I “più piccoli” tra giudici e la Corte costituzionale
1. Nell’editoriale di un numero della Rivista interamente dedicato ai temi della giustizia costituzionale, chi scrive, in ragione della sua storia personale e della sua esperienza professionale, non può che assumere e rappresentare il punto di vista del “giudice comune”.
Ammesso a dubitare della legittimità della legge, reso interlocutore della Corte costituzionale nella veste di promotore del giudizio di costituzionalità, chiamato a leggere le norme ordinarie non più solo nel loro oggettivo significato ma anche nella loro rispondenza al dettato costituzionale, il giudice comune è stato profondamente trasformato dalle innovazioni introdotte nella Costituzione repubblicana in materia di controllo di costituzionalità.
Ai molteplici e imponenti mutamenti del suo ruolo scaturiti dalle vicende del Paese, si è così sommato l’altrettanto profondo mutamento istituzionale indotto dal rapporto con la Costituzione e con il Giudice delle leggi.
È quanto rilevava molti anni fa, con finezza di giurista e acume di studioso della magistratura , Pino Borrè, il fondatore di questa Rivista.
Il fatto che il giudice sia divenuto il tramite attraverso il quale la questione di costituzionalità perviene al Giudice delle leggi – osservava Borrè in uno dei suoi ultimi interventi[1] – ha dato vita a una lunga cascata di effetti politici e istituzionali.
In primo luogo la legge ha cessato di essere per il giudice comune un postulato assoluto, divenendo un testo da leggere «nel cono di luce offerto dalla Costituzione», con la capacità di cogliere «la sovraordinazione del piano normativo costituzionale rispetto a quello ordinario».
Inoltre le scelte di valore sollecitate dal coinvolgimento del giudice nella verifica di legittimità costituzionale hanno concorso all’abbandono dei tradizionali tratti burocratici della sua figura e del suo “mestiere” e determinato una crescita della funzione del magistrato.
Infine la giurisdizione è divenuta, sia pure in ultima istanza, un «luogo» di possibile «resistenza all’illegittimità della legge», prendendo il posto che le spetta nel delicato sistema di equilibri istituzionali «che producono democrazia pur collocandosi al di fuori del circuito stretto della rappresentatività e della responsabilità politica».
E che siano stati spesso «i più piccoli» tra i giudici a far uso del potere di sollevare questioni di costituzionalità – concludeva Borrè – «ha avuto la conseguenza di creare una coscienza egualitaria, di far crescere e favorire una cultura egualitaria nella magistratura».
2. Di tutte le intuizioni e le affermazioni illuminanti di quel lontano intervento, quest’ultima è oggi certamente la più problematica .
L’ansia di carriera che ha pervaso una parte della magistratura sembra aver relegato sullo sfondo quella cultura egualitaria che l’aveva permeata a partire dagli anni settanta e che aveva permesso proprio alla “magistratura senza carriera” di rispondere alle domande di giustizia di larghi settori della società e di reggere l’urto terribile della criminalità terroristica e mafiosa.
E però, nel dialogo intrattenuto in diverse forme con il Giudice delle leggi e più in generale con le Corti supreme, l’eguaglianza dei giudici e la cultura che l’alimenta hanno conservato intatto vigore e vengono costantemente ribadite, offrendo frutti fecondi.
I saggi degli autorevoli studiosi che hanno accettato l’invito di Questione giustizia a dar vita a una riflessione corale sulla giurisdizione costituzionale mostrano quanto questa dialettica tra giudici sia divenuta sofisticata e complessa, arricchendosi via via di inedite potenzialità ma anche caricandosi di sempre nuove tecnicalità.
Come è sin troppo noto, lo scarno modello teorico della decisione del giudice costituzionale, legislatore negativo che reagisce «alla cognizione della incostituzionalità di una legge con un atto che corrisponde come actus contrarius alla fattispecie incostituzionale della produzione della norma, cioè con l’annullamento della norma incostituzionale»[2] ha progressivamente ceduto il posto a una ricca panoplia di schemi decisionali della Corte, oggetto di classificazioni che, per quanto accurate, si rivelano continuamente bisognose di nuovi aggiornamenti.
L’ampiezza dei moduli di intervento della Corte costituzionale coincide con una sua più ampia discrezionalità?
Ne scaturisce una più intensa e incisiva attitudine ad assumere un ruolo politico e a interloquire con la politica?
Su questi temi i contributi di studio raccolti in questo numero monografico offrono – gettando lo scandaglio nella giurisprudenza recente e meno recente della Corte – risposte di estremo interesse proprio perché tutt’altro che uniformi.
Così come è viva la discussione sulle strategie di comunicazione adottate dal Giudice delle leggi e sulle innovazioni che consentono ai soggetti portatori di interessi collettivi o diffusi di presentare alla Corte opinioni scritte e l’ascolto, da parte del giudice, di esperti di chiara fama.
Ma accanto alle “novità” e alle “variabili” sta una “costante” che corre lungo tutta la storia del rapporto tra giudici e Corte costituzionale.
La dialettica tra queste due istituzioni poggia, oggi come ieri, su comuni fondamenta: la peculiare politicità della funzione giurisdizionale, sia essa ordinaria o costituzionale; la necessità che il suo esercizio avvenga in condizioni di indipendenza e terzietà; la maggiore o minore ampiezza della discrezionalità a seconda della precisione o indeterminatezza dei quadri normativi di riferimento.
Attingendo di nuovo a Kelsen, che tali caratteri ha teorizzato con dovizia di argomenti, si può sottolineare che – agendo come risolutori di conflitti di interessi o di potere che hanno assunto la forma di controversie giuridiche – il giudice comune e quello costituzionale emettono sentenze nelle quali è sempre presente «una dose di esercizio del potere», un elemento di decisione, profondamente diverso nell’ampiezza degli effetti ma simile nella sua qualità.
Così che, se «la funzione di un tribunale costituzionale ha un carattere politico assai più marcato di quella degli altri tribunali (…) ciò non significa che non si tratti di un tribunale, che la sua funzione non sia giurisdizionale e tanto meno che questa funzione non possa essere affidata ad un organo dotato dell’indipendenza giudiziaria»[3].
3. È stato in forza della condivisa posizione di indipendenza e di un esercizio consapevole della diversa “politicità” delle loro funzioni che i giudici comuni e il giudice costituzionale hanno potuto attraversare la storia tumultuosa del Paese intessendo un colloquio fitto e produttivo e contribuendo, nelle diverse fasi della vita repubblicana, a far vivere principi di libertà, di solidarietà sociale, di rispetto della dignità di ogni persona, di democrazia.
Oggi, uno degli interlocutori – la magistratura ordinaria – è ad un passaggio estremamente difficile e tormentato della sua esistenza.
Da una crisi che – stando ai fatti accertati – ha riguardato principalmente l’amministrazione della giurisdizione e non la giurisdizione stessa, si tenta di estrarre artificiosamente una narrazione di segno diverso: la storia di una giustizia manipolata e orientata a fini politici, propensa all’aggressione di presunti avversari politici, dominata da trame tessute in segreto da pochi oligarchi.
Una narrazione infedele ma suggestiva e carica di pericoli, amplificata da megafoni interessati e strumentalmente utilizzata per portare l’ennesimo assalto all’assetto del giudiziario voluto dal Legislatore costituente.
Il limpido rapporto dei giudici comuni con la Corte non è, ovviamente, neppure sfiorato da questi clamori e da queste miserie.
Ma è altrettanto certo che la magistratura ordinaria deve rapidamente recuperare il suo equilibrio e ripristinare la fiducia e l’autorevolezza incrinate, per svolgere con la necessaria serenità tutte le sue funzioni tra cui quella, delicatissima, di dubitare della legge sollevando questioni di costituzionalità.
Mentre chiama studiosi e magistrati all’esame approfondito del campo di problemi propri della giurisdizione costituzionale, una Rivista promossa da magistrati sa anche che la magistratura dovrà scrutare a fondo in se stessa per salvaguardare le condizioni – di correttezza, di trasparenza, di indipendenza – che la mantengano all’altezza dei compiti che la Costituzione le assegna.
Gennaio 2021
1. Le citazioni in corsivo nel testo sono tratte da un intervento del 1996 che ora si può leggere nel testo scritto G. Borrè, Pesi e contrappesi: gli istituti di garanzia, in questa Rivista online, 4 ottobre 2016, www.questionegiustizia.it/articolo/pesi-e-contrappesi_gli-istituti-di-garanzia_04-10-2016.php, tratto da L. Pepino (a cura di), L’eresia di magistratura democratica. Viaggio negli scritti di Giuseppe Borrè, Quaderni di Questione giustizia, Franco Angeli, Milano, 2001.
2. H. Kelsen, La giustizia costituzionale, Giuffrè, Milano, 1981, p. 257
3. Ivi, pp. 242-243.