Prove di comunicazione della Corte costituzionale
Pioniera di comunicazione tra i protagonisti del diritto, la Corte costituzionale ha sperimentato quanto la giusta apertura alla più ampia opinione pubblica sia irta di ostacoli e generi valutazioni contrastanti. E le discussioni sullo strumento dei comunicati stampa sembrano destinate a crescere a seguito delle innovazioni che consentono ai soggetti portatori di interessi collettivi o diffusi di presentare alla Corte opinioni scritte e l’ascolto da parte del giudice di esperti di chiara fama.
Battistrada, tra tutte le giurisdizioni italiane, nell’aprirsi. Battistrada nello sperimentare la difficoltà di aprirsi. E battistrada nel calamitare critiche a questo aprirsi. Lungo, e non ancora del tutto compiuto, è il tragitto dalla Corte costituzionale autoisolata, torre eburnea che per difendere riserbo e collegialità “parla solo con le sue decisioni” in Gazzetta ufficiale, a invece la Corte costituzionale che “si apre all’ascolto della società civile”, la quale “d’ora in poi” (gennaio 2020) “sulle questioni discusse potrà far sentire la propria voce” attraverso le opinioni scritte degli amici curiae e l’audizione di esperti. All’inizio era solo la conferenza stampa annuale del presidente, occasione di una selezione delle principali sentenze della stagione precedente. Poi si sono via via aggiunte le relazioni annuali del presidente. E qualche lectio magistralis ai convegni. E persino le prime interviste. È quindi arrivata la svolta dei comunicati stampa, che spiegano le decisioni adottate. Una mostra, «Il volto della Corte», nel Palazzo della Consulta, ha presentato i ritratti fotografici delle persone che lavorano insieme ai giudici costituzionali. I quali, in occasione del 70° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione, sono usciti dal Palazzo e si sono messi in cammino, in un «Viaggio in Italia» prima nelle scuole e poi nelle carceri, per far conoscere e quasi fisicamente far incontrare la Carta, e testimoniare che essa (nel suo appartenere a tutti) appartiene soprattutto ai più deboli e vulnerabili: esperienza fissata nel docufilm di Rai Cinema con la regia di Fabio Cavalli, proiettato in anteprima all’Auditorium Parco della Musica, trasmesso dalla Rai e presentato fuori concorso alla Biennale del Cinema di Venezia. Una libreria di podcast della Corte, realizzati per ciascun tema da un giudice, ha iniziato a essere rilanciata sul portale della Treccani, da Rai Radio1, Radio 24 e Radio Radicale. Tutto mentre la Corte rinnovava il sito internet e sbarcava sui social con una app che segue l’intera vita di un procedimento, dall’agenda dei lavori sino ai comunicati sulla decisione. Un ventaglio di iniziative che, nella relazione del 28 aprile 2020 sull’attività 2019 (dunque prima anche dell’ammissione, nel gennaio 2020, di amici curiae ed esperti), ha fatto dire alla presidente Marta Cartabia che «quello appena concluso è stato l’anno della grande apertura della Corte costituzionale alla società civile (...). “Apertura” è stata la parola d’ordine a Palazzo della Consulta. La Corte ha aperto le sue porte, oltre che per permettere al pubblico e ai giornalisti di assistere alle udienze pubbliche, anche per consentire la visita del palazzo da parte dei cittadini. Ha posto molte energie per sviluppare una comunicazione capace di raggiungere non solo gli operatori del diritto e gli specialisti, ma anche il pubblico generale. Non ha solo “aperto il palazzo”, ma è uscita».
Vista da uno scriba, la parabola è vieppiù interessante per come la Corte, pioniera di comunicazione tra i protagonisti del diritto, ha però sperimentato quanto questa giusta apertura sia irta di ostacoli e, per di più, attiri censure di opposto segno: aperture «troppo poco coraggiose o troppo pericolose», ha riassunto efficacemente in un seminario Andrea Pugiotto. «Una rivoluzione, o nient’altro che la formalizzazione di prassi informali e orientamenti giurisprudenziali consolidati. Arricchimento dialettico, o torsione metodologica nell’attività della Corte. Feconda apertura alla società civile, o insidia per una Corte risucchiata nello strepitus fori e nel circo mediatico. Ridefinizione della propria constituency, o nuovo tassello del suo criticato suprematismo giudiziario».
Del resto, a non essere ancora del tutto digerita (soprattutto da settori della comunità accademica) è la forma principale dell’apertura della Corte negli ultimi anni, e cioè la pubblicazione di incisivi comunicati stampa (non pro forma, ma veri, chiari ed efficaci anche grazie al lavoro di una esperta e competente responsabile dell’ufficio) subito dopo la deliberazione del dispositivo da parte della camera di consiglio e prima della pubblicazione della decisione, allo scopo di informare i cittadini ed evitare interpretazioni errate, contenere le strumentalizzazioni e prevenire fughe di notizie. In un incontro, nel giugno 2019, con il Tribunale costituzionale federale tedesco, il presidente Giorgio Lattanzi aveva collocato la matrice dei comunicati nello sconforto di due anni prima per una ricerca demoscopica dalla quale era emerso che solo il 15 per cento dei cittadini sapesse cosa fosse la Corte costituzionale e quali fossero le sue competenze: e allora proprio per colmare questa mancata conoscenza, che produce le basi della crisi di fiducia verso la Corte, «il comunicato» – spiegava Lattanzi – «non si limita più ad anticipare il contenuto del dispositivo, ma cerca di tradurlo in un linguaggio divulgativo e soprattutto di fornire qualche indicazione sulle ragioni della decisione per spiegarne il senso».
Chi per lavoro fa il giornalista trova familiari sia gli sforzi dei... neofiti “colleghi” giudici costituzionali di tradurre, in poche centinaia di battute comprensibili anche ai non addetti ai lavori, molte decine di future dense pagine motivazionali inevitabilmente legate a un linguaggio e a conoscenze e temi specialistici; sia i rischi di lost in translation tra un registro e l’altro; sia, prima ancora, la delicatezza insita già nella scelta della Corte di fare o non fare un comunicato su una certa decisione, e persino di quale titolo dargli.
Così i critici hanno avuto modo di sbizzarrirsi nel lamentare il titolo del comunicato del 6 marzo 2019 «La prostituzione al tempo delle escort: la Consulta “salva” la legge Merlin», o nell’alzare il ditino sull’autocorrezione a distanza di un giorno, nel comunicato del 25 settembre 2019 sul fine vita, del refuso che aveva visto la congiunzione «e» invece della disgiuntiva «o» in una riga, peraltro, tratta dall’ordinanza dell’anno prima. Ed è senz’altro sensato auspicare che sempre più procedimentalizzato sia l’iter con il quale il collegio concordi nel dettaglio i termini del comunicato, poi messo a punto nel confronto del relatore con lo staff di comunicazione e infine approvato dal presidente: in modo da scongiurare per un verso che in futuro possano emergere sostanziali differenze tra il senso del testo del comunicato e il contenuto del testo della successiva motivazione, e per altro verso che la successiva motivazione possa sembrare condizionata o, in qualche modo, sentirsi in dovere di rispondere (con argomenti che altrimenti non avrebbe sviluppato) ai commenti degli studiosi dopo la pubblicazione del comunicato sul dispositivo.
Ma anche questi critici dei comunicati vanno in testacoda nel momento in cui, consigliando alla Corte di farne meno, di farli non dopo i dispositivi delle decisioni ma quasi solo dopo il deposito delle motivazioni, e di ridurli per di più alla citazione di frammenti testuali delle motivazioni, finiscono per ricadere nel riflesso condizionato di un linguaggio che sia calco pedissequo del “giuridichese”, con ciò negando in radice il senso dei comunicati, il cui scopo è rendere le decisioni appunto comprensibili a tutti e non soltanto agli esperti. Se mai, invece, può essere da studiare l’effetto anticipato a volte creatosi tra il comunicato, di per sé giuridicamente privo di qualsiasi valore giuridico, e la pubblicazione in Gazzetta ufficiale della decisione a distanza di tempo, dalla quale discendono le conseguenze giuridiche della sentenza. È stato ad esempio additato (Maria Cristina Grisolia) il caso del comunicato con il quale la Corte , il 12 febbraio 2020 (dopo il dispositivo, ma prima del deposito della sentenza di illegittimità di una norma della cd. “legge Spazzacorrotti”), spiegava come «l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento della commissione del reato», fosse «incompatibile con il principio di legalità delle pene sancito dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione». Subito, nella soluzione di questioni sull’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, molti uffici giudiziari hanno iniziato a scarcerare coloro che, in applicazione della legge, sino allora non erano stati ammessi alle pene alternative: e hanno iniziato a farlo proprio perché, già sulla sola base del comunicato, la notizia della decisione data dal comunicato «rendeva fin da subito possibile una interpretazione nel senso della irretroattività della nuova disciplina» (così, ad esempio, la Procura generale di Palermo).
Le diatribe attorno allo strumento dei comunicati stampa sono destinate a crescere sul nuovo articolo 4-ter delle «Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale», che a qualsiasi formazione sociale senza scopo di lucro e a qualunque soggetto istituzionale, se portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione in discussione, permette di presentare alla Corte un’opinione scritta in 25.000 caratteri nei 20 giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione nella Gazzetta ufficiale: con decreto del presidente, sentito il giudice relatore, le opinioni sono ammesse se «offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità». Inoltre, in base al nuovo art. 14-bis, «la Corte, ove ritenga necessario acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline, dispone con ordinanza che siano ascoltati esperti di chiara fama in apposita adunanza in camera di consiglio alla quale possono assistere le parti costituite», le quali «con l’autorizzazione del Presidente possono formulare domande agli esperti».
Non siamo ancora al modo di procedere alla colombiana, dove chiunque può depositare una memoria, e nemmeno allo schema brasiliano, dove vengono trasmesse in diretta online le camere di consiglio trasformate in sterili reality-show di tenzoni politiche. Si è invece più vicini alle esperienze degli Stati Uniti, di Israele e Sudafrica, di Francia e Germania. Con i relativi vantaggi e svantaggi.
Su un piatto della bilancia pesa favorevolmente il fatto che, per rispondere a domande di sempre maggiore complessità provenienti dalla società civile, i giudici costituzionali avvertano il bisogno di dotarsi di scorte di argomenti da spendere nelle motivazioni delle decisioni, attinti anche dalle conoscenze extragiuridiche veicolate dalle opinioni degli amici curiae ammessi e dalle risposte degli esperti convocati. E chi in ciò paventa una sorta di inquinamento esterno sconta però l’ipocrisia di sorvolare sulla tacita “tripla I” – “informal-implicit-indirect”, mutuata dal proverbiale consiglio («conoscerla ma non citarla») che il giudice costituzionale americano Anthony Scalia raccomandava a proposito della giurisprudenza straniera – che tradizionalmente fotografava anche nella Consulta l’approccio informale, e dunque poco trasparente perché per nulla rendicontato, alle conoscenze extragiuridiche, alla dottrina e ai contributi di terzi. Ammettere amici curiae e convocare esperti ha dunque l’effetto di sbiancare questa prassi, nutrita anche dal giro dei seminari e dagli articoli dottrinali scandagliati dalle ricerche preparatorie degli assistenti dei giudici, dai dossier del Servizio studi della Corte, e perfino dalla tentata (benché inammissibile) costituzione in giudizio che spesso le più varie organizzazioni azzardavano solo per introdurre e far comunque leggere ai giudici (che pur non le utilizzavano) le memorie con i propri argomenti: ben maggiore trasparenza è allora quella di una Corte che, nella motivazione, dia conto del contributo esterno con il quale si è confrontata davanti a tutti.
Il vero problema – che curiosamente avvicina questo compito del Giudice costituzionale al mestiere quotidiano del giornalista nell’individuare e soppesare quali fonti consultare per un articolo su un determinato tema – è invece il criterio con il quale la Corte sceglierà gli esperti di chiara fama da convocare o le opinioni degli amici curiae da ammettere. Non sempre sarà ad esempio «chiara» la «fama» dell’esperto da chiamare, non sempre ce la si potrà cavare confidando che siano solo due le scuole di pensiero da ascoltare, non sempre sarà pacifica in partenza la friabilità di taluni orientamenti scientifici, non sempre in materie complesse sarà possibile discernere quanto le differenti premesse teoriche e i metodi diversi possano determinare altrettanto sfrangiate scelte di esperti. Non a caso, già nel 2017, Cartabia additava al BioLaw Journal che una ragione dello scarso ricorso alle ordinanze istruttorie (parenti strette delle novità introdotte quest’anno) risiedesse nella «difficoltà ad individuare i soggetti qualificati a cui chiedere i dati necessari: poiché anche le conoscenze scientifiche e tecniche sono spesso controverse e sono esse stesse oggetto di divergenze di opinioni, nell’accingersi a chiedere informazioni la Corte fatica ad individuare soggetti neutri, disinteressati, non coinvolti nell’esito delle decisioni poste al suo esame».
E qui affiora l’altro grande doppio timore dei critici, specie alla luce del caso statunitense dove l’“amicizia neutra” è stata via via soppiantata dall’“amicizia interessata” più alle lobbies che alla Corte: e cioè da un lato il rischio della “cattura” della Corte da parte di segmenti di società civile più attrezzati nel farsi sentire e nell’esercitare pressioni mediatiche, e dall’altro lato il rischio di «far percepire la pronuncia definitoria del giudizio» della Corte «come un arbitraggio fra contrapposte posizioni politiche» (Massimo Luciani), tanto più se tra le «formazioni sociali senza scopo di lucro» si intendessero anche partiti politici e sindacati.
Del resto in questo campo, che si tratti dei comunicati stampa o degli amici curiae o degli esperti, ogni argomento può avere due facce. Chi valuta positivamente le progressive forme di apertura della Consulta alla società confida, ad esempio (Carmela Salazar), che esse «mirino al consolidamento della legittimazione della Corte attraverso la sottolineatura della persistente attualità della Costituzione, rendendo manifesta, in modo intelligibile ai più, l’inesauribile capacità della Carta repubblicana di esprimere soluzioni concrete ai problemi del presente», e che così possano «rinsaldare l’autorevolezza ed il prestigio della Corte»: i soli fattori da cui dipende il consenso che la Corte «è in grado di ricevere in ragione della credibilità tecnica e culturale dei suoi prodotti» (Enzo Cheli), potenziati appunto dalla «persuasività delle motivazioni delle proprie decisioni sul piano della ragionevolezza e su quello della razionalità tecnico-scientifica che le sorregge». Viceversa, c’è chi ribatte che l’idea di dare (tramite amici curiae ed esperti) «voce ai senza voce, cioè ai soggetti che non sono stati adeguatamente coinvolti nel procedimento legislativo, o che comunque si trovano ai margini del dibattito e delle scelte pubbliche», non soltanto penalizzerebbe invece «i soggetti davvero deboli» perché «così deboli da non avere nemmeno la capacità di organizzarsi proprio in quella forma associativa che li legittimerebbe a produrre opinione», ma darebbe a quegli strumenti di apertura anche «una valenza non unicamente argomentativo-collaborativa, ma anche partecipativo-rappresentativa» (Luciani), così però schiacciando la Consulta sulla sua «anima» più politica che giurisdizionale, e assimilandola a una sorta di doppione del Parlamento.
Insomma, nel ricorso della Consulta ai comunicati stampa, come nell’ammissione a Corte di amici curiae ed esperti, ci sarebbe l’intenzione di non solo mettere al corrente la società del proprio operato, e di meglio informarsi per poter meglio decidere, ma anche di raccogliere intorno alla Corte il consenso necessario a garantirsi quel bisogno di legittimazione che ossessiona qualunque tribunale costituzionale: cioè a superare «la bickeliana counter-majoritarian difficulty sempre in agguato» nella «difficoltà di giustificare l’annullamento di decisioni degli organi della rappresentanza politica da parte di tribunali costituzionali privi della medesima legittimazione democratica» (Luciani). Si paventa cioè che la ricerca di legittimazione direttamente nell’opinione pubblica, quasi anche solo già nel voler presentare i propri risultati alla società, finisca per avvicinare troppo il comportamento della Corte alle strategie comunicative delle formazioni politiche. Con la conseguenza di cadere nel rischio che «il conformismo rispetto all’opinione maggioritaria accenda un cortocircuito insanabile ed auto-distruttivo per un organo consustanzialmente contro-maggioritario» (Salazar), che «inciderebbe non solo sulla terzietà ed imparzialità della Corte, ma al tempo stesso favorirebbe la marginalizzazione di opinioni minoritarie, altrettanto rilevanti per la collettività e più rispettose della Costituzione dell’opinione maggioritaria» (Angioletta Sperti). Ma in fondo, già nel 2009, Leopoldo Elia osservava che «come tutte le grandi istituzioni la Corte costituzionale italiana, che è stata forse il miglior prodotto della Costituzione del 1947, ha bisogno tuttavia di una continua rilegittimazione». Forse, insomma, nel maggio 2020 azzeccarono davvero il titolo giusto gli organizzatori del seminario «Invito a Corte ma… con juicio». Perché «con juicio» è pur sempre saggia avvertenza. A condizione, però, che «adelante» prosegua l’apertura alla trasparenza della Corte.