Nella rappresentazione mediatica − mai come quest’anno ridotta all’osso e relegata nelle pagine interne dei giornali − le cerimonie di inaugurazione del nuovo anno giudiziario sembrano essersi svolte un po’ sotto tono, in un clima “depressivo”. Persino il Ministro della giustizia Andrea Orlando − che a ragione ha rivendicato una serie di trend positivi grazie alle misure seminate in questi anni, peraltro riconosciutegli platealmente, al netto di qualche critica – ha rilanciato una riflessione piuttosto “depressiva” sul futuro della giustizia, quando ha detto che «non è più l’epoca per realizzare grandi codificazioni, poiché le grandi codificazioni hanno l’esigenza di avere alle spalle una visione omogenea del diritto penale o di quello civile. E una visione omogenea sarà sempre più difficile da costruire».
Parole frutto di realismo politico e che, in tempi di facili promesse elettorali, suonano come raro esercizio di onestà intellettuale. Ma che stonano con il tono, nient’affatto depressivo, delle parole del Presidente della Repubblica. Il 19 dicembre scorso Sergio Mattarella sottolineava infatti l’imprescindibile necessità di «dotarsi di una visione politica» per poter «progettare il domani». «Ci vuole coraggio e lungimiranza – sollecitava il Capo dello Stato –, indicazione di obiettivi e percorsi adeguatamente approfonditi», ma«di questo livello dev’essere la risposta alla responsabilità repubblicana che ricade su tutti noi».
La fine di questa legislatura segna anche la fine di una stagione politica stressante che, sul fronte della giustizia, era partita con qualche sgommata di troppo e con alcune clamorose (ma non casuali) dimenticanze, per esempio in materia di prescrizione. Era già quello il segnale di una mancanza di visione politica omogenea, che rendeva impossibile – con buona pace di slide e di effetti speciali – progettare un percorso coerente condiviso. Forse, il merito principale di Orlando è stata la sua capacità di ascoltare invece di tirar dritto con la faccia feroce. L’ascolto è una dote politica assai rara. Ebbene, ascolto e dialogo hanno consentito di recuperare terreno, anche se il risultato finale sconta comunque l’assenza di visione politica comune. Non a caso, all’inizio di quel percorso, proprio Orlando disse pubblicamente: «Io e Alfano abbiamo un’idea del mondo totalmente diversa». E, al di là dei compromessi di cui vive la politica − anche la buona politica −, è evidente che questa «totale diversità di idee» ha rappresentato un ostacolo non solo per il progetto di un nuovo Codice, penale o civile, ma anche per norme coerenti in settori delicatissimi come la libertà di stampa, l’efficacia delle indagini, l’anticorruzione, la prescrizione.
Per amore di verità va detto che nel corso degli anni sembra cambiata anche la visione del centrosinistra sulla giustizia, o almeno di alcuni settori o esponenti di quell’area politica. Il che ha avuto un peso nel confezionare norme instabili e ambigue, come sul falso in bilancio (al di là dell’importante inversione di tendenza) o, in precedenza, sulla concussione/induzione indebita. Ed ha certamente contribuito alla tendenza a ridurre lo spazio di discrezionalità della magistratura con norme sempre più chiuse ma sempre più inadeguate a una realtà in continua evoluzione.
Se si guarda agli ultimi 25 anni – nei quali, oltre ai governi Berlusconi abbiamo avuto governi di centrosinistra, governi “tecnici”, di “larghe intese”, politici ma sorretti da maggioranze “promiscue” – si vedono per lo più navigazioni a vista, e la bussola è stata, di volta in volta, l’interesse personale, la “normalizzazione” della magistratura, l’emergenza di turno, vera o presunta, lo stato di necessità, il populismo e, naturalmente, l’Unione europea, con il noto refrain «Ce lo chiede l’Europa».
La stabilità dei governi è un fattore decisivo per realizzare un progetto. Ma l’esperienza insegna che la stabilità non è sempre un valore assoluto; anzi, non lo è affatto quando i governi stabili sono governi promiscui, in cui coabitano valori diversi, se non opposti, una diversa visione dei diritti (e del loro bilanciamento) nonché dell’equilibrio tra poteri. Il risultato di questo tipo di stabilità è, molto spesso, un susseguirsi di annunci, talvolta schizofrenici, di “vorrei ma non posso”, di compromessi di scarsa qualità. Il tutto condito, però, da una retorica riformista che impedisce qualunque seria riflessione, critica o autocritica e, quindi, la possibilità di correggere e di migliorare.
In queste condizioni è difficile, se non impossibile, progettare il futuro, perché mancano fondamenta salde. Qualunque edificio si costruisca è destinato a crollare, prima o poi, nello smarrimento dell’opinione pubblica, che poi perde fiducia nella giustizia: come politica, come istituzione, come servizio, come potere, come funzione… .
La giustizia dovrebbe essere un terreno unificante e fecondo se il collante fosse – come dovrebbe – la Costituzione. Purtroppo, con buona pace dei principi costituzionali, diventa invece spesso un terreno divisivo, persino all’interno di una stessa area politica. Figuriamoci in un “condominio”.
Anche per questo, negli ultimi anni è cresciuto lo spazio del giudiziario, spesso suo malgrado.
Ricordo che, negli anni ’90, Il Sole 24 ore organizzò un Forum sulla giustizia con magistrati, avvocati, ministri e politici. Erano gli anni di Tangentopoli eppure da quel Forum emerse chiaramente un’indicazione che poteva sembrare paradossale in quel momento storico e che fu sintetizzata con il titolo: «Senza politica, la giustizia muore».
Per troppi anni la giustizia ha aspettato la politica. Nel senso migliore, ovviamente. Una politica in grado di progettare il futuro sulla base di una «visione omogenea». L’attesa è stata lunga e vana, costellata da annunci che hanno soltanto finito per cristallizzare l’esistente, ovvero l’immobilismo: della politica e della magistratura, in un gioco di continui rinfacci di responsabilità. I magistrati sono diventati i Didi e i Gogo di questa commedia dell’assurdo, vittime e al tempo stesso artefici del non-cambiamento. In mancanza di adeguate risposte politiche alle istanze di trasparenza, sicurezza, lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, fortemente sentite dall’opinione pubblica, le risposte della magistratura l’hanno infatti inchiodata a un ruolo di supplenza fonte di tensioni e polemiche che tornano ciclicamente e che sfociano o nel conflitto giustizia-politica o nel ripiegamento burocratico e nella chiusura verso l’esterno.
Può sembrare una ricostruzione pessimista o ingenerosa, soprattutto rispetto alla gestione Orlando, che apre invece nuove prospettive (sia pure parziali e da verificare). Ma il respiro deve essere più ampio e lo sguardo più lungo.
Bisogna raccogliere la sfida lanciata a tutti da Mattarella. L’alternativa è accontentarsi del bicchiere mezzo pieno, come unica prospettiva in cui ragionare di futuro della giustizia.
Donatella Stasio