Introduzione - La Corte costituzionale nel XXI secolo: ritorno al futuro
1. Quantum mutatus ab illo! Il marziano di Flaiano (impratichitosi con il latino e, in ipotesi, raffinato costituzionalista) non potrebbe che avvertire una vertigine, se, ripiombato suo malgrado sul pianeta Terra, ponesse a raffronto ciò che la Corte costituzionale avrebbe dovuto essere nel pensiero di chi le diede forma, con ciò che essa è in effetti divenuta. Lo stordimento non sarebbe poi meno acuto, ove il primo termine di raffronto fosse offerto non dalle suggestioni teoriche degli anni cinquanta del Novecento, ma dalla giustizia costituzionale “vivente” agli immediati esordi del XXI secolo.
A dire il vero, anche quest’ultima, infatti, emana un odore piuttosto rancido, se paragonato al seducente profumo che il Palazzo della Consulta sprigiona nell’etere romano, a partire dai nuovi, rutilanti comunicati stampa con cui si ama presidiare le edizioni serali del telegiornale.
La Corte, negli ultimi vent’anni, ha offerto agli studiosi molte novità sulle quali riflettere.
Il processo costituzionale, anziché saldo ancoraggio della nave al porto, è stato sufficientemente duttile per lanciare nuove imprese di conquista: dall’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale maturate nel solco di giudizi a quibus di mero accertamento del diritto (con buona pace dell’incidentalità, perlomeno nella sua versione più rigorosa: sentenza n. 1 del 2014), alla modulazione degli effetti temporali delle decisioni di accoglimento (fino a escludere il processo a quo dal relativo beneficio: sentenza n. 10 del 2015), passando per un caso di affermata rilevanza della questione, pur contestuale alla mancata sospensione del giudizio principale (sentenza n. 180 del 2018).
Il Legislatore, pigramente acquattato sull’eco di moniti canzonatori quanto certi termini del processo civile, si è dovuto bruscamente risvegliare al suono delle incostituzionalità accertate, ma non dichiarate (sentenza n. 23 del 2013), e, soprattutto, delle ordinanze a incostituzionalità differita (ordinanza n. 207 del 2018), con le quali la Corte gli assegna un termine per rimediare a una già acclarata illegittimità, e lo avverte che, in caso contrario, ci penserà il giudice costituzionale (tanto più che le rime obbligate son divenute stantie, e persino Debussy è in odore di conservatorismo musicale).
I giudici comuni si erano appena avvezzati all’idea di dover imprimere alla legge un significato conforme a Costituzione, prima di adire la Corte, che, ecco, le cose non sono più così nette, perché, ogni qual volta l’interpretazione conforme richieda un certo sforzo di elucubrare, vien detto loro che non si deve esagerare con il peccato di orgoglio intellettuale, e che, insomma, è la Corte a dover dichiarare le incostituzionalità, alle quali solo una esegesi “difficile”, e dunque preclusa, potrebbe altrimenti porre rimedio (sentenza n. 22 del 2017).
Nel frattempo, inventata e poi integrata una teorica del rapporto con le fonti del diritto internazionale (le sentenze gemelle), la Corte ha approfittato dell’insperata breccia aperta a Lussemburgo nel muro dell’effetto diretto del diritto dell’Unione per ribaltare niente meno che l’assetto di compromesso raggiunto in punto di doppia pregiudizialità (sentenza n. 269 del 2017), simulando poi di essere addivenuta a più miti consigli, per continuare in realtà, e alacremente, ad allargare la crepa, dalle norme materialmente costituzionali della Carta di Nizza, fino alle fonti unioniste di diritto derivato (sentenza n. 20 del 2019).
2. Tutto ciò, e i molti altri fattori convergenti di cui danno così bene conto gli Autori che hanno offerto la loro preziosa collaborazione a Questione giustizia, potrebbero indurre i maliziosi a domandarsi (c’è in effetti chi in sostanza se lo è già chiesto, sia pure con una raffinatezza intellettuale ben superiore) se la Corte costituzionale non sia in procinto di divenire essa stessa di dubbia legittimità costituzionale, perché troppo distante da ciò che si voleva fosse, o da ciò che aveva mostrato di essere nel primo quarantennio di vita, o, più semplicemente, da ciò che i commentatori desidererebbero che fosse.
Ma si rifletta: forse che il giudice costituzionale fin de siècle (XX) ricordava davvero un augusto consesso di tecnici del diritto chiamati a superare la presunzione di costituzionalità di una legge (c’era chi ragionava così, all’inizio!), aprendo vuoti che il legislatore avrebbe poi prontamente colmato?
La intransigente ortodossia con la quale oggi si stigmatizza l’effervescenza culturale della giurisprudenza costituzionale non suona meno severa dei moniti preoccupati che, fin perlomeno agli anni settanta del secolo scorso, venivano lanciati contro le decisioni manipolative, a volte proprio da autori che, divenuti in seguito giudici costituzionali, vi avrebbero in quella veste ampiamente fatto ricorso.
E che dire degli ulteriori fattori di presunta crisi del cosmo costituzionale?
Il processo innanzi alla Corte è sempre stato di impalpabile consistenza, a fronte della necessità di graduare le decisioni sul merito delle questioni, al punto che esso venne riscoperto quale tema di indagine nei soli anni novanta del XX secolo, per poi essere riposto nel cassetto della realpolitik costituzionale.
Chi ancora rammenta, poi, le vibranti polemiche sui primi interventi di manipolazione degli effetti temporali delle pronunce di accoglimento, vecchie di circa trent’anni? E la denuncia di invadere gli spazi concessi alla discrezionalità legislativa, mediante le sentenze additive “che costano”, come si diceva allora delle decisioni foriere di un incremento della spesa pubblica?
Quanto al rapporto con i giudici comuni, esso è sempre stato un pendolo oscillante, dalle politiche di promozione del valore dell’incidente di legittimità costituzionale, agli albori della Corte, fino alla più rigida chiusura dei canali di accesso durante la presidenza Saja, e oltre, quando le pronunce costituzionali superavano il migliaio e vi era necessità di porre un freno. Né le additive di principio, anch’esse risalenti ormai a decadi fa, appaiono meno innovative delle ordinanze a incostituzionalità differita, per il duplice verso del rapporto con il legislatore, e con i tribunali chiamati a condurle a compimento.
La stessa più recente posizione nei confronti delle Corti internazionali continua a riflettere l’approccio dualista del nostro giudice costituzionale, che non si è certo formato ora.
Termini e condizioni perché la giurisprudenza Edu si imponga sui poteri interpretativi del giudice sono decisi dal nostro ordinamento costituzionale, e non a Strasburgo (sentenza n. 49 del 2015). L’assetto compromissorio seguito a Granital era pur sempre un elegante impiego alternativo della giustizia costituzionale (il difetto di rilevanza delle norme contrarie al diritto Ue direttamente applicabile), buono finché si è trattato di regolamenti sulla etichettatura delle merci; meno utile, invece, quando il diritto unionista si è allargato alla sfera delle libertà fondamentali, sulle quali si edifica una comunità politica.
Insomma, come in quel famoso racconto di Borges, la Corte ha saputo, nel corso del suo lungo percorso, imboccare così tanti sentieri che si biforcano, che la storia della giustizia costituzionale davvero potrebbe apparire il frutto di una fantasia narrativa deviata. Ma, non appena svelata la finzione borgesiana, si capisce che vale il contrario. Molte vite sono state possibili, perché vi è una sola identità del giudice costituzionale, che ha saputo popolarle tutte.
3. La faccenda è perciò più complicata di quanto voglia credere chi limita la propria indagine agli ultimi, tumultuosi anni di esperienza giurisprudenziale.
Il fatto è che la Corte, una volta iniziato a camminare per i sentieri di cui si è detto, non ha mai smesso. Ed è solo una questione di punti di vista credere che sia stata la Corte a evolversi, ovvero che sia stata la Costituzione repubblicana a svilupparsi, insieme con la comunità sociale che essa ordina, ma dai cui stimoli è al contempo continuamente arricchita.
Alla fine, il punto è proprio questo, ovvero che idea si abbia delle carte costituzionali. Se esse siano una congerie di disposizioni più o meno articolate, ovvero, piuttosto, un corpo vivente, le cui ambizioni programmatiche, e i cui enunciati a formula linguistica aperta, ambiscono a crescere unitamente al corso della storia e alle aspirazioni ideali degli individui e delle formazioni sociali che ne sono protagonisti.
È solo per questa ultima strada, ovviamente, che una Costituzione può, pur con tutta la precarietà delle cose umane, proporsi di conseguire l’obiettivo che le è di natura proprio, ovvero di proiettarsi per un tempo che si vorrebbe infinito (che, anzi, si presuppone infinito, quando si dà corso alla volontà di costituzionalizzare). Ché, altrimenti, lo sfilacciamento che il tempo impone alle più solide delle nostre realtà non potrebbe risparmiare i concetti costituzionali.
Se, dunque, la Costituzione si muove insieme con la società, allora la Corte costituzionale, che ne è il custode giudiziario per eccellenza, non può che seguirla. Basti pensare a quanti, tra gli strappi che pure sono stati a prima vista inferti alla trama del processo costituzionale, non siano che mezzi necessari per impedire al mondo di perire inseguendo la giustizia, così riflettendosi in essa l’eco di una concezione filosofica del tutto rinnovata dei rapporti tra esigenze ordinamentali astratte e vicende individuali.
Del resto, dalle nostre parti non ha mai trovato non si dice adesione, ma alla fine neppure seria considerazione, quella dottrina sciocca che negli Stati Uniti prende il nome di originalismo, e in base alla quale, ad esempio, se la pena di morte non appariva ripugnante a Filadelfia nel 1787, allora si è tenuti a prenderla ancora per accettabile a Washington nel 2021. Certo, non può sfuggire che queste bizzarre idee sono un mezzo per soffocare “da destra” gli spazi di manovra della Corte suprema, che è del tutto legittimo reputare a volte troppo ingombrante per i processi di integrazione politica, anche “da sinistra”. Ma, anche stavolta, con ciò si intende alla fine pietrificare la Costituzione e inchiodarvi le società che, per i conservatori, cambiano pericolosamente volto, a riprova che non è mai del tutto chiaro se il movimento, o la stasi, siano del giudice costituzionale, o piuttosto della Carta che quest’ultimo è tenuto ad applicare.
4. Negli Usa la Corte suprema è da sempre oggetto di contesa politica. Qui non si tratta davvero di schierarsi con la conservazione piuttosto che con il progresso. All’“avvocato” Nixon, temuto da Dworkin e sbeffeggiato proprio nella sua veste di leguleio da Philip Roth, si può senz’altro accostare su questo piano il padre del New Deal, con quel suo “court-packing” (l’incremento dei membri della Corte suprema per diluirne il tasso di conservatorismo), il rigetto del quale Acemoglu e Robinson, in un fin troppo fortunato best-seller, considerano come il segno della tenuta della liberal-democrazia. E vi è l’astuzia della storia nella circostanza che, dopo l’ennesima nomina trumpiana di un Justice ultra-conservatore, quella stessa democrazia liberale pare stia pensando di nuovo a una soluzione analoga, posto che il neo-Presidente Biden si è ben guardato dall’escluderla nella campagna elettorale del 2020.
Ciò che è rimarchevole è che, nei confronti della nostra Corte costituzionale, nel complesso e superate le invettive di Nitti in Assemblea costituente, nessuno abbia davvero preso sul serio un tema che invece continua a essere proprio, pur senza divenire maggioritario, del miglior pensiero liberal (non conservatore!) nord-americano (si pensi a Walzer), ovvero la supposta incompatibilità teorica degli istituti di giustizia costituzionale con la democrazia politica. Evidentemente, sulla sensibilità di giuristi e politologi non può che incidere pesantemente il trascorso storico. Chi ha vissuto e conserva nella propria memoria identitaria la tragedia novecentesca del tracollo della democrazia parlamentare, per mano di quegli stessi Parlamenti che avrebbero dovuto proteggerla, non può porsi sullo stesso piano di chi appartiene a comunità che ne sono scampate.
Nella vecchia Europa squassata dai totalitarismi, allora, i problemi che i giudici costituzionali possono porre a fronte del primato democratico non sono mai qualitativi, ma sempre quantitativi. Una volta che si ammette, senza troppi indugi e distingui, che una legge può cadere a colpi di sentenza, il dado è tratto. Si tratterà, insomma, di dividersi sui limiti auspicabili all’intervento in concreto di una Corte costituzionale, e non sulla consustanzialità di quel potere in astratto con la democrazia.
5. Ma, si dirà a questo punto ritornando al Poeta, est modus in rebus! Sarà anche vero, insomma, che si discute di quantità, anziché di qualità, ma resta assodato che una giurisprudenza creativa oltre ogni limite sfocia in una sorta di inaccettabile cesarismo giudiziario.
A chi scrive non sembra che sia così, per quanto concerne la vicenda storica della nostra Corte costituzionale, per almeno due ordini di ragioni.
Anzitutto, non bisogna mai dimenticare (si riprende qui l’esca che si è lanciata nei paragrafi precedenti) che la nostra Corte ha un corpo kelseniano, ma lo spirito non ha mai cessato di confrontarsi con le obiezioni che alla materia venivano opposte da Schmitt, in quell’antico, ma ancora fecondo confronto di idee.
Giudicare della compatibilità di una norma con un’altra, senza l’ausilio di un linguaggio formalizzato, è altra cosa dall’applicare una certa disposizione normativa a un certo fatto della vita. Affermazione che la Corte ha sempre avuto presente non per cedere, come avrebbe desiderato Schmitt, allo scetticismo implicito nella denuncia di inevitabile arbitrarietà, quanto, piuttosto, per correggere l’astrazione del giudizio di validità/invalidità normativa con il prepotente ingresso del fatto nello scrutinio di costituzionalità. Il caso della vita che si va a regolare, nonché l’impatto della decisione sugli interessi sociali compositi che essa sottende, sono un forte fattore di pre-comprensione à la Gadamer, perché indirizzano l’interprete su un percorso tutt’altro che vergine.
Se, dunque, la Corte allarga il proprio sindacato alle zone franche dell’ordinamento; ovvero sottrae certe fattispecie agli effetti di una dichiarazione di incostituzionalità; o ancora impiega con disinvoltura le competenze legislative esclusive dello Stato nel contenzioso con le Regioni, tutto ciò non accade per capriccio (al netto, ovviamente, di eventuali incidenti di percorso, che sono pur sempre possibili nelle vicende umane, e che è giusto compito della dottrina sottolineare e castigare).
Ma vi è poi un’ulteriore ragione, ancora più forte. Bisogna sempre tener presente che la Corte non è una solista, ma canta nel coro. Insomma, l’idea dell’intangibilità del giudicato costituzionale, con il quale la Corte si porrebbe al vertice dell’ordine costituzionale, pare piuttosto ingenua.
Se vi è una spiegazione del perché, salvo sporadici casi, il nostro giudice costituzionale non è mai stato oggetto di una vera e propria discussione politica sul ruolo che esercita nell’ordinamento, essa è tutt’altro che estranea alla capacità dell’organo di imporsi un self-restraint, ovvero all’intuito che lo conduce a sapere quando è necessario fermarsi. Altrimenti, senza una tale sentimento di essere la parte di un tutto complesso, e disarticolato in rapporti che non sono mai di pura propensione egemonica (o, peggio, di formale gerarchia), tutto sarebbe perduto (narra E. Tarle che la House of Lords, all’inizio del XX secolo, intralcia pesantemente le politiche del Governo liberale di espansione della spesa pubblica, valendosi di un regime di bicameralismo paritario; poi, innanzi alla minaccia di essere infiltrata da una valanga di nobiluomini progressisti, cede, si suicida e si degrada spontaneamente a organo dotato di un mero potere di interdizione temporanea delle leggi: un “Parliament-packing” obliato dalla storia, ma che i costituzionalisti non dovrebbero mancare di rammentare). I rapporti di forza, anche nelle democrazie, sono fattori di reciproco temperamento, persino al di là dell’effettivo esercizio di un’attribuzione costituzionale.
Insomma, il cesarismo porta frequentemente alle Idi di marzo, ma nessuno può seriamente sostenere che la nostra Corte si sia finora esposta a questo pericolo. Perché, alla fine, con il trucco e con la mimica di un procedimento di revisione costituzionale non particolarmente gravoso, le stesse sentenze costituzionali possono essere superate. E, anzi, ciò è già successo con la riscrittura dell’art. 111 Cost. (per introdurvi a forza le regole del processo penale accusatorio, alle quali la Corte continuava a opporre il principio costituzionale del dovere di accertare la verità).
6. Allora, l’onestà intellettuale esige di riconoscere che la complicata vicenda della relazione tra Corte e potere legislativo, che oggi sembra ai più subire una torsione forzosa a vantaggio della prima, cangia di colore, a seconda del punto di vista dell’osservatore.
Certamente, le ordinanze a incostituzionalità differita hanno più presa di un monito (almeno, sulla comunità dei giuristi, visto che il Parlamento si ostina a ignorare le prime e i secondi con uguale determinazione). Ma chi dice che esse siano l’alternativa al rifiuto di dire giustizia costituzionale con una pronuncia di inammissibilità, anziché alla scelta, ben più consona al ruolo primigenio di tutte le corti costituzionali, di dichiarare una illegittimità costituzionale, aprendo un vuoto nell’ordinamento? È la Corte di oggi che si annette prerogative non sue, o non era piuttosto quella di ieri che rinunciava a una fetta del potere pubblico che la Costituzione le appalta?
Quanto, poi, al declino delle rime obbligate, non si può trascurare che la soluzione introdotta di volta in volta dalla Corte, per supplire alla carenza di una disciplina applicabile a seguito della declaratoria di incostituzionalità, è solo un ponte provvisorio tra il vuoto che si crea in via giudiziale e il pieno che compiutamente il legislatore è pur sempre titolato a realizzare. In altri termini: la Corte trova una disciplina, la più armonica nel sistema per permettere all’ordinamento di regolare una certa fattispecie, ma si guarda bene dall’irrigidirla con i crismi di quanto è costituzionalmente obbligato. Le Camere ben possono intervenire subito per trovarne un’altra, che esse semplicemente preferiscono nell’esercizio di una piena discrezionalità legislativa. Se un tale modo di decidere investe con la pronuncia di illegittimità discipline che un tempo si sarebbero salvate dalla scure, al contempo esso rinuncia alla finzione della soluzione costituzionalmente obbligata per i casi in cui la Corte non riteneva possibile tollerare l’incostituzionalità, ma finiva poi per ingessare l’ordinamento, dicendo troppo rispetto a quanto minimamente dovuto per rimediare al vizio. Uno spazio si chiude per il legislatore, un altro gli si può aprire, seguendo quello stesso ragionamento.
7. Attivismo e deferenza sono espressioni linguistiche contestate, ma, se anche le si vuole estrapolare dal mondo del diritto per consegnarle al dominio della psicologia comportamentale, in ogni caso colgono il grado di auto-percezione che un giudice costituzionale ha di sé, quale parte di un sistema istituzionale a sovranità diffusa.
È noto che il dibattito sull’opportuno grado di modesty giudiziaria si è dipanato lungo l’asse privilegiato del rispetto, più o meno intenso, dello spazio proprio dei decisori politici. Eppure, la partita schiera più giocatori sul campo. Se il tema principale attiene all’identificazione di chi abbia il compito di specificare il significato dei diritti fondamentali, allora il circuito tradizionale tra giudice costituzionale e legislatore non può non tenere in conto l’infiltrazione che vi apportano sia i tribunali comuni, sia le Corti sovra-nazionali.
Una volta preso atto di un certo grado di impotenza in capo alla stessa Corte costituzionale nel garantire l’effettività delle proprie decisioni sui diritti, ci si accorgerà che attivismo e deferenza chiamano in causa non soltanto la relazione Corte/Parlamento, ma l’intera “fabbrica delle interpretazioni”, attraverso la quale una certa regola verrà a definire una fattispecie concreta nell’ordinamento.
Le sentenze interpretative di rigetto hanno una forza che è pari non all’autorità, ma alla sola autorevolezza del giudice che le pronuncia.
La dottrina del diritto vivente, a fronte della iniziale pretesa di reinventare l’interpretazione a Palazzo della Consulta, è un self-restraint che mostra deferenza verso il potere giudiziario, allo scopo di implementare quella stessa autorevolezza, e di sottrarsi a “guerre tra corti” dalle quali, storicamente, non si può dire che il giudice costituzionale sia mai uscito bene.
Se, da un lato, la nuova dottrina dell’interpretazione conforme alleggerisce il ruolo creativo del giudice comune, dall’altro lato la Corte si mostra impotente a governare l’attivismo verso il Parlamento, se non attraverso la collaborazione con le giurisdizioni.
Già le additive di principio, o di meccanismo che siano, non portano da nessuna parte, se non vi è un qualche tribunale disposto a dar corso al principio o al meccanismo.
Ma si pensi, poi, al tema, sempre più frequente, del deperimento degli automatismi legislativi: quando la Corte colpisce una regola generale e astratta, il cui vizio risiede proprio nell’indifferenza opposta alle sfumature della fattispecie concreta, è ovvio che, per la contradizion che nol consente, non sia permesso somministrare altra regola di pari generalità e astrattezza, ma tutt’al più un principio, dal quale le regole andranno cavate a colpi di sentenze del giudice comune.
Se si erodono spazi a scapito del legislatore, insomma, se ne debbono cedere a favore dei tribunali, come se l’equilibrio complessivo del sistema mostri intolleranza verso la supremazia, ed esiga una sintesi tra acquisizioni e cessioni di sovranità.
8. Il punto più eclatante di un simile rapporto bi-direzionale nei confronti del potere giudiziario è mostrato dal ripensamento della doppia pregiudizialità comunitaria.
Certamente, imboccando questa via la Corte si pone al centro della scena, a fronte del pericolo di una marginalizzazione del proprio ruolo di custode dei diritti fondamentali, per effetto del dialogo alternativo tra giudice comune e Corte di giustizia. Ma, dopo un primo tentativo, all’apparenza inteso a riformulare le coordinate dell’incidente di legittimità costituzionale così da renderne cogente la primazia, almeno temporale, sul rinvio pregiudiziale e sulla non applicazione della norma nazionale incompatibile, la Corte ha presto ripiegato sulla flessibilità procedimentale, in definitiva auspicando che i tribunali la preferiscano, ma ammettendo la propria impotenza a impedire l’inversione della gerarchia a favore del collega lussemburghese. E come potrebbe essere altrimenti? Appare infatti perlomeno improbabile che la Corte di giustizia, investita di un rinvio pregiudiziale in tema di diritti fondamentali, lo dichiari inammissibile a causa del mancato, previo esperimento della via dell’incidente di legittimità costituzionale.
Mentre la Corte può con facilità imporre una certa struttura al sistema delle fonti, fino a quando esse sono nazionali e non poggiano su di un regolamento di competenza con corti internazionali, al contrario la partita si complica in quest’ultimo caso. Infatti, se il giudice comune può porsi in un rapporto diretto con la Corte sovra-nazionale, e se in questo rapporto volto a definire un caso giudiziale la Corte costituzionale non può entrare, allora il surplus di legittimazione che deriva dall’appoggio conseguito nel Lussemburgo, e l’effettività della decisione giurisdizionale possono davvero tagliare fuori il Giudice delle leggi.
Queste condizioni, perlomeno finora, non concernono la Cedu, ove, in carenza di tale filo diretto (e nell’attesa infinita del Protocollo addizionale n. 16), è agevole per la Corte imporre un certo assetto, che riflette il celebre “predominio assiologico della Costituzione”. Invece, quanto al diritto dell’Unione, tutto ciò che è stato consentito al supposto cesarismo giudiziario della Corte è riposto nel periglioso abbandono del sistema delle fonti (con le conseguenti rigidità in termini di gerarchia e competenza), per abbracciare un’ermeneutica valoriale del caso concreto, tutta affidata alla collaborazione dei tribunali. Se questi ultimi si convinceranno ad adire la Corte per prima, la questione di costituzionalità sarà decisa: è tutta qui la grandezza e la miseria del nuovo corso sulla doppia pregiudizialità!
Ci si permetta di ricordare che chi scrive, nel 2008, era, confusamente, tra chi aveva temuto che la convergenza sul medesimo caso di plurime fonti del diritto internazionale, in quanto mediate direttamente da Corti ad hoc, avrebbe potuto comportare l’esito, non proprio auspicabile, che il giudice comune finisse per esprimere una sua scelta assiologica tra ordinamenti, andando a pescare la regola del caso nelle acque che gli fossero sembrate più dolci, chiare e fresche. Non si è troppo lontani dal vero nel dire che quel presentimento rischia di divenire realtà.
Per il nostro discorso di oggi, in ogni caso, ciò che conta è ancora una volta l’evidente compensazione che la Corte costituzionale ha dovuto accettare tra l’istanza centripeta che coltiva, e la cessione parziale, ma dolorosa, del proprio ruolo di dominatore del sistema delle fonti, indulgendo sulla virtù della souplesse, ma ritraendosi, parallelamente, dal compito di indicare regole strette di risoluzione delle antinomie.
9. Del resto, anche il rapporto con le Corti europee mostra margini di ambiguità. Il nostro giudice costituzionale ha rivendicato con successo sia la primazia nel definire le condizioni di ultrattività (rispetto al decisum concreto) delle pronunce della Corte Edu, sia la cogenza dei principi supremi dell’ordine costituzionale a fronte non soltanto del diritto Ue direttamente applicabile, ma persino degli arresti giurisprudenziali con cui esso è enunciato dal suo interprete naturale (i celeberrimi casi Varvara e Taricco, entrambi risolti alla fine dai colleghi europei come si desiderava a Roma).
Tuttavia, si tratta della medesima Corte costituzionale che, pochi anni prima, aveva deciso di rinunciare al solipsismo, consegnandosi al laccio del rinvio pregiudiziale, con il quale certamente si veicolano istanze nazionali nel processo decisionale europeo, ma al contempo si ammette che un segmento della fattispecie costituzionale venga ricostruito altrove, e in forza di parametri concorrenti con quelli interni (ordinanza n. 182 del 2020).
Persino il famoso scostamento da una pronuncia della Corte internazionale di giustizia (sentenza n. 238 del 2014) cela l’intento di tornare a contribuire all’evoluzione del diritto internazionale generale in tema di immunità degli Stati dalla giurisdizione, posto che la decisione si apre sagacemente con il ricordo dell’apporto che la giurisprudenza italiana diede alla ridefinizione di quell’immunità agli inizi del XX secolo, anche allora contro quanto ritenuto dalla comunità internazionale.
Nel contesto che si è appena ricordato, ove le corti superiori si contendono i favori dei giudici comuni, ciò che pesa non è tanto la prova di forza, ma la capacità di persuasione esercitata sui tribunali internazionali, perché soltanto la convergenza conclusiva verso regole condivise può salvare dal caos interpretativo.
Le ordinanze di rinvio pregiudiziale della nostra Corte, e con esse l’alternanza tra blandizie e severità mostrata verso Strasburgo (ben più le prime, che la seconda) sono scritte (basta leggere l’ordinanza n. 24 del 2017) con un manuale di ars rhetorica tra le mani. E bisognerà anche accettare l’idea che, come accadde ai tempi di Granital, il passo indietro possa toccare al giudice costituzionale, se l’opera di persuasione dovesse fallire in altre occasioni.
10. La coralità dello spartito costituzionale, in definitiva, ridimensiona assai l’allarme per i pretesi sconfinamenti della Corte, anche se, naturalmente, questo non vuol dire che ogni novità della giurisprudenza costituzionale debba essere accettata come verbo rivelato. Ché, anzi, una critica dottrinale non animosa e preconcetta, ma puntuale e serrata non è l’ultimo dei fattori di cui la Corte deve tener conto, prima di insistere su di una certa linea decisoria, ovvero di rinunciarvi. È vero, infatti, che lo slabbramento degli ordinamenti giuridici (un riflesso forse inevitabile del weberiano disincanto del mondo, prima ancora che dell’affermazione dello Stato sociale) rende talvolta rapsodica la stessa giurisprudenza costituzionale, costretta ad adattarsi alle pieghe dell’universo. E, allora, non ogni pronuncia annunzia la capitolazione del mondo che conosciamo. Fino a quando la novità non si consolida, c’è spazio e modo per recuperare la forma originaria delle cose.
La giustizia costituzionale è oggi, almeno in parte, il terreno di questa sperimentazione, che chiama in causa non soltanto la Corte, ma con essa tutti gli altri protagonisti della vita pubblica del Paese, nei loro reciproci rapporti.
11. Tra le parti con le quali si confronta la Corte, l’odierno numero di Questione giustizia ha voluto ricomprendere l’opinione pubblica, verso la quale il giudice costituzionale ha aperto, negli ultimi anni, più di un canale di ascolto.
Certamente, è un tema di riflessione molto delicato, perché il giudizio costituzionale, non differentemente da ogni altro, non può cercare altra legittimazione che non sia la garanzia che si renda giustizia, applicando le disposizioni pertinenti.
Tuttavia, si deve anche riconoscere che la Corte esercita una giurisdizione dal taglio peculiare, ove è continua la verifica dei bilanciamenti che il legislatore ha operato tra principi confliggenti, specie nel campo dei diritti fondamentali. E questi ultimi, a propria volta, non sono recintati nel modo trascendente delle idee chiare e distinte, ma crescono in un “catalogo aperto”, incessantemente nutrito dai rinnovati bisogni vitali delle persone, materiali o ideali che essi siano. Se davvero, come si crede fortemente, la Costituzione si evolve insieme con la società che essa vuole ordinare per un tempo indefinito, allora la ricezione della domanda di giustizia che proviene da quest’ultima non può trovare innanzi a sé un giudice del tutto sordo.
Chi scrive non reputa dubbio che, nel processo di emersione dei nuovi diritti, il legislatore abbia un primato che è imposto dalla sua ontologica corrispondenza alla qualità della nostra democrazia, nonché dal fatto che con esso si riflette la superiorità tecnocratica del Parlamento sulle corti, quando si tratta di enunciare il diritto (il primo lo crea, le seconde lo dichiarano, ma entrambi debbono poi veicolarlo in proposizioni intellegibili, di immediata conoscibilità, legate da un’intrinseca coerenza).
Nel primo senso, chi, più delle Camere rappresentative, è legittimato a prendere in carico la maturazione nel corpo sociale di aspettative di tutela, che non è più possibile procrastinare? Nel secondo, non è pensabile che una sentenza abbia spalle altrettanto robuste che una legge, sia nella preliminare acquisizione di tutti gli elementi utili a decidere sui diritti (il famoso argomento di Bickel); sia nella effettiva elaborazione linguistica di precetti altamente correlati ad altri, in un sistema relazionale assai ricco e difficilmente dominabile per mezzo di un dispositivo giudiziario; sia, anche, nella capacità di far penetrare quel diritto in una coscienza sociale ove esso può restare controverso, fino a quando non riceva il crisma di legalità che gli proviene dalla volontà legislativa.
Non si costruisce, insomma, la galassia dei diritti senza un legislatore, e perché tale operazione sarebbe profondamente anti-democratica, e perché, più semplicemente, essa apparirebbe destinata a un nuovo, fatale big bang.
Se tutto questo resta vero, ugualmente vi è un punto, oltre il quale l’inerzia del legislatore non può essere ulteriormente tollerata. Come nelle struggenti ultime pagine del Tonio Kröger, ove i protagonisti «dagli occhi azzurri» si affollano innanzi al futuro narratore e reclamano vita, così processi storici sempre più rapidi nelle fluide società contemporanee si prestano ad arricchire le valvole aperte della Costituzione con diritti, la cui ricognizione diviene, alla fine, inevitabile.
Se un vantaggio hanno le corti su questo piano, è che esse vengono a contatto con episodi della vita così impregnati di realtà (verrebbe da dire, di ordinaria quotidianità), da non poter sfuggire all’attenzione, per i profili che sollecitano una risposta di giustizia (costituzionale). Il legislatore può inizialmente restare indifferente; poi, attardarsi, anche per lungo tempo. Moniti, inammissibilità, differimenti o prospettazioni di incostituzionalità che dir si voglia, riconoscono la legittimità dell’indugio, ma non oltre un certo limite.
Va concesso che, specialmente nel campo della bioetica, il limite sia particolarmente largo. Dunque, «il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre (…) il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale» (sentenze nn. 230 del 2020 e 84 del 2016). Ma se la «coscienza sociale» si evolvesse fino al punto da rendere palesemente residuale ogni altra opzione che non sia l’attribuzione del diritto (persino il divorzio, negli anni settanta, restava controverso), fino a quando un giudice costituzionale, innanzi alla ostinazione del legislatore, potrà fingere di non udire?
L’alternativa tra legalismo e costituzionalismo si rende meno drammatica, se la questione viene posta in termini di priorità (anche temporale), ovvero di integrazione, piuttosto che di reciproca esclusione. Tra le virtù di una buona Corte costituzionale, vi è certo quella di saper ben cogliere il timing dei propri interventi. Molte, tra le novità dell’ultimo corso della giurisprudenza costituzionale, sono una manifestazione di tale attitudine.
12. Proiettandosi oltre le proprie mura, la nostra Corte ascolta e viene ascoltata.
Lasciandosi ascoltare, essa si propone verosimilmente di rafforzare la propria capacità di presa sulla comunità, e in definitiva il grado di effettività delle proprie pronunce, pur dovendosi dare atto ai più critici che, anche in questo campo, è sempre questione di misura.
Quanto alla recente modifica delle norme integrative, che ammette gli amici curiae nel processo incidentale, non pare del tutto convincente né esaltarne la funzione, né temerne gli esiti. Se micro-interessi corporativi dovessero filtrare nel giudizio costituzionale, è improbabile che ciò avvenga con il deposito di brevi note d’udienza. D’altro canto, acquisire punti di vista ulteriori, rispetto a quelli che a buon titolo giudici rimettenti e parti del giudizio rappresentano, può essere talvolta utile, ma raramente necessario.
Le modalità con cui la Corte costruisce la propria rete di relazioni con le formazioni intermedie restano, in ogni caso, oggetto di un prezioso confronto tra gli studiosi, perché esse ripropongono il tratto saliente del dibattito sulla giurisdizione costituzionale: può un giudice surrogare il legislatore nel rendersi interprete della coscienza sociale? E, se non può, quale altro criterio permette di riempire di contenuto le clausole costituzionali sui “nuovi” diritti fondamentali, ammesso che se ne voglia affermare la “giustiziabilità”?
13. Tutti gli spunti ai quali si è accennato nella presente introduzione, senza alcuna pretesa di esaustività o profondità, trovano un articolato sviluppo nei contributi che formano questo numero di Questione giustizia. Spesso, essi si rincorrono l’un l’altro nel medesimo articolo, perché ormai un qualunque discorso sulla Corte costituzionale non può prescindere dalla visione di insieme di una struttura divenuta straordinariamente complessa.
E, forse, chi leggerà si troverà, come chi ha scritto queste note introduttive, a pensare di avere compiuto, prima ancora che un viaggio intorno alla Corte, un viaggio dentro se stesso; la propria sete di giustizia; il proprio bisogno di legalità; l’irrinunciabile vizio umano a rendersi costruttore della πόλις, con tutti gli attrezzi dei quali dispone, inclusa oramai la giurisdizione costituzionale.