Il diritto civile e la procedura civile
Lo scritto passa in rassegna le più rilevanti pronunce della Corte costituzionale dell’ultimo triennio nelle materie del diritto civile e della procedura civile. Per consentirne un’esposizione sistematica, le decisioni sono raggruppate in base agli argomenti di pertinenza, con particolare riferimento ai temi che, negli ultimi anni, hanno presentato profili di maggiore problematicità interpretativa e applicativa, dai cd. temi eticamente sensibili alla ragionevole durata del processo, dagli strumenti di deflazione del contenzioso alla responsabilità civile dei magistrati.
1. Introduzione / 2. Diritto civile: lo stato e la capacità delle persone / 3. Il matrimonio e la famiglia / 4. La proprietà edilizia / 5. Le obbligazioni contrattuali / 6. La tutela del credito e il fallimento / 7. La responsabilità civile dei magistrati / 8. Procedura civile: la disciplina del rito applicabile / 9. Le notificazioni / 10. Le impugnazioni / 11. Le spese / 12. Il processo esecutivo / 13. Le soluzioni alternative alla disputa / 14. La ragionevole durata del processo civile e il diritto all’equo indennizzo / 15. Conclusioni
1. Introduzione
Una sintetica illustrazione dell’andamento della giurisprudenza costituzionale dell’ultimo triennio sui temi del diritto e della procedura civile sconta necessariamente il rischio di una trattazione disorganica e frammentaria, tanto variegato è il panorama degli argomenti che si presenta al lettore.
Sul piano del diritto sostanziale occorre, infatti, tener conto degli ampi confini della materia, che vede coinvolti istituti eterogenei e connessi alla trama di ambiti assai diversi del vivere civile – i rapporti sociali e familiari, la proprietà, le relazioni commerciali; dal canto suo, il sistema processuale è stato interessato, negli ultimi anni, da numerosi interventi di riforma (spesso incompleti, talvolta anche contraddittori), che hanno condotto i giudici comuni a riproporre all’attenzione della Corte fattispecie che erano già state scrutinate in tempi non remoti, ma in relazione alle quali non si erano, evidentemente, dissipati tutti i dubbi di legittimità.
In questo quadro, dunque, non si può fare a meno di ricorrere a un’esposizione sistematica delle decisioni più rilevanti, raggruppate per argomenti in modo sostanzialmente corrispondente ai principali istituti del codice civile – o, quantomeno, a quelli che hanno evidenziato profili applicativi di maggior rilievo – e alle aree tematiche del processo.
Ne deriverà, inevitabilmente, una certa disarmonia nella rappresentazione dei dati; ma, lo si auspica, anche l’emersione di tratti comuni delle decisioni, dai quali sono ben illustrate le preoccupazioni che hanno caratterizzato (per vero non solo in questo ambito) l’operato del Giudice delle leggi negli anni più recenti.
Così, ad esempio, la rinnovata attenzione della Corte per i diritti fondamentali dei soggetti più deboli (quali i disabili, i minori, i richiedenti asilo) caratterizza e orienta molte delle decisioni in materia di rapporti personali e familiari, ma si estende anche all’affronto di questioni inerenti ai diritti e alle garanzie di contenuto patrimoniale; nello scrutinio di ragionevolezza delle norme, richiesto con frequenza dai giudici comuni, vi è una costante attenzione agli ambiti normativi caratterizzati dalla discrezionalità del legislatore; vengono poi analiticamente considerati tutti i diversi interessi coinvolti – specie con riferimento ai cd. temi eticamente sensibili – onde poter procedere a un loro adeguato bilanciamento; nella materia processuale, infine, la Corte procede a una costante verifica del rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale, in particolare nell’ottica della progressiva armonizzazione degli ordinamenti, da tempo avviata per iniziativa dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa.
2. Diritto civile: lo stato e la capacità delle persone
L’attività interpretativa della Corte nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali – caratterizzata soprattutto, nell’ultimo ventennio, da un’espansione dei cd. diritti sociali[1] – ha evidenziato profili di rilievo con riferimento alle persone affette da disabilità.
In più occasioni la Corte si è occupata del tema delle disabilità, e in particolare dell’esigenza di consentire la socializzazione e la partecipazione consapevole delle persone disabili – interpretando l’articolo 38 Cost. alla luce del principio personalista, di cui all’art. 2, e del principio di eguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, comma 2 –, con l’effetto di una materiale estensione della tutela dei relativi diritti a tutti gli ambiti della vita sociale[2].
Si colloca certamente in tale percorso la sentenza n. 258 del 2017[3], con la quale la Corte ha dichiarato illegittimo – per violazione degli artt. 2 e 3, primo e secondo comma, Cost. – l’art. 10 della legge n. 91/1992, nella parte in cui non prevede che, ai fini della trascrizione del decreto di concessione della cittadinanza italiana, sia esonerata dal giuramento di fedeltà alla Repubblica la persona incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di grave e accertata condizione di disabilità.
La questione era stata sollevata in relazione alla vicenda di una persona straniera disabile che aveva chiesto (per il tramite del proprio amministratore di sostegno) la trascrizione del decreto di concessione della cittadinanza in assenza del prescritto giuramento, non essendo in grado di prestarlo in quanto incapace di leggere e scrivere, e disorientata nel tempo e nello spazio.
La Corte ha osservato in premessa che il dovere di fedeltà alla Repubblica, ex art. 54 Cost., «trova concreta espressione per lo straniero nella prestazione del giuramento, manifestazione solenne di adesione ai valori repubblicani»; la natura del giuramento, pertanto, «richiama direttamente i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale».
E tuttavia, gli stessi principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale che il giuramento incorpora impegnano la Repubblica a favorire l’inserimento del disabile nella società, che in questo caso, soddisfatte le altre condizioni previste, sarebbe impedito dall’imposizione normativa del giuramento a una persona che, in ragione di patologie psichiche di particolare gravità, è incapace di prestarlo.
In questo senso, ha affermato la Corte, verrebbe a determinarsi una forma di emarginazione sociale, che irragionevolmente esclude il portatore di gravi disabilità dal godimento della cittadinanza, intesa quale condizione generale di appartenenza alla comunità nazionale; ne potrebbe derivare, poi, un’ulteriore forma di emarginazione rispetto agli altri familiari che tale cittadinanza abbiano, invece, potuto conseguire.
In linea con tale decisione, la sentenza n. 114 del 2019 ha affrontato una questione relativa alla capacità di agire delle persone disabili che siano beneficiarie di amministrazione di sostegno, affermando, con pronunzia interpretativa di rigetto, che a costoro deve ritenersi consentito di disporre del proprio patrimonio mediante donazione, seppur con le forme abilitative richieste[4].
La questione era stata sollevata sul presupposto che la regola generale stabilita dall’art. 774 cc – ove è previsto che non possano «fare donazione coloro che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni» – non patirebbe eccezione nell’ambito dell’amministrazione di sostegno, poiché la relativa procedura comporta pur sempre (in base al disposto di cui all’art. 1 l. 9 gennaio 2004, n. 6) una privazione, ancorché minima, della capacità di agire del beneficiario.
Anche a questo proposito, la Corte ha sottolineato la necessità di interpretare il sistema delineato dal codice civile alla luce del principio personalista di cui all’art. 2 Cost., che tutela la persona non solo nella sua dimensione individuale, ma anche nell’ambito dei rapporti in cui si sviluppa la sua personalità: rapporti che «richiedono il rispetto reciproco dei diritti, ma che si alimentano anche grazie a gesti di solidarietà».
Lo stesso principio impone di leggere l’art. 2 congiuntamente all’art. 3 Cost.; il comma 1, infatti, garantisce il principio di eguaglianza a prescindere dalle «condizioni personali», tra le quali si colloca indubbiamente la condizione di disabilità di cui i beneficiari di amministrazione di sostegno sono portatori, sia pure in forme e gradi diversi; e il comma 2 affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono la libertà e l’eguaglianza nonché il pieno sviluppo della persona, fra i quali va compresa la condizione di disabilità.
Su tali basi, la sentenza ha escluso che il beneficiario di amministrazione di sostegno possa essere privato della capacità di donare, salvi i limiti che il giudice tutelare ritenga di apporre tramite l’estensione di divieti previsti ad altri fini, con esplicita clausola ai sensi dell’art. 411, comma 4, primo periodo, cc.
Secondo la Corte, la compressione, senza un’obiettiva necessità, «della libertà della persona di donare gratuitamente il proprio tempo, le proprie energie e, come nel caso in oggetto, ciò che le appartiene, costituisce un ostacolo ingiustificato allo sviluppo della sua personalità e una violazione della dignità umana».
In materia di status delle persone, la sentenza n. 186 del 2020 ha poi stabilito l’illegittimità del divieto di iscrizione anagrafica degli stranieri richiedenti asilo, introdotto dal dl n. 113/2018 (cd. “decreto sicurezza”)[5].
La questione era stata sollevata da diversi tribunali nell’ambito di giudizi, cautelari o sommari, promossi contro il rifiuto opposto dal comune all’iscrizione dei richiedenti asilo nell’anagrafe della popolazione residente, del quale venivano denunziate – tra l’altro – l’invalidità e il carattere discriminatorio.
La Corte ha rilevato anzitutto l’irragionevolezza intrinseca della disposizione censurata, in ragione della sua incoerenza rispetto alle finalità perseguite dallo stesso “decreto sicurezza”.
La voluntas legis, in tal senso, appariva infatti diretta a liberare le amministrazioni comunali, sul cui territorio sono situati i centri di accoglienza dei richiedenti, dall’onere di far fronte agli adempimenti in materia di iscrizione anagrafica, esclusa sulla base della precaria permanenza sul territorio dei richiedenti; mentre la norma in esame, impedendo l’iscrizione, «finisce con il limitare le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica sulla popolazione effettivamente residente sul suo territorio, escludendo da essa una categoria di persone, gli stranieri richiedenti asilo, regolarmente soggiornanti nel territorio italiano».
Una tale esclusione, che concerne persone residenti nel territorio comunale, non appare giustificabile proprio in quanto «accresce, anziché ridurre, i problemi connessi al monitoraggio degli stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio statale» per tutto il tempo necessario alla decisione sulla loro richiesta di asilo, e perciò complica la loro stessa individuazione; inoltre, il diniego di iscrizione sottrae i richiedenti asilo alla diretta conoscibilità da parte dei comuni (anche a fini sanitari), poiché l’obbligo di comunicare il domicilio sussiste solo verso la questura competente. Né, sul punto, assume rilievo il dato della precarietà della permanenza legale, poiché il permesso dura sei mesi ed è rinnovabile fino al conseguimento della cittadinanza.
La Corte ha inoltre ritenuto fondata la questione sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento che si determina tra stranieri richiedenti asilo e altre categorie di stranieri legalmente soggiornanti nel territorio statale, oltre che con i cittadini italiani.
Premesso, infatti, che «il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando trattisi di rispettare [i] diritti fondamentali»[6], e che al legislatore non è consentito introdurre regimi differenziati circa il trattamento da riservare ai singoli consociati se non «in presenza di una “causa normativa” non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria», la sentenza osserva che il diniego di iscrizione anagrafica a soggetti che hanno dimora abituale nel territorio italiano conduce all’applicazione di un trattamento differenziato (in pejus, in quanto costituisce «una “minorazione” sociale») in assenza di ragionevole giustificazione: la registrazione anagrafica è infatti una mera conseguenza del fatto oggettivo della legittima dimora abituale in un determinato luogo, per cui non può rilevare il fatto che il richiedente sia un cittadino, uno straniero o un richiedente asilo, comunque regolarmente insediato.
3. Il matrimonio e la famiglia
In ambito matrimoniale e familiare, gli interventi di maggior rilievo della Corte si appuntano sul tema delle cd. «unioni civili», e rispondono a richieste provenienti dai giudici comuni formulate, per lo più, nell’ottica del perseguimento di una tutela effettiva degli interessi dei conviventi.
In tale ottica, la Corte si è preoccupata di individuare un punto di equilibrio fra esigenze spesso contrapposte – quali, ad esempio, quelle connesse agli interessi dei figli minori, ove rapportate al cd. diritto alla progettualità familiare –, non di rado correlate alle delicate questioni di ordine etico e morale che si prospettano, sulle quali, come è stato da più parti sottolineato, non vi è un consenso generale[7].
Il terreno maggiormente percorso è quello delle unioni civili fra persone dello stesso sesso, sul quale la disciplina specifica del rapporto fra i partner interseca profili inerenti a eventuali rapporti di filiazione.
Con la sentenza n. 212 del 2018, la Corte ha ritenuto infondate le questioni di legittimità dell’art. 3, lett. c, n. 2, d.lgs n. 5/2017, avente ad oggetto l’«Adeguamento delle disposizioni dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni ed annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili»; tale norma ha inserito il comma 3-bis nell’art. 20 dPR n. 223/1989, prevedendo che per le parti dell’unione civile le schede devono essere intestate al cognome posseduto in precedenza.
Secondo il rimettente, chiamato a decidere sulla richiesta di due persone unite civilmente che intendevano mantenere quale cognome comune quello di uno di esse, la norma censurata avrebbe negato l’originario contenuto precettivo dell’art. 1, comma 10, l. n. 76/2016, volto a riconoscere il diritto delle parti di assumere a tutti gli effetti un cognome comune, consentendo a una di esse di modificare il cognome originario; di qui la violazione dell’art. 2 Cost., per lesione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità personale; dell’art. 3 Cost., per l’irragionevolezza di tale intervento del pubblico potere; dell’art. 22 Cost., poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune, la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito; dell’art. 76 Cost., per carenza di delega; e degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della Cedu e dagli artt. 1 e 7 della Cdfue.
Ritenuta l’inammissibilità della questione ex art. 22, la Corte ha respinto le altre, osservando anzitutto che non ha fondamento costituzionale l’assunto secondo cui il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell’identità personale, debba concretizzarsi nel cognome comune delle parti dell’unione, «anche perché la ipotizzata valenza anagrafica del cognome comune sarebbe suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di quella delle parti che avesse assunto tale cognome in sostituzione del proprio, in quanto, a seguito dello scioglimento dell’unione civile, i figli minori rimarrebbero privi di uno degli elementi che identificava il relativo nucleo familiare».
Del resto, ha osservato ancora la Corte, il cognome d’uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporta alcuna variazione anagrafica del cognome originario; la natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l’unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario – anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica – costituiscono garanzia adeguata dell’identità della coppia unita civilmente, e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali.
Il tema della riconoscibilità del figlio da parte del cd. “genitore intenzionale” – che non ha contribuito biologicamente alla gestazione, ma ha prestato il consenso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (pma) – è stato affrontato dalla sentenza n. 237 del 2019, con la quale è stata dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale della «norma che si desume» dagli artt. 250 e 449 cc.; 29, comma 2, e 44, comma 1, dPR n. 396/2000; 5 e 8 l. n. 40/2004, nella parte in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso, quando la filiazione sia stabilita sulla base della legge applicabile in base all’art. 33 della legge n. 218/1995.
La fattispecie oggetto del giudizio principale concerneva due donne – l’una di nazionalità statunitense, l’altra italiana – le quali, dopo il concepimento di un figlio tramite il ricorso a tecniche di pma in Danimarca, ne avevano richiesta l’iscrizione ai registri dello stato civile italiano, in quanto il figlio era nato in Italia e a seguito di consenso alla fecondazione assistita prestato da madre italiana.
Il giudice a quo, ravvisato il carattere transazionale della vertenza per essere il minore cittadino dello Stato americano del Wisconsin, aveva ritenuto applicabile al rapporto di filiazione, ai sensi dell’art. 33 l. n. 218/1995, la legge di tale ultimo Stato, che consentiva di ritenere legittimo il figlio concepito a seguito di pma anche in capo al genitore intenzionale; lo stesso giudice aveva, però, ritenuto che il combinato disposto delle disposizioni più sopra menzionate costituisse «norma di applicazione necessaria», nonostante il richiamo alla legge straniera, fungendo così di ostacolo al riconoscimento in base al diritto internazionale privato. Secondo il giudice rimettente, dunque, sussisteva impedimento alla formazione stessa dell’atto di nascita.
La Corte ha, tuttavia, dichiarato inammissibile la questione per insufficiente motivazione sulla rilevanza.
Dopo aver premesso, infatti, che le norme di applicazione necessaria, sono le «norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera» (art. 17 l. n. 218/1995), la Corte ha osservato che l’ordinanza di rimessione non chiariva sufficientemente se la “norma desunta” oggetto di censura fosse la stessa norma interna sulla eterogenitorialità, necessariamente applicabile in sede di formazione dell’atto di nascita di un minore cittadino straniero, ovvero una diversa norma sulla “azione amministrativa”, che regola l’attività dell’ufficiale di stato civile, impedendogli di formare l’atto di nascita di un minore straniero in cui gli si riconosca uno status previsto dalla sua legge nazionale, ma non da quella italiana.
Inoltre, ha rilevato che il rimettente non aveva in alcun modo preso in esame le disposizioni del diritto internazionale privato maggiormente attinenti al tema, con le quali il legislatore ha individuato le norme di applicazione necessaria nella specifica materia della filiazione, vale a dire gli artt. 33, comma 4, e 36-bis l. n. 218/1995.
L’accesso a tecniche di pma da parte di genitori dello stesso sesso è stato affrontato con maggiore profondità nella sentenza n. 221 del 2019, che ha rigettato le questioni di costituzionalità delle previsioni della legge n. 40/2004 che vietano l’accesso alla pma alle coppie omosessuali femminili[8].
In entrambi i casi, il giudice rimettente era stato adito da una coppia di donne, parti di una unione civile, che intendevano superare con provvedimento d’urgenza il diniego loro opposto dalle aziende sanitarie di riferimento.
Nel motivare la decisione, la Corte ha individuato il nucleo degli interessi al cui bilanciamento è volto lo scrutinio di costituzionalità, ricordando che la legge n. 40/2004 pone «soluzioni di segno restrittivo» al quesito circa l’esistenza di un “diritto a procreare”, «declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale», che incontra un limite nella necessaria verifica di compatibilità fra il «desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie [che] meriti di essere soddisfatto sempre e comunque» e la «prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato»[9].
La legge citata, infatti, consente il ricorso alla pma solo al fine di favorire una soluzione a problemi riproduttivi derivanti da sterilità o infertilità, e quindi nel contesto di un’unione formata da un uomo e una donna, e con l’assicurazione del mantenimento di un legame biologico fra il nascituro e i futuri genitori (donde il divieto della cd. fecondazione eterologa); e tale intento del legislatore è stato sostanzialmente riconosciuto come legittimo dalla Corte nei suoi precedenti interventi (fra i quali, ad esempio, le sentenze nn. 162 del 2014 e 96 del 2015), che si sono limitati a rimuovere «quelle che apparivano sostanzialmente come distonie, interne o esterne, della disciplina delineata dal legislatore, senza incidere – o incidendo solo in modo marginale – sulle coordinate di fondo di quest’ultima».
Poste tali premesse, la Corte ha ritenuto che l’esclusione dalla pma delle coppie formate da due donne non dia luogo ad alcuna discriminazione basata sull’orientamento sessuale, poiché l’infertilità “fisiologica” della coppia omosessuale non è affatto omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive, così come non lo è l’infertilità “fisiologica” della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata, trattandosi di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti.
Ha escluso, ancora, che ne risultino violati gli artt. 31, comma 2 – che riguarda la maternità, e non l’aspirazione a diventare genitore[10] –, e 32 Cost., la cui tutela «non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale».
Ha poi ritenuto che le disposizioni censurate non comportino alcuna disparità di trattamento in base alle capacità economiche dei soggetti che aspirano alla genitorialità, per il sol fatto – evocato nelle ordinanze di rimessione – che il divieto posto dal legislatore italiano sarebbe eludibile mediante una richiesta di pma in uno Stato estero che ne consente il ricorso alle coppie omosessuali.
Infine, quanto alla possibile violazione del diritto a costituire una famiglia, la Corte ha osservato che la Costituzione non pone una nozione di «famiglia» inscindibilmente correlata alla presenza di figli e, d’altra parte, la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori non implica che il diritto a procreare possa esplicarsi senza limiti, quando gli stessi sono fissati da una scelta discrezionale del legislatore adottata «in parallelo all’evolversi dell’apprezzamento sociale della fenomenologia considerata».
In linea con tale ultima decisione, la Corte ha poi ritenuto inammissibile, con la sentenza n. 230 del 2020, la questione inerente all’impossibilità, per le coppie di donne omosessuali unite civilmente che abbiano fatto ricorso alla pma in uno Stato estero, di essere entrambe indicate quali genitori nell’atto di nascita formato in Italia, essendo tale indicazione loro preclusa dal sistema normativo vigente.
Questa decisione ha affermato che la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di pma è certamente legata anche al consenso prestato dai soggetti che vi hanno fatto accesso, cui consegue una corrispondente assunzione di responsabilità, ma che essa deve pur sempre contenersi nel perimetro tracciato dalla legge n. 40 del 2014, che limita l’accesso alla pma alle coppie di sesso diverso. La Corte ha ribadito la legittimità costituzionale di siffatta scelta legislativa, riaffermando che l’aspirazione della madre intenzionale a essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona, che la nozione di famiglia posta dall’art. 30 Cost. non è inscindibilmente correlata alla presenza di figli, e che la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori non implica che esso possa esplicarsi senza limiti, essendo necessario un bilanciamento dello stesso con altri interessi costituzionalmente protetti, in specie nell’ambito della pma.
E tuttavia, nella stessa decisione, la Corte ha inteso precisare che un’estensione della genitorialità, ancorché non costituzionalmente imposta, potrebbe essere «perseguibile per via normativa», attenendo «all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale», e ciò sia con riguardo alle aspirazioni genitoriali, sia con riguardo al profilo di una «diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la madre intenzionale».
Sul tema della filiazione, da ultimo, dev’essere segnalata la sentenza n. 272 del 2017, che ha rigettato la questione relativa all’art. 263 cc nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso[11].
La vicenda traeva origine da una fattispecie di maternità surrogata, realizzata da una coppia all’estero mediante ovodonazione, cui faceva seguito la trascrizione dell’atto di nascita del figlio, riconosciuto dai genitori come naturale. La successiva emersione della verità in sede di indagini da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni aveva determinato l’avvio del procedimento di adottabilità del minore, interrotto alla scoperta dell’esistenza di un legame biologico con il padre committente; lo stesso Tribunale per i minorenni aveva, in ogni caso, autorizzato l’impugnazione del riconoscimento, poi accolta e oggetto di gravame in appello, ove aveva luogo l’incidente di costituzionalità.
Nel rigettare la questione, la Corte ha rilevato che, pur nel contesto di «accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione», l’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo non costituisce valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento, né l’ordinamento impone che nelle azioni volte alla rimozione dello status filiationis detto accertamento sia destinato a prevalere su tutti gli altri interessi coinvolti.
Occorre, invece, bilanciare le esigenze di accertamento della verità e l’interesse concreto del minore (incluso quello alla stabilità dello status acquisito) in tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, poiché in alcuni casi la valutazione comparativa tra l’esigenza di verità della filiazione e l’interesse del minore è fatta direttamente dal legislatore, talvolta privilegiando l’interesse del minore alla conservazione dello status filiationis già acquisito (come accade con il divieto di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa), talaltra imponendo, all’opposto, l’imprescindibile presa d’atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata, senza che questo comporti la cancellazione dell’interesse suddetto.
Al riguardo, tuttavia, la sentenza precisa che dev’essere «escluso ogni automatismo», comportando il bilanciamento in questione «un giudizio comparativo tra gli interessi sottesi all’accertamento della verità dello status e le conseguenze che da tale accertamento possano derivare sulla posizione giuridica del minore»; enuclea, dunque, la regola di giudizio da applicare, che deve tenere conto di «variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso»[12], fra le quali, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, indica la durata del rapporto instauratosi col minore, le modalità del concepimento e della gestazione e la presenza di strumenti legali che consentano la costituzione di un legame giuridico col genitore contestato, pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l’adozione in casi particolari.
Quest’ultima regola di giudizio è stata peraltro richiamata dalla Corte nella sentenza n. 127 del 2020, con la quale è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cc, nella parte in cui non esclude la legittimazione a impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che abbia compiuto tale atto nella consapevolezza della sua non veridicità.
4. La proprietà edilizia
La disciplina della proprietà edilizia è stata essenzialmente interessata da alcune decisioni rese dalla Corte con riferimento a leggi sull’urbanistica.
Si tratta, per lo più, di pronunce concernenti il riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni (queste ultime munite di potestà legislativa concorrente nella materia «governo del territorio»), e che, nel regolare aspetti inerenti allo jus aedificandi, hanno finito per incidere sull’interpretazione delle previsioni codicistiche in materia, le quali, com’è noto, sono integrate dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti locali.
Le pronunzie di maggior rilevanza hanno affrontato il tema della compatibilità fra la disciplina della proprietà edilizia e le disposizioni adottate dalle Regioni a seguito dell’adozione del cd. “piano casa”. Quest’ultimo ha costituito lo strumento di maggior rilievo nell’adozione di politiche per il rilancio dell’economia mediante incentivi all’attività edilizia, i cui contenuti e obiettivi sono stati fissati con l’«Intesa», raggiunta in sede di Conferenza unificata, il 1° aprile 2009, in applicazione dell’art. 11 dl n. 112/2008.
In relazione a tale Intesa, si sono susseguiti interventi normativi delle Regioni volti a introdurre misure di agevolazione dell’attività edificatoria, anche mediante l’attenuazione (o l’eliminazione) di vincoli già imposti da leggi dello Stato o dagli strumenti urbanistici locali; e proprio in tal senso si è reso necessario, in più occasioni, lo scrutinio di costituzionalità.
Per prima, la sentenza n. 73 del 2017 ha dichiarato l’illegittimità della legge della Regione Basilicata sul “Piano casa” nella parte in cui consentiva la realizzazione di nuove costruzioni (ovvero l’ultimazione di interventi già avviati) anche in deroga alle previsioni dei regolamenti locali in punto alla volumetria e al mutamento della destinazione d’uso degli immobili.
La Corte – nel ritenere che le norme impugnate, quantunque denominate “di interpretazione autentica”, avessero natura retroattiva[13] – ne ha ravvisato un contrasto con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, e ciò sia perché mettevano in discussione la certezza del diritto «in una materia, quella urbanistica, rispetto alla quale assume una peculiare rilevanza l’affidamento che la collettività ripone nella sicurezza giuridica», sia perché consentivano di regolarizzare ex post, rendendole legittime, opere che, al momento della loro realizzazione, contrastavano con gli strumenti urbanistici di riferimento, «dando corpo, in definitiva, ad una surrettizia ipotesi di sanatoria».
Con argomentazioni sostanzialmente coincidenti, la Corte ha poi ritenuto illegittima la legge adottata dalla Regione Puglia, nella parte in cui consentiva deroghe volumetriche a interventi di ristrutturazione su edifici oltre i limiti previsti dall’originaria disciplina; sul punto, la sentenza n. 70 del 2020 ha poi rilevato che la sostanziale sanatoria così introdotta dalla legge regionale, ponendosi in contrasto con gli artt. 36 e 37 del testo unico dell’edilizia, configura altresì una violazione dell’art. 117, comma 3, Cost., poiché spettano alla legislazione statale le scelte di principio sul versante della sanatoria amministrativa.
Ancora, la sentenza n. 86 del 2019 ha ritenuto illegittime alcune previsioni del “Piano casa” pugliese, in quanto, consentendo la deroga ai piani paesaggistici regionali, invadevano la materia della tutela dell’ambiente, anch’essa riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
In tre occasioni, infine, la Corte si è occupata della legge veneta sul “Piano casa”, nella parte in cui consente deroghe alla disciplina delle altezze e delle distanze fra fabbricati, come fissata dal codice civile – e dai regolamenti edilizi in esso richiamati – e da altre leggi dello Stato.
Con la sentenza n. 41 del 2017 è stata dichiarata l’illegittimità parziale della previsione che consente deroghe alla disciplina statale inerente alle distanze.
A motivo della decisione, la Corte ha premesso che tale disciplina rientra nella materia dell’ordinamento civile e che, tuttavia, ove i fabbricati insistano su un territorio che può avere, rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda – e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivatistici e tocca anche interessi pubblici, la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni, perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio[14].
Il punto di equilibrio fra tali distinte competenze va rinvenuto nell’esigenza della Regione di conformare in modo omogeneo l’assetto urbanistico di una determinata zona[15]; in tal senso non è preclusa al legislatore regionale la fissazione di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, sicché la deroga non può mai riguardare singole costruzioni, individualmente e isolatamente considerate.
Pertanto, la Corte ha ritenuto illegittima la norma in esame nella parte in cui consente deroghe alla disciplina sulle distanze al di là di quanto stabilito «nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».
Le due pronunzie più recenti hanno invece riguardato la legge veneta nella parte in cui consente interventi di ampliamento e ricostruzione di edifici in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal dm n. 1444/1968 e ss.mm., nonché alle previsioni in materia di distanze minime fra edifici contenute negli strumenti urbanistici e nei regolamenti locali.
La questione sollevata in relazione al primo profilo è stata dichiarata inammissibile dalla Corte con sentenza n. 30 del 2020, sul rilievo di un difetto di motivazione dell’ordinanza di rimessione; ben maggiore è invece la portata della seconda decisione – resa con sentenza n. 119 del 2020 – nel senso della non fondatezza della questione sollevata.
Discostandosi dagli assunti del giudice rimettente, infatti, la Corte ha ritenuto che l’intervento normativo regionale che deroga alle distanze minime previste dalle fonti locali non invada la materia «ordinamento civile»; infatti la disciplina delle distanze contenuta nei regolamenti edilizi, integrando le disposizioni codicistiche che la richiamano, «attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi», ma non è estranea a una valutazione delle esigenze regionali di conformazione omogenea di una determinata zona del territorio (delle quali si è detto in precedenza).
Ciò posto, la Corte ha ritenuto che la disposizione derogatoria contenuta nel “Piano casa” veneto miri a consentire, secondo l’impianto originale della legge stessa, gli interventi di rivitalizzazione del patrimonio edilizio esistente, e cioè a realizzare un obiettivo generale di interesse pubblico, perseguito con disposizioni incentivanti di carattere straordinario, limitate nel tempo e operanti per zone territoriali omogenee; donde la sua esclusiva riconducibilità alla materia «governo del territorio», a prescindere dai profili di concreta incidenza su disposizioni integrative del codice civile.
5. Le obbligazioni contrattuali
Seppure in numero non elevato, nell’ultimo triennio vi sono decisioni della Corte che impattano anche la disciplina delle obbligazioni contrattuali, in specie laddove essa era stata oggetto di interventi legislativi modificativi o integrativi dell’originario impianto codicistico.
In tema di appalto, la sentenza n. 254 del 2017 ha ritenuto non fondata la questione di legittimità dell’art. 29, comma 2, d.lgs n. 276/2003, censurato, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., nella parte in cui non estende la garanzia della responsabilità solidale del committente per i crediti retributivi e contributivi dei dipendenti dell’appaltatore e del subappaltatore anche ai dipendenti del subfornitore.
Secondo la Corte, la norma impugnata dev’essere interpretata nel senso della sua applicazione anche al caso di subfornitura, trattandosi di rapporto riconducibile, in parte qua, «alla cornice concettuale e disciplinatoria dell’appalto e del subappalto».
Il committente deve pertanto intendersi obbligato in solido (anche) con il subfornitore relativamente ai crediti lavorativi, contributivi e assicurativi dei dipendenti di questi; infatti, la ratio della responsabilità solidale del committente è evitare che i meccanismi di decentramento produttivo e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto commerciale, cosicché sarebbe contrario all’art. 3 Cost. escluderla nei confronti dei dipendenti del subfornitore, nel contesto di un rapporto che realizza comunque un livello di decentramento.
Attiene al tipo commerciale della vendita di immobile da costruire la sentenza n. 32 del 2018, con la quale la Corte ha ritenuto non fondata la questione di legittimità degli artt. 1, comma 1, lett. d, 5 e 6 d.lgs n. 122/2005.
Tali norme configurano infatti, nel loro complesso, una disciplina a protezione dei diritti patrimoniali degli acquirenti, in particolare mediante l’approntamento, in loro favore, di una garanzia fideiussoria. L’operatività di detta garanzia è tuttavia circoscritta all’ipotesi di acquisto di immobili per i quali sia stato richiesto il permesso di costruire e che non siano ancora stati edificati (o non siano ultimati, versando in uno stadio che ancora non consenta il rilascio del certificato di agibilità); nessuna garanzia è dunque riconosciuta in favore degli acquirenti di immobili per i quali non sia stato nemmeno richiesto il permesso di costruire (acquisti cd. “sulla carta”)[16].
Detta ultima fattispecie, secondo la Corte, non può essere validamente evocata quale tertium comparationis, non essendo omogenea alle ipotesi contemplate dal legislatore.
La garanzia in questione è infatti specificamente funzionale all’affidamento che l’acquirente ripone nell’effettiva realizzazione (o nel completamento) della costruzione dell’immobile promesso in vendita, affidamento indotto dall’intervenuto rilascio del permesso di costruire (o quantomeno dalla presentazione della relativa richiesta); si tratta, infatti, di una circostanza che «aggiunge una qualitas alla cosa futura» sotto l’aspetto urbanistico, e «costituisce di per sé un fattore rassicurante ed un indiretto incentivo all’acquisto per il promittente acquirente», la cui mancanza rende non irragionevole la scelta discrezionale del legislatore di non prevedere identico livello di tutela.
Infine, in tema di contratto di trasporto, la sentenza n. 226 del 2019 (successivamente confermata dall’ordinanza n. 93 del 2020) ha ritenuto infondata la questione di legittimità dell’art. 1-bis, comma 2, lett. e, dl n. 103/2010 (convertito con modificazioni nella l. n. 127/2010, che ha interessato la previsione censurata), che, con riferimento all’attività di autotrasporto di merci per conto di terzi, introduce un’azione diretta del subvettore nei confronti di tutti coloro che hanno ordinato il trasporto.
La questione era stata sollevata con riferimento all’art. 77, comma 2, Cost., per mancanza di nesso funzionale fra decreto-legge e legge di conversione.
Al riguardo, la Corte ha ribadito il principio in base al quale un difetto di omogeneità, in violazione dell’art. 77, si determina solo quando le disposizioni aggiunte in sede di conversione siano totalmente «estranee» o addirittura «intruse», cioè tali da interrompere ogni correlazione tra il decreto-legge e la legge di conversione[17]. Una tale evenienza non è stata ravvisata nella specie, poiché la previsione inserita in sede di conversione «condivide con il decreto-legge originario la “comune natura” di misura finalizzata alla risoluzione di una situazione di crisi».
6. La tutela del credito e il fallimento
Al tema della tutela del credito sono riconducibili alcune pronunzie che ineriscono alla disciplina dei privilegi e delle garanzie; e, come si è accennato in premessa, anche a tale riguardo la Corte ha dimostrato particolare attenzione ai profili di effettività della tutela, intervenendo per lo più su fattispecie delle quali era denunziata l’intrinseca irragionevolezza, con le inevitabili ricadute sul piano processuale laddove le garanzie del credito consentano anche l’accesso a specifiche azioni esecutive.
Con la sentenza n. 176 del 2017, la Corte ha deciso due questioni di legittimità relative al privilegio sussidiario sugli immobili riconosciuto ai crediti tributari dello Stato[18] dall’art. 2776, comma 3, cc, nel testo risultante dalle modifiche intervenute nel 2011[19].
Sotto il primo profilo denunziato, riferito agli artt. 3 e 111 Cost., la Corte ha escluso qualsivoglia violazione del principio di ragionevolezza e non discriminazione, ovvero della “parità delle armi” nel processo, poiché la norma censurata introduce un privilegio (seppur valevole solo in via sussidiaria) su crediti dello Stato già privilegiati in ragione della causa che li connota, e dunque una “causa legittima di prelazione” che giustifica la deroga alla par condicio creditorum ex art. 2741 cc.
Al medesimo riguardo, peraltro, la Corte ha precisato che la disposizione «armonizza e razionalizza il regime dei crediti tributari, già muniti di privilegio generale sui beni mobili, che rimangano in tutto o in parte insoddisfatti, giacché estende ai crediti per tributi erariali diretti il privilegio sussidiario già accordato».
È stata invece accolta la censura per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 6 Cedu, relativa alla parte della disposizione che dà immediata applicazione al privilegio sussidiario sul prezzo degli immobili del debitore esecutato, attribuito ai crediti dello Stato per imposte dirette, anche con riguardo a crediti anteriori ma fatti valere, in concorso con altri, in un momento successivo.
Secondo la Corte, infatti, a tale disposizione sono riconducibili «effetti di indebita ingerenza sullo svolgimento del processo esecutivo, e di orientamento della soddisfazione dei crediti tributari in favore dello Stato a detrimento del legittimo affidamento nella soddisfazione dei propri crediti riposto dagli altri creditori, senza che sussistano motivi imperativi di interesse generale che lo giustifichino»[20].
La sentenza n. 271 del 2017 ha invece ritenuto non fondata la questione di legittimità degli artt. 2877, comma 2, e 2884 cc, censurati, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui consentirebbero l’eseguibilità della riduzione di ipoteca solo sulla base di sentenza passata in giudicato, così impedendo al giudice di ordinarla con provvedimento cautelare d’urgenza.
Al riguardo, la Corte ha evidenziato che le norme censurate erano invece interpretabili – e per vero già interpretate da buona parte della giurisprudenza di merito[21] – in conformità ai parametri evocati dall’ordinanza di rimessione.
È stata, infine, ritenuta infondata la questione di legittimità dell’art. 2751-bis, n. 2, cc, come modificato dall’art. 1, comma 474, l. n. 205/2017, oggetto di duplice censura con riferimento all’art. 3, comma 1, Cost. nella parte in cui estende anche al credito per rivalsa Iva il privilegio generale attribuito al credito per le retribuzioni dei professionisti.
La sentenza n. 1 del 2020, infatti, ha affermato, da un lato, che la norma non determina alcuna disparità di trattamento rispetto ai crediti retributivi di «ogni altro prestatore d’opera», poiché, con interpretazione adeguatrice, va riferita all’intera categoria dei lavoratori autonomi[22]; e, dall’altro lato, che non sussiste alcun vizio neppure sotto il profilo dell’estensione al credito di rivalsa Iva del privilegio generale attribuito alle retribuzioni dei professionisti, giustificandosi tale estensione (diversamente da quanto è previsto per i crediti retributivi di agenti, coltivatori diretti, artigiani e cooperative) con l’esigenza di salvaguardare il compenso dei lavoratori autonomi (art. 35, comma 1, Cost.), poiché il relativo inadempimento comporta, in sostanza, una decurtazione della loro retribuzione.
Il tema degli effetti dei privilegi e delle garanzie sulla par condicio creditorum evoca riflessioni sulla disciplina delle procedure concorsuali, anch’essa interessata da alcune pronunzie di rilievo.
Con la sentenza n. 255 del 2017 è stata ritenuta non fondata la questione relativa all’art. 147, comma 5, l.fall., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui, nell’ipotesi di fallimento originariamente dichiarato nei confronti di una società di capitali, non ne consentirebbe l’estensione ad altri soci di fatto, siano essi persone fisiche o società[23].
Con pronunzia interpretativa di rigetto, la Corte ha richiamato le «sopravvenute e risolutive pronunce della Corte di Cassazione[24]» che hanno inteso in senso evolutivo la portata del riferimento, nella disposizione censurata, all’imprenditore individuale, «includendovi fattispecie non ancora prospettabili alla data della sua emanazione», e perciò equiparato la società di capitali all’impresa individuale ai fini della estensibilità del fallimento agli eventuali rispettivi soci di fatto.
La Corte è stata investita anche della questione di legittimità dell’art. 10 l.fall., nella parte in cui non consente la dichiarazione di fallimento anche oltre il termine di un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, qualora il rispetto di tale termine sia impedito dalla proposizione di una domanda di concordato preventivo, e il conseguente procedimento si sia concluso dopo la scadenza del termine annuale con esito negativo.
La questione è stata tuttavia dichiarata inammissibile, con la sentenza n. 9 del 2017, per difetto di motivazione sul presupposto logico-giuridico della sua non manifesta infondatezza; l’ordinanza di rimessione, infatti, non ha tenuto in debita considerazione l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che esclude la legittimazione dell’impresa cancellata ad attivare, nell’anno successivo alla cancellazione, una procedura di concordato che andrebbe ad affiancarsi a eventuali contrapposte istanze di fallimento[25].
Infine, la sentenza n. 245 del 2019 ha posto fine al risalente dibattito relativo alla disparità di trattamento, in termini di falcidia Iva, tra i soggetti fallibili ex art. 1 l.fall. e soggetti non fallibili, in quanto assoggettati alle procedure di composizione della crisi per sovraindebitamento di cui alla l. n. 3/2012.
Accogliendo la questione, la Corte ha così consentito la possibilità di stralciare parte del debito Iva anche nelle cd. procedure concorsuali minori, cui accedono – ad esempio – le persone fisiche, i professionisti, i consumatori, i soci illimitatamente responsabili per debiti personali, le ditte individuali e le cd. “società sotto soglia”.
In tal senso, peraltro, la decisione ha in certa misura anticipato la riforma già prevista dal d.lgs n. 14/2019 (codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), destinata a entrare in vigore dal 1° settembre 2021[26], ove risulta espunto dalla disciplina del sovraindebitamento il divieto di falcidia Iva e ritenute operate e non versate.
7. La responsabilità civile dei magistrati
Una considerazione distinta meritano poi le pronunzie che hanno riguardato i profili applicativi della l. n. 18 del 2015, che ha modificato la previgente disciplina della responsabilità civile dei magistrati.
La legge di modifica è stata posta all’attenzione della Corte anzitutto nella parte in cui (art. 3, comma 2), ha eliminato il cd. filtro di ammissibilità della domanda risarcitoria proposta nei confronti dello Stato.
A fondamento delle censure più rilevanti (fra le altre, tutte dichiarate inammissibili), è stato denunziato il contrasto della norma con il principio di ragionevole durata del processo; il filtro, infatti, risponderebbe al comune interesse del cittadino leso e dello Stato potenzialmente responsabile a che l’eventuale inammissibilità della domanda risarcitoria sia dichiarata al più presto e con procedura snella.
Ancora, si è invocato un contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento e della irragionevolezza; l’abolizione del “filtro”, infatti, confliggerebbe con il sempre più diffuso ricorso del legislatore a meccanismi consimili (quali, ad esempio, le “pronunce semplificate di inammissibilità” in rapporto alle impugnazioni ordinarie).
Il parametro di cui all’art. 111 Cost. è stato inoltre evocato in relazione al fatto che l’eliminazione del “filtro” incide su un meccanismo processuale funzionale alla tutela della serenità di giudizio del giudice, scongiurando il pericolo della cd. “giurisprudenza difensiva”.
Infine, l’illegittimità è stata denunziata in riferimento agli artt. 101 e 104 Cost. – perché la presenza di un “filtro”, che ponga il giudice al riparo da domande temerarie o intimidatorie, dovrebbe ritenersi indispensabile per la salvaguardia dei corrispondenti valori – e all’art. 25 Cost., perché in mancanza di tale meccanismo (che marcava una distinzione fra esame dei profili di ammissibilità e di quelli di merito dell’azione) il magistrato sarebbe incentivato a esercitare la facoltà di intervento nel giudizio risarcitorio, facendo così scattare l’obbligo della sua astensione nel processo originario, ai sensi dell’art. 51, comma 1, n. 3, cpc.
Con la sentenza n. 164 del 2017 la Corte ha ritenuto tutte le questioni non fondate.
In tal senso, ha anzitutto richiamato la giurisprudenza della Cgue in relazione alla “giustiziabilità” della pretesa risarcitoria del soggetto danneggiato per mezzo di un provvedimento giurisdizionale, dal cui esame è possibile enucleare l’operatività di due principi: il principio di equivalenza, in base al quale i rimedi accordati dagli Stati non possono essere «meno favorevoli» di quelle riguardanti analoghi reclami di natura interna, vale a dire delle altre “normali” azioni risarcitorie esercitabili dai cittadini nei confronti dello Stato in altre e diverse materie; e il principio di effettività, secondo il quale i meccanismi procedurali del diritto nazionale non devono essere congegnati in modo da rendere praticamente impossibile, o eccessivamente difficile, ottenere il risarcimento[27].
Ciò posto, la Corte ha osservato che le scelte del legislatore, scaturite dal bilanciamento fra diritto risarcitorio del danneggiato e salvaguardia delle funzioni giudiziarie, si pongono in continuità con detti principi e non evidenziano alcun profilo di irragionevolezza; l’abolizione del “filtro”, infatti, non incide sull’essenziale separazione fra gli ambiti di responsabilità dello Stato e del magistrato, questi ultimi caratterizzati da presupposti autonomi e più restrittivi.
Infine, la Corte ha evidenziato che gli istituti processuali evocati quali tertia comparationis sono in realtà del tutto eterogenei rispetto al modello di giudizio in questione, sì da non consentire che possa invocarsi alcuna disparità di trattamento; e che inoltre, secondo il diritto vivente, la pendenza di una causa contro lo Stato non costituisce ragione di astensione obbligatoria del giudice autore del provvedimento asseritamente dannoso, neppure ove questi sia intervenuto nel processo[28].
Un giudizio successivo ha invece riguardato l’inclusione, fra le ipotesi di colpa grave idonea a configurare la responsabilità del magistrato, della «manifesta violazione del diritto dell’Unione Europea» (art. 2, comma 1, lett. c, l. n. 218/2015); la relativa previsione, in base alla giurisprudenza Cgue, doveva intendersi comprensiva anche del caso di contrasto fra provvedimento giudiziario e interpretazione espressa dalla stessa Cgue sulla vincolatività delle decisioni della Commissione europea per il giudice nazionale, e ciò anche agli effetti dell’insorgenza, in caso di mancato adeguamento, di una responsabilità dello Stato per danni causati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Il dubbio di costituzionalità prospettava l’assoggettamento del giudice alle determinazioni assunte da autorità amministrative europee, con conseguente violazione dei principi di cui agli artt. 101 e 104 Cost., e con compromissione, altresì, del diritto di accesso del cittadino a un giudice indipendente e imparziale, desumibile dall’art. 24 Cost.
Con la sentenza n. 142 del 2018 la Corte ha ritenuto le questioni infondate.
Sul punto, la giurisprudenza della Cgue afferma costantemente che il soggetto legittimato a impugnare una decisione della Commissione, il quale abbia lasciato inutilmente decorrere il relativo termine perentorio, non può poi contestare la validità della decisione davanti ai giudici nazionali; richiamato tale consolidato orientamento, la Corte ha rilevato che questa preclusione non implica alcuna subordinazione della funzione giurisdizionale nazionale a quella amministrativa europea, ma discende «da una elementare esigenza di certezza del diritto (evitare che atti dell’Unione, produttivi di effetti giuridici, possano essere messi in discussione all’infinito)».
8. Procedura civile: la disciplina del rito applicabile
Passando agli argomenti di carattere processuale, la disamina delle pronunce di maggior rilievo non può che avere inizio da quelle concernenti il tema del rito applicabile.
Il ruolo essenziale svolto dalla predeterminazione delle regole del rito nell’ambito del principio del cd. giusto processo[29] ha condotto la Corte all’esame di diverse fattispecie, tutte interessate, nei tempi più recenti, da ripetuti interventi di riforma; il sindacato di legittimità, per la maggior parte dei casi, ha riguardato le scelte discrezionali esercitate dal legislatore nell’adozione di modelli processuali finalizzati al perseguimento degli obiettivi di semplificazione, tramite la riduzione dei tempi del procedimento, lo snellimento dell’attività istruttoria, la prescrizione di modelli decisionali accelerati.
In tale quadro, ad esempio, la Corte è stata chiamata a verificare la legittimità dell’art. 426, comma 1, cpc, nella parte in cui prevede che il giudice, «quando rileva che una causa promossa nelle forme ordinarie riguarda uno dei rapporti previsti dall’articolo 409, fissa con ordinanza l’udienza di cui all’articolo 420 e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi».
La questione è stata sollevata sulla base della premessa che tale norma è ormai costantemente interpretata nel senso di consentire che la citazione possa produrre gli effetti del ricorso solo ove depositata in cancelleria entro il termine di cui all’art. 641 cpc, non essendo sufficiente che, entro tale data, sia stata notificata alla controparte[30]; ne risulterebbe così impedita la produzione degli effetti sostanziali e processuali della domanda in conformità alla disciplina del rito ordinario, seguito fino al mutamento, con conseguente violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Con la sentenza n. 45 del 2018 la Corte ha ritenuto la questione inammissibile, perché destinata a incidere su un ambito riservato alla discrezionalità del legislatore.
La scelta di dar corso a «una sanatoria piena, e non dimidiata, dell’atto irrituale, per raggiungimento dello scopo» risponde infatti, secondo la Corte, a una valutazione di opportunità, e di maggior coerenza di sistema, ma non per questo «ad una esigenza di reductio ad legitimitatem della disciplina attuale, posto che tale disciplina (a sua volta coerente ad un principio di tipicità e non fungibilità delle forme degli atti) non raggiunge quella soglia di manifesta irragionevolezza che consente il sindacato di legittimità costituzionale sulle norme processuali»[31].
Anche il cd. decreto “semplificazione riti” (n. 150/2011) ha costituito oggetto di censura, nella parte inerente alla sindacabilità dei provvedimenti sommari; in particolare, la questione di legittimità ha investito gli artt. 5, comma 1, 6, comma 1, e 32, comma 3.
La prima norma afferma la non impugnabilità dell’ordinanza con la quale il giudice decide sulla sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, mentre le restanti ne richiamano il contenuto con riferimento, rispettivamente, alla materia delle opposizioni a ordinanza-ingiunzione e alle opposizioni alle ingiunzioni per il pagamento dei crediti patrimoniali degli enti pubblici.
Il dubbio di costituzionalità è stato riferito all’art. 76, perché il diniego di sindacato di provvedimenti cautelari contrastava con la delega legislativa, che prevedeva al riguardo la necessità di un regime normativo differenziato, e all’art. 3 Cost., attesa la disparità di trattamento che ne deriva con riferimento alla disciplina del processo cautelare uniforme.
La Corte ha ritenuto le questioni infondate con la sentenza n. 189 del 2018.
La violazione dell’art. 76 è infatti stata esclusa perché la delega – i cui criteri direttivi sono finalizzati alla semplificazione dei procedimenti civili di cognizione – risulta attuata mediante la riserva al giudice della cognizione di decidere definitivamente sulla cautela unitamente al merito, «operando nell’ambito della fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi».
Quanto, poi, alla dedotta violazione dell’art. 3, la Corte ha ritenuto l’eterogeneità dei tertia comparationis evocati, corrispondenti ai provvedimenti cautelari per i quali vale la clausola generale di reclamabilità, avuto riguardo alla peculiarità delle controversie in relazione alle quali la norma censurata dispone la non impugnabilità delle ordinanze che decidono sulla sospensione del provvedimento impugnato.
Con riguardo alla disciplina specifica dei riti, la sentenza n. 79 del 2020 ha interessato profili inerenti al giudizio per intimazione di sfratto, in termini che intersecano anche la disciplina sostanziale del contratto di locazione.
La questione, in particolare, ha riguardato l’art. 55 della legge n. 392/1978, nella parte in cui non consente di impedire la caducazione del contratto laddove, decorso il cd. termine di grazia, a carico del conduttore residui il pagamento delle spese processuali; ovvero quando, al momento della decisione, il rimedio risolutorio determini un sacrificio sproporzionato dell’interesse abitativo del conduttore, tenuto conto dell’entità del debito residuo per canoni scaduti, oneri accessori o interessi, e avuto riguardo alle reciproche posizioni delle parti.
Di una prima censura – formulata in riferimento all’art. 3 Cost. – la Corte ha ritenuto l’infondatezza.
Premesso, infatti, che con la previsione del rito locatizio il legislatore, in presenza di una finalità meritevole di tutela, ha approntato una disciplina speciale in bonam partem per il conduttore, la sentenza ha ritenuto non irragionevole la mancata estensione di tale regime a ipotesi ulteriori, specie nella materia processuale, caratterizzata da discrezionalità legislativa particolarmente ampia.
La Corte ha poi ritenuto infondata anche la censura formulata in riferimento all’art. 111 Cost., ritenendo che al legislatore sia consentito differenziare i modi della tutela giurisdizionale onde adeguarli al conseguimento di determinate finalità, tra le quali assume rilevanza quella di definire il giudizio evitando abusi del diritto di difesa da parte del conduttore moroso che protragga eccessivamente il godimento del bene locato.
Il rito del lavoro, infine, è stato interessato dalla sentenza n. 212 del 2020, che ha dichiarato l’illegittimità – per contrasto con l’art. 3 Cost. – dell’art. 6 l. n. 604/1966[32] nella parte in cui non prevede che l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento sia inefficace ove non seguita, entro i successivi centottanta giorni, oltre che dagli adempimenti ivi indicati, anche dal deposito del ricorso cautelare ante causam.
Il giudizio principale era stato promosso da un lavoratore con ricorso d’urgenza avverso il trasferimento in altra regione disposto nei suoi confronti dal datore di lavoro[33]; il termine di 180 giorni, previsto per impedire la decadenza dall’impugnazione, era stato rispettato con l’avvio del giudizio sommario ma non nell’introduzione di quello di merito.
La Corte ha osservato in premessa che al lavoratore sono riconosciute tre strade alternative per la conservazione degli effetti dell’impugnazione stragiudiziale: il ricorso di merito a cognizione piena[34], la domanda volta all’attivazione della procedura di conciliazione oppure la richiesta di costituzione di un collegio arbitrale.
Tratto comune a ciascuna delle strade percorribili è la sua rispondenza allo scopo, perseguito dal legislatore con la norma censurata, di far emergere tempestivamente il contenzioso sull’impugnativa dell’atto datoriale, onde «superare l’incertezza gravante sul datore di lavoro e suscettibile di incidere in modo significativo sull’organizzazione e sulla gestione dell’impresa».
Ciò posto, la Corte ha osservato che la mancata inclusione degli atti introduttivi del giudizio cautelare fra gli atti idonei a tale scopo è contraria al principio di eguaglianza, ove raffrontata con l’idoneità riconosciuta, invece, a quelli che attivano la procedura conciliativa o arbitrale, nonché al principio di ragionevolezza, in riferimento alla finalità sottesa alla previsione stessa di un termine di decadenza, poiché la domanda di tutela cautelare è «idonea a far emergere il contenzioso insito nell’impugnazione dell’atto datoriale».
Sotto il primo profilo, infatti, la tutela cautelare – riconducibile all’esercizio della giurisdizione e alla garanzia del giusto processo – non può avere un trattamento deteriore rispetto ai sistemi alternativi di composizione della lite, specie ove si consideri che essa è significativa di un’iniziativa del lavoratore alla quale il datore non può sottrarsi (né rilevando il fatto che la “strumentalità attenuata” dei provvedimenti cautelari non sarebbe mai idonea a determinare la certezza sul rapporto giuridico sottostante, potendo ciascuna delle parti introdurre il successivo giudizio di merito ove residuino incertezze).
Quanto alla violazione del principio di ragionevolezza, poi, il contenzioso conseguente all’impugnazione dell’atto emerge in piena luce con l’avvio del processo cautelare, realizzando così appieno lo scopo della norma in termini che rendono del tutto sproporzionata la successiva perdita di efficacia di tale impugnazione per il mancato avvio del giudizio ordinario come attività processuale ulteriore.
9. Le notificazioni
Le decisioni in tema di notificazioni (così come quelle inerenti alle impugnazioni, di cui al prossimo paragrafo) concernono per lo più il parametro dell’art. 24 Cost.; le riflessioni della Corte, a tale proposito, si articolano tenendo fermo il rilievo dell’ampia discrezionalità del legislatore nella materia processuale, e sono perciò volte a una rigorosa verifica circa l’effettiva copertura costituzionale delle garanzie che, nella prospettazione dei giudici comuni che hanno sollevato le questioni, costituiscono estrinsecazione del diritto di difesa.
In tema di notificazioni, la decisione di maggior rilievo è costituita dalla sentenza n. 75 del 2019, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità, per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell’art. 16-septies dl n. 179/2012[35], nella parte in cui prevede l’applicabilità dell’art. 147 cpc anche alla notifica eseguita con modalità telematiche, e pertanto considera che la notifica eseguita dopo le ore 21 si perfezioni (per il notificante) soltanto alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della relativa ricevuta.
Secondo la Corte, la fictio iuris che comporta il differimento al giorno seguente degli effetti della notifica eseguita dal mittente dopo le ore 21 è giustificata nei confronti del destinatario, poiché il divieto di notifica telematica dopo tale ora mira a tutelare il suo diritto al riposo in una fascia oraria nella quale egli sarebbe altrimenti costretto a un continuo controllo della casella di posta elettronica.
Lo stesso differimento appare tuttavia irragionevole nei confronti del mittente; esso, infatti, comporta un immotivato pregiudizio al pieno esercizio del diritto di difesa (segnatamente, nella fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto a impugnare), poiché gli impedisce di utilizzare appieno il termine utile per approntare la propria difesa, che, nel caso di impugnazione, scade allo spirare della mezzanotte dell’ultimo giorno.
Tale ultimo impedimento, infatti, non è in alcun modo funzionale alla tutela del diritto al riposo del destinatario, e opererebbe quantunque il mezzo tecnologico consenta il pieno utilizzo del termine.
Inoltre, la Corte ha ritenuto irrazionale la restrizione delle potenzialità che caratterizzano e diversificano il sistema telematico rispetto al sistema tradizionale di notificazione, legato all’apertura degli uffici; in tal modo, infatti, si finirebbe con il recidere l’affidamento che lo stesso legislatore ha ingenerato nel notificante immettendo il sistema telematico nel circuito del processo.
L’illegittimità della norma censurata è stata così superata, con la sentenza di accoglimento, mediante applicazione della regola generale di «scindibilità soggettiva degli effetti della notificazione anche alla notifica effettuata con modalità telematiche»[36].
Con la sentenza n. 175 del 2018 (poi successivamente confermata dalle ordinanze nn. 104 del 2019 e 2 del 2020) la Corte ha invece ritenuto non fondata la questione di legittimità della cd. “notificazione diretta” da parte dell’agente di riscossione, di cui all’art. 14 l. n. 890/1982 e all’art. 1, comma 161, l. n. 296/2006, censurati nella parte in cui non prevedono che la notifica della cartella di pagamento tramite il servizio postale avvenga con l’osservanza delle forme della notificazione a mezzo posta, di cui all’art. 7 l. n. 890/1982.
Secondo la Corte, tale forma di notificazione non comporta alcun privilegio in favore dell’agente della riscossione, così da non violare l’art. 3 Cost., trovando giustificazione nella natura «sostanzialmente pubblicistica della sua posizione e della sua attività», anche a seguito della riforma del sistema nazionale di riscossione.
D’altro canto, gli scostamenti che le norme censurate presentano rispetto al regime ordinario della notificazione a mezzo del servizio postale (che costituiscono il proprium della semplificazione insita nella notificazione “diretta”), pur segnando un arretramento del diritto di difesa del destinatario dell’atto, non superano il limite di compatibilità con i parametri di cui agli artt. 24 e 111 Cost.; non ne riceve infatti pregiudizio il diritto del destinatario della notifica a essere posto in condizione di conoscere il tipo di atto e il suo contenuto, con l’ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità.
10. Le impugnazioni
In tema di impugnazioni, la giurisprudenza della Corte si è incentrata sulla questione relativa alla misura ripristinatoria della riapertura del processo, con specifico riferimento al mancato inserimento, fra i motivi di revocazione della sentenza di cui agli artt. 395 e 396 cpc, del caso in cui detto rimedio si renda necessario «per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».
La questione è stata ritenuta non fondata con la sentenza n. 123 del 2017[37], ove è affermato che «nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo su richiesta dei soggetti che hanno adito vittoriosamente la Corte EDU, allorquando ciò sia necessario per conformarsi alla sentenza definitiva di quest’ultima»; la Corte di Strasburgo si è infatti «limitata a incoraggiare l’introduzione della predetta misura, rimettendo, tuttavia, la relativa decisione agli Stati contraenti».
Tale diversità discende dal rilievo delle differenze fra i processi civili ed amministrativi e quelli penali: oltre al fatto che nei primi non è in gioco la libertà personale, gli stessi si caratterizzano, poi, per l’esigenza di tutelare i soggetti, diversi dal ricorrente a Strasburgo e dallo Stato, che, pur avendo preso parte al giudizio interno, non sono parti necessarie del giudizio convenzionale, sicché nei loro confronti va rispettata la certezza del diritto garantita dalla res iudicata.
Detta ultima esigenza, in particolare, importa una ponderazione – alla luce dell’art. 24 Cost. – fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, che spetta in via prioritaria al legislatore; anche se, ha evidenziato in proposito la Corte, una tale opera «sarebbe certamente resa più agevole da una sistematica apertura del processo convenzionale ai terzi, per mutamento delle fonti convenzionali o in forza di una loro interpretazione adeguatrice da parte della stessa Corte EDU».
Con l’ordinanza n. 19 del 2018 e la sentenza n. 93 del 2018, la Corte ha confermato tale impostazione[38]; e anche nella seconda di tali decisioni, in particolare, la Corte ha ribadito l’auspicio di un sistematico coinvolgimento dei terzi nel processo convenzionale, ovvero di un intervento del legislatore che permetta di conciliare il diritto di azione delle parti vittoriose a Strasburgo con quello di difesa dei terzi.
Infine, la sentenza n. 58 del 2020 ha ritenuto non fondata la censura di illegittimità dell’art 354 cpc, in riferimento a diversi parametri, «nella parte in cui non prevede che il giudice d’appello debba rimettere la causa al giudice di primo grado, se è mancato il contraddittorio, non essendo stata da questo neppure valutata, in conseguenza di un’erronea dichiarazione di improcedibilità dell’opposizione, la richiesta di chiamata in causa del terzo, proposta dall’opponente in primo grado, con conseguente lesione del diritto di difesa di una delle parti».
Secondo la Corte, la tassatività delle ipotesi di remissione al primo giudice costituisce espressione della discrezionalità del legislatore in ambito processuale, in termini che superano il vaglio di non manifesta irragionevolezza; né, del resto, il principio del simultaneus processus gode di garanzia costituzionale, «trattandosi di un mero espediente tecnico finalizzato, laddove possibile, a realizzare un’economia dei giudizi e a prevenire il conflitto tra giudicati», cosicché il diritto alla difesa e a un giusto processo non ne subiscono pregiudizio, potendo la pretesa sostanziale dell’interessato esser fatta valere «nella competente, pur se distinta, sede giudiziaria con pienezza di contraddittorio e difesa».
11. Le spese
In materia di spese, due rilevanti decisioni hanno anzitutto riguardato i presupposti per l’adozione di statuizioni diverse, o “speciali”, rispetto all’ordinario criterio della soccombenza.
Con la sentenza n. 77 del 2018[39], concernente i presupposti per la compensazione delle spese di lite da parte del giudice, la Corte ha anzitutto precisato che deve ritenersi consentito al giudice – il quale dubiti della legittimità costituzionale della sola disposizione che governa le spese di lite, e di cui si debba fare applicazione – di sospendere il giudizio limitatamente alla relativa pronuncia, decidendo per il resto la causa nel merito.
Il legame di accessorietà tra la pronuncia nel merito e quella sulle spese è infatti recessivo rispetto all’operatività del principio della ragionevole durata del processo «coniugato con il favor per l’incidente di legittimità costituzionale», il che suggerisce «che non sia ritardata la decisione del merito della causa, rispondendo ciò all’interesse apprezzabile delle parti alla sollecita definizione di quanto possa essere deciso senza fare applicazione della disposizione indubbiata».
Posta tale premessa, la Corte ha poi ritenuto l’illegittimità dell’art. 92, cpv., cpc nella parte in cui non consente al giudice di disporre la compensazione delle spese anche qualora sussistano “altre” gravi ed eccezionali ragioni, analoghe a quelle indicate in modo tassativo dalla disposizione stessa (ossia l’«assoluta novità della questione trattata» e il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti»).
In tal senso, ricostruita l’origine storica della norma in scrutinio – con particolare riguardo alla genesi della scelta legislativa di circoscrivere la compensazione, in deroga al principio di soccombenza, alla (generica) ricorrenza di «gravi ed eccezionali ragioni», come previsto dall’art. 92 cpc prima dell’ultimo intervento riformatore –, la Corte ha ritenuto che la successiva introduzione di due sole ipotesi tassative non superi positivamente lo scrutinio di legittimità.
In primo luogo, infatti, una tale limitazione contrasta con i principi di ragionevolezza ed eguaglianza, poiché attribuisce valore tassativo a un novero di ipotesi aventi invece mero carattere paradigmatico e semplice funzione parametrica ed esplicativa, in quanto riconducibili alla stessa ratio che giustifica la deroga al principio della soccombenza.
Inoltre essa contrasta con i parametri di cui agli artt. 24 e 111 Cost., «perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite, anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile, può costituire per la parte una remora ingiustificata a far valere i propri diritti[40]».
La sentenza n. 139 del 2019 ha invece deciso una questione di legittimità dell’art. 96, comma 3, cpc.
Le censure del remittente si appuntavano, nella specie, sulla mancata previsione dell’entità minima e massima dell’importo del quale il giudice può disporre il pagamento a carico della parte istante o resistente con dolo o colpa grave; siffatta omissione, assegnando al giudice un potere ampiamente discrezionale, palesava al rimettente un contrasto con la riserva di legge stabilita dall’art. 23 Cost., nonché con il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.
La Corte ha ritenuto inammissibile quest’ultima censura – poiché il parametro evocato riguarda le sole sanzioni penali e quelle amministrative di natura punitiva, non già l’imposizione di prestazioni patrimoniali – e non fondata la prima.
A tale ultimo riguardo, la sentenza ha osservato: che la previsione di determinazione equitativa della somma oggetto di condanna ha sufficiente base legale (tenuto conto dell’ambito processuale che occupa, caratterizzato da ampia discrezionalità del legislatore); che il criterio equitativo si pone come integrazione, e non come alternativa, alle regole di diritto[41]; che nella fattispecie, peraltro, deve intendersi richiamato il criterio di proporzionalità adottato nelle tariffe forensi, e la somma va dunque rapportata alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa.
Infine, la sentenza n. 135 del 2019 ha riguardato il tema del patrocinio a spese dello Stato.
Nell’occasione, la Corte ha dichiarato la parziale illegittimità, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 143, comma 1, dPR n. 115/2002 (testo unico sulle spese di giustizia) nella parte in cui non prevede che siano anticipati dall’erario gli onorari e le spese spettanti al difensore d’ufficio di genitore irreperibile, nei processi per la dichiarazione di adottabilità di minori in condizioni di abbandono.
Un tale diniego appare infatti irragionevole rispetto alla corrispondente previsione relativa al processo penale, che dispone invece l’anticipazione del compenso al difensore d’ufficio di persona irreperibile; ad avviso della Corte, questa disparità di trattamento «è resa ancor più priva di giustificazione dall’esistenza di significativi profili di omogeneità tra i due citati processi, in relazione alla natura degli interessi in gioco e al ruolo del difensore chiamato ad apprestarvi tutela, e dal fatto che essa non deriva da una scelta definitiva del legislatore, ma dalla sua inerzia nell’emanare la specifica disciplina in materia, richiesta dalla stessa norma censurata».
12. Il processo esecutivo
Diversi profili che variamente intersecano il tema dell’effettività della tutela sono stati interessati da alcune pronunzie concernenti la disciplina del processo esecutivo.
In tema di pignoramento, la sentenza n. 172 del 2019 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale – sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo e secondo comma, 81 e 111, primo, secondo, sesto e settimo comma, Cost. – dell’art. 549 cpc[42], nella parte in cui, con riferimento al pignoramento presso terzi, stabilisce le forme del nuovo procedimento per l’accertamento dell’obbligo del terzo pignorato in caso di “contestazioni” sulla sua dichiarazione, caratterizzandolo come accertamento sommario davanti allo stesso giudice dell’esecuzione.
La censura, avente ad oggetto la scelta legislativa di un’istruttoria “deformalizzata”, è stata disattesa sul rilievo della conformità della norma indubbiata all’obiettivo di assicurare la ragionevole durata del processo, posto che risultano rispettati i principi fondamentali che lo governano, quali il diritto di difesa – poiché gli accertamenti del giudice vengono compiuti nel contraddittorio – e la sindacabilità del provvedimento che definisce il giudizio (il quale, succintamente motivato, è impugnabile nelle forme e nei termini di cui all’art. 617 cpc, e soggetto anche al ricorso straordinario per Cassazione).
Sempre in tema di pignoramento, l’ordinanza n. 91 del 2017 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., dell’art. 545, comma 4, cpc, nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta della parte di retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita, ovvero, in via subordinata, nella parte in cui non prevede le medesime limitazioni in materia di pignoramento per crediti tributari disposte dall’art. 72-ter dPR n. 602/1973.
Al riguardo, richiamando le considerazioni già svolte con la sentenza n. 248 del 2015, la Corte ha precisato che la tutela della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumenti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti, ma soltanto di attenuarla in casi eventuali e particolari, la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore.
Mette conto, inoltre, menzionare la sentenza n. 90 del 2019, resa in tema di compenso agli ausiliari per la vendita immobiliare.
La censura aveva ad oggetto l’art. 161, comma 3, disp. att. cpc – nella parte in cui prevede che il compenso dell’esperto venga calcolato in base al ricavato realizzato dalla vendita del bene, e che, prima della vendita, non possano essere liquidati acconti in misura superiore al 50 per cento del valore di stima – censurato per contrasto, fra l’altro, con il principio di ragionevolezza.
Nel ritenere non fondata tale censura, la Corte ha anzitutto osservato che la finalità della norma è porre rimedio a prassi distorte, che inducono ad attribuire valori di stima spropositati al solo scopo di conseguire compensi più cospicui; ma la repressione di tale fenomeno patologico non esaurisce gli obiettivi del legislatore.
Vi è infatti, e anzitutto, uno scopo di armonizzazione e semplificazione, che si realizza recependo, per il settore delle espropriazioni immobiliari, un criterio di determinazione del compenso dell’esperto già applicato in quelle mobiliari (l’art. 518, comma 3, cpc, come introdotto dall’art. 6, comma 1, l. n. 52/2006).
Inoltre, la finalità di contenimento dei costi e di razionalizzazione non è perseguita con mezzi sproporzionati, e tali da comportare un sacrificio arbitrario del diritto del professionista a essere adeguatamente remunerato per l’opera svolta. Il legislatore, sotto tale profilo, ha esercitato la propria discrezionalità in modo non irragionevole, contemperando tale diritto «con la doverosa considerazione del carattere pubblicistico dell’incarico» e perciò con l’obiettivo «di non gravare la procedura di costi eccessivi, che potrebbero pregiudicare la stessa tutela esecutiva del credito».
La pronunzia conclude indicando la possibilità che un compenso adeguato per l’ausiliario sia determinato dal giudice con ricorso ai parametri normativi e ai criteri ivi indicati[43], poiché l’ordinamento offre «gli strumenti più efficaci per proporzionare il compenso alla difficoltà dell’incarico e alla più vasta gamma dei compiti, senza dar luogo a duplicazioni di sorta e senza svilire l’impegno assicurato dall’ausiliario».
Infine, in tema di esecuzione esattoriale, la sentenza n. 114 del 2018 ha dichiarato illegittimo, per violazione degli artt. 24 e 113 Cost., l’art. 57, comma 1, lett. a, dPR n. 602/ 1973, come sostituito dall’art. 16 d.lgs n. 46/1999, nella parte in cui non prevede che anche in tale ambito siano ammesse le opposizioni regolate dall’art. 615 cpc.
La Corte ha ritenuto che tale omissione, pur non determinando alcun vuoto di tutela nel caso di opposizione riguardante la regolarità formale e la notificazione del titolo esecutivo sotto la giurisdizione del giudice tributario, assume rilievo nei diversi casi in cui questa giurisdizione non sussista (come nel caso di opposizione agli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento), in quanto «confligge frontalmente con i parametri evocati, dovendo essere assicurata in ogni caso una risposta di giustizia a chi si oppone alla riscossione coattiva».
La peculiarità dei crediti tributari non giustifica, infatti, che una tutela non possa essere riconosciuta se non dopo la chiusura della procedura di riscossione, e in termini meramente risarcitori; la possibilità di attivare il sindacato del giudice su atti immediatamente lesivi è coessenziale al diritto di difesa, e non può quindi ritenersi legittimo escludere o limitare (a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti) la tutela giurisdizionale contro gli atti della p.a.
13. Le soluzioni alternative alla disputa
Gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie individuati dal legislatore in forma di percorsi a finalità deflattiva, necessariamente propedeutici all’instaurazione della lite, oggetto di un nutrito dibattito fra gli interpreti e gli addetti ai lavori, hanno interessato anche il Giudice delle leggi fin da epoca immediatamente successiva alla loro introduzione.
Con la sentenza n. 272 del 2012, la Corte aveva dichiarato illegittima, per eccesso di delega, la norma che prevedeva la mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale; il dl n. 69/2013 ha così reintrodotto la mediazione civile quale condizione di procedibilità delle domande giudiziali relative a talune materie.
Tale ultima previsione è stata nuovamente censurata tanto in sé, quanto in relazione al previsto obbligo di pagamento (di importo pari al valore del contributo unificato per la lite) per il caso in cui la parte istante non abbia previamente esperito il relativo tentativo; il dubbio di costituzionalità si è fondato, anzitutto, sul difetto del carattere di urgenza tale da giustificare un intervento con decreto (evincibile, nella prospettazione del rimettente, dal fatto che lo stesso decreto prevedeva l’applicazione differita della condizione di procedibilità); quindi sul rilievo del difetto di coerenza funzionale con la materia del decreto stesso.
Con la sentenza n. 97 del 2019 la Corte ha ritenuto non fondate le questioni; per un verso, infatti, ha rilevato che l’urgenza «non postula inderogabilmente un’immediata applicazione delle disposizioni normative contenute nel decreto-legge»; e, per il restante profilo di censura, che la coerenza funzionale della previsione può ravvisarsi nella «omogeneità finalistica» che caratterizza l’obbligo di mediazione preventiva, che appare comunque funzionale all’unico scopo – sotteso al decreto – «di approntare rimedi urgenti anche là dove ne sia stata procrastinata l’applicabilità».
La Corte ha infine dissipato gli ulteriori dubbi di costituzionalità riferiti al principio di uguaglianza, e segnatamente alle difformità che emergerebbero, nell’ambito del procedimento monitorio, fra la disciplina censurata e quella relativa alle cause per le quali è prevista la negoziazione assistita, incombente non necessario ove il giudizio a cognizione piena venga introdotto con opposizione a decreto ingiuntivo.
Il diverso trattamento è infatti giustificato dalla specialità del procedimento di mediazione, connotato dal ruolo centrale svolto da un soggetto, il mediatore, terzo e imparziale; la stessa neutralità non è invece ravvisabile nella figura dell’avvocato che assiste le parti nella procedura di negoziazione assistita.
14. La ragionevole durata del processo civile e il diritto all’equo indennizzo
Infine, si è arricchita anche nell’ultimo triennio la già nutrita produzione giurisprudenziale in materia di ragionevole durata del processo civile, in esito a questioni sollevate con riferimento alla l. n. 89/2001 (cd. “legge Pinto”), sulla quale il legislatore è peraltro intervenuto a più riprese fino al 2015.
La sentenza n. 88 del 2018 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 4 della legge Pinto[44], nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta, una volta superato il termine di ragionevole durata, in pendenza del procedimento presupposto.
La decisione della Corte si è innestata sul contenuto di una precedente pronunzia (la sentenza n. 30 del 2014) che, pur ritenendo inammissibile la questione per la mancanza di “rime obbligate” cui conformare la richiesta pronuncia additiva, aveva tuttavia rilevato una carenza, in tal senso, nella legislazione nazionale, e rivolto un monito affinché si ponesse rimedio all’eccessivo protrarsi di tale vulnus.
E proprio tale riscontrato vulnus, ad avviso della Corte, non è stato efficacemente rimosso dal legislatore, poiché «i rimedi preventivi introdotti (…) non sono destinati a operare in tutte le ipotesi (tra cui quelle al vaglio nei giudizi a quibus) nelle quali, a quella data, la durata del processo abbia superato la soglia della ragionevolezza, risultando quindi privi di effettività rispetto ad essa».
Secondo la Corte, pertanto, rinviare l’attivazione dell’unico strumento disponibile a un momento successivo alla conclusione del procedimento-presupposto «significa inevitabilmente sovvertire la ratio per la quale è concepito, connotando di irragionevolezza la relativa disciplina».
Con la sentenza n. 121 del 2020, la Corte ha deciso – nel senso della non fondatezza – la questione di legittimità inerente all’inammissibilità della domanda di equo indennizzo per il caso di mancato esperimento dei cd. rimedi preventivi (introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione, o corrispondente richiesta di passaggio di rito ex art. 183-bis cpc, ovvero decisione a seguito di trattazione orale).
La questione era stata formulata con espresso richiamo alla sentenza n. 34 del 2019, che – a dire del rimettente – concerneva una fattispecie «del tutto analoga»; con tale decisione, infatti, la Corte aveva dichiarato illegittimo l’art. 54, comma 2, dl 25 giugno 2008, n. 112, laddove prevedeva la “improponibilità” della domanda di equa riparazione se, nel giudizio amministrativo presupposto, non fosse stata presentata l’istanza di prelievo di cui all’art. 71, comma 2, del codice del processo amministrativo.
In questo secondo caso, tuttavia, la Corte ha evidenziato la profonda differenza fra la norma censurata e quella (pretesamente) corrispondente nel processo amministrativo[45]; la prima, infatti, «subordina l’ammissibilità della domanda di equo indennizzo per durata non ragionevole del processo, non già alla proposizione di un’istanza con effetto dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” – che si riduce ad un adempimento puramente formale – bensì alla proposizione di possibili, e concreti, “modelli procedimentali alternativi”, volti ad accelerare il corso del processo, prima che il termine di durata massima sia maturato».
Secondo la Corte, dunque, l’effettivo mutamento dello schema decisorio non dipende direttamente da una richiesta della parte (che non comporta alcun vincolo per il giudicante), ma dalla valutazione dell’opportunità o meno di aderirvi, che spetta esclusivamente al giudice di merito.
Di particolare interesse è, infine, la sentenza n. 12 del 2020, con la quale la Corte ha ritenuto non fondata la questione sollevata in relazione al mancato riconoscimento del diritto a equo indennizzo nelle procedure di liquidazione coatta amministrativa (lca).
La Corte ha escluso la sussistenza del denunziato vulnus al principio di uguaglianza, evocato con riferimento alle altre procedure concorsuali, evidenziando che nell’ambito della lca si configura, rispetto a queste, una distinta posizione creditoria.
La lca, infatti, «coinvolge interessi pubblici preminenti (rispetto a quelli prettamente esecutivi)»; inoltre, «la posizione dei creditori non è priva di tutela, a fronte dei ritardi nello svolgimento della procedura, potendosi essi avvalere degli ordinari rimedi riparatori (legge n. 241 del 1990, art. 2-bis, comma 1)».
15. Conclusioni
All’esito di questo percorso espositivo, può essere opportuno domandarsi quali indicazioni ne provengano per il giudice civile, al quale, per primo, spetta – quale dovere posto a pena di inammissibilità della questione[46] – di procedere all’interpretazione conforme alla Costituzione delle norme che governano il contenzioso sottoposto alla sua giurisdizione.
Il panorama delle decisioni esaminate evidenzia, anzitutto, che nei (non rari) casi in cui le questioni hanno prospettato una violazione dell’art. 3 Cost., la Corte ha reso indicazioni nitide con riferimento alle ipotesi di contrasto tanto con il principio di uguaglianza, quanto con il canone di ragionevolezza della norma.
Sotto il primo profilo, in particolare, la Corte si è mostrata assai rigorosa nel valutare l’adeguatezza dei tertia comparationis evocati dai giudici rimettenti; l’indicazione che se ne trae è dunque quella di rifuggire ogni tentativo di sovrapporre fattispecie semplicemente “assonanti”, e di tenere invece conto di tutti i profili che caratterizzano le norme dedotte come termini di paragone, soprattutto di quelli funzionali e teleologici.
Un identico rigore la Corte ha poi dimostrato nello scrutinio del rispetto del canone di ragionevolezza intrinseca; in tal senso, la raccomandazione che può trarsi per il giudice comune è quella di tenere conto di tutti gli interessi costituzionalmente rilevanti che risultano coinvolti nella previsione normativa scrutinata, e di procedere al relativo bilanciamento verificando che esso non sia stato «realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale[47]».
In diversi casi, come si è osservato, i giudici hanno ravvisato limitazioni al diritto alla difesa, spesso tali da ridondare anche in violazioni del principio del “giusto processo”; su tali profili, le decisioni appaiono concordi nel muovere dal necessario presupposto del preliminare accertamento circa il fatto che la specifica tutela di cui si ipotizza la lesione goda, in sé considerata, di copertura costituzionale, o non si limiti a costituire una forma specifica di presidio, adottata dal legislatore ordinario nella cornice di un più ampio principio.
Laddove, infine, il giudice denunzi un’invasione degli ambiti di competenza legislativa, la Corte ha significato in modo espresso che il rispetto del riparto costituzionale delle competenze va verificato avendo cura di individuare con precisione la materia oggetto dell’intervento normativo in esame, tenendo conto, soprattutto, della ratio e della finalità della disciplina che essa stabilisce, e «tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato»[48].
1. Cfr. D. Ferri, La giurisprudenza costituzionale sui diritti delle persone con disabilità e lo Human Rights Model of Disability: “convergenze parallele” tra Corte costituzionale e Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità, in Dirittifondamentali.it, n. 1/2020, par. 1 (pp. 523-527).
2. Cfr. ibid., nonché U. De Siervo, Libertà negative e positive, in R. Belli (a cura di), Libertà inviolabili e persone con disabilità, Franco Angeli, Milano, 2000, p. 35.
3. L’ordinanza n. 105 del 2020 ha poi dichiarato manifestamente inammissibile, per sopravvenuta carenza di oggetto, una successiva questione sollevata sempre con riferimento all’art. 10 della legge n. 91/1992.
4. Osserva G. Bonilini, Il beneficiario di amministrazione di sostegno ha, come regola, la capacità di donare, in Famiglia e diritto, n. 8-9/2019, p. 751, che tale decisione pone un punto, fermo e definitivo, sull’interrogativo circa i confini della capacità del beneficiario di amministrazione di sostegno, ma che, al contempo, un’interpretazione sistematica delle norme poste a disciplina dell’istituto avrebbe ben potuto condurre al medesimo risultato interpretativo.
5. La questione sollevata aveva ad oggetto l’art. 4, comma 1-bis, d.lgs n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a, n. 2, dl n. 113/2018, convertito con modificazioni nella l. n. 132/2018; la sentenza ha affermato, in via consequenziale, anche l’illegittimità delle restanti disposizioni di tale ultimo articolo.
6. È richiamata, al riguardo, la sentenza n. 120 del 1967.
7. Cfr. ad esempio, G.M. Flick, Diritto ad avere un genitore e/o diritto ad essere un genitore: una riflessione introduttiva, in Rivista AIC, n. 1/2017, pp. 9-10; B. Liberali, Il divieto di maternità surrogata e le conseguenze della sua violazione: quali prospettive per un eventuale giudizio costituzionale?, in Osservatorio costituzionale, n. 5/2019, pp. 197 ss. Di valutazione delle intenzioni del legislatore «quale interprete della collettività nazionale», del resto, parla espressamente anche la sentenza n. 221 del 2019, di cui infra.
8. Si trattava, segnatamente, degli artt. 1, commi 1 e 2, 2, 4, 5 e 12, commi 2, 9 e 10.
9. Come osserva B. Liberali, La legge n. 40 del 2004 di nuovo alla Corte costituzionale: una svolta decisiva (ma forse non ancora definitiva) nella ricostruzione di un possibile diritto a procreare?, in Studium juris, n. 5/2020, p. 538, al cd. diritto procreativo la Corte aveva già fatto riferimento, nella specifica materia della fecondazione assistita, con la sentenza n. 151 del 2009, affermando che le «esigenze di procreazione» devono essere bilanciate non solo con la tutela della salute della donna, ma anche con quella dell’embrione, giungendo così a rappresentare non un obbligo di risultato (ossia l’avvio, la prosecuzione della gravidanza e la nascita di un bambino), ma a poter essere ragionevolmente declinate nel senso di più generiche (ma pur sempre) «concrete aspettative di gravidanza».
10. Su questa distinzione si veda la nota che precede.
11. La decisione si pone in un piano di continuità con altre, relative alle azioni demolitorie dello status filiationis, con le quali la Corte aveva affermato che il giudice non deve limitarsi alla sola verosimiglianza del preteso rapporto di filiazione, ma eseguire altresì una prognosi relativa all’eventuale pregiudizio che la variazione di status avrebbe potuto arrecare all’interesse del minore coinvolto, interesse del quale viene dunque riconosciuta una certa “immanenza” all’esercizio di tali azioni – in tal senso, vds. S. Agosta, La maternità surrogata e la Corte costituzionale (a proposito di obiter dicta da prendere sul serio), in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2018, p. 4.
12. Parla di «variabili tanto di fatto che di diritto» S. Agosta, op. ult. cit., p. 9.
13. Le disposizioni oggetto di scrutinio, impugnate dal Governo, intervenivano infatti sulla previgente disciplina regionale del “Piano casa” al dichiarato fine di interpretarla, in specie consentendo l’applicazione delle deroghe ivi previste anche agli edifici residenziali «in fase di realizzazione in forza di titolo abilitativo in corso di validità».
14. Il principio, affermato per la prima volta con la sentenza n. 232 del 2005, ha poi trovato conferma in numerose decisioni successive, tra cui le sentenze nn. 134 del 2014, 6 del 2013, 114 del 2012.
15. Tale punto di equilibrio corrisponde, peraltro, al contenuto dell’ultimo comma dell’art. 9 dm n. 1444/1968, che la giurisprudenza della Corte (anche nelle decisioni più sopra menzionate) ha ritenuto «dotato di efficacia precettiva e inderogabile».
16. Il riferimento testuale, nell’ordinanza di rimessione, è ai «contratti di acquisto di immobili per i quali non sia stata ancora depositata domanda di permesso di costruire, anche nelle ipotesi in cui il mancato ottenimento di tale permesso sia previsto quale condizione risolutiva della stessa pattuizione».
17. Si vedano, in tal senso ed esemplificativamente, le sentenze nn. 169 del 2017, 145 del 2015 e 251 del 2014.
18. Il riferimento normativo è quello ai crediti di cui all’art. 2752, comma 1, cc, ovvero i crediti per imposte e sanzioni dovute secondo le norme in materia di Irpef, Irpeg, Ires, Irap e Ilor.
19. Si tratta della modifica apportata dall’art. 23, comma 39, dl n. 98/2011 (conv., con modif., nella l. n. 111/2011).
20. La decisione è stata talora criticata in dottrina; nota, ad esempio, V. Mastroiacovo, Modifiche alle modalità attuative dei privilegi per crediti tributari e tutela dell’affidamento: spunti critici (Corte cost., 13 luglio 2017 n. 176), in Giur. cost., n. 5/2017, p. 2074, che la mancanza di un interesse generale a giustificazione della soddisfazione dei crediti tributari in favore dello Stato, a detrimento del legittimo affidamento nella soddisfazione dei propri crediti riposto dagli altri creditori, finisce per tradursi in una «esasperazione garantista della contrapposizione degli interessi (da un lato dello Stato e dall’altro dei soggetti diversi dallo Stato)» destinata a ripercuotersi sulla concezione stessa di tributo, e ad alimentarne l’odiosità.
21. Vds., ad esempio, Corte appello Milano, sez. I, 14 ottobre 2008; Trib. Bari, 17 novembre 2005.
22. La motivazione richiama sul punto la precedente sentenza n. 1 del 1998, che ha dichiarato l’illegittimità della disposizione di privilegio nella parte in cui essa è limitata ai soli professionisti intellettuali.
23. Analoghe questioni, precedentemente sollevate, erano state dichiarate inammissibili dalla Corte con le sentenze nn. 276 del 2014 e 15 del 2016.
24. La sentenza richiama, in particolare, Cass., sez. I, 21 gennaio 2016, n. 1095, e Cass., sez. I, 20 maggio 2016, n. 10507.
25. Vds. Cass., sez. VI, 20 ottobre 2015, n. 21286.
26. L’originaria previsione di entrata in vigore a far data dal 15 agosto 2000 è stata così differita (salvo che per alcune disposizioni) dal dl n. 23/2020.
27. La novella del 2015 ha costituito, almeno in parte, il frutto di sollecitazioni della Corte di giustizia europea, come diversi autori inferiscono dal contenuto dell’art. 1 della legge, ove testualmente è affermato che la riforma è stata approvata «anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea» (fra tutti vds., ad esempio, R.G. Rodio, La Corte ridisegna (in parte) i confini costituzionali della (ir)responsabilità dei magistrati, in Rivista AIC, n. 4/2017, p. 15). Ciò giustifica il precipuo riferimento alla giurisprudenza della Cgue da parte della Corte nello scrutinio delle questioni.
28. È citata Cass., sez. unite, 23 giugno 2015, n. 13018.
29. In tema vds. G. Costantino, Sulle proposte di riforma del processo civile di cognizione: contro la pubblicità ingannevole, in questa Rivista online, 11 dicembre 2019, par. 4, www.questionegiustizia.it/articolo/sulle-proposte-di-riforma-del-processo-civile-di-cognizione-contro-la-pubblicita-ingannevole_11-12-2019.php.
30. La decisione in esame richiama, in effetti, le decisioni della Corte di cassazione che da tempo si attestano in tal senso (fra le altre, è menzionata anche Cass., sez. unite, 23 settembre 2013, n. 21675).
31. La decisione della Corte è stata salutata positivamente dalla prevalente dottrina, che ha concordato sul rilievo dell’esistenza di «notevoli motivi di opportunità a favore dell’espansione del modello della sanatoria retroattiva» (cfr. R. Caponi, Sanatoria retroattiva delle nullità processuali, rimessioni in termini e giusto processo civile, in Giur. cost., n. 2/2018, p. 546), escludendo tuttavia, al contempo, che in tale modello si profili un aspetto della garanzia costituzionale del giusto processo.
32. Come modificato dall’art. 1, comma 38, l. 28 giugno 2012, n. 92 («Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita»).
33. Ai sensi dell’art. 32, comma 3, lett. c, l. n. 183/2010, le disposizioni di cui all’art. 6 l. n. 604/1966 si applicano anche «al trasferimento ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile, con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento».
34. Al riguardo, la Corte specifica espressamente che, per i fini che qui occupano, costituisce ricorso ordinario (in base al consolidato orientamento giurisprudenziale) anche quello introdotto dall’art. 1, comma 48, l. n. 92/2012, per l’impugnazione di quei licenziamenti che ricadono nella fattispecie di cui al precedente comma 47, benché si tratti di ricorso avente un contenuto più essenziale.
35. Disposizione inserita dall’art. 45-bis, comma 2, lett. b, dl n. 90/2014 (conv., con modif., in l. n. 114/2014).
36. La dottrina non ha mancato di formulare apprezzamenti per la decisione, osservando che essa «disvela importanti riflessi sistematici, nella misura in cui il giudice delle leggi invita a valorizzare le regole del processo telematico non come fini a sé stesse, e avulse dal sistema ordinamentale del processo, bensì in termini di piena strumentalità rispetto alle esigenze processuali delle parti», e dunque indica la necessità che le norme processuali dettate in questo ambito siano interpretate alla luce delle «esigenze di tutela di cui si ergono a presidio, rifuggendo alla tentazione di interpretare ogni violazione formale in un vizio procedimentale da tradurre in una decisione di mero rito» (Così A. Merone, La Consulta rimedia all’irragionevole vulnus alle potenzialità del sistema telematico: valida per il mittente la notifica effettuata a mezzo PEC tra le ore 21.00 e le 24.00, in Studium juris, n. 3/2020, p. 279).
37. La decisione, quantunque riferita a un giudizio amministrativo (l’ordinanza di rimessione è dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato), contiene statuizioni direttamente riferibili alle norme codicistiche citate.
38. Solo la seconda decisione concerne direttamente il processo civile, riferendosi anche la prima a un giudizio amministrativo.
39. Alla quale ha fatto seguito, con declaratoria di inammissibilità per intervenuta illegittimità della norma censurata, l’ordinanza n. 190 del 2018.
40. In chiusura, sul punto, la Corte ha peraltro evidenziato, in un’ottica di «riconduzione a legittimità della disposizione censurata», che il legislatore è ritornato alla tecnica normativa della clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni», novellando la disciplina del processo tributario con la previsione della possibilità di compensare in tutto o in parte le spese del giudizio, oltre che in caso di soccombenza reciproca, anche «qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni» che devono essere espressamente motivate.
41. Più in particolare, la Corte ha specificato al riguardo che l’equità «viene in rilievo come canone di giudizio per la decisione della lite», in termini corrispondenti a quanto previsto dal codice di rito per le decisioni del giudice di pace relative a controversie di minor valore, parametro da ritenersi necessariamente integrato dai «principi regolatori della materia» di cui all’art. 339, terzo comma, cpc.
42. Quest’ultimo nel testo modificato dall’art. 1, comma 20, n. 4, l. n. 228/2012 e come successivamente riformulato dall’art. 13, comma 1, lett. m-ter, dl n. 83/2015, conv., con modif., nella l. n. 132/2015.
43. La motivazione menziona in proposito l’art. 4 l. n. 319/1990, recante «Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria», che prevede il criterio residuale delle vacazioni.
44. Come sostituito dall’art. 55, comma 1, lett. d, dl n. 83/2012, conv. con modif. in l. n. 134/2012.
45. Differenza sussistente, per vero, anche rispetto alla previsione di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lett. e della legge Pinto, a mente del quale «non è riconosciuto alcun indennizzo (…) quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini» di sua ragionevole durata, nel frattempo dichiarata illegittima con la sentenza n. 169 del 2019.
46. In punto alla necessità di tale incombente, prodromica alla proposizione della questione, la Corte afferma ormai costantemente che le leggi «non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché sia possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionalmente compatibili», e che di fronte a una pluralità di interpretazioni possibili di una disposizione, i giudici sono tenuti a ricercare e preferire quella costituzionalmente adeguata (vds., fra le numerose altre, sent. n. 113 del 2015; ord. n. 15 del 2011)
47. Così, per tutte, la sentenza n. 239 del 2018.
48. In tal senso, fra le altre, la sentenza n. 116 del 2019.