Il giudice comune, servitore di più padroni
Nell’opera di inveramento delle promesse costituzionali – che trova la sua prima sede nella giurisdizione comune – il giudice deve saper dare voce alla Costituzione nell’esegesi della legge (e con gli strumenti e i limiti ermeneutici a lui assegnati dall’ordinamento); ma – prima ancora – deve avere la capacità di “vedere” il caso, percepirne il valore, leggere l’evoluzione di senso che la lettera della legge e della stessa Costituzione assume in conseguenza delle trasformazioni che si producono nella società e nell’ordinamento. A tale opera il giudice comune è sempre più sollecitato, oltre che dalla realtà, da alcuni significativi movimenti che si registrano nella giurisprudenza costituzionale.
1. La scomoda posizione del giudice a quo… tra lex e iura, ma servo di più padroni / 2. L’interpretazione conforme: le spinte centrifughe / 3. L’interpretazione conforme: la “lettera della legge” / 4. L’interpretazione conforme e la giurisprudenza del giudice comune / 5. La Consulta, la discrezionalità del legislatore e le rime costituzionalmente obbligate / 6. Nuovamente, il giudice comune
1. La scomoda posizione del giudice a quo… tra lex e iura, ma servo di più padroni
Ci è stato insegnato che il nostro sistema di giustizia costituzionale può dirsi «eclettico», caratterizzandosi – quanto al giudizio incidentale – per alcuni tratti salienti: sindacato accentrato; accesso (e, sebbene indirettamente, sindacato) diffuso; effetti erga-omnes delle decisioni della Consulta: «come fu detto con felice immagine da Calamandrei, il giudizio comune è “l’anticamera” della Corte e il giudice, davanti al quale esso pende, è il soggetto cui spetta di aprire o no il “portone” che dà accesso alla Corte costituzionale»[1].
Abbiamo anche imparato che il giudice comune si viene così a collocare in una «posizione di intermediarietà tra la sfera politica e quella dei diritti individuali (…). Il giudizio è così il luogo di incontro dello Stato-autorità e dello Stato-comunità, presso un soggetto, il giudice, che è imparzialmente collocato tra l’uno e l’altro, non essendo agente esclusivo né nell’interesse della lex [il diritto dal punto di vista del “politico”], né nell’interesse degli iura [i diritti dal punto di vista dei singoli]»[2].
Il legittimo orgoglio che investe il piccolo giudice comune si fa manifesto.
Tuttavia, come avviene per ogni entusiasmo, occorre fare i conti con la realtà. La posizione del giudice comune – nel sistema di giustizia costituzionale – è tutt’altro che comoda e prestigiosa, dovendo il piccolo giudice comune – per fare bene il suo lavoro – essere necessariamente servitore di più padroni.
Contiamoli, i padroni cui il piccolo giudice a quo deve prestare ossequio, prima di assumere il ruolo di “portiere” di Palazzo della Consulta: il diritto scritto, anzitutto: la Costituzione e le leggi, ovviamente; ma anche le norme Ue, le norme di diritto internazionale, pattizio e non; il diritto interpretato: la Corte costituzionale; la Corte di cassazione; ma anche: la Corte di giustizia, la Corte Edu e – perché no? – la dottrina e la comunità degli interpreti.
Ma non basta. Il piccolo giudice a quo deve anche conoscere cosa si dicano tra loro i vari padroni cui deve prestare ossequio… Deve, in altri termini, conoscere il dialogo tra le Carte e il dialogo tra le Corti.
E non basta ancora, ovviamente. Il giudice a quo deve perfino prefigurarsi quale potrà essere la valutazione della Consulta sull’uso che il legislatore ha fatto della sua discrezionalità (contenendo l’impulso a sollevare questioni di legittimità costituzionale laddove emerga che il legislatore abbia fatto ragionevole uso della discrezionalità) o, anche, ricordarsi che – allorquando egli intraveda lacune o incongruenze nel sistema – potrà richiedere l’intervento della Corte costituzionale laddove la risposta che questa potrà dare sia “a rime costituzionalmente obbligate”.
Un compito titanico che può scoraggiare chiunque.
Come, in effetti, è puntualmente avvenuto. Nel corso degli anni, il portone di accesso a Palazzo della Consulta si è fatto via via sempre più stretto.
Basta esaminare qualche dato statistico per rendersene conto. Nei primi anni novanta del secolo scorso, la parte preponderante del lavoro della Consulta era rappresentata dall’esame di questioni di legittimità costituzionale promosse in via incidentale (512 decisioni nel 1990, pari all’85,90% delle decisioni della Corte; 451 decisioni nel 1991, pari all’86,39% delle decisioni della Corte; 422 decisioni nel 1992, pari all’84,90% delle decisioni della Corte)[3]. Vent’anni dopo, la fotografia è ben diversa: nel 2010, i giudizi di legittimità promossi in via incidentale sono 211, pari al 56,12% delle decisioni[4]; nel 2011, i giudizi di legittimità promossi in via incidentale sono 196, pari al 57,31% delle decisioni[5]; nel 2012, i giudizi di legittimità promossi in via incidentale sono 141, pari al 44,62% delle decisioni[6]. Venendo ai giorni nostri, nel 2019, i giudizi di legittimità promossi in via incidentale sono 171, pari al 58,76% delle decisioni[7].
Ma non è solo la contrazione numerica dei giudizi di costituzionalità attivati in via incidentale a meritare attenzione. È anche l’esito di quei giudizi. Nel corso degli anni, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici comuni (piccoli o grandi che fossero) sono state sempre più spesso bollate dalla Consulta con il marchio dell’inammissibilità (per una varietà di ragioni che non è possibile qui restituire in modo articolato)[8]: nel 2010, su 211 giudizi promossi in via incidentale, ben 113 sono stati decisi con ordinanza di manifesta inammissibilità o manifesta infondatezza[9]; nel 2011, su 196 giudizi promossi in via incidentale, ben 129 sono stati decisi con ordinanza di manifesta inammissibilità o manifesta infondatezza[10]; nel 2012, su 141 giudizi promossi in via incidentale, ben 85 sono stati decisi con ordinanza di manifesta inammissibilità o manifesta infondatezza[11].
Simili esiti non incoraggiano certo i tentativi di aprire il portone di Palazzo della Consulta… Vi è chi non ha esitato a parlare – non senza preoccupazione – di declino del giudizio in via incidentale, manifestando il timore per una «complessiva perdita di effettività del controllo di costituzionalità»[12].
La perdita di centralità del giudizio di costituzionalità in via incidentale (le “spinte centrifughe”, per usare l’immagine utilizzata in altri contributi di questo fascicolo) si può spiegare ricorrendo a una pluralità di chiavi di lettura, che qui non è possibile riproporre, se non schematicamente: l’impatto delle fonti sovranazionali e il dovere di disapplicazione delle fonti interne contrastanti con le norme del diritto dell’Unione europea dotate di effetto diretto; la spinta – promossa con decisione dalla Corte soprattutto a partire dalla metà degli anni novanta – a esperire un’interpretazione adeguatrice della norma sospetta di illegittimità costituzionale, prima di promuovere l’incidente di legittimità costituzionale (a pena di inammissibilità delle questioni); la tendenza della Consulta a usare un marcato self-restraint in presenza di una sfera di discrezionalità politica del legislatore o, soprattutto, allorché – pur accertati profili di frizione tra la legge e il dettato costituzionale – non si presentino soluzioni manipolative della fonte primaria «a rime costituzionalmente obbligate»[13].
Tuttavia, negli ultimi anni, sempre più chiaramente emergono nella giurisprudenza costituzionale elementi suggestivi del tentativo di riportare il giudizio in via incidentale al centro del sistema. In questo fascicolo, altri contributi si occupano del tema delle relazioni tra l’ordinamento italiano e l’ordinamento dell’Unione europea[14] e il sistema della Cedu[15]. Qui si cercherà di comprendere come il giudice comune possa tornare a esercitare con la necessaria efficacia il ruolo di portiere di Palazzo della Consulta ragionando a partire da una prospettiva domestica.
2. L’interpretazione conforme: le spinte centrifughe
«In linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali». In questo efficace calembour – riecheggiante la costruzione teorica che distingue tra disposizione e norma e che si legge nella sentenza n. 356 del 1996 (considerato in diritto n. 4) – molti individuano un punto di svolta della giurisprudenza costituzionale.
In realtà, il fatto che il giudice – in caso di una pluralità di interpretazioni praticabili – potesse privilegiare quella conforme a Costituzione (scartando quelle non conformi a Costituzione) costituiva una possibilità già pacificamente conosciuta nel sistema di giustizia costituzionale; tuttavia, la cd. interpretazione conforme nella prospettiva tradizionale non rappresentava un obbligo per il giudice comune, in conseguenza del timore che – imponendo al giudice comune un simile dovere di interpretazione adeguatrice – si finisse con il violare la sfera di competenza della Corte costituzionale, la sola a poter giudicare se si dovesse dichiarare l’illegittimità costituzionale di una certa norma o promuovere un’interpretazione adeguatrice dell’enunciato normativo[16].
Con la giurisprudenza degli anni novanta – di cui la sentenza n. 356 del 1996 è forse la più icastica rappresentazione (non a caso rievocata in molte decisioni successive) – la Consulta muta però indirizzo e impone al giudice comune il dovere di valutare – prima di rimettere la questione alla Corte – se non sia possibile interpretare l’enunciato di legge in modo conforme al dettato costituzionale (a pena di inammissibilità delle questioni promosse). Tale svolta della giurisprudenza costituzionale ha, forse, una pluralità di spiegazioni e alcune, non marginali, conseguenze.
Le possibili spiegazioni, anzitutto. Può aver giocato un ruolo non secondario la necessità della Consulta di contenere il proprio arretrato, sebbene, sul punto, le opinioni non siano unanimi[17]; o, anche, la volontà di coinvolgere i giudici comuni nell’opera di attuazione dei principi costituzionali[18], promuovendo e accentuando la penetrazione del dettato costituzionale in tutto l’ordinamento, anche nella prospettiva di assicurare una più rapida entrata in campo degli strumenti di tutela costituzionale dei diritti[19]; o, ancora, la tendenza, propria di ogni ordinamento, a valorizzare il principio di conservazione degli atti giuridici[20]; o, anche – in una prospettiva non priva di pragmatismo – l’efficienza dimostrata dall’interpretazione conforme a governare le interazioni tra fonti e ordinamenti «non coincidenti per origine e legittimazione»[21]; o, ancora – in una prospettiva quasi di sociologia delle istituzioni – la necessità di non coinvolgere la Corte in controversie con il legislatore, espressione di un potere politico fortemente polarizzatosi con il passaggio a un sistema elettorale di tipo maggioritario[22].
Le non marginali conseguenze. La prima conseguenza è già stata messa in luce: la reiterata declaratoria di inammissibilità delle questioni per mancato esperimento dell’interpretazione conforme comporta una drastica riduzione delle occasioni in cui la Consulta “accetta” di esprimere un giudizio di merito sulla legittimità costituzionale degli enunciati legislativi (eventualmente anche con sentenze interpretative). Il che finisce – secondo molti autori – con il diluire il tratto “accentrato” del sindacato di legittimità costituzionale: «più si estende oltre i confini suoi propri l’interpretazione conforme da parte del giudice comune, più aumenta il rischio ch’egli faccia – diciamo così – giustizia sostanziale, omettendo il necessario passaggio del giudizio incidentale e – come accennato – finendo per trasformare in sindacato diffuso un sindacato di costituzionalità che era stato concepito sin dall’inizio come accentrato»[23].
Non solo. Anche sotto il profilo dell’obiettivo di realizzare una più marcata diffusività del dettato costituzionale in tutto l’ordinamento, si registrano non marginali conseguenze: le decisioni dei giudici comuni che pratichino l’interpretazione conforme – così rendendo superfluo il ricorso all’incidente di legittimità costituzionale – hanno effetti solo inter partes (e non è detto che altri giudici comuni pratichino la medesima interpretazione adeguatrice, soprattutto se essa è non confortata dalla giurisprudenza maggioritaria o, addirittura, con questa contrasti); viceversa, le decisioni della Consulta hanno una capacità di impatto sull’ordinamento significativamente maggiore: ove queste siano sentenze di accoglimento hanno effetti erga omnes (anche ove siano sentenze interpretative di accoglimento); ove siano sentenze interpretative di rigetto, esse – in linea di prassi – trovano larghissimo seguito nella giurisprudenza successivamente affermatasi tra i giudici comuni (largamente superiore, peraltro, a quello che si registra per le ordinanze di inammissibilità o manifesta infondatezza)[24]. D’altra parte – si osserva non senza polemica – «sotto il profilo dell’opportunità politica, è anche lecito ritenere che l’interpretazione adeguatrice (specie se compiuta dai giudici comuni, ma anche se compiuta dalla Corte costituzionale con decisioni “interpretative di rigetto”) non solo sia non doverosa, ma sia anche dannosa per chi abbia a cuore la legalità costituzionale. Tale tecnica interpretativa, infatti, non sortisce altro esito se non quello di conservare in vita disposizioni legali che possono esprimere norme incostituzionali, e la cui interpretazione conforme a Costituzione da parte della generalità dei giudici (…) non può dirsi certo assicurata»[25].
Non ultima – tra le conseguenze della “spinta” impressa alla teoria del previo esperimento di un’interpretazione conforme come condizione di accesso al giudizio di costituzionalità[26] – si registra la tendenza tra i giudici ad avvertire «in misura indubbiamente meno cogente il vincolo con la legge, e con la lettera della legge, manifestando preoccupanti tendenze a discostarsene, tramite interpretazioni “libere”, nella ricerca di un obiettivo assiologicamente percepito come superiore»[27]; su tale atteggiamento dei giudici comuni – secondo alcuni – ha probabilmente giocato un ruolo anche la progressiva spinta della Corte di giustizia a promuovere l’interpretazione conforme come strumento di armonizzazione della normativa nazionale al diritto Ue: «ad ampliarsi, infatti, sono stati più in generale i poteri interpretativi in vista della conformazione del diritto interno al diritto europeo. Il che non poteva non avere riflessi anche sul rafforzamento degli stessi poteri per rispondere all’esigenza di conformazione dei testi normativi a Costituzione (…). Come a dire – sotto il profilo anche psicologico – che il giudice ben può essersi da allora sentito autorizzato a “spingersi in avanti” nel suo già riconosciuto compito di tentare in ogni modo di ricavare dai testi soluzioni conformi a Costituzione. Dico di più: negare questo – come avviene da parte dei difensori a oltranza della cd. interpretazione letterale – sarebbe antistorico. È come se ormai si fosse affermato un nuovo modo di sentirsi “soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.): nei confini dell’orizzonte di senso dell’enunciato, i giudici possono (o meglio devono) trovare un significato meno prossimo alla “lettera” della legge ove questo assicuri maggiore conformità alla “lettera” e allo “spirito” della Costituzione»[28].
3. L’interpretazione conforme: la “lettera della legge”
A questo punto, si tratterebbe dunque di provare a delineare i confini di cosa sia l’interpretazione conforme (o adeguatrice), onde marcare il limite oltre il quale il giudice comune non può spingersi senza stravolgere il sistema di sindacato accentrato di legittimità costituzionale e senza stravolgere, in ultima analisi, il senso stesso della sua funzione di giudice soggetto alla legge. È, evidentemente, un compito improbo, largamente superiore alle competenze di chi – come me – è un “piccolo giudice comune”. Mi limito, dunque, a pochi cenni essenziali.
Come detto, l’interpretazione conforme (o costituzionalmente orientata, o adeguatrice)[29] è una tecnica interpretativa volta a prevenire le antinomie e/o le incongruenze assiologiche tra norme espresse da testi normativi diversi[30] e, conseguentemente, tesa ad armonizzare le norme ricavabili da fonti normative (condizionate) con le norme ricavabili da un’altra fonte che – per ragioni non sempre limitabili al solo rapporto gerarchico tra fonti – si pone rispetto alle prime in un rapporto «condizionante»[31].
E, dunque (e banalmente): data la possibilità che un certo enunciato normativo (D) esprima diversi significati (N1, N2, etc.) – e data la possibilità che il significato N2 risulti incompatibile con la Costituzione – «si fa interpretazione adeguatrice scartando la seconda interpretazione (N2) e scegliendo la prima (N1)»[32].
Sennonché da più parti si è paventato il rischio che l’abuso della tecnica dell’interpretazione conforme finisca con il far sentire l’interprete autorizzato a far dire al testo normativo ciò che esso in realtà non esprime, con conseguente disapplicazione della legge da parte del giudice e violazione – in nome dell’interpretazione costituzionalmente orientata – del principio di soggezione del giudice alla legge, che pure trova presidio costituzionale nell’art. 101 Cost.
E non sono invero mancate nella prassi le conferme giurisprudenziali alla non totale infondatezza di tali timori. Si allude, per esempio, a una decisione della Corte di cassazione – chiamata a giudicare sulla presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere in relazione al delitto di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies cp) – ove si ritenne di poter superare la presunzione di adeguatezza introdotta dall’art. 275, comma 3, cpp, univocamente scolpita dal dettato legislativo, richiamando (e facendo diretta applicazione de-) i principi stabiliti nella sentenza della Corte costituzionale n. 265 del 2010 (che aveva rimosso la presunzione di adeguatezza con riferimento alle fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 609-bis e 609-quater cp)[33]. Nella motivazione di quella decisione, la Corte di cassazione riconosce che «il giudice delle leggi non è stato interessato specificamente dell’esame del regime cautelare concernente l’art. 609 octies c.p.»; nondimeno – prosegue la Corte di cassazione – «non vi è dubbio che i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza del 2010 appaiono potenzialmente riferibili anche alla disposizione di legge contestata agli odierni ricorrenti»; e, dopo aver ripercorso gli approdi raggiunti dalla Consulta nella sentenza n. 265 del 2010, la Corte di cassazione «ritiene evidente che si è in presenza di principi in toto applicabili anche alle ipotesi di reato ex art. 609 octies, che presenta caratteristiche essenziali non difformi da quelle che la Corte costituzionale ha individuato per i reati sessuali sottoposti a suo giudizio in relazione alla disciplina ex art. 275, comma 3, c.p.p.»; ne discende – conclude la Corte di cassazione – «che nel caso in esame l’unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza n. 265 del 2010 citata è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto dall’art. 609 octies c.p.». Ma – così facendo, a ben vedere – la Corte di cassazione non ha proposto un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 275, comma 3, cpp, ma ha manipolato direttamente il testo della norma processuale, ritenendo che una presunzione – che il legislatore aveva univocamente descritto come assoluta – dovesse leggersi come relativa[34]. E non a caso, poco dopo, la Consulta – investita da un giudice di merito – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cpp con una sentenza manipolativa (consentita alla Corte, ma non al giudice comune). In motivazione, la Consulta rilevò: «deve rilevarsi la correttezza della tesi del rimettente che esclude la praticabilità, nel caso in esame, di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma sospettata di illegittimità costituzionale. Infatti, questa Corte ha più volte affermato che “l’univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale” (sentenza n. 78 del 2012) e, a proposito della presunzione assoluta dettata dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., ha già ritenuto che le parziali declaratorie di illegittimità costituzionale della norma impugnata, relative esclusivamente ai reati oggetto delle varie pronunce, non si possono estendere alle altre fattispecie criminose ivi disciplinate (sentenza n. 110 del 2012)»[35].
O, ancora, si allude ad alcune decisioni in materia di procreazione medicalmente assistita (disciplina poi colpita da numerose pronunce di incostituzionalità); in una di tali vicende, il Tribunale di Salerno – con ordinanza del 9 gennaio 2010 – aveva proposto un’interpretazione costituzionalmente orientata della legge n. 40/2004 (che limitava il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle sole coppie infertili o sterili); il caso in esame era relativo a una coppia non infertile, ma ad alto rischio di trasmissione di malattie genetiche, che intendeva ricorrere alla fecondazione artificiale e alla diagnosi preimpianto degli embrioni creati in vitro proprio al fine di impiantare nell’utero materno solo quelli sani; il Tribunale di Salerno “superò” il divieto stabilito dal legislatore, affermando che «il diritto a procreare, e lo stesso diritto alla salute dei soggetti coinvolti, verrebbero irrimediabilmente lesi da una interpretazione delle norme in esame che impedissero il ricorso alle tecniche di PMA da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che però rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie a causa di patologie geneticamente trasmissibili». Sennonché, in tal modo, il Tribunale di Salerno – fondando la decisione su una pretesa interpretazione costituzionalmente orientata, tesa a rimuovere una ritenuta discriminazione – aveva di fatto disapplicato il divieto normativo[36]. Non a caso – in una successiva occasione – altre autorità giudiziarie (nel contesto di un procedimento cautelare) promossero una questione di legittimità costituzionale (parzialmente accolta dalla Consulta) che, con riferimento al punto che qui interessa, osservò: «correttamente lo stesso Tribunale ha anche escluso la praticabilità di una esegesi correttiva delle disposizioni censurate, in senso estensivo dell’accesso alle tecniche di PMA, anche in favore delle coppie ricorrenti, atteso l’univoco e non superabile tenore letterale della prescrizione per cui il ricorso a dette tecniche “è comunque circoscritto ai casi di sterilità o infertilita”»[37].
O, anche, vi è chi ha ritenuto che – con riferimento al reato previsto dall’art. 75, comma 2, d.lgs n. 159/2011, in materia di inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno – le sezioni unite (nella cd. sentenza Paternò) abbiano espunto dal testo, per via interpretativa, enunciati (la sanzione penale prevista per la violazione del divieto di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”) che, però, nel testo di legge erano presenti, così di fatto disapplicandoli; ciò in nome dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata[38].
E, forse, altri esempi ancora potrebbero seguire[39].
Tuttavia, occorre dire con chiarezza che – se pure si sono registrati nella prassi giurisprudenziale eccessi e scostamenti dal perimetro della corretta attività interpretativa – la tecnica dell’interpretazione conforme, per come “promossa” dalla Corte costituzionale, non offre avallo a deviazioni dagli ordinari criteri ermeneutici.
Ora: è vero che in una celebre decisione (quella sul conflitto tra Presidente della Repubblica e Procura della Repubblica di Palermo) la Corte costituzionale ha qualificato «l’interpretazione meramente letterale» come «metodo primitivo, sempre»[40], suscitando anche le critiche di attenta dottrina, che ritenne “azzardata” e “infelice” tale indicazione[41]; ma è altrettanto vero che l’esame della giurisprudenza costituzionale permette di apprezzare che il dato letterale sia tutt’altro che trascurato dalla Consulta.
Anzitutto – come del resto osservato dalla stessa dottrina che criticò la decisione appena evocata – «tutti i metodi, da soli, sono “primitivi”»[42]; del resto l’uso dell’avverbio «meramente» dovrebbe indurre a escludere che la Corte abbia affermato che la cd. interpretazione letterale sia «in ogni caso recessiva»[43]. D’altra parte , in numerose decisioni della Corte costituzionale si rinvengono chiari elementi di valorizzazione del significato letterale del testo: allorché ne sia palese il significato letterale, la lettera della legge «si oppone ad un’esegesi di tale disposizione condotta secondo i canoni dell’interpretazione costituzionalmente conforme: tale circostanza [la chiarezza del dato letterale – ndR] segna il confine, in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale»[44]; «l’univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale»[45]. In termini estremamente chiari: «l’interpretazione adeguatrice, orientata a rendere conforme il dettato normativo a Costituzione, ha pur sempre un insuperabile limite nel dato letterale della disposizione»[46].
Il problema – però (e come è ovvio) – si dà in tutte quelle situazioni in cui il dettato normativo non risulta sufficientemente chiaro.
Non è qui possibile, evidentemente, soffermarsi su tutti i fattori di possibile equivocità di un testo normativo[47]. Né è possibile soffermarsi sulla problematica – pur assolutamente rilevante ai fini che qui interessano – connessa all’assenza di una gerarchia di criteri legali (e di argomenti) interpretativi utili a guidare l’attività ermeneutica. Cosa “vale di più”?: «il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» o «l’intenzione del legislatore»? L’art. 12, comma 1, disp. prel. cc non scioglie esplicitamente il dilemma[48]. E, quanto all’intenzione del legislatore, si intente alludere all’intenzione del legislatore storico o alla ratio legis? Anche qui, l’art. 12 disp. prel. cc non scioglie esplicitamente il nodo[49]. Anche con riferimento agli argomenti interpretativi, difetta una mappa che guidi l’interprete: esiste una gerarchia giuridica o logica tra i vari criteri di soluzione delle antinomie? Non sempre essa è chiara[50]; e, in presenza di lacune (vere o supposte che siano), come affrontare il “non detto” dal legislatore? Quando si deve ricorrere all’interpretazione analogica? E, a fronte del “non detto”, si deve privilegiare l’argomento a fortiori o quello a contrario?[51].
4. L’interpretazione conforme e la giurisprudenza del giudice comune
E, dunque, in un contesto «statico» in cui la lettera della legge non sempre è chiara, non può che soccorrere il dato, inevitabilmente «dinamico», della law in action, ossia il chiarimento di senso degli enunciati normativi che può derivare dalla stratificazione delle decisioni degli interpreti: il cd. formante giurisprudenziale può offrire al giudice comune un parametro per saggiare la praticabilità di un tentativo di interpretazione conforme.
Evidentemente, non ogni interpretazione è idonea allo scopo: «“[l]’obbligo di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all’incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (…). L’interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un’indubbia priorità su ogni altra (…), ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Ove, perciò, sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione”, il dubbio di costituzionalità non potrà essere risolto in via ermeneutica»[52].
Tuttavia, è indubbio che il giudice comune – nel tentativo di interrogare il testo della legge e di verificare se sia possibile praticare un’interpretazione conforme – deve necessariamente confrontarsi con la giurisprudenza, tanto più se essa risulta espressa in un orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità consolidatosi in un diritto vivente[53]: oggi la presenza di un “diritto vivente” solleva il giudice comune dall’onere di sperimentare interpretazioni adeguatrici del testo di legge alternative rispetto all’orientamento consolidato, facoltizzandolo a sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale di una certa disposizione, così come essa “vive” nell’ordinamento e nella pratica giurisprudenziale[54].
Si tratta di soluzione che – seppur descritta in termini di “consolidata giurisprudenza” – non è né ovvia, né scontata. Risale a pochi anni orsono la vicenda nota come la “seconda guerra tra le Corti”[55], in cui si registrò un’aspra dialettica tra Corte costituzionale e sezioni unite della Corte di cassazione; vicenda nella quale – in nome dell’interpretazione adeguatrice – la Corte costituzionale (dapprima con una sentenza interpretativa di rigetto[56], poi con una serie di ordinanze di inammissibilità, anche manifesta, per mancato esperimento dell’interpretazione conforme[57]) rifiutava di effettuare il richiesto intervento demolitorio, propugnando un’interpretazione conforme che si presentava – agli occhi della Consulta – come l’unica «in linea con i valori della Carta fondamentale». Sennonché la giurisprudenza di legittimità – consolidata e ribadita per ben tre volte a sezioni unite[58] – aveva reiteratamente ribadito di ritenere che l’interpretazione adeguatrice proposta dalla Consulta non fosse autorizzata dal dato testuale e sistematico scolpito nel codice e cristallizzatosi nel diritto vivente. La vicenda si chiude infine con la sentenza n. 299 del 2005, con cui la Corte costituzionale – prendendo atto del consolidamento di un diritto vivente («non vi è dubbio che l’indirizzo delle sezioni unite debba ritenersi oramai consolidato, sì da costituire diritto vivente, rispetto al quale non sono più proponibili decisioni interpretative») – ha infine adottato una sentenza interpretativa di accoglimento con cui ha espunto dall’ordinamento l’interpretazione dell’art. 304, comma 6, cpp – consolidatasi nel diritto vivente – ritenuta non conforme a Costituzione.
E, dunque, la Corte costituzionale ritiene, oramai, che «in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo, se pure è libero di non uniformarvisi e di proporre una sua diversa esegesi, ha, alternativamente, la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di “diritto vivente” e di richiederne su tale presupposto il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (ex plurimis, sentenze n. 39 del 2018, n. 259 del 2017 e n. 200 del 2016; ordinanza n. 201 del 2015). Ciò, senza che gli si possa addebitare di non aver seguito altra interpretazione, più aderente ai parametri stessi, sussistendo tale onere solo in assenza di un contrario diritto vivente (tra le altre, sentenze n. 122 del 2017 e n. 11 del 2015): nell’ipotesi considerata, infatti, “la norma vive ormai nell’ordinamento in modo così radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l’intervento del legislatore o [della] Corte” (tra le altre, sentenza n. 191 del 2016; in senso analogo, ordinanza n. 207 del 2018)»[59]. Tale orientamento è stato ancora di recente confermato da Corte costituzionale, sentenza n. 32 del 2020.
Si badi: tale approdo – nel valorizzare il diritto vivente – in alcun modo intende promuovere un assetto “verticistico” alla giurisdizione comune: «a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione (…) [e dunque] pure in presenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito i caratteri del “diritto vivente”, il giudice rimettente ha soltanto la facoltà, e non già l’obbligo di uniformarsi ad esso»[60]. Resta, dunque, ferma la “libertà interpretativa” di ciascun giudice della Repubblica di interpretare la legge anche in difformità dal cd. diritto vivente, essendo il giudice soggetto alla legge e non alla Corte di cassazione[61]. Sicché il piccolo giudice comune avrà sempre la possibilità di provare ad affermare “dal basso” interpretazioni costituzionalmente orientate non sintoniche al diritto vivente. Tuttavia, con la teoria del diritto vivente come limite alla necessità di esperire l’interpretazione conforme, si ottiene un duplice risultato: da un lato, il giudice comune non è “costretto” a commettere dei suicidi interpretativi (ossia, ad affermare interpretazioni adeguatrici difformi dal diritto vivente, con scarsa probabilità di seguito nei successivi sviluppi procedimentali); dall’altro lato, si assicura la possibilità di ottenere dalla Consulta uno scrutinio di merito sulla conformità o meno alla Carta costituzionale del diritto così come esso si è affermato e “vive” nelle aule di giustizia e, conseguentemente, nella società.
È evidente che una simile valorizzazione del diritto vivente ha un effetto di contenimento delle spinte centrifughe e, conseguentemente, di accentramento del sindacato di legittimità costituzionale.
E qui si deve registrare – negli anni più recenti – una svolta nella giurisprudenza costituzionale. Una volta chiarito che la soggezione del giudice alla legge non impone una fedeltà agli orientamenti dominanti nella giurisprudenza di legittimità, può darsi il caso che il piccolo giudice comune ritenga di “sposare” un’interpretazione degli enunciati normativi non necessariamente coerente con il diritto vivente (anche perché non è detto che un diritto vivente vi sia: può essere in atto un contrasto giurisprudenziale o, anche, può darsi il caso che un diritto vivente non abbia ancora fatto a tempo a cristallizzarsi); e, in un simile scenario, può anche darsi il caso che il giudice comune ritenga di non poter praticare – tra più interpretazioni possibili – un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’enunciato normativo e decida dunque di promuovere un incidente di legittimità costituzionale.
Il destino di una simile questione di legittimità costituzionale – negli anni novanta e nello scorso decennio – sarebbe stato segnato: questione inammissibile per mancato esperimento dell’interpretazione adeguatrice. Sennonché, nella giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni, si registrano decisioni di segno diverso. Taluni individuano un punto di svolta nella decisione assunta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 221 del 2015[62]. Con tale decisione, la Consulta ha disatteso un’eccezione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, per il mancato esperimento, da parte del giudice a quo, del tentativo di interpretazione conforme alla Costituzione e ha, al riguardo, osservato che «la possibilità di una lettura alternativa della disposizione censurata, eventualmente conforme a Costituzione (…) viene consapevolmente esclusa dal rimettente, il quale ravvisa nel tenore letterale della disposizione un impedimento ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile»; il che – prosegue la Corte costituzionale – non pregiudica l’ammissibilità della questione; infatti, «la possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità»[63].
Tale orientamento è stato poi ribadito da successivi arresti della giurisprudenza costituzionale[64]; tra essi, merita menzionare – perché particolarmente recente – la sentenza n. 118 del 2020, ove si legge: «d’altra parte, sempre secondo una giurisprudenza costituzionale ormai costante, quando il giudice a quo abbia consapevolmente reputato che il tenore della disposizione censurata impone una determinata interpretazione e ne impedisce altre, eventualmente conformi a Costituzione, la verifica delle relative soluzioni ermeneutiche non attiene al piano dell’ammissibilità, ed è piuttosto una valutazione che riguarda il merito della questione (così, ex multis, sentenze n. 50 del 2020 e n. 133 del 2019)»[65].
Sebbene la giurisprudenza costituzionale ritenga comunque necessario che il giudice rimettente illustri le ragioni per cui non ritiene praticabile un’interpretazione conforme[66], in altra decisione (sentenza n. 144 del 2019) si afferma che il ricorso a una possibile interpretazione conforme può essere escluso dal giudice a quo anche solo implicitamente (purché in modo logicamente necessario e ricavabile dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione): «il giudice a quo, dunque, ha implicitamente escluso, all’esito dell’attività interpretativa posta in essere, di poter ricavare dalle disposizioni oggetto di censura norme conformi a Costituzione. Se, poi, l’esito dell’attività esegetica del giudice rimettente sia condivisibile, o no, è profilo che attiene al merito, e non più all’ammissibilità, delle questioni di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 78 e n. 12 del 2019, n. 132 e n. 15 del 2018, n. 69, n. 53 e n. 42 del 2017, n. 221 del 2015)»[67].
Chiaramente resta fermo il fatto che il giudice comune – prima di provare a varcare l’anticamera di Palazzo della Consulta – deve comunque “proporre” una propria interpretazione e non investire la Corte costituzionale di una questione di mera interpretazione[68] o – peggio – di una questione tesa a ottenere un mero avallo interpretativo nel contesto di una controversia giurisprudenziale[69].
Ma una volta assolto il dovere – proprio delle responsabilità del giudice comune – di sperimentare un’interpretazione conforme e una volta plausibilmente argomentato che essa non è ritenuta possibile, il giudice comune può tornare a essere il portiere dell’anticamera di Palazzo della Consulta.
La conseguenza è presto detta: sarà maggiore il numero dei casi in cui la Consulta accetterà di esprimersi nel merito della questione, saggiando più frequentemente – e con l’autorevolezza e, in caso di sentenze di accoglimento, l’autorità che hanno le decisioni della Corte costituzionale – la conformità di una determinata interpretazione di un enunciato di legge con i parametri costituzionali. Come se – per contrastare le spinte centrifughe – la Corte costituzionale volesse imprimere delle spinte centripete, verso un sindacato di costituzionalità maggiormente accentrato.
5. La Consulta, la discrezionalità del legislatore e le rime costituzionalmente obbligate
Vi è stato, poi, un altro fattore di restringimento del varco che conduce a Palazzo della Consulta. Si allude al marcato self-restraint dimostrato dalla Corte costituzionale di fronte a richieste di questioni di legittimità costituzionale che proponessero interventi manipolativi del testo di legge o che lambissero questioni confinanti con la sfera di discrezionalità riservata al legislatore. E, inevitabilmente, il self-restraint della Corte ha indotto anche i giudici comuni ad adottare – a loro volta – analogo self-restraint nel proporre questioni di legittimità costituzionale.
Si tratta di due concetti – quello della sfera di discrezionalità del legislatore e quello della richiesta di interventi manipolativi del testo di legge – che sono (evidentemente) concettualmente distinti e che, tuttavia, è utile trattare qui congiuntamente: sia per esigenze di sintesi sia perché, spesso, le due questioni nella pratica si sovrappongono.
Il punto di partenza – sul piano normativo – è dato dall’art. 28 della legge n. 57/1953: «il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento». In linea di sintesi, si può schematizzare l’orientamento tradizionale della Consulta nei termini che seguono: «una decisione additiva è consentita, com’è ius receptum, soltanto quando la soluzione adeguatrice non debba essere frutto di una valutazione discrezionale ma consegua necessariamente al giudizio di legittimità, sì che la Corte in realtà proceda ad un’estensione logicamente necessitata e spesso implicita nella potenzialità interpretativa del contesto normativo in cui è inserita la disposizione impugnata. Quando invece si profili una pluralità di soluzioni, derivanti da varie possibili valutazioni, l’intervento della Corte non è ammissibile, spettando la relativa scelta unicamente al legislatore»[70] (corsivi aggiunti).
Uno degli ambiti in cui – più frequentemente – si è registrato il self-restraint della Consulta rispetto alla discrezionalità legislativa è quello relativo alle politiche criminali, ove la Corte «ha sempre avuto cura di salvaguardare gli spazi spettanti alle valutazioni di politica criminale del legislatore relative alla congruenza fra i reati e le pene (ex multis, sentenze n. 167 del 1982, n. 22 del 1971 e n. 109 del 1968), riservandosi di intervenire solo a fronte di determinazioni palesemente arbitrarie di quest’ultimo, cioè in caso di sperequazioni punitive di tale gravità da risultare radicalmente ingiustificate (ex plurimis, sentenze n. 282 del 2010, n. 22 del 2007, n. 325 del 2005 e n. 364 del 2004), anche alla luce dei canoni di razionalità (sentenza n. 218 del 1974) e di ragionevolezza (sentenza n. 22 del 2007)»[71].
Di qui la sequela di dichiarazioni di inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale che ponessero in discussione il “privilegio del legislatore” e che richiedessero interventi manipolativi del testo non caratterizzati dall’essere “a rime costituzionalmente obbligate”[72].
Tuttavia, più di recente si registrano degli assestamenti nella giurisprudenza costituzionale che ritengono ammissibili anche questioni di legittimità costituzionale con cui si richiedono alla Corte costituzionale interventi manipolativi “a rime non obbligate”.
Nella sua giurisprudenza più recente, la Corte «ha ripetutamente affermato che, di fronte alla violazione di diritti costituzionali, non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione di legittimità costituzionale l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione»[73].
L’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale in assenza di rime obbligate è legata alla necessità di «porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, ferma restando la facoltà del legislatore di intervenire con scelte diverse (così la sentenza n. 222 del 2018; ma si veda anche, analogamente, in un ambito vicino a quello qui considerato, la sentenza n. 41 del 2018, nonché la sentenza n. 236 del 2016). L’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risulta perciò condizionata non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (sentenze n. 40 del 2019 e n. 233 del 2018)»[74].
E, a questo punto, si deve registrare che la Consulta, in sempre più occasioni, ha “accettato” uno scrutinio di merito pur in assenza di risposte a rime costituzionalmente obbligate. I casi forse più noti sono quelli che si sono registrati in materia penale e che hanno permesso anche di apprezzare la pluralità di strumenti di intervento di cui la Consulta si è dotata.
Basti pensare al caso della cd. revisione europea, scrutinato nella sentenza n. 113 del 2011, in cui la Corte costituzionale – dovendo rimediare a un “difetto sistemico” del nostro ordinamento rispetto alla garanzia dei diritti fondamentali protetti dalla Cedu (difetto sistemico già accertato dalla Corte di Strasburgo) e dovendo prendere atto dell’inerzia del legislatore, sordo a precedenti moniti – ha sviluppato il suo argomentare secondo le seguenti direttrici: «Posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio (…)». Di qui la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 630 cpp «perché (e nella parte in cui) non contempla un “diverso” caso di revisione, rispetto a quelli ora regolati, volto specificamente a consentire (…) la riapertura del processo (…) quando la riapertura stessa risulti necessaria, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo». Con la sentenza ora citata, la Corte non si spinge sino alla manipolazione del testo della legge e – con l’uso della tecnica delle sentenze additive di principio – rimette «ai giudici comuni [il compito di trarre] dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione», con l’ulteriore precisazione che il legislatore resta «ovviamente libero di regolare con una diversa disciplina – recata anche dall’introduzione di un autonomo e distinto istituto – il meccanismo di adeguamento alle pronunce definitive della Corte di Strasburgo»[75].
Ma la tecnica delle decisioni additive di principio – se può valere in materia processuale – non sempre si presenta come idonea a «porre rimedio» al vulnus di un principio costituzionale.
Il riferimento necessario è alla sentenza n. 236 del 2016, in materia di trattamento sanzionatorio stabilito per il reato di alterazione di stato. Come è noto, in quel caso la Corte dichiarò l’art. 567, comma 2, cp illegittimo «nella parte in cui prevede la pena edittale della reclusione da un minimo di cinque a un massimo di quindici anni, anziché la pena edittale della reclusione da un minimo di tre a un massimo di dieci anni». In quella decisione, la Corte, anzitutto, accettò di apprezzare l’esercizio del potere discrezionale del legislatore in materia criminale, giungendo a ravvisare la «manifesta irragionevolezza per sproporzione» della cornice edittale disegnata dal legislatore[76]. Dovendo però passare all’intervento manipolativo, la Corte – innovando la propria precedente giurisprudenza in materia di sindacato di legittimità costituzionale sulle scelte del legislatore in materia sanzionatoria – comincia a prescindere dalla necessità di trovare rimedi a rime costituzionalmente obbligate, pur nel rispetto delle linee di sistema comunque disegnate dal legislatore: «per non sovrapporre la propria discrezionalità a quella del Parlamento rappresentativo», la Corte ha ritenuto di dover “costruire” la risposta manipolativa ricorrendo a «precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo (…) giacché obiettivo del controllo sulla manifesta irragionevolezza delle scelte sanzionatorie non è alterare le opzioni discrezionali del legislatore, ma ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile, all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze»[77]. Tale orientamento è stato poi ribadito dalla giurisprudenza successiva, in particolare nella sentenza n. 40 del 2019 (in materia di trattamento penale per la detenzione illecita di stupefacenti e dopo un monito al legislatore rimasto inascoltato).
Come evidente, un simile orientamento interpretativo ha l’effetto di ampliare gli spazi di sindacato di legittimità costituzionale della Corte in ambiti nei quali, verosimilmente, in anni precedenti non sarebbe entrata per difetto di risposte a rime costituzionalmente obbligate.
Di più. La Corte di recente ha dimostrato che il necessario rispetto del «privilegio del legislatore» in materia di politica criminale non può determinare l’affermazione di «zone franche», sottratte al sindacato di legittimità costituzionale, nemmeno in materie connotate da alto tasso di discrezionalità politica. E, per rendere maggiormente effettiva la possibilità di sindacato, la Corte – constatando che troppi dei moniti rivolti al legislatore sono rimasti inascoltati – si è dotata di nuovi strumenti decisori. Si allude alla tecnica decisoria messa in campo nel noto caso Cappato. Con l’ordinanza n. 207 del 2018, la Corte ha anzitutto accertato l’esistenza di un contrasto tra il dettato dell’art. 580 cp e alcuni parametri costituzionali (limitatamente al caso di colui che abbia agevolato il suicidio di un malato che, in piena libertà e consapevolezza, abbia deciso di rifiutare terapie mediche che gli infliggevano sofferenze fisiche o morali, e che reputava contrarie al suo senso di dignità); tuttavia, anziché intervenire subito con una decisione manipolativa e in presenza di una pluralità di possibili rimedi al vulnus costituzionale diversamente modulabili dal legislatore, la Corte – anziché rivolgere il tradizionale monito al legislatore – ha disposto «il rinvio del giudizio in corso, fissando una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale [a un’udienza successiva di circa dieci mesi], in esito alla quale potrà essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela»[78]. Come è noto, il legislatore non è poi intervenuto e la Corte – con la sentenza n. 242 del 2019 – non ha potuto che «porre rimedio» al vulnus costituzionale, con una sentenza manipolativa. Analoga tecnica di “incostituzionalità differita” è stata adottata dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 132 del 2020 (in materia di trattamento sanzionatorio previsto per il reato di diffamazione a mezzo stampa, di cui si denuncia il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 Cedu, così come interpretato dalla costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo).
6. Nuovamente, il giudice comune
I casi giurisprudenziali passati in rassegna dimostrano come la Corte costituzionale sempre più intenda aprire i portoni di Palazzo della Consulta. Il mutamento di approccio rispetto al tema della praticabilità di un’interpretazione conforme (non più condizione di ammissibilità della questione, ma questione suscettibile di esame nel merito), la minor ritrosia a sindacare scelte discrezionali del legislatore (rispetto alla quale la Corte si è dotata anche di nuove tecniche decisorie), l’adozione di diversi schemi argomentativi per valutare l’esistenza di scelte manifestamente irragionevoli da parte del legislatore, denotano una tendenza della Corte ad “attrarre” a sé un maggior numero di casi in cui procedere al sindacato di legittimità costituzionale.
Si tratta di una tendenza che – oltre a trasparire dall’esame della giurisprudenza costituzionale – è stata esplicitamente riconosciuta negli ultimi anni dai presidenti della Corte costituzionale. Il presidente Lattanzi, nella consueta relazione sull’attività svolta dalla Corte nell’anno precedente (in quel caso, il 2018), ha avuto modo di evidenziare che «la natura della Corte, fin dai suoi equilibrati criteri di composizione; le peculiarità del giudizio costituzionale, ove si realizza, con la più ampia collegialità, un confronto dialettico tanto ponderato quanto arricchito dalla diversa sensibilità dei giudici; la pubblicità e l’efficacia erga omnes delle pronunce, sono solo alcuni dei fattori che rendono il sindacato accentrato l’architrave, non surrogabile, del controllo di costituzionalità. Ciò deve indurre all’adozione, quando è possibile, di criteri che favoriscano l’accesso alla giustizia costituzionale e permettano lo scrutinio del merito della questione incidentale che viene proposta»[79]. Nella relazione svolta l’anno dopo, la presidente Cartabia registra un aumento del numero di giudizi di costituzionalità promossi in via incidentale e osserva che tale linea di tendenza «si è sviluppata di pari passo con un atteggiamento meno formalistico della Corte circa il controllo sui requisiti di ammissibilità delle questioni incidentali, sicché la diminuzione delle pronunce di inammissibilità e il corrispondente aumento delle risposte nel merito da parte della Corte alla domanda di giustizia costituzionale presente nella società e nelle aule giudiziarie potrebbe aver incoraggiato i soggetti interessati a rivolgersi alla Corte, a partire dai giudici rimettenti»[80].
Si tratta di segnali che non possono che incoraggiare il giudice comune a prendere sul serio il ruolo di portiere di Palazzo della Consulta e a farsi promotore – quando ve ne siano le condizioni – della diffusione della legalità costituzionale in tutto l’ordinamento.
Prima di chiudere, poche notazioni conclusive con le quali si intende enfatizzare il rilievo che il nostro sistema di giustizia costituzionale assegna al giudice comune.
Primo. L’esigenza di «porre rimedio» a un vulnus costituzionale presuppone, ovviamente, che il vulnus esista e che, in qualche modo, un giudice comune lo abbia intravisto, chiedendone conto alla Consulta.
Si è detto, in esordio, che il giudizio è «il luogo di incontro dello Stato-autorità e dello Stato-comunità» e che il giudice è il soggetto che viene a trovarsi in «posizione di intermediarietà tra la sfera politica e quella dei diritti individuali»[81]. Viene in mente la riflessione di un altro presidente della Corte costituzionale, Paolo Grossi, che ricorda che i giudici (come altri operatori del diritto) sono «in approccio continuo coi fatti di vita e di essi percettori»; è questa posizione privilegiata – il contatto con il caso – che consente loro di assumere «quel ruolo protagonistico che hanno sempre avuto in assetti giuridici pluralistici»[82]; è questa posizione privilegiata a consentire (imporre) ai giudici di leggere i «fatti umani nel loro senso e nel loro valore», dando modo all’interprete di comprendere la dimensione del caso[83]; «l’interprete è necessariamente orientato, nella sua ricerca, da fattori valutativi che condizionano la considerazione delle norme, tra le quali egli è alla ricerca di quella che dovrà risolvere il caso da decidere»[84].
Del resto, ogni ragionamento su antinomie e/o lacune – e, in definitiva, ogni ragionamento sulle possibili frizioni tra la legalità legale e la legalità costituzionale – presuppone un’opera di sussunzione in concreto, ossia di riconduzione di «una fattispecie concreta nel campo di applicazione di una norma previamente identificata in astratto»[85].
Occorre, dunque e anzitutto, che, nell’attività di sussunzione, il giudice sappia vedere “il caso”.
Secondo. Una volta che il giudice abbia individuato “il caso” e ne abbia compreso – per dirla con Zagrebelsky – «senso e valore» e lo abbia ricondotto a una fattispecie, occorre che il giudice sappia vedere – ammesso che vi sia – la divaricazione tra legalità legale e legalità costituzionale (in termini di lacune o antinomie, sebbene sia in parte improprio parlare di antinomie tra una disposizione di legge e un principio costituzionale). Ora, l’individuazione di un’antinomia tra due fonti (e il ritenerla irriducibile per via interpretativa, mediante interpretazione adeguatrice) è il «frutto dell’interpretazione»[86]; anche l’individuazione di una lacuna «segue e non precede l’interpretazione»[87].
È dunque indispensabile – perché si diffonda il dettato costituzionale in tutto l’ordinamento – che il giudice sappia “vedere” antinomie e lacune, anche quando esse non sono particolarmente evidenti. È necessario che egli sappia cogliere tutte le potenzialità espansive del dettato costituzionale, scolpito nella Carta fondamentale e progressivamente chiarito – reso concreto e vivo – dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
Terzo. Il giudice comune deve saper cogliere i segni del cambiamento (e, se del caso, promuoverlo). La Carta costituzionale non è cristallizzata in enunciati impermeabili ai mutamenti sociali. Seppure siano rari i casi, si registra una pluralità di occasioni in cui la Corte ha ritenuto di rivedere proprie precedenti interpretazioni del dettato costituzionale o della legittimità di un certo enunciato normativo (con immediate conseguenze in relazione alle questioni di legittimità demandate al suo giudizio). Si pensi – per fare riferimento a un caso celebre – alla sentenza n. 126 del 1968, in cui la Corte – sconfessando un proprio precedente (Corte costituzionale, sentenza n. 64 del 1961) – dichiarò l’illegittimità costituzionale della fattispecie con cui si puniva (esclusivamente) la moglie adultera (e non il marito adultero), giustificando l’overruling sul presupposto di una mutata «realtà sociale»; o, ancora, si pensi alle decisioni della Corte costituzionale che hanno posto in discussione la prevalenza attribuita al ramo paterno nella trasmissione del cognome ai figli, sul presupposto che tale prevalenza costituisca il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna» (Corte costituzionale, ordinanza n. 61 del 2006, corsivi di chi scrive; sentenza n. 286 del 2016; ordinanza n. 18 del 2021, con cui la Consulta ha promosso incidente di legittimità costituzionale davanti a se stessa); o, ancora, si pensi al caso in cui la Consulta – con la sentenza n. 137 del 1986 – dichiarò l’illegittimità costituzionale di alcune norme che prevedevano un regime differenziato tra uomo e donna per il conseguimento della pensione di vecchiaia (giustificando il superamento della sentenza n. 123 del 1969 con l’evoluzione della situazione culturale, normativa, giurisprudenziale e tecnico-produttiva); o, ancora, si pensi alla recente sentenza n. 32 del 2020 (in ordine agli effetti sfavorevoli e retroattivi che alcune modifiche introdotte con la cd. “legge spazza-corrotti” determinavano sull’accesso a determinati benefici penitenziari), in cui la Corte – valorizzando, tra le altre ragioni, anche un mutato quadro giurisprudenziale, influenzato da significative sentenze della Corte Edu – ha dichiarato esplicitamente la necessità di rimeditare proprie precedenti affermazioni. In conclusione: il giudice comune deve anche saper intravedere i segni del cambiamento (sociale, normativo o anche giurisprudenziale); perché – se quei segni di cambiamento non li vede il giudice comune – nemmeno la Corte potrà sottoporre la “legalità legale” al test di resistenza dell’attualità costituzionale.
Quarto. Il giudice comune deve saper insistere. Talora capita al giudice comune di prefigurarsi una possibile frizione tra il dettato normativo e un qualche parametro costituzionale; e talora gli capita altresì di “rinunciare” a sollecitare la Corte costituzionale sul punto, ritenendo che l’esito più plausibile dell’eventuale questione di legittimità costituzionale potrebbe essere un’inammissibilità della questione promossa (per la presenza di un ritenuto spazio di discrezionalità del legislatore, o per l’assenza di soluzioni manipolative a rime costituzionalmente obbligate) o perché – nella migliore delle ipotesi – sarebbe immaginabile la formulazione di un monito al legislatore. Questo atteggiamento rinunciatario non è particolarmente commendevole, lo riconosco; ma capita (ed è capitato anche a chi scrive).
Tuttavia, non è in tal modo – non è rinunciando a interessare la Corte – che si “rafforza” la penetrazione della Costituzione nell’ordinamento. L’inveramento dei principi costituzionali presuppone un’opera collettiva della giurisprudenza che – con la necessaria cautela istituzionale, ma senza timidezze – usi il “coraggio” di disturbare la Corte, accettando di lavorare per il futuro.
Un monito oggi, può costituire la pietra angolare per una decisione di rafforzamento della Costituzione l’indomani.
La vicenda del trattamento sanzionatorio per i reati in materia di stupefacenti è, sul punto, oltremodo istruttiva. Una ricca questione di legittimità costituzionale proposta dal gup presso il Tribunale di Rovereto – benché dichiarata inammissibile dalla Consulta – ottenne comunque il “risultato” di registrare una «anomalia sanzionatoria» nel sistema (essendo la ragione di inammissibilità legata alla presenza di una discrezionalità legislativa in ragione del fatto che l’anomalia sanzionatoria era «rimediabile con plurime opzioni legislative»); e ottenne il risultato di indurre la Corte a formulare «un pressante auspicio affinché il legislatore proceda rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell’art. 73, del d.P.R. n. 309 del 1990»[88].
Come è noto, il legislatore non intervenne per comporre la frattura e così sanare l’anomalia sanzionatoria. Tuttavia, forte del precedente monito, la Corte – nella sentenza n. 40 del 2019 – osservò che «nel rispetto delle scelte di politica sanzionatoria delineate dal legislatore e ad esso riservate, occorre, infatti, evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale proprio in ambiti in cui è maggiormente impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la libertà personale»[89]; conseguentemente, la Consulta ritenne di potere e dovere ricomporre lo iato tra legalità e legalità costituzionale sul presupposto che l’intervento della Corte «non [fosse] ulteriormente differibile, posto che è rimasto inascoltato il pressante invito rivolto al legislatore affinché procedesse “rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990”, anche in considerazione “dell’elevato numero dei giudizi, pendenti e definiti, aventi ad oggetto reati in materia di stupefacenti”»[90].
Ecco. Se il gup di Rovereto fosse stato un giudice “timido” – o, peggio ancora, “pigro” –, probabilmente la “frattura” sanzionatoria ritenuta illegittima dalla Consulta non sarebbe stata risanata. Non subito. E ciò dimostra come occorra avere la capacità (ma anche il coraggio) di interpellare la Corte e, se del caso, insistere.
Anche in tal modo – rischiando un’inammissibilità – si lavora per l’affermazione della legalità costituzionale.
1. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, tomo 2 (L’ordinamento costituzionale italiano – la Corte costituzionale), Cedam, Padova, 1984 (V ed.), p. 263.
2. G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 269.
3. Riprendo questi dati da R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1990-1992), Giappichelli, Torino, 1993, p. 358.
4. Vds. www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/Prospetti_statistici_2010.pdf.
5. Vds. www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/GraficiRelazione2012.pdf.
6. Vds. www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/stat2012.pdf.
7. Vds. www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/Cartabia2020/Dati_quantitativi_e_di_analisi_2019.pdf.
8. Tra le varie cause di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale si possono citare – senza pretese di esaustività – l’insufficiente descrizione della fattispecie a quo; difetto di motivazione sulla rilevanza o non manifesta infondatezza della questione; incompleta descrizione del quadro normativo di riferimento; l’omesso esperimento di un’interpretazione conforme; il tentativo di ottenere dalla Consulta avallo interpretativo in presenza di un contrasto giurisprudenziale emerso nella giurisdizione comune; la richiesta di interventi manipolativi a contenuto non costituzionalmente obbligato; il difetto di soluzioni costituzionalmente obbligate in materie riservate alla discrezionalità del legislatore.
9. Vds. www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/Prospetti_statistici_2010.pdf.
10. Vds. www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/GraficiRelazione2012.pdf.
11. Vds. www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/Cartabia2020/Dati_quantitativi_e_di_analisi_2019.pdf.
12. Così, di recente, V. Manes, L’evoluzione del rapporto tra Corte e giudici comuni nell’attuazione del volto costituzionale dell’illecito penale, in V. Manes e V. Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 1 ss.
13. Si tratta di temi attraversati con estrema ampiezza, acume di analisi e ricco corredo bibliografico da V. Manes, L’evoluzione del rapporto, op. ult. cit., pp. 3-48.
14. Si rimanda a C. Padula, Le “spinte centripete” nel giudizio incidentale di costituzionalità, in questo fascicolo (pubblicato in anteprima in questa Rivista online, 23 ottobre 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/le-spinte-centripete-nel-giudizio-incidentale-di-costituzionalita).
15. Si rimanda a E. Lamarque, I poteri del giudice comune nel rapporto con la Corte costituzionale e le Corti europee, in questo fascicolo (pubblicato in anteprima in questa Rivista online, 1° dicembre 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/i-poteri-del-giudice-comune-nel-rapporto-con-la-corte-costituzionale-e-le-corti-europee).
16. M. Boni (a cura di), Le pronunce di inammissibilità della Corte, febbraio 2016, pp. 58 ss. (in particolare nota 262), www.cortecostituzionale.it/studiRicerche.do.
17. Ancora M. Boni (a cura di), op. ult. cit., pp. 59 ss.: «il cambio di indirizzo è avvenuto a partire dalla seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso, in una fase, cioè, in cui l’attività della Corte, smaltito l’arretrato causato dal processo Lockheed, era tornata alla normalità. Questo dato lascia supporre che la formula dell’inammissibilità (eventualmente manifesta) per mancata interpretazione è una scelta che non si giustifica per esigenze contingenti, ossia non viene confermata la tesi secondo cui alla base della diffusione della formula decisoria che rimanda al giudice il compito di espletare esso stesso l’interpretazione conforme vi sarebbe una motivazione meramente deflattiva».
18. Parla di «giudici comuni protagonizzati dalla Corte» V. Manes, L’evoluzione del rapporto, op. cit., p. 33.
19. Osserva M. Bignami, Profili di ammissibilità delle questioni incidentali di costituzionalità (rilevanza, incidentalità, interpretazione conforme), in questa Rivista online, 21 dicembre 2017, p. 11, www.questionegiustizia.it/data/doc/1506/profili_ammissibilita_questioni_incidentali_costituzionalita.pdf, che «questa giurisprudenza costituzionale si colloca al punto di arrivo di un processo storico che ha origini lontane: alle sue spalle vi sono, tra le altre cose, il superamento dell’idea che il testo costituzionale abbia un’impronta programmatica esclusivamente rivolta al legislatore; la teorica della Drittwirkung; gli studi sulla attuazione della Costituzione per via giudiziaria; l’inclusione, pur ancora discussa, della Costituzione nella nozione di legge cui il giudice è soggetto ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost.; la acquisita consapevolezza del carattere unitario dell’attività interpretativa, con il rifiuto a scindere quest’ultima nelle sfere separate della lettura della legge da un lato, e di quella della Costituzione dall’altro; la nozione di comunità aperta degli interpreti; l’inflazione stessa del processo costituzionale, annegato da questioni di costituzionalità di spessore ridotto, e agevolmente risolvibili con l’interpretazione. Vi è che alla metà degli anni ‘90 queste idee sono patrimonio comune degli studiosi, ma stentano a penetrare nelle aule di giustizia, ove è ancora fortemente avvertito il vincolo che lega il giudice alla legge ordinaria, sia nel senso che essa resiste alla penetrazione della Costituzione fino a quando non sia la Corte a dichiararne l’illegittimità, sia nel senso che, in assenza della legge, nessun vuoto può essere colmato attraverso la diretta applicazione delle disposizioni costituzionali, fino a quando, ancora una volta, non sia la Corte a provvedere mediante una pronuncia additiva. Vi erano quindi tutte le condizioni perché la Corte imprimesse, mediante le inammissibilità per mancato esperimento dell’interpretazione costituzionalmente orientata, una svolta nella direzione di una più accentuata diffusività della Costituzione».
20. M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enciclopedia del Diritto – Annali, vol. IX, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 447 ss.
21. Ivi, pp. 450 ss.
22. «Come se la Corte preferisse delegare ai giudici il compito di intervenire sull’operato del legislatore, allo scopo di ricondurlo al dettato costituzionale, in modo da non esporsi in prima persona nei confronti di un potere politico che, dopo l’avvento del sistema maggioritario e con il suo consolidamento nei primi anni del nuovo millennio, è diventato più forte che in passato»; così – in un contributo in cui si considerano anche le altre ragioni di successo dell’interpretazione conforme – E. Lamarque, La fabbrica delle interpretazioni conformi a Costituzione tra Corte costituzionale e giudici comuni, in Astrid online, 20 novembre 2009, www.astrid-online.it/static/upload/protected/Lama/Lamarque_20-novembre-2009-def.pdf.
23. Così (e per ulteriori riferimenti bibliografici), M. Luciani, Interpretazione conforme, op. cit., p. 472.
24. Vds., a titolo esemplificativo, lo studio di E. Lamarque, Il seguito delle decisioni interpretative e additive di principio della Corte costituzionale presso le autorità giurisdizionali (anni 2000-2005), in Riv. trim. dir. pubbl., 2008, pp. 699-767, reperibile sul sito della Corte, www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/STU%20200_Relazione_illustrativa.pdf. Nella ricerca, si osserva che «suddividendo queste decisioni costituzionali [quelle interpretative – ndR] secondo un criterio formale, ci si accorge tuttavia che: le sentenze interpretative “nei sensi” che hanno avuto un seguito pacificamente conforme sono circa il 90%; le sentenze di rigetto o di inammissibilità prive della formula “nei sensi” che hanno avuto un seguito pacificamente conforme sono circa l’80%; le ordinanze di manifesta infondatezza o inammissibilità interpretative che hanno avuto un seguito pacificamente conforme sono circa il 65%» (p. 22).
25. Così R. Guastini, Interpretare e argomentare, Giuffrè, Milano, 2011, p. 303 (nota 92).
26. “Condizione di accesso” da intendersi qui in mero senso descrittivo, considerato che – sul punto – si sono stratificate una pluralità di posizioni dottrinarie che qui non è utile riprendere.
27. M. Bignami, Il doppio volto dell’interpretazione adeguatrice, in Forum di Quaderni costituzionali, 2008, p. 1, www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/temi_attualita/corte_costituzionale/0001_bignami.pdf.
Parla di un «lato oscuro dell’interpretazione conforme» V. Napoleoni, L’onere di interpretazione conforme, in V. Manes e V. Napoleoni, La legge penale illegittima, op. cit., pp. 103 ss.
28. Così M. Ruotolo, Quando il giudice deve “fare da sé”, in questa Rivista online, 22 ottobre 2018, par. 1, www.questionegiustizia.it/articolo/quando-il-giudice-deve-fare-da-se-_22-10-2018.php.
29. Termini spesso usati come sinonimi nella prassi giudiziaria, che tuttavia non sono, secondo attenta dottrina, privi di sfumature concettuali; per una rassegna, cfr. V. Napoleoni, L’onere di interpretazione conforme, op. cit., pp. 50-51 (part. nota 5).
30. R. Guastini, Interpretare e argomentare, op. cit., p. 301.
31. Mutuo l’indicazione terminologica di M. Luciani, Interpretazione conforme, op. cit., p. 445.
32. R. Guastini, Interpretare e argomentare, op. cit., p. 302.
33. Cass, sez. III, 20 gennaio 2012, n. 4377 (dep. 1° febbraio 2012), L*** e altro, Rv. 25179301: «la presunzione relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, prevista dall’art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. anche per il delitto di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies cod. pen.), dev’essere interpretata alla luce della sentenza della Corte cost. 21 luglio 2010, n. 265 che ha dichiarato l’incostituzionalità della norma processuale, sicché il giudice ha l’obbligo di valutare, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine a tale delitto, se siano stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
34. Così, tra gli altri, M. Ruotolo, Quando il giudice, op. cit., par. 3.4.d.; decisamente meno critico sulla decisione della Corte di cassazione menzionata nel testo, F. Modugno, In difesa dell’interpretazione conforme, in Rivista AIC, n. 1/2014, pp. 12 ss., www.rivistaaic.it/images/rivista/pdf/1_2014_Modugno.pdf.
35. Corte costituzionale, sentenza n. 232 del 2013, considerato in diritto n. 3.
36. La decisione è annotata criticamente da C. Tripodina, Sul come scansare la briglia delle leggi. Ovvero, la legge sulla procreazione assistita secondo il giudice di Salerno, in Costituzionalismo.it, n. 1/2010, www.costituzionalismo.it/wp-content/uploads/Costituzionalismo_335.pdf
37. Corte cost., sent. n. 96 del 2015, considerato in diritto n. 8.
38. Il riferimento è a Cass. pen., sez. unite, 27 aprile 2017, n. 40076 (dep. 05 settembre 2017), Paternò, Rv. 27049601, annotata da I. Pelizzone, L’impatto della sentenza “De Tommaso” secondo le Sezioni Unite: la disapplicazione della legge interna come soluzione alla carenza di prevedibilità, in Quaderni costituzionali, n. 4/2017, pp. 906 ss. Sulla fattispecie in esame – in un contesto processuale però non del tutto assimilabile a quello oggetto della decisione delle sezioni unite – è poi intervenuta la Consulta con la sentenza n. 25 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, d.lgs n. 159/2011 «nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”».
39. Per alcuni casi, in cui la stessa Corte costituzionale avrebbe – richiamando proprie precedenti decisioni – sollecitato i giudici comuni a valorizzare principi già affermati e, dunque, a “fare da sé”, sino a valicare il confine della lettera della legge, cfr. V. Napoleoni, L’onere di interpretazione conforme, op. cit., pp. 108 ss. (part. nota 261).
40. Corte cost., sent. n. 1 del 2013, considerato in diritto n. 10.
41. Il riferimento è a M. Luciani, Interpretazione conforme, op. cit., p. 434.
42. M. Luciani, op. ult. cit., p. 434 (nota 350): «Nella nota sentenza C. Cost. 15 gennaio 2013, n. 1: “Metodo primitivo sempre”, scrisse allora, infelicemente la Corte. Per la verità, in quella sentenza si parlava del metodo “meramente letterale”, sicché il riferimento non era all’interpretazione letterale in genere, ma a quella “solo” letterale (…). Tuttavia, poiché come poi si dice nel testo, tutti i metodi, da soli, sono “primitivi”, la formula impiegata dalla Corte, in un momento spirituale di tendenziale svalutazione del testo qual è l’attuale, deve ritenersi assai inopportuna».
43. M. Ruotolo, Quando il giudice, op. cit., par. 2.
44. Corte cost., sent. n. 219 del 2008, considerato in diritto n. 4.
45. Corte cost., sent. n. 26 del 2010, considerato in diritto n. 2; negli stessi termini, richiamando la sent. n. 26 del 2010, Corte cost., sentt. nn. 78/2012, 232/2013, 36/2016, 82/2017, 174/2019, 253/2020.
46. Corte cost., sent. n. 253 del 2020, considerato in diritto n. 6.
47. Ai fattori di vaghezza del linguaggio normativo sono dedicate intere biblioteche. Ci si limita qui a richiamare, per chiarezza espositiva e rigore analitico, R. Guastini, Interpretare e argomentare, op. cit., pp. 39-70, e G. Tarello, L’interpretazione della legge, Giuffrè, Milano, 1980, pp. 101-152.
48. R. Guastini, Interpretare e argomentare, op. cit., pp. 310 ss., part. p. 315.
49. Ivi, pp. 273 ss.
50. Ivi, pp. 113 ss.
51. Ivi, pp. 276 ss.
52. Corte cost., sent. n. 83 del 2017, considerato in diritto n. 2; negli stessi termini le sentenze nn. 36 e 203 del 2016.
53. Nell’impossibilità di indugiare sul tema, si rimanda, per una ricognizione della nozione di “diritto vivente” accolta dalla giurisprudenza costituzionale, allo studio – risalente al 2015, ma per molti versi tuttora attuale – di L. Salvato, Profili del “diritto vivente” nella giurisprudenza costituzionale (febbraio 2015), reperibile sul sito della Corte costituzionale, www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/stu_276.pdf. Al par. 3, si ripercorrono anche le decisioni costituzionali che, in qualche modo, consentono di “individuare” il perimetro della nozione di “diritto vivente”: la Consulta ha ritenuto tale una giurisprudenza di legittimità (e non di merito) «costantemente orientata», «pacifica», «ferma», «consolidata», «concorde», «pressoché unanime», emergente «dall’univoco indirizzo interpretativo adottato in merito dalla Corte di cassazione»; si deve trattare, secondo alcune decisioni, di orientamento connotato «dai caratteri di costanza e ripetizione necessari per integrare [appunto] un diritto vivente»; è stata viceversa esclusa la presenza di un diritto vivente in presenza di un quadro giurisprudenziale non del tutto consolidato (per il numero limitato di precedenti) o in presenza di un contrasto interpretativo non ancora risolto dalle sezioni unite.
54. E, non a caso, V. Manes, L’evoluzione del rapporto tra Corte e giudici comuni nell’attuazione del volto costituzionale dell’illecito penale, in V. Manes e V. Napoleoni, La legge penale illegittima, op. cit., p. 33, definisce il “diritto vivente” come «giunto cardanico» che permette al sistema di sindacato di costituzionalità di funzionare con moduli decisionali «collaborativi» tra giudice comune e Giudice delle leggi, senza con ciò snaturare la fisionomia del sindacato di legittimità costituzionale.
55. Per la cui ricostruzione si rimanda a V. Napoleoni, L’onere di interpretazione conforme, op. cit., pp. 92 ss.
56. Corte cost., sent. n. 292 del 2008.
57. Corte cost., ordd. nn. 429/1999, 529/2000, 335/2003, 59/2004.
58. Cass. pen., sez. unite, 19 gennaio 2000, n. 4 (dep. 29 febbraio 2000), Musitano, Rv. 21521401; Cass. pen., sez. unite, 10 luglio 2002, n. 28691 (dep. 25 luglio 2002), D’Agostino, Rv. 22200201; Cass. pen., sez. unite, 31 marzo 2004, n. 23016 (dep. 17 maggio 2004), Pezzella, Rv. 22752401.
59. Così, tra i molti riferimenti possibili, Corte cost., sent. n. 141 del 2019, considerato in diritto n. 3.1.
60. Corte cost., sent. n. 230 del 2012, considerato in diritto n. 9.
61. Eccezion fatta per il caso di annullamento con rinvio che imponga al giudice del rinvio di uniformarsi a un certo principio di diritto.
62. M. Bignami, Profili di ammissibilità, op. cit., p. 14 e M. Ruotolo, Quando il giudice, op. cit., par. 3.2.b., ove si segnalano anche decisioni premonitrici di tale mutamento di indirizzo.
63. Corte cost., sent. n. 221 del 2015, considerato in diritto n. 3.3.
64. M. Ruotolo, Quando il giudice, op. cit., par. 3.2.b., ove si segnala un filone di successive decisioni conformi: «È il preludio alle pronunce successive (sentt. n. 262 del 2015, 36, 45, 95, 111, 173, 204, 219 del 2016) che culminerà nell’affermazione contenuta nella sent. n. 42 del 2017, seguita, in senso conforme, dalle sentt. nn. 53, 69, 180, 194, 208, 213, 218, 254 del 2017, nn. 15 e 40 del 2018, e peraltro preceduta dalla sent. n. 262 del 2015 ove si legge che “ai fini dell’ammissibilità della questione, è sufficiente che il giudice a quo esplori la possibilità di un’interpretazione conforme alla Carta fondamentale e, come avviene nel caso di specie, la escluda consapevolmente”».
65. Corte cost., sent. n. 118 del 2020, considerato in diritto n. 2.
66. Cfr., ad esempio, Corte cost., ordd. nn. 177 del 2016 e 97 del 2017, e sent. n. 253 del 2017.
67. Corte cost., sent. n. 144 del 2019, considerato in diritto n. 4.
68. Per esempio, di recente, la Corte costituzionale, con ord. n. 151 del 2019, ha dichiarato la manifesta inammissibiltà di una questione con cui «il giudice rimettente ha rimesso innanzi a questa Corte una questione meramente interpretativa sulla successione temporale di disposizioni legislative (ordinanza n. 355 del 2004), che ben avrebbe potuto essere superata attraverso l’esegesi della disposizione censurata».
69. Corte cost., ordd. nn. 266, 97, 58 del 2017 e 87 del 2016.
70. Così – tra i molti riferimenti possibili – Corte cost., sent. n. 109 del 1986, considerato in diritto n. 3.
71. Così Corte cost., sent. n. 179 del 2017, considerato in diritto n. 4.1.
72. Molti sono i possibili riferimenti a decisioni della Corte costituzionale che fondano decisioni di inammissibilità sul refrain delle rime costituzionalmente obbligate; per esempio, sent. n. 44 del 2017, ord. n. 25 del 2016, sentt. nn. 84 del 2016 e 248 del 2015.
73. Così, nitidamente, Corte cost., sent. n. 99 del 2019, considerato in diritto n. 2. Tale orientamento è stato da ultimo ribadito nella sent. n. 224 del 2020, considerato in diritto n. 2.4.
74. Vds. quanto detto nella precedente nota.
75. Corte cost., sent. n. 113 del 2011.
76. Per una disamina approfondita della giurisprudenza costituzionale sul vaglio delle scelte del legislatore in materia di politica criminale, vds. V. Manes, Le censure prospettate per contrasto con i principi di eguaglianza/ragionevolezza e le precipue criticità in materia penale, in V. Manes e V. Napoleoni, La legge penale illegittima, op. cit., pp. 344-378.
77. Corte cost., sent. n. 236 del 2016.
78. Corte cost., ord. n. 207 del 2018, punto 11. La sentenza è annotata – tra i primi – da M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in questa Rivista online, 19 novembre 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-cappato-alla-corte-costituzionale-un-ordinanza-ad-incostituzionalita-differita_19-11-2018.php.
79. Cfr. la Relazione del presidente Giorgio Lattanzi sull’attività svolta nell’anno 2018, 21 marzo 2019, p. 6, www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/lattanzi2019/Relazione_del_Presidente_Giorgio_Lattanzi_sull_attivita_svolta_nell_anno_2018.pdf.
80. Cfr. la Relazione della presidente Marta Cartabia sull’attività del 2019, 28 aprile 2020, p. 5, www.cortecostituzionale.it/documenti/relazione_cartabia/1_relazione.pdf.
81. G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, op. cit., p. 269.
82. P. Grossi, Storicità versus prevedibilità: sui caratteri di un diritto pos-moderno, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2018, p. 23, www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/547/qg_2018-4_03.pdf.
83. G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 187.
84. Ivi, pp. 197-198.
85. R. Guastini, Interpretare e argomentare, op. cit., pp. 24 ss.
86. R. Guastini, Interpretare e argomentare, op. cit., p. 111.
87. Ivi, p. 131.
88. Corte cost., sent. n. 179 del 2017, considerato in diritto n. 8.
89. Corte cost., sent. n. 40 del 2019, considerato in diritto n. 4.2.
90. Corte cost., sent. n. 40 del 2019, considerato in diritto n. 4.3.