La più alta forma di intelligenza umana
è la capacità di osservare senza giudicare
(Jiddu Krishnamurti)
1. Premesse metodologiche
Il presente elaborato è stato originato dalla riflessione successiva all’attività di assistenza in alcuni casi concreti. Casi in cui la professione legale è stata messa di fronte alle tensioni tra diritto e diversità culturale. Più esattamente, si è trattato di situazioni in cui l’avvocato e l’assistito appartenevano a diversi contesti culturali, a causa della provenienza di quest’ultimo da altro paese (o meglio da altro continente).
Lo scritto non ha la pretesa di giungere ad una tesi finale, né di essere un lavoro strutturato. Esso è nato da riflessioni su casi concreti ed intende rimanere sul terreno della species, senza giungere ad un genus ed a un metodo risolutivo. È possibile, infatti, affermare sin d’ora che non esistono regole generali cui l’avvocato potrà fare riferimento per risolvere le possibili tensioni tra il suo ruolo e la diversità culturale del suo assistito. È solo possibile esaminare alcuni dei detti incontri tra culture nell’ambito della professione legale ed enucleare gli specifici criteri comportamentali adottati. Restiamo al particulare, come vorrebbe un avvocato del 1500: Francesco Guicciardini[1].
1.2. Il diritto e la realtà
Prima di iniziare a delineare la figura dell’avvocato antropologo e di trattare del rapporto tra difesa e diversità culturale, è opportuno indicare alcune premesse metodologiche di particolare interesse per i temi in discorso.
Una premessa (che è anche una presa di coscienza) è relativa al possibile rapporto che si instaura tra il diritto (strumento pratico per interessi umani) e la realtà. Il diritto è un sistema normativo formalizzato e, nonostante un’ampia e costante attività normativa, tendenzialmente statico. La realtà, nei sui vari aspetti (esistenziali, sociali, economici, culturali, ecc.), è invece un magma in continua evoluzione e, dunque, tendenzialmente dinamica[2].
Come si può stabilire un adeguato rapporto tra ciò che è formalizzato e statico (il diritto) e ciò che invece è non formalizzato e dinamico (la realtà)?
A volte è il diritto a modificare la realtà sociale: un intervento normativo può portare un cambiamento nella società.
Ma altre volte, sono proprio la realtà ed il comune sentire a sollecitare e condizionare l’intervento del Legislatore.
Ciò avviene mettendo in evidenza interessi, esigenze e valori originati da diversi settori (es. la scienza) e da diversi contesti di provenienza sociale e territoriale degli individui[3].
Questo secondo aspetto ci fa intuire quale sia la caratteristica fondamentale, ma al contempo il limite, della scienza giuridica.
Pensiamo, per esempio, all’atomo. Ormai conosciamo quasi tutto della struttura della materia. Ma l’atomo non è stato inventato o costruito dalla scienza. È stato solo scoperto: preesisteva alla sua scoperta.
Lo stesso accade nel mondo del diritto. Ad un intervento legislativo preesistono sempre un interesse ed un valore[4], già presenti nella realtà. La realtà preesiste sempre al diritto.
Corollario di tutto ciò è la regola per cui il giurista deve sempre tenere un occhio sul diritto ed un occhio sulla realtà. Deve guardare, da una parte, al diritto positivo. Da un’altra parte deve, invece, guardare ai nuovi valori che vanno emergendo nella coscienza sociale ed a quelli che connotano l’odierna società multiculturale.
Tra questi nuovi valori vi sono, infatti, anche quelli stipati dentro il bagaglio culturale degli individui che provengono da altri contesti territoriali[5].
2. Le definizioni di cultura
È da considerare che “chi emigra in un altro paese si porta dietro un bagaglio culturale, fatto di credenze e valori, che nessuno può sequestrare alla frontiera”[6].
Ma cosa si intende, più precisamente per cultura e per multiculturalismo?
Tale precisazione è importante, considerato che si tratta di termini molto ambigui e compatibili con una pluralità di significati.
Riferito alle società multiculturali, il termine cultura ha il significato attribuito dalle scienze antropologiche, e cioè “un sistema complesso ed organizzato di modi di vivere e di pensare, concezioni del giusto, del buono e del bello, radicati e diffusi in modo pervasivo all’interno di un gruppo sociale e che, in tale gruppo, si trasmettono, pur evolvendosi e modificandosi, di generazione in generazione”[7].
Il termine multiculturalismo è invece comparso per la prima volta nell’art. 27 (rubricato Patrimonio multiculturale dei Canadesi) della Carta dei diritti e delle libertà del Canada del 1982. In quel contesto proprio di uno Stato federale serviva a garantire i diritti delle comunità originarie ed a sanare le profonde differenze, anche linguistiche, tra le popolazioni.
Successivamente, la parola ha assunto significati nuovi e globali riferiti ai problemi di convivenza tra gli esseri umani nel mondo occidentale a seguito della crescente emigrazione da altri paesi. Tali problemi sorgono perché “le comunità di vita che entrano in un contesto multiculturale, almeno inizialmente, ambiscono a restare se stesse, a non farsi contaminare. L’ibridazione e il meticciato (termini che ricorrono nella discussione, con un certo sapore razzista) sono vissuti come pericoli mortali per le rispettive identità”[8].
Gli esseri umani, infatti, tendono sempre al riconoscimento della propria identità, intendendo con questo termine “la visione che una persona ha di quello che è, delle proprie caratteristiche fondamentali, che la definiscono come essere umano”[9].
Nel mondo globalizzato e dei grandi movimenti migratori, hanno sempre maggiore visibilità le vicende degli individui che vogliono un’identità culturale propria e che vogliono vivere ed estrinsecare la propria diversità culturale. Però “le identità personali subiscono spesso l’agguato teso dal conflitto tra legge e culture, che, date le dimensioni del fenomeno immigratorio, ora forse più che mai acquista un carattere epocale”[10].
2.1. Il pluralismo normativo
L’incontro tra le identità e le culture proprie del paese di accoglienza e quelle di cui sono portatori i neo arrivati ha comportato la nascita del cd. pluralismo normativo.
Le pratiche identitarie portate con sé dai migranti possono, infatti, avere la loro origine nell’ordinamento giuridico del paese di provenienza o anche in fonti religiose, comunitarie e familiari (non giuridiche).
“L’antropologia adotta il concetto di pluralismo normativo per indicare questa pluralità di norme e accentuare il ruolo attivo della persona. Non è solo l’antropologia, e altre scienze sociali esterne al diritto, a guardare alle società multiculturali con particolare interesse. Lo è la scienza giuridica, perché il mondo del diritto è certamente sollecitato dal pluralismo culturale e religioso delle società contemporanee. La questione della diversità culturale si pone in ogni ramo del diritto, in particolare nel diritto costituzionale, nel diritto penale, nel diritto di famiglia e nel diritto internazionale pubblico e privato. Si pone nell’elaborazione delle leggi, nella loro interpretazione e applicazione. Più in generale, analizzando il diritto a partire da una prospettiva esterna, qual è quella antropologica o sociologica, e intendendo come modalità di azione sociale, si può osservare che esso viene utilizzato dall’attore sociale come strumento per chiedere il riconoscimento di una propria pretesa. In questo senso si può constatare che oggi i diritti vengono sempre più reclamati a partire dalle differenze, anche identitarie, esistenti, dando luogo a quello che è stato definito il paradosso dei diritti, vale a dire l’insorgere di conflitti che scaturiscono da pretese contrapposte, ma che trovano tutte una loro giustificazione in principi o diritti fondamentali”[11].
Tali conflitti, per non diventare tensioni sociali, potranno essere governati e regolamentati dal diritto solo se vi sarà, a sua integrazione, l’apporto di altre discipline, quale l’antropologia[12].
3. La sospensione del giudizio
Il primo metodo da utilizzare per colui che, a vario titolo, si trova di fronte ad una diversità culturale è la cd. sospensione del giudizio.
Per poter comprendere un dato culturale, non bisogna mai giudicarlo, ma semplicemente osservarlo[13].
Non è operazione facile, in quanto l’attività di giudizio è propria della natura umana: giudichiamo quotidianamente e anche inconsciamente. Per fare un esempio: mi trovo in palestra e noto una donna di religione musulmana che indossa l’hijab. Quasi inconsapevolmente volgerò per un istante lo sguardo verso di lei. E nello stesso istante mi porrò una domanda ed emetterò un giudizio: come riuscirà a fare ginnastica col capo coperto? Perché non lo toglie?
E quasi sempre si tratterà di un giudizio emesso con criteri eurocentrici.
Ma per comprendere adeguatamente le altre culture, è necessario osservare levando gli occhiali da occidentale ed indossando le lenti culturali altrui.
L’attività di giudizio inconsapevole è una trappola in cui potrebbe cadere anche l’avvocato.
Pensiamo, ad esempio, ad una vittima di tratta che racconta al suo legale di temere per il rito juju con cui è stata soggiogata (ed è già tanto se l’assistita giunge a confidare tale elemento). Se l’avvocato dovesse ascoltare la storia per poi filtrarla con i suoi criteri eurocentrici, correrebbe il rischio di ritenere stupida una ragazza che crede nella magia nera. Ma per svolgere un’attività di difesa in suo favore non dovrà giudicare tale elemento (il rito juju). Dovrà limitarsi ad osservarlo con gli occhi propri dell’assistita[14].
Una simile attività è resa oggi ancora più complicata da una narrazione incompleta e distorta del fenomeno migratorio da parte di taluni media[15]. La diffusione di notizie false ed incomplete non fa altro che aumentare un già esistente pregiudizio e/o giudizio eurocentrico.
Sarà quindi necessaria una puntuale conoscenza dell’elemento oggetto di osservazione (nell’esempio, il rito juju)[16], facendo ricorso a fonti qualificate, quali la letteratura antropologica.
Ma non basta: l’operazione di osservazione dell’elemento oggetto dell’altrui narrazione è resa ancora più complicata dalla difficoltà di rappresentazione di esperienze corporee ed emotive completamente diverse dalle proprie. È molto arduo per il legale rappresentarsi personalmente cosa sia un naufragio in mare o cosa siano i lager libici[17]. “Oggi poi la rappresentazione delle esperienze altrui è sempre meno basata sul dialogo diretto, ma su quanto massicciamente percepito attraverso i media. Vediamo ogni giorno cose terribili o pericolosissime, ma raramente abbiamo occasione di parlare con chi le ha vissute sulla propria pelle”[18].
Ho letto della malattia dei gommoni riferita dal dott. Pietro Bartolo (medico di Lampedusa, oggi europarlamentare)[19]: le ustioni corporee causate dal contatto con la pelle di benzina mescolata ad acqua di mare. Ma ritengo che vi sia stata in me una vera (o quantomeno più ampia) rappresentazione quando ho sentito di tale fenomeno dal racconto vivo di un assistito richiedente asilo e quando ho visto personalmente le sue ferite.
Le asimmetrie iniziali tra l’avvocato e l’assistito, concernenti la rappresentazione in capo al primo delle vicende del secondo, possono essere in parte superate con il dialogo diretto[20]. In tale attività, sarà fondamentale il ruolo del mediatore culturale e l’approccio olistico effettuato da questi e dal legale[21].
4. Migrazioni forzate e società multiculturali
La società multiculturale di cui si è detto in precedenza ha diverse declinazioni. Sono tanti, infatti, i luoghi in cui avvengono gli incontri (e gli scontri) tra culture (quella degli individui del paese di accoglienza e quelle dei neo arrivati).
Senza pretesa di esaustività, pensiamo agli ambulatori medici; ai consultori familiari; agli sportelli cittadinanza dei comuni; ai condomini ed ai rapporti di vicinato; alle aziende[22]; alle scuole; ai centri di accoglienza per richiedenti asilo; alle famiglie affidatarie di minori stranieri non accompagnati[23].
Un altro luogo (non necessariamente fisico) in cui si estrinseca il pluralismo culturale è quello in cui si svolgono le attività proprie dell’avvocato.
5. Il ruolo dell’avvocato nell’accoglienza dei richiedenti asilo
Analizziamo quest’ultimo luogo di incontro tra culture: lo studio legale e/o ogni contesto in cui si trova ad operare un avvocato (es. attività di front office in sportello cittadinanza; attività di assistenza e consulenza presso centro di accoglienza per richiedenti asilo; assistenza a tutori ed affidatari di minori stranieri non accompagnati; ecc.).
E, andando più nello specifico, immaginiamo un avvocato di fronte al suo assistito richiedente protezione internazionale.
Il legale ha tre potenziali attività da svolgere in favore di quest’ultimo.
La prima è la funzione informativa. Rendere il migrante edotto di quali siano i suoi diritti nel paese di accoglienza. Non è un’attività, per così dire, scontata. A volte, in un individuo che proviene da un contesto di negazione assoluta dei diritti fondamentali, non vi è la consapevolezza delle proprie facoltà nel paese d’accoglienza. Altre volte, a molti è sconosciuta la stessa nozione (e non mi riferisco alla tecnica definizione normativa) di asilo e di protezione internazionale (benchè abbiano già formalmente presentato la relativa domanda)[24].
Una seconda funzione (collegata alla prima) è quella di indirizzo. Una volta che il richiedente asilo sia stato informato della nozione di protezione internazionale, si tratterà di informare quali siano gli elementi della sua storia personale che dovrà mettere in evidenza durante l’audizione dinanzi alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale[25]. Sul punto si dirà meglio avanti.
Vi è poi la funzione di grimaldello, che ha spesso un suo utilizzo nell’ambito della persecuzione di genere. Di fronte ad una richiedente asilo chiusa nel suo guscio e che mostra tante ritrosie a raccontare il proprio vissuto a causa, per es., di condizionamenti esterni (pensiamo nuovamente all’esempio della vittima di tratta che è ancora in uno stato di soggezione psicologica), il legale dovrà esporre quali siano gli strumenti di tutela predisposti in suo favore dalle autorità italiane (es. centri antiviolenza; comunità protette; permesso di soggiorno ex art. 18 t.u. immigrazione). E dovrà inoltre informarla che, in caso dovesse iniziare ad esporre la propria (genuina) storia, vi saranno alte probabilità che verrà accordata una forma di protezione. Diversamente rischierebbe di cadere, in futuro, in una condizione di irregolarità. Tali informazioni possono avere come conseguenza la fine della soggezione psicologica e l’inizio di una fiducia ed apertura della donna. Da cui una genuina richiesta di tutela[26].
6. L’avvocato e l’agire per fini
Le funzioni anzidette (il cui catalogo non è certamente esaustivo) pongono inevitabili dubbi in merito al fine che l’avvocato, con le sue attività, deve prefiggersi.
E torniamo nuovamente all’esempio dell’assistita vittima di tratta.
È possibile affermare che il legale abbia raggiunto il suo scopo (e quindi esaurito il suo compito) con l’ottenimento di un permesso di soggiorno in suo favore? O con la condanna in sede penale dei trafficanti e/o sfruttatori?
In un’unica domanda (ed a rischio di banalizzare), quand’è che l’avvocato potrà affermare che la sua missione è compiuta?
L’interrogativo ne chiama in causa altri più ampi riguardanti l’agire ed il ragionare per fini in capo al legale ed all’individuazione di tali fini.
Il ragionare e l’agire per fini è utile per non perdere di vista (e per aver ben chiaro) l’obiettivo da raggiungere. Ed è ancora più importante in caso di lavoro multidisciplinare (avvocato assieme a mediatore culturale, antropologo, psicologo: diversi professionisti tutti rivolti verso un unico fine).
Il punto cruciale è l’individuazione di questi fini.
Per effettuare ciò, giungono in aiuto due elementi: una norma di legge ed un imperativo categorico.
La norma è l’art. 2 comma 2 legge 31 dicembre 2012 n. 247 (“Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”): “L’avvocato ha la funzione di garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti”[27].
Tale articolo deve essere letto in combinato con l’art. 1 comma 2 della stessa legge che riporta di “primaria rilevanza giuridica e sociale dei diritti alla cui tutela è preposta”.
Due sono gli elementi importanti di questi articoli: effettività e rilevanza sociale.
Dobbiamo quindi chiederci quando la tutela di un diritto può dirsi effettiva su un piano sociale (oltre che giuridico).
Per l’assistita vittima di tratta, può parlarsi di tutela effettiva, su un piano sociale, del suo diritto con il riconoscimento della protezione internazionale e di un relativo permesso di soggiorno?
Il fine dell’avvocato è il provvedimento amministrativo o giudiziario che riconosce la regolarità del soggiorno?
Per ora lasciamo questa domanda senza risposta ed andiamo all’imperativo categorico kantiano: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”[28].
Il fine è sempre l’uomo (o la donna), non è la norma. L’uomo e la donna sono il presupposto (e quindi il fine) della norma e quindi della giustizia[29]. Limitare il proprio operato all’applicazione della norma giuridica ed al conseguente provvedimento amministrativo o giudiziario può rivelarsi una giustizia meramente formale. Quindi, una possibile ingiustizia sul piano sostanziale e sociale.
L’avvocato deve allora andare oltre: “un avvocato probo non si arrende mai all’ingiustizia e deve sempre levarsi a combatterla in ogni circostanza con le armi della sua tenacia, della sua preparazione, della sua onestà”[30].
6.1. Quali sono i fini?
L’imperativo categorico unito alla nozione di tutela effettiva su un piano sociale (oltre che giuridico) implica che l’avvocato debba andare oltre l’ottenimento del provvedimento amministrativo o giudiziario.
Torniamo nuovamente all’assistita vittima di tratta. Questi ha presentato domanda di protezione internazionale; la Commissione territoriale ha rigettato tale domanda; l’avvocato ha presentato ricorso in Tribunale e ne ha ottenuto l’accoglimento: l’assistita è ora titolare di un permesso di soggiorno.
Ma se ella dovesse continuare ad essere sfruttata e costretta a prostituirsi, possiamo dire che l’avvocato ha raggiunto il fine di rendere effettivo un diritto sul piano sociale? La sua azione è stata kantianamente rivolta verso l’uomo (in tal caso, verso la donna)? [31]
Si riproduce in parte, all’interno di uno studio legale, l’eterno conflitto tra Antigone e Creonte[32]. Ma non come “contrasto fra famiglia e Stato, fra sentimento e diritto, fra femminile e maschile”[33]. Si riproduce parzialmente e sotto una diversa veste: la tensione tra la giustizia sostanziale ed il provvedimento formale (del Giudice o della Pubblica Amministrazione) insufficiente a trasportare la stessa sul terreno dell’effettività.
Per concludere, volendo dare una personale risposta all’interrogativo titolo del paragrafo, probabilmente (l’avverbio è d’obbligo) il fine ultimo è quello che è stato definito il sommo diritto: la felicità[34]. Come per l’illuminista Gaetano Filangieri, la felicità pubblica deve essere il fine per i governanti[35] (concetto ripreso da Benjamin Franklin e trasfuso, con modifiche, nella Costituzione americana), analogamente la felicità individuale dovrebbe essere il fine ultimo dell’attività di un avvocato avente ad oggetto diritti umani fondamentali[36].
7. Gli strumenti dell’avvocato antropologo
Terminato (o meglio, lasciato aperto) il discorso sui fini, passiamo ad un discorso sui mezzi.
Si è già accennato al rapporto tra avvocato e mediatore culturale (egli è uno degli strumenti a disposizione dell’avvocato). Il mediatore non è un mero interprete: le due professionalità sono volte all’ottenimento dello stesso fine (reperire informazioni utili alla difesa) e per farlo devono agire in sincronia. A volte è opportuno chiedere un parere al mediatore circa la risposta fornita dall’assistito (specie quando provengono dallo stesso paese). Bisogna inoltre sempre previamente esporre al mediatore perché l’avvocato stia ponendo quella particolare domanda.
Anche se la conversazione tra avvocato ed assistito è mediata da una terza figura, l’avvocato dovrà sempre rivolgersi all’assistito, dovrà parlare guardando questi e non il mediatore[37]. Ed anche se il primo non dovesse capire, fare ciò avrà il valore di coinvolgerlo nella conversazione, senza rischiare di estranearlo. In tale ottica, avranno anche un loro peso il tono della voce; lo sguardo deciso e rassicurante; un gesto della mano a rinforzo di una frase; il rivolgersi all’assistito chiamandolo con il suo nome. Possono anche servire le frasi ad effetto volte a vincere una iniziale diffidenza[38].
Ma, principalmente, deve esserci un parlare rispettoso verso la persona: esente da giudizi (come esposto al paragrafo 3, deve essere sospesa l’attività di giudizio inconsapevole); privo di atteggiamenti di sospetto e, se occorre, che esprima rammarico per quanto accaduto (specie in caso di vittime di violenza sessuale e di genere)[39].
Come detto, tale dialogo tra l’avvocato è l’assistito è quasi sempre mediato dalla figura di una terza figura: il mediatore culturale. Tale operazione incontra quindi le difficoltà proprie della trasposizione della parola da una lingua all’altra e, principalmente, dell’interpretazione di codici culturali ed eventi storici che connotano il racconto.
L’opera di traduzione rischia di incorrere in incomprensioni e fraintendimenti da cui una perdita di significato della storia personale. “Questo vuoto semantico, talvolta estremamente dannoso per chi ne è vittima, può essere colmato da un sapere in grado di restituire senso culturale e storico alla parola: il sapere antropologico”[40].
A volte l’attività di traduzione potrà incorrere in parole e concetti presenti nella lingua del richiedente asilo, ma di cui non esistono corrispondenti termini nella lingua del paese di accoglienza[41]. Occorre quindi prendere atto che la lingua, oltre a veicolare messaggi, riflette elementi culturali: c’è un connubio tra lingua e cultura. Ne consegue che “la traduzione di questo intimo legame richieda competenze specifiche perché implica, oltre al saper maneggiare una lingua, anche il saper maneggiare determinati codici culturali, e tali competenze si fanno ancora più urgenti quando si tratta di tradurre la sofferenza”[42].
Sofferenze indicibili possono essere esternate solo con particolare terminologia e particolari codici culturali. Il mediatore culturale e l’antropologo devono interpretare quei termini e quei codici e fornirli all’avvocato che, a sua volta, li valuterà in base al criterio del giuridicamente rilevante. La sofferenza viene quindi sottoposta ad un duplice passaggio: antropologico prima, giuridico dopo.
In tutto ciò, l’avvocato deve essere consapevole del fatto che tale attività comporta una violenza nei confronti della sfera personale della persona assistita “costringendola ad esporre, ancora una volta pubblicamente, se stessa, la sua vicenda, le sue debolezze (la paura è quasi unanimemente ritenuta tale), i suoi progetti”[43].
Continuando il discorso sui mezzi dell’avvocato antropologo, è da evidenziare che sia la Commissione territoriale sia il Giudice possono avvalersi di professionalità esterne al fine di ottenere certificazioni, relazioni o perizie in particolari materie (medica, antropologica, psicologica). Nel caso in cui la Commissione non si avvalga di tale facoltà, è sempre possibile che il richiedente produca la determinata certificazione o relazione, qualora ne sia in possesso. Tali strumenti sono spesso molto importanti nell’ambito di domande di protezione connesse alla violenza sessuale e di genere[44].
7.1. Certificazioni medico legali
Ai sensi dell’art. 8, comma 3-bis, d.lgs 251/2007 (modificato dal d.lgs 142/2015), la Commissione territoriale “sulla base degli elementi forniti dal richiedente, può altresì disporre, previo consenso del/la richiedente, visite mediche dirette ad accertare gli esiti di persecuzioni o danni gravi subiti effettuate secondo le linee guida di cui all’articolo 27, comma 1-bis, del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, e successive modificazioni. Se la Commissione non dispone una visita medica, il richiedente può effettuare la visita medica a proprie spese e sottoporne i risultati alla Commissione medesima ai fini dell’esame della domanda.”
Quindi, sia nella fase amministrativa innanzi alla Commissione territoriale, sia nella fase giurisdizionale in Tribunale, il certificato medico legale è un importante ausilio per il richiedente protezione internazionale e per l’organo decisionale. Più esattamente, la certificazione aiuta a valutare la “congruenza tra la sintomatologia medica e psicologica e altri riscontri medici e le narrazioni rese dal richiedente protezione internazionale in merito a torture, maltrattamenti o traumi subiti”.
Inoltre la certificazione può essere prodotta anche per informare la Commissione territoriale o il Giudice delle difficoltà psicologiche del richiedente nella narrazione di eventi particolarmente traumatici, come paura, vergogna, disturbi della memoria, dissociazioni, ecc.[45] Nei casi più gravi, serve per informare l’organo decisionale dell’impossibilità per il richiedente di sostenere l’audizione o di essere assistito durante la stessa[46].
7.2. Relazioni antropologiche
“L’avvocato utilizza le conoscenze messe a disposizione dall’antropologo per fornire al giudice le informazioni necessarie”[47].
La persecuzione è spesso collegata a contesti socio culturali propri del contesto di provenienza. Con riferimento alla persecuzione per motivi di genere, si pensi a: matrimoni forzati; matrimoni precoci; mutilazioni genitali femminili. In tali casi, hanno rilevanza in sede di Commissione territoriale e in sede di Tribunale, le relazioni antropologiche che mettono in evidenza come la determinata pratica sia propria del contesto etnico di appartenenza o locale di provenienza della richiedente. Tali relazioni sono il risultato di un percorso di mediazione culturale con la stessa. Si parte dalla narrazione della vicenda di persecuzione per poi ricondurla al contesto di provenienza, documentandone in senso generale la determinata pratica.
Nel caso in cui il percorso di mediazione antropologica sia affiancato o preceduto da percorso medico legale volto alla certificazione di ferite o traumi, sarà importante che i due percorsi avvengano in modo unitario e che le rispettive relazioni e certificazioni finali si prendano vicendevolmente in considerazione (il medico dovrà fare riferimento alle risultanze del percorso antropologico e viceversa).
7.3. Il libero convincimento dell’avvocato
L’avvocato ha con l’assistito un contatto diretto (a volte filtrato dal solo mediatore culturale). Questo permette di venire a conoscenza di particolari da cui dedurre con quasi certezza la verità del racconto (quella verità, o meglio verosimiglianza, cercata dalla Commissione territoriale e dal giudice).
A mero titolo esemplificativo, riporto un episodio. Stavo informando una ragazza cinese appartenente alla “Chiesa di Dio Onnipotente” (e per questo perseguitata dal suo governo)[48] che il Giudice le aveva riconosciuto lo status di rifugiato. La informavo, quindi, dei suoi diritti in Italia connessi a tale status. Ad un certo punto, l’assistita mi chiese se sul permesso di soggiorno vi sarebbe stata la dicitura asilo e se fosse stato possibile ometterla. Risposi che vi sarebbe stato scritto asilo e che non si poteva evitarlo. Chiesi, però, il perché di questa sua domanda. L’assistita mi rispose che così avrebbe avuto maggiori difficoltà nel trovare un’occupazione in Italia. Notoriamente, i cittadini cinesi trovano lavoro quasi esclusivamente presso datori di lavoro cinesi. Un potenziale datore cui sarebbe stato esibito quel permesso avrebbe subito capito che aveva di fronte un’appartenente ad un culto religioso vietato in Cina (cd. evil cults) e, per non avere problemi con il governo cinese o per un suo astio verso tale culto, avrebbe preferito non procedere con l’assunzione.
Gli esempi potrebbero continuare[49]. Si tratta di elementi che non hanno una rilevanza probatoria dinanzi alla Commissione territoriale ed al Tribunale, ma da gli stessi nasce il libero convincimento in capo all’avvocato che quanto riferito dall’assistito è conforme alla realtà fattuale. Questo è possibile grazie al rapporto particolare di dialogo che ha l’avvocato e che non trova corrispondenza nel diverso (e minore) dialogo proprio delle sedi amministrativa e giudiziaria.
7.4. Corollario: un avvocato antropologo per avere un giudice antropologo
Si è già detto della facoltà della Commissione territoriale di avvalersi di certificazioni mediche, di relazioni antropologiche e di documentazione da parte di diverse professionalità.
La facoltà di avvalersi di consulenti di particolare competenza tecnica è prevista anche per il Giudice civile[50] e penale[51], per accertare i fatti dedotti nel processo, quando non ritenga sufficiente la comune esperienza (l’esperienza cioè dell’uomo medio).
È quindi possibile per l’avvocato produrre in giudizio le relazioni antropologiche e/o chiedere che l’antropologo venga ascoltato come consulente[52].
“Nelle società attuali, l’ossequio del giudice verso la scienza e, in generale, verso le valutazioni tecniche è aumentato, ma ciò, almeno in Italia, non sembra riguardare la conoscenza antropologica. Non sono pochi, infatti, i casi in cui il giudice chiamato a risolvere un conflitto multiculturale non avverte la necessità di far ricorso a questo sapere tecnico, ma sente, piuttosto, di potersi dare del senso comune, della conoscenza generale o della propria, spesso maturata in modo occasionale”[53].
Di fronte a queste resistenze, “è generalmente tramite l’avvocato diligente e attento, più che tramite il giudice, che il parere di un antropologo o più in generale di un esperto culturale riesce ad entrare nel processo e a illuminare la pratica culturale (o religiosa) in esame”[54].
La diversa visione del mondo di una delle parti processuali, derivante dall’appartenenza ad una cultura diversa, è un elemento che generalmente viene immesso nel processo grazie all’avvocato. L’argomentazione difensiva introduce la cultura in senso antropologico all’interno del processo e quindi dell’ordinamento giuridico.
Il Giudice diventa antropologo principalmente tramite l’attività di un avvocato antropologo.
8. Il rapporto fiduciario con l’assistito e le diversità culturali: il caso di L.N.
L’avvocato diventa quindi antropologo molto prima del Giudice. Quest’ultimo avrà un contatto con una diversità culturale nella fase del processo. L’avvocato ne prende cognizione sin dalla prima sessione con l’assistito. Già in quel frangente vi sono tre possibili profili rilevanti ed attinenti: alla consapevolezza del ruolo dell’avvocato; alla consapevolezza dei propri diritti; al rapporto fiduciario.
Circa il primo profilo, è fondamentale che l’assistito sappia qual sia il ruolo dell’avvocato nella società italiana; sappia qual sia la differenza tra questi ed un giudice, un poliziotto, un membro della Commissione territoriale[55]. È fondamentale informare che l’avvocato è una figura prevista per aiutare; che non è lui a decidere la domanda di protezione internazionale; che è una figura totalmente diversa da un poliziotto; che all’avvocato si può riferire tutto senza timore.
Altro profilo attiene alla consapevolezza dei propri diritti. La diversità culturale può far sì che ciò che per il nostro ordinamento sia una violazione di fondamentali diritti umani, non venga percepita come tale nell’altro[56].
A titolo di esempio, riporto la storia di L.N.[57].
L.N. è una richiedente asilo di 31 anni, proveniente dalla Nigeria. É arrivata in Italia con il marito e la figlia di tre anni. Il certificato medico indica una Mgf (mutilazione genitale femminile) di tipo II (una escissione del prepuzio del clitoride), ma la donna non ricorda per nulla di essere stata sottoposta alla pratica. Parla dell’escissione come di una questione naturale e ovvia, anche se riferisce problemi sessuali che collega all’intervento.
Durante la prima visita pediatrica alla figlia, L.N. chiede candidamente al medico dove e a chi rivolgersi per sottoporre la bimba alla stessa pratica di Mgf. Nel corso di un altro colloquio, stavolta con un antropologo, rivela dettagli che chiariscono ulteriormente i motivi della sua richiesta: desidera porre rimedio all’eccessiva sensibilità della piccola, che si manifesta quando le tocca i genitali per lavarla; secondo L.N. infatti si tratta di un disturbo legato ai genitali esterni “di dimensioni eccessive”.
L.N. è stata sottoposta a Mgf e, in caso di rimpatrio, vi è il concreto rischio che anche la figlia subisca la stessa pratica.
Vi sono quindi, sul piano fattuale e giuridico, i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, in quanto vi sono gli elementi di una persecuzione di genere.
Ma la persecuzione presente nella realtà fattuale, non è presente nella soggettività della richiedente asilo.
Al primo colloquio con l’avvocato, L.N. sorride, quasi divertita, del fatto che le ragazze italiane non fossero escisse. Non avverte la pratica come una violazione dell’integrità fisica e dell’autodeterminazione della donna.
Ma gli elementi per chiedere ed ottenere lo status di rifugiato vi sono.
A questo punto si pone un dilemma per l’avvocato: come si fa ad assistere, affermando una persecuzione di genere, quando l’assistita non ha consapevolezza della persecuzione stessa? Può l’avvocato imporre un diritto e la relativa violazione all’assistita? Un simile comportamento potrà avere delle connotazioni neocoloniali o eurocentriche (che sono invece da evitare)? Si può difendere anche quando il diritto e la sua violazione esistono solo nella realtà fattuale e non anche nella percezione soggettiva[58]?
A seguito di questi interrogativi, si è dato vita ad un approccio olistico con mediatore culturale e antropologo.
L’avvocato, al primo colloquio, si è limitato a chiedere a L.N. se fosse d’accordo di parlare con le antropologhe. L.N. ha acconsentito. Quindi l’avvocato esce di scena: non assume per ora l’incarico (ancora vi sono tanti giorni per la scadenza del termine di presentazione del ricorso contro il diniego della Commissione territoriale) e rinvia ad altro colloquio successivo all’attività di mediazione culturale. Si sono preferiti il dialogo e la mediazione rispetto all’imposizione di diritti universali (nel caso di specie, sarebbe più corretto dire diritti occidentali).
Alla successiva sessione, L.N. aveva un atteggiamento totalmente diverso. La mediazione antropologica aveva fatto nascere in lei la consapevolezza di aver subito una grave violazione dei diritti fondamentali[59]. Se prima sorrideva del fatto che le ragazze italiane non fossero escisse, adesso teme per il futuro della figlia: non vuole che subisca la stessa pratica (che i nonni in Nigeria vorrebbero imporle).
A questo punto, l’avvocato procede con l’assumere l’incarico e con la presentazione del ricorso. Da cui il riconoscimento dello status di rifugiato.
Le dette considerazioni sono valevoli anche circa un ultimo profilo: il rapporto fiduciario tra avvocato ed assistito.
La consapevolezza di propri diritti è fondamentale affinché si possa parlare di consapevolezza dell’incarico conferito e quindi di fiducia riposta nel legale.
Può capitare che un richiedente asilo non abbia neanche contezza della domanda di protezione internazionale da lui già presentata (non sappia cosa significa asilo). Le consapevolezze di cui si è detto (circa il ruolo del legale e circa i propri diritti) sono necessarie affinché si possa avere un rapporto di fiducia.
Contribuisce all’instaurazione di quest’ultimo, tutta una serie di elementi di cui si è detto: la sospensione del giudizio e il rispetto per la vicenda altrui. Un diverso atteggiamento di sospetto di fronte ad una storia inverosimile potrà comportare il troncare la fiducia sul nascere[60].
9. L’emersione del vero e del rilevante
Solo dopo che l’assistito abbia assunto consapevolezza del ruolo del soggetto che ha di fronte (l’avvocato) e dei diritti di cui è titolare, si potrà adeguatamente iniziare un’attività di colloquio volta alla selezione, dal racconto individuale, degli elementi giuridicamente rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale.
L’avvocato qui svolge una sussunzione della storia verso la norma, “perché la storia personale del/della richiedente asilo deve entrare e modellarsi nella cornice giuridica che il legislatore ha disegnato per dare significato ex post a quella storia, che diversamente non avrebbe senso giuridico ma esclusivamente personale e intimo. Una cornice inevitabilmente forgiata sul diritto espresso da una società diversa e spesso lontana da quella cui appartiene il/la richiedente asilo”[61].
L’attività di sussunzione comporta, quindi, il mettere in relazione mondi diversi e distanti: il mondo che ha generato la norma ed il mondo cui appartiene la storia personale; il mondo in cui opera la Commissione territoriale ed il mondo di un villaggio del Bangladesh o del Mali.
Da ciò deriva una delle tante difficoltà: la storia in esame deve rispondere ad un criterio di verità o di verosimiglianza [62]?
A volte, sia la Commissione territoriale sia il giudice, valutano quanto loro riferito con la fallacia e la limitatezza dei criteri eurocentrici e delle personali conoscenze[63]. “La decisione sulla credibilità si fonda spesso sulle apparenze, filtrate attraverso l’immagine del rifugiato progressivamente formata nell’esaminatore secondo criteri soggettivi”[64].
Sulla base di ciò, può apparire inverosimile che, in alcune zone dell’Africa, ancora esistano culti animisti e sacrifici umani. Sono diversi i provvedimenti di diniego della domanda di protezione in quanto il richiedente è considerato non credibile. Ma può capitare che la storia narrata sia vera, ma non verosimile alla luce delle comuni e limitate conoscenze (o anche per scarsità o inattendibilità delle fonti Coi)[65].
“La verosimiglianza di una narrazione è un ambito, infatti, troppo discrezionale se scollegato alla conoscenza della realtà del Paese di origine e dunque non possono entrare nel giudizio di riconoscimento di un diritto fondamentale i sentimenti o le opinioni del giudice, quali esse siano”[66].
Senza cadere, anche l’avvocato, nella trappola di ricercare la mera verosimiglianza, la selezione degli elementi giuridicamente rilevanti dovrà avvenire in base al criterio di verità (con i limiti propri della verità processuale) ed in base a riscontri oggettivi nelle fonti a disposizione[67].
10. Conclusioni: meticciato culturale e professione legale
A titolo di conclusione, è da rilevare che il meticciato culturale riguarda anche la professione legale.
L’incontro tra culture che avviene negli studi legali è un laboratorio da cui trarre un reciproco arricchimento intellettuale.
Tale incontro deve avvenire appunto con spirito meticcio da parte del legale: egli deve porsi sempre con lo spirito di imparare dagli altri e sempre con la volontà di insegnare agli altri[68].
È quella che Umberto Eco definisce antropologia reciproca: “Non più gli uni (attivi) che guardano gli altri (passivi), ma gli uni e gli altri come rappresentanti di culture diverse che si analizzano l’una di fronte all’altra, o mostrano come si può reagire in modo diverso davanti alla stessa esperienza”[69].
Vale anche (se non soprattutto) per l’avvocato antropologo l’insegnamento di Piero Calamandrei, secondo il quale “l’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sè, assumere su di sè i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce”[70].
[1] “È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione”, F. Guicciardini, Ricordi, Serie C, n. 6.
[2] La dinamicità della realtà è legata alla dinamicità della società. “Ciò che distingue le società umane dalle società degli (altri) animali è, per l’appunto, il loro essere sempre aperte all’insolito, cioè alla pressione del nuovo che, da escluso, chiede di essere incluso, determinando nuovi criteri di inclusione e, qualche volta, di esclusione. L’eterogeneo, lo straniero, l’inaudito chiedono sempre e di nuovo di entrare a comporre rinnovate coerenze, nuove cittadinanze, diversi sensi comuni e così rinnovano il modo di vedere i rapporti tra gli esseri umani, trasformando l’inconcepibile in concepibile, l’inconcepito in concepito. Questa è la forza che sospinge le società e le loro forme di civilizzazione. Il rifiuto di ascoltare questa richiesta comporterebbe una cristallizzazione più conforme alla natura dell’alveare o del formicaio che a quella delle società umane, plastiche per definizione”, G. Zagrebelsky, La virtù del dubbio. Intervista su etica e diritto, Laterza, Bari, 2007, p. 95.
[3] “(Il diritto) opera con i suoi mezzi in un campo di tensione, presupponendo che di fatto ciò che deve essere possa essere contraddetto da ciò che è, ma che non sia irragionevole che il diritto agisca per evitare la contraddizione, avvicinando ciò che è a ciò che deve essere”, G. Zagrebelsky, Diritti per forza, Einaudi, Torino, 2017, p. 7.
[4] “Tutte le leggi dell’operare umano, e quindi anche le norme giuridiche, fanno capo a sistemi di valori umani e che in sostanza il problema del diritto è il problema dei valori giuridici. Si tratta di stabilire quale posto hanno i valori giuridici nel quadro dei valori pratici umani e ciò che costituisce in questo quadro la loro essenza peculiare. L’area dei rapporti tra diritto e valore rappresenta dunque il campo massimo dentro cui si aggirano tutte le controversie intorno al diritto”, A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Parte prima. Il concetto del diritto, Giuffrè, Milano, 1992, p. 28.
[5] Secondo il costituzionalista Michele Ainis, il territorio di origine è anche una causa di diseguaglianza, assieme a sesso, età, razza, religione e politica. “Chi nasce in un grattacielo di Manhattan, chi sotto una capanna in Africa. Decide il caso, della vita come della morte. Perché il primo avrà una possibilità doppia d’invecchiare rispetto al secondo. È la tragedia della diseguaglianza globale, e nessuno Stato può metterci rimedio. Tuttavia può lenire le ingiustizie al proprio interno, sul proprio territorio”, M. Ainis, La piccola eguaglianza, Einaudi, Torino, 2015, p. 102.
[6] M. Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 188.
[7] F. Basile, I reati cd. «culturalmente motivati» commessi dagli immigrati: (possibili) soluzioni giurisprudenziali, in Questione Giustizia, n. 1/2017, p. 126. L’Autore così prosegue: “Sempre dalle scienze umane, e dall’antropologia in particolare, ci giunge anche la sottolineatura della fondamentale importanza della cultura per la formazione dell’uomo e per la sua stessa evoluzione biologica. L’uomo è, in effetti, un animale portatore di cultura: niente è puramente naturale in lui. Anche le funzioni umane che corrispondono a bisogni fisiologici, come la fame, il sonno, il desiderio sessuale, etc..., sono plasmate dalla cultura, ed infatti le varie culture non danno le stesse risposte a questi bisogni. Si pensi, ad esempio, alla molteplicità di risposte che le varie culture danno al naturale desiderio sessuale e di unione affettiva tra individui, al punto che gli antropologi hanno potuto censire, tra le diverse popolazioni umane, più di cinquecento generi diversi di matrimonio, oltre ad innumerevoli varietà di comportamento sessuale extraconiugale”.
Dello stesso Autore, si segnala: Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Giuffrè, Milano, 2010 (circa le definizioni di cultura: pp. 15 ss.).
[8] G. Zagrebelsky, La virtù del dubbio. Intervista su etica e diritto, Laterza, Bari, 2007, p. 111. “Gli individui preferirebbero vivere tra i loro simili piuttosto che in una società multiculturale, in quanto questa propensione sarebbe naturale”, M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2004, p. 103.
Sul tema, si segnala il recente saggio: V. Calzolaio, La specie meticcia. Introduzione multidisciplinare a una teoria scientifica del migrare, People, Gallarate, 2019.
[9] J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 9. “La tesi è che la nostra identità sia plasmata, in parte, dal riconoscimento o, spesso, da un misconoscimento da parte di altre persone, per cui un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un’immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia. Il non riconoscimento o misconoscimento può danneggiare, può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un vivere falso, distorto e impoverito”.
[10] N. Colaianni, Diritti, identità, culture (tra alti e bassi giurisprudenziali), in Questione Giustizia, 24 settembre 2018, alla pagina www.questionegiustizia.it/articolo/diritti-identita-culture-tra-alti-e-bassi-giurisprudenziali_24-09-2018.php.
[11] L. Mancini, Introduzione all’antropologia giuridica, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 55 ss. “Molte pratiche riconducibili alle culture originarie degli immigrati in astratto non dovrebbero rendere necessario un esplicito riconoscimento da parte del diritto. Si pensi, ad esempio, all’uso di indumenti riconducibili alla propria religione nello spazio comune della società: il loro utilizzo rientra nel diritto fondamentale di manifestare la propria religione. In realtà l’uso viene limitato negli spazi pubblici di alcuni paesi, ad esempio in Francia, perché in contrasto con il principio fondamentale di laicità che, nella cultura giuridica francese, com’è noto, implica che gli spazi pubblici siano liberi dalle religioni. Altri indumenti, come il burqa o il niqab, che coprono il volto delle donne che li indossano, sono stati considerati indumenti che mettono a rischio la sicurezza pubblica o che ledono la dignità e la libertà delle donna, e sono stati vietati in alcuni paesi europei. Alcune pratiche sono invece apertamente in contrasto con i principi giuridici e i diritti fondamentali. Ne sono un esempio le pratiche di mutilazione genitale femminili, assai diffuse soprattutto in Africa, in misura minore in Medio Oriente e in Asia, e in Europa in ragione delle migrazioni. In certi casi la cultura è oggetto di rivendicazione. Il diritto dei sikh di indossare il turbante e la conseguente esenzione all’uso del casco in Inghilterra ne è un esempio. In ambito giudiziario pensiamo alla richiesta rivolta al giudice di tenere conto di ragioni culturali nell’analisi dei motivi e/o delle modalità di esecuzione di un reato – l’ampia e dibattuta questione della cultural defense o dei reati culturalmente motivati. Questi esempi ci servono a mostrare quanto le società multiculturali pongano al diritto questioni di grande complessità, per la gestione delle quali è necessario... che con il mondo del diritto interagiscano prospettive, teorie e metodi diversi”.
[12] “Il comportamento degli esseri umani, i rapporti che si stabiliscono in un contesto di relazioni sociali con le istituzioni, le religioni e le consuetudini, i risvolti etici di cui l’applicazione del diritto deve tenere conto nel tentativo di dare una regolamentazione a fenomeni che, se non normati, creano forti tensioni sociali, comportano la necessità per l’ordinamento giuridico di utilizzare categorie proprie di altre discipline”, F. Botti, Manipolazioni del corpo e mutilazioni genitali femminili, Bonomia University Press, Bologna, 2009, p. 29.
[13] “La più alta forma di intelligenza umana è la capacità di osservare senza giudicare”, J. Krishnamurti, 1895-1986, filosofo apolide.
[14] “Equivocare la riduzione in schiavitù con fenomeni di credulità popolare mortifica la richiesta di aiuto degli oppressi, certificandone l’irricevibilità. Se il juju è concetto di ardua traduzione, potendo coprire un’ampia varietà di significati – dall’idea di rimedio al suo contrario – esso è notoriamente strumento di assoggettamento e violenza, così profonda da arrivare a colpire i familiari delle vittime in Nigeria e a condizionarne pesantemente la vita”, M. Veglio, Uomini tradotti. Prove di dialogo con i richiedenti asilo, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 2/2017, p. 30.
[15] Si rinvia al rapporto 2019 dell’Associazione Carta di Roma dal titolo Notizie senza approdo, alla pagina www.cartadiroma.org/wp-content/uploads/2019/12/CdR-Report-2019_FInal.pdf.
[16] A tal fine l’avvocato dovrà fare riferimento ad altre professionalità quali mediatori culturali e antropologi.
[17] Sui lager libici: M. Veglio (a cura di), L’attualità del male. La Libia dei Lager è verità processuale, Edizioni SEB27, Torino, 2018.
[18] A. Simoni, Il corpo del magistrato e il corpo del migrante: “un dilemma italiano”?, in Questione Giustizia, 21 marzo 2018, alla pagina: www.questionegiustizia.it/articolo/il-corpo-del-magistrato-e-il-corpo-del-migrante-un-dilemma-italiano-_21-03-2018.php.
L’Autore così prosegue: “Questi comunissimi meccanismi mentali ricorrono oggi di frequente nell’incontro con i recenti flussi migratori, soprattutto quelli di origine africana. Pochissimi tra i magistrati, in particolare quelli più giovani, si sono mai trovati, per scelta o costrizione, a esporre il proprio corpo a offese e fatiche paragonabili a quelle dei migranti che affrontano la traversata del Mediterraneo.”
[19] AdnKronos, 9 giugno 2016, www.adnkronos.com/salute/sanita/2016/06/09/medico-lampedusa-per-migranti-malattia-gommoni-lesioni-ustioni-gravi_LhCswV2Wp2qumQfq2ndpzI.html.
[20] Vi è però il concreto rischio che le dette asimmetrie rimangano in capo al magistrato, posto che l’udienza di audizione del richiedente asilo è una fase eventuale del giudizio, in quanto disposta a discrezione del giudice.
[21] L’avvocato deve agire quasi in sincronia con il mediatore culturale. Deve previamente renderlo partecipe di quali siano gli elementi giuridicamente rilevanti utili alla difesa e da ricercare durante gli incontri di mediazione culturale.
[22] Si pensi alle richieste avanzate in merito al menù aziendale con alimenti macellati ritualmente (es. carne halal); alla possibilità di pregare sul luogo di lavoro; al diritto a non essere adibiti a mansioni pericolose durante il Ramadan. Sul tema: A. De Oto, Precetti religiosi e mondo del lavoro, Ediesse, Roma, 2007.
[23] Queste, avendo anche il compito di facilitare i contatti con la famiglia naturale, potranno trovarsi di fronte alla diversità culturale della stessa e gestire quindi situazioni di conflitto tra opposte visioni in merito all’interesse del minore.
[24] “La scarsa conoscenza legale dei propri diritti e dei modi più efficaci per vederli riconosciuti, pongono la maggior parte dei migranti in una posizione di subalternità e debolezza nei paesi di approdo fin dai primi momenti. La nostra priorità nel rapporto con loro è stata quella di spiegargli il significato della richiesta d’asilo, nonché i requisiti e i passi necessari della procedura secondo le leggi italiane. Non appena i richiedenti hanno incominciato a comprendere la situazione, la propria storia di vita è diventata il focus intorno a cui hanno concentrato le loro attenzioni, ansie e speranze” (T. Sbriccoli, N. Perugini, Dai paesi di origine alle Corti italiane. Campi, diritto e narrazioni nella costruzione della soggettività dei rifugiati, in AM. Rivista della Società Italiana di Antropologia Medica, n. 33-34/ottobre 2012, p. 109. Indagine antropologica effettuata su 200 richiedenti asilo ospitati a Follonica tra il 2008 ed il 2009).
[25] Può capitare che, in assenza di tale informazione, il richiedente si limiti a raccontare vicende che verranno considerate dalla Commissione come meramente familiari o di natura economica, quindi irrilevanti. Ed è ben possibile che nell’ambito del personale trascorso vi siano però elementi rilevanti ai fini della protezione internazionale.
[26] Accade spesso che le vittime di tratta vengano istruite dai trafficanti sul fare domanda di protezione internazionale una volte giunte in Italia affinché venga loro rilasciato un permesso di soggiorno. A volte vengono date anche istruzioni sulla storia da raccontare in Commissione. Questo non significa che si è in presenza di false richiedenti asilo: la situazione di persecuzione c’è ma non viene palesata. Più precisamente, viene esposta una falsa storia di persecuzione per nascondere quella vera.
Se alla fine dovesse essere notificato un diniego dalla Commissione territoriale ed il permesso di soggiorno che era stato loro prospettato dal trafficante non arriverà, allora, essendo venuta meno la promessa iniziale, il rapporto tra i due potrebbe iniziare ad incrinarsi. È come se nel rapporto di soggezione si sia aperta una fenditura, in cui inserire come un grimaldello una buona attività di mediazione culturale. Ed in essa il legale avrà un importante ruolo accanto a mediatore culturale, psicologo ed antropologo.
[27] Il Codice deontologico forense del 2014 conferma quel dovere e statuisce: “L’avvocato tutela, in ogni sede, il diritto alla libertà, l’inviolabilità e l’effettività della difesa, assicurando, nel processo, la regolarità del giudizio e del contraddittorio” (art. 1).
[28] I. Kant, Critica della ragion pratica, 1788.
[29] “Hominum causa omne ius constitutum est” (aforisma di Ermogeniano che si legge nel Digesto di Giustiniano, D. 1, 5, 2). Sul carattere umano del diritto: A. Falzea, op. cit., p. 5.
[30] G. Zagrebelsky, Diritto allo specchio, Einaudi, Torino, 2018, p. 395.
[31] Si badi che la vittima di tratta titolare di uno stabile permesso di soggiorno, se ancora sfruttata, sarà una merce più preziosa (definizione crudele ma obbligata) per i suoi aguzzini: la donna non correrà il rischio di essere espulsa, la sua sarà una posizione più sicura in Italia e sarà per loro una più certa fonte di guadagno.
[32] Sul tema si segnala il recente saggio: L. Pepino, N. Rossi, Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2019.
[33] M. Bettini, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino, 2019, p. 72.
[34] G. Zagrebelsky, Diritti per forza, Einaudi, Torino, 2017, p. 25.
[35] G. Filangieri, La scienza della legislazione, Napoli pp.1780-1785.
[36] Capita, anche se non spesso, di vedere le donne vittime di tratta ricominciare a sorridere. E per un attimo vi è per l’avvocato la percezione di aver così raggiunto lo scopo. L’attività professionale legale ha il limite di non poter toccare e vedere l’oggetto finale del proprio lavoro. Come invece può fare, per es., uno scultore o un architetto.
Su un piano più prosaico, è da rilevare che la difesa del migrante in genere può assumere i connotati di una dialettica, a volte molto dura, nei confronti dei pubblici poteri. Ciò fa sì che la funzione dell’avvocato vada oltre la difesa tecnica e sia una funzione sociale di affermazione della giustizia per i soggetti deboli.
[37] “L’avvocato/a (...) dovrà, come in tutte le relazioni professionali forensi e ancor più in questa, parlare con la persona, farsi raccontare la sua storia, perché è la persona al centro del diritto, è essa stessa il diritto”, N. Zorzella, Il ruolo dell’avvocato nel processo di protezione internazionale, in Questione Giustizia n. 2/2018, p. 187.
[38] “L’avvocato/a più e prima degli altri attori del processo deve, infatti, avere empatia con il/la richiedente asilo, che riguarda in primo luogo la persona stessa, il bisogno che l’ha spinta a muoversi in condizioni rischiose, talvolta fatali, dalla propria terra ad altri luoghi del mondo, alla ricerca del rispetto della propria dignità, indifferente che trovi origine in una persecuzione politica classica o in minacce davanti alle quali lo Stato non ha offerto protezione o nella fuga dalla miseria. Come insegna Calamandrei, l’avvocato deve «comprendere gli altri uomini e farli vivere in sè, assumere su di sè i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce.» É un investitura difficile, anche e soprattutto sul piano umano, perché difficilmente si rimane indifferenti alle sofferenze e alle ansie di cui sono portatori tutti, indistintamente, i/le richiedenti asilo, anche coloro che hanno le storie più “deboli” sotto il profilo giuridico, perché tutte esprimono una sofferenza di vita. E il primo compito dell’avvocato è di comprendere quella sofferenza”, N. Zorzella, op. cit., p. 187.
[39] Una volta mi è capitato di usare il termine problema riferendomi all’escissione subita da una richiedente asilo nigeriana. Avevo chiesto al mediatore di tradurre questa domanda: “Sei d’accordo di parlare di questo tuo problema con una nostra amica esperta?”. L’amica era un’antropologa. Subito mi sono reso conto che il termine problema aveva un’accezione di disvalore di un dato culturale (avevo commesso l’errore di giudicare). Chiesi quindi al mediatore di non tradurre problema e di trovare un termine rispettoso.
[40] M. Mosca, Parole migranti e sapere antropologico, in Il bosco di Diana. Antropologia pratica per il sociale, 12 ottobre 2018 www.ilboscodidiana.it/africa/burundi/parole-migranti-e-sapere-antropologico/.
“(...) il sapere antropologico, e nello specifico la figura dell’antropologo, sia in grado di sciogliere questa complessità linguistica, culturale e storica, scongiurando così quel pericoloso vuoto semantico”.
[41] A proposito della traduzione dell’intraducibile, nel racconto La ricerca di Averroè, lo scrittore argentino Borges descrive il filosofo arabo Averroè intento a tradurre Aristotele: “Il giorno prima, due parole dubbie lo avevano arrestato al principio della Poetica. Le parole erano tragedia e commedia. Le aveva trovate, anni prima, nel terzo libro della Retorica; nessuno, nell’ambito dell’Islam, aveva la più piccola idea di quel che volessero dire” (Jorge Luis Borges, L’Aleph, 1952).
“Tradurre significa aggiungere e rimuovere costantemente aree di significato, attraverso «alterazioni, neologismi e dissonanze semantiche», costringendo l’interprete sul confine che separa – o unisce – tradizione e infedeltà (il traduttore traditore)” (M. Veglio, op. cit., p. 21).
[42] M. Mosca, op. cit.
[43] N. Zorzella, op. cit., p. 187. “Necessità dettata non da una relazione intima ma professionale, anche se rispetto ad altri soggetti istituzionali davanti ai quali il/la richiedente deve raccontarsi, l’avvocato è per definizione e per funzione dalla sua esclusiva parte e perciò un po’ più facilitato nell’empatia”.
[44] Alcuni casi oggetto di esame sono stati seguiti, con approccio olistico, in collaborazione con le antropologhe dott.ssa Sabrina Flamini, dott.ssa Maya Pellicciari, dott.ssa Chiara Polcri del Maka. Centro studi su corpi, generi e modificazioni genitali femminili.
[45] Sul punto: P. Castelli Gattinara, A. Onofri, La salute psichica e il lavoro terapeutico con i rifugiati e i richiedenti asilo con gravi esperienze traumatiche, in Diritto, immigrazione e cittadinanza n. 2/2018.
[46] Secondo le Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale (Ministero della Salute, decreto 3 aprile 2017), per quanto riguarda l’accertamento di esiti fisici di traumi, “la procedura di certificazione si dovrebbe conformare agli standard internazionali previsti dal Protocollo d’Istanbul – Manuale per un’efficace indagine e documentazione di tortura o altro trattamento o pena crudele, disumano o degradante, sottoposto all’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite del 9 agosto 1999”. Il Protocollo di Istanbul stabilisce alcuni standard minimi della certificazione medico legale degli esiti di tortura. Condizione essenziale è la presa in carico in un percorso multidisciplinare svolto da personale appositamente formato. La certificazione deve valutare “se i sintomi fisici o psichici riscontrati sono congruenti, e in che misura, con la descrizione degli eventi fornita dal richiedente rispetto ai traumi subiti” e, nell’esame della domanda di protezione internazionale, “deve essere considerata congiuntamente alle dichiarazioni rese dal richiedente”.
La certificazione sanitaria dovrà contenere quindi le dichiarazioni del richiedente asilo sulla sua storia (o la storia raccontata agli operatori dell’accoglienza). Inoltre dovrà contenere le osservazioni degli operatori sul comportamento della sopravvissuta nel primo impatto o successivamente nei centri di accoglienza. Ciò al fine di documentare la coerenza dello stato emotivo con quanto riferito e descritto (giudizio di congruenza).
Più in generale, la metodologia adottata dal sanitario dovrà avvalersi di strumenti di diagnosi e di raccolta prove che siano in sintonia con i criteri di valutazione delle domande di protezione internazionale.
[47] T. Sbriccoli, Nicola Perugini, op. cit., p. 118.
[48] Sul tema: M. Introvigne, Alla scoperta della Chiesa di Dio Onnipotente, Elledici, Torino, 2019.
[49] Altri episodi relativi agli appartenenti alla “Chiesa di Dio Onnipotente”: il ragazzo che chiede al legale, prima di conferire incarico, se crede in Dio; la ragazza che ogni tanto invia messaggi Whatsapp con benedizioni religiose al proprio legale; ecc.
Il libero convincimento dell’avvocato potrà formarsi al momento dell’assunzione di un incarico, durante l’esecuzione o al termine dello stesso.
[50] Art. 61 cpc: “Quando è necessario, il giudice può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica. La scelta dei consulenti tecnici deve essere normalmente fatta tra le persone iscritte in albi speciali formati a norma delle disposizioni di attuazione al presente Codice”.
[51] Art. 220 cpp: “1. La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scienti che o artistiche. 2. Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”.
[52] Trattandosi di un consulente di parte, l’antropologo dovrà evidenziare gli elementi che l’avvocato riterrà utili ai fini del riconoscimento della protezione internazionale: il rischio in caso di rimpatrio; il motivo di persecuzione; l’agente di persecuzione; ecc. Avvocato ed antropologo perseguono l’identico fine dell’ottenimento del detto riconoscimento.
[53] I. Ruggiu, Il giudice antropologo ed il test culturale, in Questione Giustizia, 1, 2017, p. 228. “Tale atteggiamento svalutativo verso l’antropologia deriva da varie ragioni. La prima è l’appartenenza di questa al nucleo delle scienze sociali. Ciò la espone al pregiudizio a favore delle scienze naturali, dure o vere. In tal senso, se un giudice sente di non poter prescindere da una perizia medica quando deve verificare le ragioni di un decesso, psicologica quando deve valutare lo stato di infermità mentale o ingegneristica quando deve accertare le ragioni per cui un ponte è crollato, non è raro che senta di poter fare da sé quando deve decidere su un conflitto multiculturale. Una seconda ragione che rende l’antropologia una scienza di serie B, rispetto ad altre che hanno conquistato un loro prestigio ormai assodato in sede processuale, risiede in questioni organizzative interne alla disciplina in Italia. Le norme che regolano il dialogo tra saperi tecnici e giudice sono gli artt. 61-64 cpc e gli artt. 220-232 e 508 cpp. Esse sono costruite in modo tale da non precludere il dialogo con l’antropologia a priori, tuttavia, gli antropologi italiani non sono dotati di un apposito albo professionale e ciò rende più gravoso per il giudice individuarli. Nel caso del processo penale, va poi rilevata una risalente – anche se ormai criticata e in via di superamento – interpretazione dell’art. 220 cpp, c. 2, che si riteneva vietare il ricorso a perizie antropologiche. La dottrina penalistica ha obiettato a tale interpretazione rilevando come il divieto si riferisce ad accertamenti di tipo lombrosiano e non può ritenersi impedire l’analisi di un parametro extra-sistemico quale è la cultura come indagato dall’antropologia.”
[54] I. Ruggiu, op. cit., p. 229. Dello stesso Autore: Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, FrancoAngeli, Milano, 2012.
[55] La percezione immediata che possono avere coloro che provengono da contesti rurali degradati e da situazione di analfabetismo, non consente loro di cogliere tali differenze. Essi formalizzano una domanda di protezione in Questura e si trovano di fronte un occidentale dietro una scrivania; stessa situazione sarà in Commissione. E stessa situazione rischia di essere con l’avvocato: anch’egli è un occidentale dietro una scrivania.
[56] I diritti umani fondamentali sono stati teorizzati nel mondo occidentale e poi esportati in altri territori. Non è eventualità remota, quindi, l’assenza di consapevolezza della loro titolarità.
“Il trasferimento del principio di eguaglianza dal piano degli individui (tutti sono eguali) a quello delle culture (tutte sono eguali) conduce ad una posizione di relativismo. Da un lato gli universalisti, per i quali è universale la cultura che ha inventato e incarna i diritti umani, che sono universali. E, poichè questi sono nati in Occidente, essi non si peritano di presentarsi come occidentalisti che lottano per la loro affermazione nell’interesse stesso degli altri. Dall’altro lato i particolaristi per cui l’universalismo dei diritti (e della stessa laicitò) è falso, esprime una particolare cultura, appunto quella occidentale, che con una più raffinata forma di imperialismo o di colonialismo (culturale) l’Occidente missionario vuole imporre anche a chi appartiene a culture altre: senza escludere la forza delle armi in nome di un fondamentalismo umanitario” (N. Colaianni, op. cit.).
[57] La detta storia è spesso utilizzata come caso scuola in attività formative. È anche citata nella Guida multisettoriale di formazione accademica sulle mutilazioni / escissioni genitali femminili del progetto Map-Fgm https://mapfgm.eu, p. 83.
[58] “È indubbio che l’individuazione e la consacrazione dei valori universali di cui si discute sono sorte in occidente, e che tale dato genetico può provocare un’asimmetria tra i nostri valori e quelli dell’Altro. È altrettanto vero che occorre confrontarsi con il presente e ora, in questo presente, sussistono diritti universali sostenuti con un tale livello di consenso collettivo da bloccare ogni perplessità sull’impegno alla tutela dell’integrità fisica, della libertà personale, dell’autonomia decisionale, della tolleranza. Tali principi costituiscono i catalizzatori di un’etica come si diceva minima o, per dirla modernamente, a banda larga in grado di unificare senza uniformare, di far dialogare senza imporre. Se questi valori umani sono universali e non soltanto propri del nostro emisfero, la loro lesione autorizza a tutelare chi subisce il danno. A questo punto si pone un ulteriore, non secondario problema. Quel danno è tale in quanto viola diritti fondamentali oppure è indispensabile che venga considerato tale da chi lo subisce?
In altre parole, è pertinente considerare universali valori che sono in realtà relativi, ed estenderli a culture o gruppi che proprio perché relativi non li riconoscono? La questione è nodale e vuole rispondere alla domanda se sia accettabile imporre la liberazione a vittime di oppressioni che, volenti o nolenti, la accettano. Si tratta di un dilemma che ha impegnato studiose come Seyla Benhabib e la menzionata Susan Moller Okin, secondo cui i principi di libertà ed uguaglianza sono universali e non possono soffrire eccezioni, perché perlopiù si tratta di donne e bambini che non meritavano la punizione aggiuntiva di un comodo relativismo culturale. Tale affermazione si pone in linea con quei propositi promozionali ed emancipatori che ritengono indispensabili interventi correttivi per migliorare le condizione di chi, per diverse ragioni, si trova anche senza rendersene conto in condizioni di minorata difesa. Ritorna la questione del dovere di agire per il bene degli altri, anche quando le persone offese non lo richiedono”, F. Gianaria, A. Mittone, Culture alla sbarra. Una riflessione sui reati multiculturali, Einaudi, Torino, 2014, pp. 124-125.
[59] La mediazione antropologica è avvenuta in due incontri. “Il secondo aveva l’obiettivo specifico di approfondire la conoscenza di tutte le implicazioni delle Mgf sulla salute sessuale e riproduttiva di donne e bambine, e per questo viene invitata a partecipare anche la pediatra della figlia. Un ulteriore obiettivo dell’incontro era anche condividere materiale informativo sullo stato di diffusione della pratica nel paese d’origine e, soprattutto, sui movimenti interni di resistenza e lotta alla Mgf e sulla recente introduzione di una legge contro le Mgf promulgata dal governo nigeriano. Vengono anche visionati in tal senso video-documenti precedentemente selezionati dalle antropologhe. La visione dei filmati, e soprattutto le immagini relative alla pratica eseguita su bambine, ha molto colpito L.N., che sembrava per la prima volta aver preso consapevolezza fino in fondo di cosa si trattasse”, tratto dalla relazione delle antropologhe dott.ssa Sabrina Flamini e dott.ssa Maya Pellicciari.
[60] “Non abbiamo mai chiesto alle persone che abbiamo aiutato se le loro storie fossero vere, né abbiamo cercato di verificare se stessero mentendo o inventando i fatti attraverso alcun processo simile ad un interrogatorio. Abbiamo sempre ritenuto che non fosse questo il nostro compito. In un’atmosfera particolare e talvolta irreale, i richiedenti raccontavano le proprie storie di vita, di cui poi discutevamo insieme analizzando i fatti, gli eventi traumatici e i contesti all’interno dei quali essi si erano verificati, al fine di comprendere se fossero in grado di soddisfare i requisiti internazionali su chi è un rifugiato.
In relazione a questa fase, il nostro lavoro potrebbe sembrare simile a quello di un avvocato”, T. Sbriccoli, N. Perugini, op. cit., pp. 109-110.
È da aggiungere che la provenienza da contesti connotati da elevata corruzione, può far ritenere al migrante che l’avvocato debba essere necessariamente retribuito, diversamente non svolgerà bene il suo lavoro. A volte, quindi viene considerato più bravo il legale che richiede un compenso rispetto a colui che opera in regime di gratuito patrocinio. Tale meccanismo ha come possibile effetto il rischio di truffe da parte di falsi avvocati o da avvocati che poi non svolgeranno adeguatamente il proprio lavoro.
[61] N. Zorzella, op. cit., p. 185.
[62] “Un giudizio espresso in termini di verosimiglianza – tipico delle decisioni in materia di protezione internazionale – richiede in primo luogo la possibilità di conoscere e affermare la verità, la circostante area di similitudine e la sua frontiera estrema, superata la quale una narrazione non è (più) credibile.
L’apparente convergenza sul significato di vero – la corrispondenza tra una cosa ed il suo pensiero – nasconde in realtà oscillazioni e antinomie, già palpabili nei 3 concetti che hanno contribuito a forgiarne la nozione.
Il termine ebraico emet (dalla radice 'MN, fonte diretta dell’esclamazione amen) indica ciò che è solido, stabile, durevole poiché basato sulla fede nell’alleanza tra essere umano e divinità.
Secondo il paradigma greco aletheia – alfa privativa e lanthano, essere occultato o ignoto – la verità è svelata dall’eliminazione di ciò che è nascosto o dimenticato.
Il latino veritas ha invece carattere normativo, di autenticazione e giurisdizione (res iudicata pro veritate accipitur). In tale accezione la verità – il giudicato – si afferma, non si svela, quale atto di rettificazione di una dichiarazione fallace o menzognera.
In qualunque senso siano declinati, vero e falso di una domanda di protezione internazionale si svolgono di regola a migliaia di chilometri di distanza dal luogo di decisione, in una scena delimitata da coordinate di tempo, spazio, lingua e cultura per lo più sconosciute a chi decide” (M. Veglio, op. cit., pp. 30-31).
[63] È però da prendere atto che la preparazione tecnica dei membri della Commissione territoriale è migliorata a seguito dell’assunzione per concorso dei funzionari ministeriali, indetto con d.m. 26 aprile 2017.
[64] M. Veglio, op. cit., p. 9.
[65] Sul punto si citano i dinieghi delle domande di protezione dei cinesi membri della “Chiesa di Dio Onnipotente” motivate su fonti Coi canadesi troppo risalenti e ritenute quindi inattendibili dagli esperti della tematica.
[66] N. Zorzella, op. cit., p. 186. “Non sempre viene operato tale collegamento, se, ad esempio, il giudice (e ancor prima la Commissione) decide che il racconto non è di per sè credibile, perchè incoerente o contraddittorio o inverosimile e in tal caso ritiene che non si debba attivare quel meccanismo di cooperazione istruttoria che cerca la conferma oggettiva delle dichiarazioni nelle informazioni sul Paese di origine (Cass. ord. 7333/2015)”.
[67] “Giudicare l’ignoto attraverso la proiezione e lo specchio (letteralmente, speculando) del proprio orizzonte apre il varco a dinamiche di prevaricazione, che negano storicità e autonomia alle periferie del mondo” (M. Veglio, op. cit., p. 31).
[68] Esporre cosa significa diritto, democrazia, libertà fondamentali a persone che non hanno mai conosciuto tali concetti, in quanto hanno sempre vissuto in regimi dittatoriali, è una esperienza ricca di significati. Ricordo al riguardo la personale esperienza di distribuzione delle copie della Costituzione italiana (tradotta in diverse lingue) ai richiedenti asilo in accoglienza.
[69] U. Eco, Migrazioni e intolleranza, La nave di Teseo, Milano, 2019, p. 68. “Le culture si sono sempre osservate reciprocamente ma in generale noi, gli occidentali, conoscevamo solo le osservazioni che noi stessi facevamo degli altri. (...) Infine, l’antropologia culturale moderna ha cercato di rendere le conoscenze più documentate, di ricostruire dall’interno il sistema di una diversa cultura, e questo non solo per capire un popolo esotico ma anche per mettere in discussione i nostri propri modi di rappresentare il mondo, attraverso il confronto con altri modi di pensare” (Ibidem, pp. 60-61).
[70] P. Calamandrei, Opere giuridiche. Vol. X, Roma Tre-Press, Roma, 2019, p. 391.
[*] Il presente testo è una rielaborazione delle relazioni tenute nei seminari Professioni giuridiche e diversità culturale. L’esperienza dell’avvocato (5 maggio 2017) e Diritto, diversità culturale e interesse del minore (16 maggio 2019), inseriti dalla prof.ssa Letizia Mancini nel corso di antropologia giuridica del Dipartimento di scienze giuridiche “Cesare Beccaria”, Università degli Studi Statale di Milano.