normativo, originariamente contemplato per i soli reati associativi di stampo mafioso, fu poi esteso a una serie di reati ulteriori, con provvedimenti legislativi d’urgenza che la Corte è stata a più riprese chiamata a sindacare. Nella plurima serie di decisioni adottate dalla Corte[31], l’esito è stato quello di restituire al giudice penale la discrezionalità circa la scelta della misura cautelare più idonea al caso concreto, al fine di bilanciare le esigenze di sicurezza sociale (il pericolo della commissione di ulteriori reati da parte dell’imputato) con la libertà personale di quest’ultimo.
La decisione capostipite (ord. n. 450/1995, che dichiarò la manifesta infondatezza delle questioni riferibili alla norma relativa all’associazione di tipo mafioso) impostò le questioni di costituzionalità nei termini del riparto di competenza tra legislatore e giudici, affermando che «compete al legislatore l’individuazione del punto di equilibrio tra le diverse esigenze, della minore restrizione possibile della libertà personale e dell’effettiva garanzia degli interessi di rilievo costituzionale tutelati attraverso la previsione degli strumenti cautelari nel processo penale», ossia, e specularmente, che non può ritenersi «soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice la determinazione dell’accennato punto di equilibrio e contemperamento tra il sacrificio della libertà personale e gli antagonisti interessi collettivi, anch’essi di rilievo costituzionale». Come si vede, qui la Corte aveva impostato la questione nei termini schematici visti all’inizio, di un arbitraggio circa la riserva di bilanciamento, se al legislatore (bilanciamento astratto), o al giudice (bilanciamento in concreto), concludendo che non era possibile fondare sulla Costituzione una gerarchia tra beni costituzionali che imponesse la riserva di bilanciamento in concreto a favore del giudice.
Quando, tuttavia, la Corte ha accolto le questioni poste sui vari reati diversi dall’associazione di tipo mafioso, essa non ha attinto alla logica della riserva di bilanciamento in concreto costituzionalmente riconosciuta al giudice penale, bensì alla più duttile logica della congruità delle presunzioni assolute formulate dal legislatore. Queste ultime, per la Corte, specie quando limitano un diritto inviolabile, violano il principio d’eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali, e cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit; cosa che si verifica quando sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione legislativa stessa[32]. Al giudice penale veniva, pertanto, restituita la potestà di verificare, in relazione al caso concreto, la sussistenza di elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con misure meno restrittive.
Chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla presunzione assoluta di adeguatezza, per il caso di associazione di tipo mafioso, della sola custodia cautelare, la Corte ribadiva la ragionevolezza della presunzione, senza però riferirsi alla “logica competenziale” (come avvenuto nella citata ord. n. 450/1995), bensì richiamandosi al dato di esperienza, nel frattempo evidentemente divenuto quasi unanimemente condiviso, per cui il vincolo associativo mafioso è tale da far «ritenere la custodia in carcere l’unica misura in grado di “troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità” (sentenza 265 del 2010)»[33].
La gerarchia dei beni del bilanciamento originario effettuato dal legislatore tende a privilegiare, in presenza di particolari reati, la sicurezza sociale sempre e comunque sul diritto dell’imputato, fra l’altro assistito dalla presunzione d’innocenza, a subire la misura cautelare meno restrittiva, se compatibile con le esigenze cautelari accertate dal giudice. Uno schema logico che si presta facilmente a essere letto come una sfiducia del legislatore nei confronti del giudice penale. Nel caso dell’associazione di tipo mafioso, invero, si è trattato anche e soprattutto della legittimazione politico-legislativa di determinate prassi giudiziarie che si sono rivelate particolarmente efficaci nella lotta alla mafia.
7. A mo’ di conclusione: la sentenza n. 253 del 2019 sull’art. 4-bis ordinamento penitenziario e la necessità di governare dal centro i bilanciamenti costituzionali
Il ricorso al dato “di comune esperienza” per smentire le presunzioni assolute fissate dal legislatore merita una riflessione conclusiva sul ruolo arbitrale cui è chiamata la Corte rispetto ai poteri di bilanciamento di legislatore e giudici comuni.
La valutazione dell’id quod plerumque accidit ai fini della legittima imposizione di presunzioni assolute sembra, di primo acchito, spettare più al legislatore che non ai giudici del caso, potendo il primo contare del supporto delle strutture burocratiche dei ministeri competenti al fine di soppesare le “leggi dei grandi numeri” e giungere alla conclusione di quali effettivamente siano le percentuali dei casi su cui basare le presunzioni legali. Vero è che, in epoca di cd. “populismo penale” e di retorica securitaria fatta propria da molte forze politiche (non solo nel nostro Paese), non sembra prudente affidarsi alla sola “vista dall’alto” o “dal centro” dei fenomeni criminali, dovendosi questa vista sempre confrontarsi dialetticamente con la “vista dal basso” dei giudici comuni e dei casi concreti. Ma occorre, appunto, ricordare sempre che, in termini logici prima ancora che costituzionali, il legislatore centrale può disporre di strumenti di monitoraggio dei fenomeni sociali in generale, criminali in particolare, di cui i singoli giudici non dispongono. Di qui l’importanza del vaglio critico dei dibattiti parlamentari e/o dei lavori preparatori del governo-legislatore in sede di giudizio di costituzionalità delle leggi (cd. “motivazione della legge”).
Emblematica la materia delle preclusioni legislative al godimento dei benefici penitenziari, oggetto di molte, importanti pronunce della Corte costituzionale tese a restituire al giudice poteri di valutazione del caso concreto. Sebbene il dovere di individualizzazione dell’esecuzione della pena sia direttamente imposto dall’art. 27, comma 3, Cost., occorre riflettere sul fatto che il legislatore potrebbe introdurre dei criteri di concessione dei benefici penitenziari miranti a vincolare la discrezionalità dei giudici di sorveglianza, anziché sulla base del solo “allarme sociale” rispetto a reati discrezionalmente selezionati dal legislatore, anche sulla scorta di un campione statistico rilevante di casi da cui emerge che, ad esempio, si danno molti episodi di recidiva (addirittura durante il godimento delle misure alternative al carcere) da parte degli autori di determinati reati. Casi per prevenire i quali occorrerebbe restringere quel potere di individualizzazione della pena da parte dei giudici di sorveglianza, impedendo a questi ultimi di concedere benefici penitenziari extramurari se non in presenza di indici univocamente stabiliti dal legislatore – come il notissimo (e problematico) requisito della collaborazione dell’art. 4-bis ord. penit. Sarebbe davvero una violazione dei diritti inviolabili del detenuto restringere il potere del giudice di valutare il grado di rieducazione del detenuto al fine di consentirgli misure alternative al carcere, o anche semplici permessi premio? Non si corre il rischio, così facendo – sempre ove fosse accertato statisticamente il rilevante numero di recidive in corso di godimento delle misure alternative al carcere –, di giungere a un disequilibrio tra i contrapposti beni costituzionali in gioco?
La commentatissima sentenza n. 253 del 2019[34] reca i segni di un simile dilemma. Pur riconoscendo l’illegittimità della natura “assoluta” della presunzione legale di perdurante pericolosità dei detenuti per reati di mafia, stante la pervicacia del vincolo associativo mafioso, la Corte ha avuto cura di non smentire la ragionevolezza di una simile presunzione. La motivazione della sentenza, infatti, non riporta lo stilema visto sopra della “agevole” possibilità di formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione legislativa. La sentenza riconosce, anzi, l’attualità delle ragioni che condussero il legislatore, nel 1991-1992, a operare quella generalizzazione (punto 8.3). La Corte ha ritenuto, tuttavia, che, diversamente dalla fase cautelare, nella fase dell’esecuzione della pena assuma un «ruolo centrale» il trascorrere del tempo, sia per le possibili trasformazioni della personalità del detenuto, sia per le possibili trasformazioni del contesto esterno (in particolare, quando sia venuta meno l’organizzazione criminale d’appartenenza[35]). Ma la Corte, stante la gravità del fenomeno criminale in oggetto, non giunge a una semplice trasformazione della presunzione da assoluta in relativa, premurandosi invece di formulare essa stessa criteri stringenti capaci di guidare, limitandola, la discrezionalità dei giudici di sorveglianza nella concessione dei permessi premio a questa particolare categoria di detenuti. Parte di questi criteri sono rinvenuti nel tessuto normativo inciso dalla pronuncia: per la concessione del beneficio, come stabilito nei casi del comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit., dovrà acquisirsi la prova positiva dell’assenza di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Extratestuale è, invece, l’ulteriore requisito dell’acquisizione della prova circa l’insussistenza del «pericolo del ripristino di tali collegamenti» (punto 9), un requisito che la Corte non ha timore di ribadire espressamente nel dispositivo della sentenza[36].
Si tratta della creazione di un vero e proprio principio direttivo vincolante l’esercizio della delega di bilanciamento da parte dei giudici comuni che la Corte si sente chiamata a introdurre per evitare che gli eventuali bilanciamenti nel caso concreto risultino squilibrati. Un elemento parzialmente creativo che la Corte deriva immediatamente da evidenti esigenze costituzionali di prevenzione della commissione di nuovi reati, a riprova di come la delega di bilanciamento in concreto ai giudici comuni non possa limitarsi a mettere questi ultimi a diretto contatto con la Costituzione, necessitando invece l’esercizio della discrezionalità giudiziaria di essere incanalato entro argini sicuri, governati dal centro. A riprova, inoltre, del fatto che, almeno nei casi più delicati, non basta affidarsi all’astratta formulabilità di ipotesi che smentiscono le generalizzazioni operate dal legislatore.
È rispetto a tali casi di confine che il ricorso al concetto di “delega di bilanciamento in concreto” appare ancora pertinente, nonostante i limiti di tale categorizzazione. Recentemente, infatti, la dottrina ha giudicato improprio il riferimento a una delega di potere dalla Corte ai giudici comuni, posto che la Corte «non deleg(a) alcunché, ma rimuov(e) semplicemente una patologica situazione dall’ordinamento, andando a colpire quelle leggi che (…) non lasciavano spazio alcuno alle zone di possibilità interpretative degli organi dell’applicazione»[37]. Appare, invero, che il concetto di “delega” possa assumere un senso più profondo della semplice restituzione al giudice comune di un potere valutativo discrezionale ad esso ontologicamente connaturato. La Corte, infatti, è comunque chiamata a rispettare il bilanciamento dei “beni” costituzionali operato in prima battuta dal legislatore; la correzione che di tale bilanciamento si renda necessaria in ossequio a principi costituzionali di ragionevolezza o proporzionalità non può essere definitivamente operata dalla stessa Corte rimuovendo determinati frammenti normativi, bensì chiamando il giudice comune a proseguire tale opera di correzione. Per rispettare il senso del bilanciamento scelto dal legislatore, tuttavia, la Corte si sente in dovere di circondare la discrezionalità giudiziale di criteri aggiuntivi, che incanalino tale discrezionalità entro percorsi non antitetici alle scelte di fondo compiute dal legislatore[38].
L’esempio della sentenza n. 253 del 2019 costituisce, indubbiamente, un caso peculiare in cui la gravità della posta in gioco (la scelta degli strumenti di efficace lotta alla mafia) mette in risalto la problematicità del test giudiziale sulla reversibilità delle presunzioni assolute, in relazione a quanto osservato sopra circa la diversità strutturale dei soggetti chiamati al bilanciamento dei beni costituzionali coinvolti in determinate categorie di casi: il legislatore, da un lato, i giudici, dall’altro. Si tratta di fenomeni dietro ai quali si staglia la distinzione di compiti tra un “cervello centrale” e un “sistema nervoso diffuso”, la comprensione dei quali dovrebbe tendere a superare le contrapposizioni conflittuali per volgerle in sinergie, senza che prevalga la pretesa dell’uno di sostituirsi all’altro. In mezzo ai due sta la Corte costituzionale, che, sebbene incaricata di un sindacato “accentrato”, esercita – non da ora – proprio la delicatissima funzione di equilibrare le funzioni del cervello centrale con quelle del sistema nervoso.
1. Ben prima della legge n. 146 del 1990, sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, la Corte si dovette far carico dell’inattuazione del diritto di sciopero di cui all’art. 40 Cost., affidandosi all’opera del giudice (penale), affinché questi bilanciasse il diritto di sciopero con quello degli utenti dei servizi pubblici. Vds. le sentt. nn. 123/1962, 31/1969 e 4/1977, su cui, se si vuole, cfr. A. Guazzarotti, L’autoapplicabilità delle norme. Un percorso costituzionale, Jovene, Napoli, 2011, pp. 185 ss.
2. R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, Milano, 1992, p. 89. Cfr. anche pp. 90 ss. e 120 ss.
3. E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 80 ss.
4. Cfr. Corte cost., sent. n. 444/1990; Cons. Stato, adunanza plenaria, ord. 20 dicembre 1999, n. 2, in Foro it., 2000, III, 9. Cfr. R. Romboli, La Corte costituzionale del futuro (verso una maggiore valorizzazione e realizzazione dei caratteri “diffusi” del controllo di costituzionalità?), in Foro it., 2000, V, pp. 39 ss. Cfr. la recente sent. n. 137/2020, in cui si afferma che, in sede di convalida dell’arresto ex art. 391, comma 5, cpp, il giudice possa sollevare questioni di legittimità costituzionale sulle norme che di quel potere regolano presupposti e condizioni, pur avendo disposto la liberazione dell’arrestato dopo la convalida, senza con ciò rendere irrilevanti le questioni. «A ragionare diversamente, il giudice della convalida si troverebbe sistematicamente nell’impossibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale sulle norme che disciplinano i presupposti delle misure cautelari, con conseguente creazione di una vera e propria “zona franca” dal giudizio di costituzionalità».
5. R. Bin, Diritti e argomenti, op. cit., pp. 11 ss.
6. Per il perdurante rilievo dato dai giudici alla dicotomia tra norme costituzionali programmatiche e precettive, con riguardo ai poteri della p.a., cfr. M. Magri, La legalità costituzionale dell’amministrazione. Ipotesi dottrinali e casistica giurisprudenziale, Giuffrè, Milano 2002, p. 290. Per una rivisitazione della critica alla dottrina della Cassazione sulle norme “programmatiche” della Costituzione, cfr. M. Luciani, Dottrina del moto delle costituzioni e vicende della Costituzione repubblicana, in Rivista AIC, n. 1/2013, pp. 5 ss.
7. L. Carlassare, Legge (riserva di), in Enc. giur., vol. XVIII, Treccani, Roma, 1990, p. 5. Per un’applicazione di tale principio, cfr. il noto caso dell’accessione invertita, o acquisizione cd. “sanante”, istituto frutto di elaborazione giurisprudenziale poi finito sotto la scure della Corte di Strasburgo proprio per la carenza di una base legale sufficiente, su cui, se si vuole, cfr. A. Guazzarotti, L’autoapplicabilità delle norme, op. cit., pp. 187 ss.
8. Cfr., se si vuole, A. Guazzarotti, Bilanciamenti e fraintendimenti: ancora su Corte costituzionale e CEDU, in Quad. cost., n. 3/2010, pp. 592 ss.
9. Cfr. Corte cost., nn. 129/1963 e 156/1971. La dottrina ha efficacemente illustrato tale giurisprudenza, evidenziando come l’art. 36 Cost. veniva così «apparentemente letto come una riserva di tutela giurisdizionale, comunque suscettibile di prevalere anche nei confronti delle norme di legge ordinaria»: S. Bartole, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 172 ss.
10. Cfr., ancora, il mio L’autoapplicabilità delle norme, op. cit., pp. 124 ss.
11. Cfr. G. Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale, Edizioni di Comunità, Milano, 1970 (prima ed.: 1967); T. Treu, Articolo 36, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli-Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1979, pp. 72 ss.; A. Guazzarotti, L’autoapplicabilità delle norme, op. cit., p. 37, nota 39.
12. Sent. n. 46/2000, sull’ammissibilità del referendum sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, l. n. 300/1970.
13. La sent. n. 150/2020 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 4, d.lgs n. 23/2015, che predeterminava l’importo dell’indennità risarcitoria contro i licenziamenti viziati sotto il profilo formale o procedurale.
14. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992, spec. pp. 183 ss.
15. Cfr. anche la successiva sent. n. 303/1996, il cui dispositivo così recita: «la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori) nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre l’adozione, valutando esclusivamente l’interesse del minore, quando l’età di uno dei coniugi adottanti superi di oltre quaranta anni l’età dell’adottando, pur rimanendo la differenza di età compresa in quella che di solito intercorre tra genitori e figli, se dalla mancata adozione deriva un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore». Cfr. l’analisi di M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, atti della Conferenza trilaterale delle Corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola, Roma, 24-26 ottobre 2013, p. 12, www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/RI_Cartabia_Roma2013.pdf.
16. M. Cartabia, op. ult. cit., pp. 13 ss.
17. L. Pace, L’adeguatezza della legge e gli automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020, pp. 334 ss.
18. L’art. 20 dPR n. 131/1986, nella formulazione introdotta nel 2017 e 2018 e censurata dal rimettente, dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo l’intrinseca natura e secondo gli effetti giuridici dell’atto da registrare, indipendentemente dal titolo o dalla forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, prescindendo da quelli «extratestuali e dagli atti a esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».
19. Con le parole della Cassazione rimettente: «l’esenzione del collegamento negoziale dall’opera di qualificazione giuridica dell’atto produce l’effetto pratico di sottrarre ad imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva».
20. Cfr., di recente, F. Donati, Tutela dei diritti e certezza del diritto, in Lo Stato, n. 14/2020, pp. 49 ss.
21. R. Bin, Diritti e argomenti, op. cit., pp.123 e 126 ss.
22. V. Zagrebelsky, Considérations sur les sources d’inspiration et la motivation des arrêts de la Cour européenne des Droits de l’Homme, in C. Hohmann-Dennhardt - P. Masuch - M. Villiger (a cura di), Festschrift für Renate Jaeger – Grundrechte und Solidarität, N.P. Engel Verlag, Kehl am Rhein, 2010, pp. 211 ss.
23. R. Romboli, Differenti livelli di protezione dei diritti: un invito a ripensare i modelli, in Osservatorio sulle fonti, n. 1/2015, pp. 4 ss. e 25.
24. Cfr. F. Modugno, Inammissibilità della quaestio legitimitatis per omessa interpretazione costituzionalmente conforme e bilanciamento in concreto di diverse esigenze costituzionali, in Giur. cost., n. 4/2009, p. 2412 (in riferimento alla sent. n. 208/2009, sulla misura del ricovero in casa di cura e di custodia, ex art. 219 cp).
25. Cfr., se si vuole, A. Guazzarotti, L’autoapplicabilità delle sentenze additive di principio nella prassi dei giudici comuni, in Giur. cost., n. 5/2002, pp. 3435 ss.
26. Cfr. le “recenti”, e problematiche, sentenze nn. 170/2014 (sul cd. “divorzio imposto” in caso di rettificazione dell’attribuzione di sesso) e 278/2013 (sulla disciplina dell’anonimato della madre che non riconosce il figlio dopo il parto), su cui cfr., rispettivamente ed ex pluribus, F. Biondi, La sentenza additiva di principio sul c.d. divorzio “imposto”: un caso di accertamento, ma non di tutela, della violazione di un diritto, in Forum di Quad. cost., 24 giugno 2014 (www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/giurisprudenza/2014/0026_nota_170_2014_biondi.pdf); V. Marcenò, Quando da un dispositivo d’incostituzionalità possono derivare incertezze, in Nuova giur. civ. comm., n. 4/2014, pp. 279 ss.
27. Cfr. l’ord. n. 207/2018 nel celeberrimo caso Cappato, cui ha fatto seguito la sent. n. 242/2019. Cfr. la recente ord. n. 132/2020, sull’incostituzionalità della norma che sanziona con la pena detentiva la diffamazione a mezzo stampa, la quale, anche in considerazione del fatto che vari progetti di legge tesi a revisionare tale disciplina sono in corso di esame davanti alle Camere, ha ritenuto opportuno, «in uno spirito di leale collaborazione istituzionale», rinviare all’udienza del 22 giugno 2021 la trattazione delle questioni, non senza aver prima enunciato l’esigenza costituzionale (e Cedu) di una «rimodulazione del bilanciamento sotteso alla disciplina» censurata, «in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica (…) con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale».
28. M. Chiavario, La sentenza sui permessi premio: una pronuncia che non merita inquadramenti unilaterali, in Osservatorio costituzionale AIC, n. 1/2020, p. 212.
29. A. Guazzarotti, Precedente CEDU e mutamenti culturali nella prassi giurisprudenziale italiana, in Giur. cost., n. 5/2011, pp. 3779 ss.
30. Cfr. la sent. Varvara c. Italia, 23 novembre 2013, cui è seguita la reazione della Cassazione sfociata nella questione decisa dalla Corte costituzionale con la sent. n. 49/2015, su cui cfr. M. Bignami, Le gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra Costituzione, CEDU e diritto vivente, in Dir. pen. cont., n. 2/2015.
31. Sentt. nn. 265/2010, 164/2011, 231/2011, 331/2011, 110/2012, 57/2013, 232/2013, 48/2015.
32. Ex multis, sentt. nn. 268/2016 e 139/2010.
33. Ord. n. 136/2017.
34. Che ha parzialmente annullato il divieto di concessione di permessi premio, in assenza di collaborazione del detenuto, per i reati di tipo mafioso – annullamento esteso, in via consequenziale, a tutti i variegati reati compresi nel comma 1 dell’art. 4-bis ord. penit.
35. Qui la Corte fa evidentemente riferimento ad associazioni di stampo mafioso diverse dalle mafie storiche che affliggono il nostro Paese.
36. Cfr., criticamente, M. Ruotolo, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in Sistema penale, 12 dicembre 2019, p. 5; A. Pugiotto, Procedimento pregiudiziale e Corte costituzionale: due decisioni radicali della Corte costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sentt. nn. 253 e 263 del 2019, in Rivista AIC, n. 1/2020, pp. 513 ss.
37. L. Pace, L’adeguatezza della legge e gli automatismi, op. cit., pp. 325 ss.
38. Emblematica, a tal proposito, la già citata sent. n. 242/2019, sul caso Cappato.